BIOETICA E CONSENSO: UNA RIFLESSIONE
di Cristina Colombo
1. La problematica concernente la tutela della vita
e dell’integrità psico-fisica del cittadino pone oggi
all’attenzione del giurista, del medico e dell’opinione
pubblica questioni delicatissime tra le quali rientra il
discusso tema della bioetica (1). In particolare, la possibilità che il cittadino ha di scegliere se sottoporsi ad
un determinato trattamento medico trova le sue basi
non solo in una scelta razionale, ma anche in valutazioni etiche e morali che chiamano in causa il medico
e il giurista (2).
Tale argomento è sicuramente di grande attualità
per il sanitario che può trovarsi di fronte a casi di notevole difficoltà solutoria non solo dal punto di vista
medico, ma pure, appunto, da quello bioetico.
Un caso tipo potrebbe essere quello di un’operazione su minore, in anestesia generale. Come dovrà
comportarsi il medico se, per ipotesi durante l’intervento si verrà a scoprire una neoplasia, non precedentemente rilevata dalla radiografia: dovrà portare a termine l’operazione o dovrà chiudere la breccia
operatoria per ottenere il consenso dei genitori? E ancora, il plurimenzionato caso dei testimoni di Geova:
qualora fossero necessarie delle trasfusioni di sangue,
dovrà prevalere l’opinione del medico o il sentire religioso della famiglia?
Da queste prime e «semplici» – rispetto a casi come
quelli riguardanti la fecondazione artificiale, la tutela
dell’embrione, la clonazione umana, le sperimentazioni genetiche, l’eutanasia ecc. – questioni, che trovano i loro fondamenti nella interazione tra bioetica e
consenso, appare subito evidente che, seppure numerosissime parole sono state spese a riguardo, la complessità della problematica e la presenza di soluzioni
ancora aperte forniscono sempre argomenti su cui riflettere e scrivere.
L’esistenza di rapporti e di punti di contatto tra bioetica (3) e diritto è infatti un dato certo tanto che i problemi che rientrano nel campo della bioetica comprendono questioni di carattere sia etico che giuridico.
Pertanto è difficile immaginare una bioetica senza
l’apporto giuridico sulle scelte interpretative e di politica del diritto, così come non è immaginabile un diritto che affronti gli stessi temi di bioetica senza l’apporto dell’etica propria della comunità e segnatamente
dei destinatari dell’intervento normativo. Si è cercato
perciò di trovare una definizione di bioetica che potesse, con un minimo di precisione, soddisfare i diversi
rapporti tra le discipline citate. Tuttavia, l’unica definizione concordemente accolta, presente ormai da
circa cinque lustri, è risultata questa: «La bioetica è
qualcosa di chiaramente incerto, caratterizzato da posizioni nuove e diverse fra loro, per la varietà e la complessità dei temi affrontati, nonché per le diverse discipline a confronto» (4). Si tratta per alcuni di una
disciplina che si occupa di etica e per altri di filosofia
applicata giuridicamente all’attività medico-chirurgica. Diritto e bioetica convivono allora in un rapporto
di interazione reciproca anche se, come vedremo, caratterizzato non già dalla dimensione statica della dog-
matica, ma da quella dinamica del dibattito inconcluso.
È allora evidente che il termine bioetica presenta
confini non ancora del tutto definiti, potendo individuare al contempo una conchiusa disciplina di stampo
filosofico ovvero un vasto terreno di confronto – e,
spesso, di scontro – fra discipline diverse (5).
Appare da subito chiara la presenza di una potenziale «frizione» nel rapporto tra diritto – sistema normativo per eccellenza – e bioetica. E proprio la conseguenza di questo contrasto ha portato a differenti
orientamenti, che hanno proposto di collocare, a
fianco della bioetica, un «biodiritto» cioè un diritto direttamente rivolto alle problematiche mediche (6). Per
modificare l’approccio al problema bisognerebbe convincersi che il compito del diritto è fare cose con regole, pur riconoscendo i limiti intrinseci della norma
giuridica e accettando i rapporti di rango che attualmente si instaurano tra valori, consenso, ed efficacia
delle norme. Le aspettative verso il diritto vanno però
esaminate attraverso il criterio del linguaggio giuridico. Se il medico e il biologo sono lontani dal linguaggio adoperato dal giurista, ai loro occhi volti più
alla forma che non alla sostanza, il filosofo guarda al
giurista come un retore disinvolto indirizzato ad aggiustare la cornice legale intorno a quadri morali diversi tra loro. Si potrà pertanto giungere ad una conclusione: precisamente, il linguaggio del campo
bioetico viene utilizzato in modo diversificato ed è
proprio questa polifunzionalità di tipo semantico che
insidia le poche certezze della bioetica. Alla base del
problema stanno, allora, i concetti utilizzati per parlare
di uomo, a partire da quello di persona.
