giuseppe maiorano
francesco bartolomucci
studio di cardiologia e ipertensione
viale j. f. kennedy, 89 bari
0805044085
centoventi/ottanta
ipertensione arteriosa
e rischio cardiovascolare
istruzioni per l’uso
giuseppe maiorano
francesco bartolomucci
centoventi/ottanta
ipertensione arteriosa
e rischio cardiovascolare
istruzioni per l’uso
PREFAZIONE
Questa trattazione è rivolta alle tante persone, soprattutto non medici,
con problemi di salute connessi con l’ipertensione arteriosa e le correlate affezioni cardiovascolari. Pur trattandosi di notizie mediche ho pensato di renderle accessibili con un linguaggio semplice e comprensibile
senza però venir meno al rigore scientifico ed intellettuale che la disciplina comporta.
L’obiettivo di fornire notizie mediche sull’ipertensione alle persone non
mediche deriva dal fatto che oggi l’automisurazione domiciliare della
pressione arteriosa è considerata una procedura essenziale per quanto
riguarda le informazioni utili per il medico curante sia per formulare la diagnosi di ipertensione ma anche per verificare l’efficacia della terapia.
Sotto questo aspetto la collaborazione del paziente è utilissima ed è
quindi necessario che il medesimo abbia una conoscenza abbastanza
completa del suo problema di salute.
Il titolo “Centoventi / ottanta”, se un po’ stravagante, vuole essere un
messaggio, una esortazione a raggiungere un obiettivo di salute ambizioso, cioè quello della pressione arteriosa considerata ottimale se raggiunge valori di 120 / 80 mmHg, così come indicato dalle Linee Guida
Internazionali sul trattamento dell’Ipertensione Arteriosa.
È noto infatti che l’ipertensione arteriosa rimane in tutto il mondo, e
soprattutto nei paesi industrializzati, una delle principali cause di morbosità e mortalità cardiovascolari; ed è anche noto che una significativa
porzione di soggetti ipertesi non è a conoscenza della propria condizione
o, anche se edotta della propria condizione, non assume terapia o non
si sottopone ai periodici controlli clinici per verificare la efficacia della
stessa.
Ecco perché è importante fornire al maggior numero di soggetti le notizie (come si suole dire attualmente: “istruzioni per l’uso” o “saperne di
più per vivere meglio”) relative alle caratteristiche cliniche di questa affezione ed alle procedure diagnostiche per verificare la presenza di uno
stato ipertensivo, la sussistenza di un danno d’organo e la valutazione
del così detto rischio cardiovascolare.
Per redigere questa trattazione sono state utilizzate le informazioni e
3
raccomandazioni provenienti dalle Linee Guida delle Società Europee di
Ipertensione e di Cardiologia del 2007 [Ipertensione e prevenzione Cardiovascolare, Supplemento, settembre 2007] sulla diagnosi e sul trattamento dell’ipertensione arteriosa. Queste raccomandazioni si basano sui
risultati dei grandi studi clinici randomizzati e degli studi osservazionali
iniziati negli anni ’70 ed aggiornati continuamente.
Da queste Linee Guida infatti si ricava il concetto che oggi abbiamo
a disposizione gli strumenti clinici, diagnostici e terapeutici per ridurre
drasticamente la morbosità e la mortalità cardiovascolare. Il raggiungimento di questo obiettivo dipende molto dalla collaborazione delle persone interessate che devono essere motivate a recepire i consigli per sottoporsi ai controlli clinico-strumentali, peraltro non invasivi e di facile
applicazione, ad assumere la terapia e modificare, quando sia necessario, lo stile di vita.
Utilizzando una esperienza clinica ormai trentennale, con la collaborazione del Dott. Francesco Bartolomucci, ho pensato di mettere a disposizione del paziente iperteso queste istruzioni a diffusione esclusivamente privata a completamento delle prestazioni cliniche fornite dal
nostro Studio professionale.
Giuseppe Maiorano
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INTRODUZIONE
L’ipertensione arteriosa è una affezione caratterizzata da un aumento
abnorme della pressione arteriosa del sangue che, se non trattata, a
lungo andare, determina un sovraccarico di lavoro per il cuore, detto generalmente cardiopatia ipertensiva; ed è anche causa di alterazioni
strutturali delle grandi e piccole arterie. L’infarto del miocardio, l’angina,
lo scompenso cardiaco, l’ictus cerebrale e la morte improvvisa sono le
principali complicanze fatali e non fatali.