La tradizione giuridica segue dunque la via della
soggettività attraverso la quale la tutela giuridica
dell’uomo finisce per sorreggersi sulla necessità-opportunità del rispetto dell’essere umano. Discutere
della tutela dell’uomo in «bioetica» significa allora
guardare ai modi e ai limiti in cui si traduce in norme
giuridiche «l’imperativo di rispetto» dell’essere
umano (7).
2. Ora, abbandonata la necessaria premessa esposta
fino a questo punto, veniamo ad analizzare la situazione italiana. A questo proposito si può subito affermare con sicurezza che nel nostro Paese il profilo etico
ha quasi sempre prevalso sull’aspetto giuridico della
bioetica, e ciò è dovuto soprattutto al peso della Chiesa
(8) sulle questioni mediche oltre che alla mancata evoluzione e adeguamento del settore della responsabilità
medica rispetto alle possibilità di scelta terapeutica del
malato.
D’altra parte, il mondo giuridico italiano non ha
mostrato grande interesse verso gli sviluppi della bioetica né in modo particolare per quei cambiamenti sostenuti dai Paesi di lingua anglosassone che ponevano
al centro del problema l’autodeterminazione del paziente, pertanto, solamente dagli inizi degli anni novanta si è cominciato a dibattere sull’argomento. Vi
era cioè la mancanza di un «sentire bioetico» per «l’incapacità della ragione di imporre a questa società il riRIVISTA PENALE 06/2005
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conoscimento di un canone morale vocato a risolvere
tutte le difficoltà, in forza della sola capacità a convincere nello stesso modo tutti gli esseri dotati di scienza
e ragione» (9).
Attualmente, l’approccio alla bioetica sembra mutato. Infatti, evidenziata l’importanza dell’immagine
di una medicina moderna di carattere interdisciplinare,
si è sentito il bisogno di affiancare alla ricerca biomedica delle strutture sanitarie (istituzioni orientate ad
hoc) a garanzia dei pazienti – i c.d. comitati etici ospedalieri – con funzioni certamente utili quali per esempio quelle di garantire i diritti del malato e di evidenziare gli eventuali collegamenti tra le scienze umane e
la medicina.
I comitati etici, sussidi scientifici ed etici testimoni
dell’accresciuto interesse rispetto alla bioetica, potranno offrire la propria competenza in generale agli
operatori sanitari o risolvere un singolo caso concreto.
L’unico rischio in cui potrà incorrere l’attività del comitato etico sarà quella di produrre una prassi vincolante capace di consolidare un sentire o una morale con
l’evidente conseguenza di scontrarsi con l’opinione
dei giuristi legati unicamente ad un’etica istituzionalizzata. Pertanto i comitati etici dovranno sempre tener
presente, per un buon funzionamento, la qualità e la logica insita nelle varie scienze di cui esaminiamo l’interazione oltre che il «singolo caso concreto».
Nell’ipotesi, allora, di un giudizio di responsabilità
medica l’autorità giudicante non dovrà valutare l’influenza del parere – di puro carattere consultivo – del
comitato sulla terapia fornita al paziente quanto invece
l’eventuale rilevanza giuridica di tale parere (10).
Per questo motivo, il compito della bioetica sarà in
primis la valutazione delle metodologie (caratteri e
materiali diversi) per la formazione del consenso quale
punto di partenza di un nuovo diritto.
3. A questo punto, per l’evidente impossibilità di
affrontare in questa sede tutte le problematiche che la
bioetica coinvolge, tra le quali le più importanti sono
state inizialmente menzionate, concentreremo la nostra attenzione sul trattamento medico in senso stretto,
problema cruciale per la bioetica rispetto alla qualifica
di liceità (11).
Tale attività trova le proprie basi in quelle condizioni che permettono al medico di operare senza porre
in essere un’attività contra legem, offrendo al malato
una prestazione che potremo definire limitata dai diritti
del paziente e dal rispetto della vita umana. L’attività
medico-chirurgica si potrebbe pertanto definire come
«socialmente adeguata», volta al miglioramento della
salute del paziente, cioè «una qualsiasi azione posta in
essere da un medico nell’esercizio della sua attività
professionale, diretta a favorire le condizioni di vita di
un essere umano» (12).
Si tratta evidentemente di un’attività complessa,
resa legittima dal consenso (13) di chi dopo una corretta informazione, si sottopone volontariamente al
trattamento medico, e caratterizzata da una serie di interventi, anche diversi, ma accomunati da una costante
«ingerenza in quella sfera di beni personali, che renda
necessaria l’indagine sulla causa che la legittima»
(14). Il consenso del paziente sarà allora il limite
dell’attività medico-chirurgica, perché soltanto con il
consenso del paziente il medico potrà operare e preci-
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samente dopo aver ottenuto un consenso libero, personale, attuale, non viziato, informato e valido.
Il rapporto medico-paziente (15) si fonderà così su
una serie di condizioni che permettono al sanitario di
operare, offrendo al malato un’attività legittima e consapevole dei limiti derivanti dai diritti e dal rispetto
della persona umana.
Dall’analisi dell’argomento, la liceità dell’attività
medico-chirurgica, ormai approvata dalla storia nel
corso dei secoli, appare da subito come un falso problema. Affrontare questa questione è allora fuori luogo
laddove risulti confermata una valutazione dell’attività
sanitaria di tipo positivo, e lo stesso Stato ricomprenda
l’assistenza sanitaria considerandola tra i propri fini
istituzionali.
Un esempio a riguardo è dato dall’art. 32 Cost. per
il quale l’unico problema esistente per il trattamento
medico-chirurgico è dato dall’individuazione del se,
del quando e a partire da quale soglia il trattamento
stesso diventa illecito. Se si è stabilito che il trattamento medico-chirurgico costituisce attività lecita, la
sua illiceità non potrà che derivargli dall’esterno, precisamente da un’interferenza aggressiva di situazioni
anch’esse apprezzabili dal punto di vista giuridico.
Esaminando le basi del trattamento medico-chirurgico, si può così notare che da più parti il fondamento
della sua liceità si rinviene nel consenso, ex art. 50 c.p.,
nonché nella rilevanza del dissenso del paziente. Pertanto, in assenza del consenso del paziente l’attività del
medico è illecita.
In apparenza la soluzione sembra pacifica, ma in realtà la problematica del consenso in ambito medicochirurgico è forse una tra quelle, attualmente, più dibattute. Vediamo le ragioni.
Per comodità d’analisi potremo ridurre a due le correnti di pensiero sviluppatesi intorno al consenso e precisamente:
1) La prima corrente inquadra il consenso, ex art. 50
c.p., come scriminante dell’attività medico-chirurgica,
cioè come causa di giustificazione che fa venire meno
la illiceità del fatto, ed affianca al consenso lo stato di
necessità (art. 54 c.p.) per scriminare l’attività del medico quando il paziente non sia in grado di consentire.
2) La seconda opinione è quella di chi vede il consenso come autodeterminazione del paziente, cioè
quale possibilità, che il paziente ha, di decidere se sottoporsi o meno al trattamento terapeutico.
Già da questo breve inquadramento emerge l’insufficienza di entrambe le tesi. In effetti, i fautori della
prima corrente di pensiero, sostenendo l’applicazione
dell’art. 50 c.p. all’attività medico-chirurgica, si scontrano con quanto affermato per secoli dalla storia e
cioè che il trattamento medico è lecito e circondato da
una valutazione socialmente positiva.
Pertanto, qualora si adoperasse la scriminante di cui
all’art. 50 c.p. non si farebbe altro che affermare il contrario e tipizzare l’attività medica come illecita e, in
quanto tale, scriminata solo dalla presenza di una causa
di giustificazione.
C’è stato allora il tentativo di fondare l’attività medico-chirurgica in parte sul consenso del paziente ed in
parte sullo stato di necessità.
Ma a tale opinione vengono portate delle obiezioni,
del tutto infondate:
a) Al consenso del paziente viene attribuita erroneamente la funzione di scriminante.
b) L’esimente dello stato di necessità sembra estranea all’attività medico-chirurgica (o almeno di eccezionale ricorso).