Prima della comparsa delle manifestazioni cliniche la cardiopatia
ipertensiva per un lungo periodo decorre asintomatica e paucisintomatica, cioè con assenza di disturbi o di scarso significato. Ecco perché è
di fondamentale importanza definire accuratamente le compromissioni,
anche iniziali, dell’apparato cardiovascolare allo scopo di prevenire o rallentare, con adeguata terapia, l’evoluzione della malattia verso le complicanze.
L’esame clinico, la diagnostica strumentale e il trattamento terapeutico sono in grado al giorno d’oggi di attuare una importante strategia
non solo diagnostica ma soprattutto curativa come hanno dimostrato le
ricerche cliniche degli ultimi 40 anni in grado di ridurre significativamente
la mortalità e la morbosità cardiovascolare.
IPERTENSIONE ARTERIOSA E RISCHIO CARDIOVASCOLARE
La ricerca clinica ha dimostrato che la gravità e le complicanze della
malattia cardiovascolare non dipendono solo dalla ipertensione arteriosa
ma anche da altri fattori, detti fattori di rischio, che concorrono in varia
misura alla evoluzione della stessa. Il fumo di sigaretta, l’ipercolesterolemia, il diabete, l’obesità, la vita sedentaria, oltre che l’età ed il sesso
maschile più di quello femminile, sono in grado di accrescere in misura
esponenziale il rischio cardiovascolare, cioè la probabilità che ha una
persona di subire un evento cardiovascolare. Ecco perché l’approccio
clinico alla persona non può limitarsi solo alla valutazione clinico - strumentale dell’ipertensione arteriosa ed alla riduzione dei valori pressori,
ma deve esplorare e correggere tutti i fattori di rischio e le relative complicanze. Vanno altresì suggerite le istruzioni e le esortazioni atte a modificare uno stile di vita pericoloso (fumo di sigaretta, vita sedentaria,
obesità, ipercolesterolemia, ecc).
5
PERCHÉ L’IPERTENSIONE ARTERIOSA
È noto che più del 20% della popolazione mondiale è affetto da ipertensione arteriosa essenziale ed è ormai comprovato dalle ricerche cliniche osservazionali (a cominciare dal famoso studio Framingham degli anni ’70) che un precoce inquadramento clinico-strumentale ed un
adeguato controllo terapeutico della ipertensione sono in grado di ridurre
drasticamente la mortalità e la morbosità cardiovascolari unitamente al
controllo e trattamento degli altri fattori di rischio.
CLASSIFICAZIONE DELL’IPERTENSIONE
Si distinguono due tipi di ipertensione arteriosa: una così detta essenziale o primaria che colpisce il 20% dell’umanità ed è riconducibile a
cause di natura eredo-familiare ed un’altra detta secondaria che rappresenta solo il 5% di tutte le forme di ipertensione essendo causata da altre affezioni (malattie renali, endocrinopatie, alcune affezioni dell’aorta, vascolari, iatrogenica, cause varie) suscettibili di trattamento mirato, medico
o chirurgico.
Per quanto riguarda la forma essenziale non sussiste un valore numerico assoluto di pressione arteriosa al di là del quale è lecito porre
diagnosi di ipertensione arteriosa, ma sono gli studi epidemiologici che
hanno rilevato una relazione positiva tra valori di pressione arteriosa
(PA) e rischio cardiovascolare; cioè più alti sono i valori di PA e maggiore è il rischio cardiovascolare. In base a questi dati si è definito come
valore ottimale una pressione arteriosa meno di 120 mm Hg per la PA
sistolica (o massima) e 75-70 mm Hg per quella diastolica (o minima)
indipendentemente dall’età.