A questo riguardo si ritiene che l’art. 54 c.p. facoltizza il fatto (16), mentre nel caso di urgente necessità
l’intervento soccorritore costituisce per il medico un
dovere (17).
Inoltre, di norma la disposizione di cui all’art. 54
c.p. opera normalmente contro la volontà del soggetto,
mentre l’intervento sanitario, necessario e urgente si
fonda su un consenso reale o presunto e non è mai lecito in presenza di una espressa volontà contraria del
soggetto malato.
La seconda opinione – ora la più accreditata – dominante in Germania e nei paesi di lingua anglosassone, trasportata in Italia presenta un’incognita particolare.
In effetti, l’enunciato dell’articolo 50 c.p. (18) dispone: «Non è punibile chi lede o pone in pericolo un
diritto, col consenso della persona che può validamente disporne». Di conseguenza ci si domanda come
è possibile ammettere l’autodeterminazione del paziente se non in base ad un consenso diverso da quello
sostenuto dall’art. 50 c.p., visto che l’applicazione del
consenso dell’avente diritto viene limitata dalla disponibilità dei beni del soggetto che consente. È così evidente che il consenso sarà valido se il soggetto che agisce sarà capace giuridicamente e potrà esprimere il
proprio consenso solo su i diritti di cui ha la disponibilità e tra questi certo non rientra il bene vita. Inoltre
l’applicazione del suo consenso troverà un limite ulteriore nell’art. 5 c.c. che «vieta gli atti di disposizione
del proprio corpo quando cagionino una diminuizione
permanente dell’integrità fisica».
Risulta pertanto chiaro che l’applicazione dell’art.
50 c.p. all’attività medico-chirurgica, così come è stata
prospettata dal codice, non può soddisfare del tutto. Si
ritiene, concludendo, che la soluzione migliore da
adottare è forse quella già prospettata dal PEDRAZZI
nel saggio sul Consenso dell’avente diritto (19).
L’Autore infatti afferma che il richiamo al consenso, ex art. 50 c.p., non basta a spiegare la liceità dei
trattamenti medici (e neppure della violenza sportiva).
La chiave della scriminante è da ricercare altrove poiché l’utilità che riceve la società dall’attività medica
compensa e legittima il danno che in concreto può derivarne al singolo. Opererebbe dunque una scriminante sui generis, non codificata, che esorbita dalla logica del consenso, proprio perché nel bilanciamento
degli interessi prevalgono le valutazioni dominanti
della collettività sulle preferenze del singolo interessato in ragione del fatto che il rischio che si può correre è proporzionato allo scopo perseguito.
Da più parti si richiede allora una codificazione
cioè un «fare cose con regole», ma il problema sta proprio qui poiché è estremamente difficile chiudere
nell’insieme del diritto il sottoinsieme dell’etica e
della morale.
L’unica soluzione «elastica» sarà quella di positivizzare dei comportamenti, di creare delle norme non
troppo distanti dalla facile ottemperanza dei consociati. Ancora una volta si dovrà rispettare il consenso
personale e sociale per garantire il rispetto delle posizioni giuridiche.
Siamo giunti così a delineare una complessa costruzione del consenso quale termine di confronto per
un «nuovo diritto» che deve necessariamente interagire con la bioetica. Tuttavia, questa disciplina, in continua dialettica con il diritto, oggi non soddisfa ancora,
e lascia aperte soluzioni nuove per il futuro, che verranno certamente elaborate dalla già impressionante
miriade di Comitati etici (20) nati per discutere e risolvere le questioni che sorgono in seguito al rapporto
medico-paziente, nel rispetto sia dell’etica che della
deontologia medica.
(1) LOMBARDI VALLAURI, Bioetica, potere, diritto, in Iustitia 1984, p. 33 e ss.; SGRECCIA, Bioetica, manuale per medici e biologi in Vita e pensiero, 1986, Milano; MANTOVANI,
Le possibilità, i rischi e i limiti delle manipolazioni genetiche
e delle tecniche bio-mediche moderne, in Riv. it. med. leg.
XII, 1990.
(2) GROSSO, L’attività interpretativa del giurista di fronte ai nuovi orizzonti della medicina e della biologia: esempi
in tema di trattamento del malato terminale irreversibile, di
test genetici e di interventi sul menoma umano, in Nozione
formazione ed interpretazione del diritto dall’età romana
alle esperienze moderne, Jovene, 1997.
(3) SGRECCIA, Manuale di bioetica, 2ª Ed., Vita e pensiero, Milano, 1994. L’Autore afferma che le riflessioni etiche sono collegate direttamente alle prospettive bioetiche «...
riflessione sistematica su tutti gli interventi dell’uomo sugli
esseri viventi, una riflessione che si pone un obiettivo specifico e arduo: quello di identificare valori e norme che guidino l’agire umano, l’intervento della scienza e della tecnologia sulla vita stessa e sulla biosfera».
(4) SANTOSUOSSO A., Bioetica e diritto, in BARNI M.,
Medicina e diritto, Milano, 1995, p. 21. In particolare, si fa
risalire ad un oncologo del Wisconsin – Van Rensselaer Potter – la nascita (moderna) del termine bioetica, già nel 1970,
anno in cui veniva pubblicata dallo stesso un’opera dal titolo
Bioethics: A Bridge To the Future.
(5) Un’ampia e interessante trattazione sul tema della
bioetica si può trovare in Voci per un Dizionario del pensiero
forte, NAVARINI C., La bioetica, in www.alleanzacattolica.org. L’Autrice ricorda, con ragione, S. Agostino nel De
Retorica, facendo rientrare l’ambito della bioetica nelle
«questioni civili».
(6) MOCCIA, Bioetica o biodiritto? Gli interventi dell’uomo sulla vita in fieri di fronte al sistema penale dello stato
sociale di diritto, in Riv. it. dir. proc. pen. 1990, p. 862 e ss.
(7) ZATTI, Bioetica e diritto, in Riv. it. med. leg., 1995,
p. 3 ss.; RAMACCI, RIZ, BARNI, Libertà individuale e tutela
della salute, in Riv. it. med. leg. 1983, p. 854 ss.; SCORRETTI,
Etica, deontologia e medicina legale, in Riv. it. med. leg. XII,
1990, 1155 ss.
(8) In effetti è opportuno sottolineare che non tanto il
mondo giuridico e quello medico si sono occupati per primi
di bioetica, ma la Chiesa, che si è mostrata attenta ai dati naturali ed ha proposto sempre spunti che potessero fornire
motivo di approfondimento dal punto di vista teleologico,
etico e bioetico.
(9) ENGELHARDT H.T., Bioetica, in Biblioteca della libertà, 1994, 2, 125, p. 85 e ss.
(10) In effetti le correnti di pensiero a riguardo sono molteplici e differenti. Quella dei soggettivisti/relativisti, quella
dei sostenitori dell’importanza di leggi universali e immutabili, ecc. pertanto la valutazione in concreto dovrà essere
attenta e completa.
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(11) Per una veloce indagine giurisprudenziale si veda:
BALDINI, CASSANO, Persona, biotecnologie e procreazione,
Milano, 2002.
(12) FRESIA, Luci e ombre del consenso informato, in
Riv. it. med. leg., 1994, XVI, 895 ss.
(13) BORDIGON, Consenso all’atto medico-diagnostico e/
o terapeutico, in Riv. it. med. leg. 1995, p. 559 e ss.;
SPINSANTI S., Chi ha poter sul mio corpo? Nuovi rapporti tra
medico e paziente, Milano, 1999.
(14) DE PIETRO, In tema di consenso del paziente al trattamento sanitario, in Sic. Soc., 1981, 802 e ss.
(15) COLOMBO, PARISI, Profili penalistici del rapporto
medico-paziente in Riv. pen., novembre 2001, p. 877 e ss.
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(16) GUZZON, Consenso e stato di necessità dell’atto medico, in Riv. pen. 1967, Milano, p. 671.
(17) COLOMBO, PARISI, Aspetti problematici dello stato
di necessità, in Riv. pen., n. 4, 2002, p. 303 e ss.
(18) COTTA, Consenso, Enc. Scienze soc., vol. II, p. 287 e ss.
(19) PEDRAZZI, Consenso dell’avente diritto, in Enc. dir.
1961, IX, 140 ss.
(20) Oltre ai comitati presenti nelle singole strutture ospedaliere si ricorda la nascita nel marzo del 1990 di un Comitato
Nazionale per la Bioetica che si avvale della possibilità di accedere alle informazioni presenti nei vari centri operativi e del
collegamento con gli analoghi istituti esistenti presso Paesi stranieri.