Le linee Guida 2007 per il trattamento dell’Ipertensione arteriosa redatte dalle Società Europee di Ipertensione e Cardiologia hanno definito
la seguente classificazione dei valori di pressione arteriosa:
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Pressione arteriosa (mmHg)
Sistolica
Ottimale
Normale
Normale-alta
Ipertensione di grado 1
Ipertensione di grado 2
Ipertensione di grado 3
Ipertensione sistolica isolata
<120
120-129
130-139
140-159
160-179
>180
>140
Diastolica
e
e/o
e/o
e/o
e/o
e/o
e
<80
80-84
85-89
90-99
100-109
>110
<90
IL RISCHIO CARDIOVASCOLARE
Per molti anni, le Linee Guida dell’ipertensione hanno considerato i valori elevati della PA come la principale condizione responsabile di numerose affezioni cardiovascolari. Attualmente si ritiene opportuno considerare, oltre all’ipertensione arteriosa, anche le altre condizioni – fattori
– in grado di influire negativamente sull’apparato cardiovascolare; in
grado cioè di causare alterazioni strutturali e / o funzionali sul cuore, sui
vasi e su altri organi quali il cervello, il rene, ecc. Per convenzione tali condizioni vengono denominate fattori di rischio.
Formalmente per fattore di rischio si intende un fattore o una condizione associato ad un evento morboso di cui si sospetta esserne causa.
È in genere una caratteristica (familiare, psicologica, anatomica, fisiologica) di una persona che accresce la probabilità (il rischio) che questa
sviluppi una affezione cardiovascolare. Lo studio epidemiologico Framingham del 1976, basato sui dati raccolti in un arco di tempo di 18 anni,
ha individuato, oltre all’ipertensione arteriosa, altri fattori di rischio da
prendere in considerazione; e si è anche osservato che la coesistenza
di tali fattori di rischio in una medesima persona, a livelli crescenti dei medesimi, determina un effetto moltiplicativo, esponenziale e non semplicemente additivo. I fattori attualmente considerati per il calcolo del rischio cardiovascolare si distinguono in: fattori non modificabili, cioè insiti
nella costituzione stessa della persona e fattori modificabili, cioè suscettibili di modificazioni per merito di un trattamento terapeutico e/o di
un corretto stile di vita.
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Fattori non modificabili:
- età
- sesso
- familiarità per eventi cardiovascolari prematuri
Fattori modificabili:
- ipertensione arteriosa
- fumo
- aumento del colesterolo totale e LDL
- diminuzione del colesterolo HDL
- ipertrofia cardiaca
- diabete mellito
- obesità
- vita sedentaria
Fra i fattori non modificabili per età si intende un’età superiore a 55
anni per gli uomini e superiore a 65 anni per le donne e non si attribuisce uno specifico rischio al sesso maschile come accadeva in passato.
Con la familiarità, si fa riferimento invece, ad eventi “precoci”, cioè avvenuti in una età prematura e rispettivamente a meno di 55 anni per gli
uomini e meno di 65 anni per le donne.
Oltre alla identificazione e valutazione dei singoli fattori di rischio occorre anche valutare la sussistenza del così detto danno d’organo, la
coesistenza del diabete e di una malattia aggiuntiva al fine di attuare una
corretta stratificazione del profilo di rischio in termini di:
rischio basso
rischio nella media
rischio moderato
rischio elevato
rischio molto elevato.
Ciò perché solo una piccola quota di individui presenta un solo fattore di rischio, quale per esempio, un incremento pressorio “isolato”,
mentre la stragrande maggioranza dei pazienti presenta anche altri fattori di rischio cardiovascolare (per es. ipertensione, fumo di sigaretta e
dislipidemia).
Particolare e notevole importanza va considerata quando coesiste
con l’ipertensione una alterazione del metabolismo glicidico (diabete
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di tipo1 e di tipo 2) perché sussiste una stretta relazione tra severità
dell’incremento pressorio ed entità delle alterazioni del metabolismo
glico-lipidico.
DANNO D’ORGANO
Per danno d’organo si intende una alterazione strutturale dell’apparato cardiovascolare di varia gravità che può interessare la massa del
muscolo cardiaco e/o le arterie coronarie. Si distinguono in genere due
tipi di danno d’organo: uno di lieve entità, così detto sub-clinico ed uno
più grave o clinico. Il danno d’organo subclinico è una alterazione strutturale di lieve entità rilevabile solo mediante indagini strumentali e che
non produce alcun disturbo avvertito dal paziente. Per es. l’iniziale ipertrofia delle pareti del cuore causata dall’ipertensione arteriosa è rilevabile solo all’ecocardiogramma e non è di tale entità da produrre segni e
sintomi di cardiopatia. Così dicasi delle iniziali alterazioni strutturali delle
pareti delle arterie caratterizzate da ispessimento delle stesse e dalla presenza di placche di ateromasia che sono rilevabili solo all’esame ecodoppler della arterie carotidi; ma che non danno segni clinici almeno fino
a quando tali alterazioni evolutive non raggiungono gradi elevati di stenosi. Nella fattispecie: stenosi coronarica e quindi angina o infarto; stenosi carotidea e quindi disturbi vascolo-cerebrali; stenosi delle arterie periferiche e quindi dolore spontaneo o da sforzo dei muscoli delle gambe
(claudicatio), ecc.
Nelle Linee Guida è stata data particolare importanza alla valutazione
del danno d’organo, la cui presenza anche a livello subclinico incrementa
notevolmente il rischio. Tale danno va accuratamente identificato con gli
esami strumentali e quelli di laboratorio con relativi valori soglia di riferimento per ciascuna variabile presa in considerazione. Per esempio vengono presi in considerazione soprattutto i parametri dell’elettrocardiogramma, dell’ecocaradiogramma, dell’ecodoppler dei vasi epiaortici, e
quelli degli esami bioumorali (glicemia, funzionalità renale, tiroidea, ecc).
La osservazione nel tempo della evoluzione di questi parametri consente
di verificare la efficacia della terapia (per es. quella antipertensiva o quella
glico-metabolica) in termini di adeguato controllo dei fattori di rischio ma
soprattutto arrestare o rallentare la evoluzione fisiopatologica del danno
strutturale. Per es. la misura periodica delle pareti del cuore con l’esame
ecocardiografico consente di verificare l’arresto o il rallentamento della
ipertrofia del ventricolo sinistro; o la misura periodica con l’ecodoppler
9
dello spessore della parete dell’arteria carotide o l’evoluzione di eventuale placca ateromasica consente di verificare la efficacia della terapia
dell’ipercolesterolemia e/o della terapia antipertensiva.
MALATTIE AGGIUNTIVE
Ai fini della valutazione, o meglio della stratificazione del rischio cardiovascolare, oltre che alla valutazione dei singoli fattori di rischio, alla sussistenza del diabete o all’entità del danno d’organo, è importante considerare anche la presenza di una malattia conclamata, così detta aggiuntiva
costituita da:
Malattie cerebrovascolari: ictus ischemico, emorragia cerebrale. Attacco ischemico transitorio (TIA).
Malattie cardiache: infarto del miocardio, angina, rivascolarizzazione
coronarica, scompenso cardiaco.
Malattie renali: nefropatia diabetica, insufficienza renale
Vasculopatia periferica
Retinopatia avanzata
Occorre considerare che tali condizioni si potenziano a vicenda, con
un impatto sul profilo di rischio cardiovascolare globale sempre di tipo
esponenziale e non puramente additivo.
Ne deriva una diversa strategia terapeutica. Infatti numerose evidenze hanno dimostrato che negli individui ad alto rischio, la soglia e gli
obiettivi del trattamento antipertensivo, così come di altre strategie antipertensive, sono diversi da quelli degli individui con profilo di rischio più
basso. Per esempio è stato rilevato che il paziente iperteso con associata nefropatia deve essere trattato con una terapia antipertensiva in
grado di abbassare i valori di PA al disotto di 120 / 80 mmHg.
Ne deriva che la strategia terapeutica va basata sul profilo di rischio
cardiovascolare globale del paziente.
Fattori di rischio
Età (M>55 anni; F>65 anni)
Pressione sistolica e diastolica
Abitudine al fumo
Dislipidemia (ipercolesterolemia)
Obesità addominale: >102 cm (M), > 88 CM (F)
Familiarità per malattie cardiovascolari precoci (M età <55 anni. F età <65 anni)
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Diabete
Glicemia a digiuno
≥ 7.0 mmol/l
Glicemia postprandiale > 11.0 mmol/l
Danno d’organo subclinico
Evidenza elettrocardiografica di ipertrofia ventricolare sinistra
Evidenza ecocardiografica di ipertrofia ventricolare sinistra
Ispessimento della parete carotidea – placche
Microalbuminuria
Lieve incremento della creatinina plasmatica
Malattie cardiovascolari o renali conclamate
Malattie cerebrovascolari: ictus ischemico, emorragia cerebrale. Attacco ischemico transitorio (TIA).
Malattie cardiache: infarto del miocardio, angina, rivascolarizzazione
coronarica, scompenso cardiaco.
Malattie renali: nefropatia diabetica, insufficienza renale
Vasculopatia periferica
Retinopatia avanzata
IL RISCHIO CARDIOVASCOLARE GLOBALE
Per rischio cardiovascolare globale si intende l’insieme di più condizioni caratterizzate non solo dai fattori di rischio su elencati, ma anche
dalla sussistenza del danno d’organo e da eventuale concomitanza di altre malattie.
Fattori di rischio + danno d’organo + malattie concomitanti = rischio
cardiovascolare globale.
Dall’interazione di queste condizioni viene attuata una sorta di categorizzazione del rischio in termini di probabilità (rischio) di subire una
complicanza cardiovascolare nell’arco di 10 anni.
Ecco perché deve essere raccomandata la individuazione del rischio
cardiovascolare globale in ogni singola persona in termini di: basso, medio, moderato, elevato e molto elevato. Allo scopo di pianificare una corretta strategia di intervento diagnostico e trattamento terapeutico.
Le Linee Guida del 2007 hanno redatto una griglia che stratifica il profilo di rischio in rapporto alla coesistenza dei fattori di rischio, dei valori
di pressione arteriosa, del danno d’organo, del diabete e delle malattie
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concomitanti. Dall’interazione (gravità) delle varie condizione si ricava il
profilo di rischio in termini di basso, medio, moderato, alto e molto alto.
Stratificazione del rischio nella valutazione della prognosi
Pressione Arteriosa (mmHg)
Normale
PAS 120-129
oppure
PAD 80-94
Normale-Alta
PAS 130-139
oppure
PAD 85-89
Grado 1
PAS=140-159
oppure
PAD=90-99
Grado 2
PAS=160-179
oppure
PAD=100-109
Grado 3
PAS * 180
oppure
PAD * 110
Nessun altro fattore
di rischio
Rischio nella
media
Rischio nella
media
Rischio
aggiuntivo
basso
Rischio
aggiuntivo
moderato
Rischio
aggiuntivo
alto
1 o 2 fattori di rischio
Rischio
aggiuntivo
basso
Rischio
aggiuntivo
basso
Rischio
aggiuntivo
moderato
Rischio
aggiuntivo
moderato
Rischio
aggiuntivo
molto
elevato
3 o più fattori di rischio
o danno d’organo
o diabete mellito
Rischio
aggiuntivo
moderato
Rischio
aggiuntivo
elevato
Rischio
aggiuntivo
elevato
Rischio
aggiuntivo
elevato
Rischio
aggiuntivo
molto
elevato
Malattie aggiuntive
Rischio
aggiuntivo
elevato
Rischio
aggiuntivo
molto
elevato
Rischio
aggiuntivo
molto
elevato
Rischio
aggiuntivo
molto
elevato
Rischio
aggiuntivo
molto
elevato
Alcuni aspetti innovativi delle Linee Guida meritano di essere ricordati:
1. Viene inserita la sindrome metabolica perché tale affezione più che
una entità autonoma è una condizione clinica caratterizzata dalla presenza di più fattori di rischio oltre allo stato ipertensivo, elemento quest’ultimo che si riflette negativamente sul profilo del rischio cardiovascolare globale.
2. È stata data particolare importanza alla valutazione del danno d’organo, la cui presenza anche a livello subclinico incrementa notevolmente il rischio. Per l’identificazione del danno d’organo subclinico
sono stati proposti valori soglia di riferimento per ciascuna variabile
in esame.
3. Sono stati considerati alcuni marcatori di danno d’organo renale che
includono il calcolo della clearance della creatinina e il dosaggio
della albuminuria.
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4. Viene raccomandato di effettuare valutazioni del danno d’organo in
diversi distretti (cuore, vasi, rene e cervello) in quanto la presenza di
un danno multi-organo si associa ad una prognosi peggiore rispetto
alla condizione caratterizzata da un danno di un singolo organo.
5. Viene raccomandata la valutazione del danno d’organo non solo prima
di impostare la terapia (per la stratificazione del rischio) ma anche nel
corso del trattamento, in quanto la regressione dell’ipertrofia ventricolare sinistra e della proteinuria rappresenta un indice attendibile degli
effetti di protezione cardiovascolare indotti dalla terapia.
La presenza di almeno 3 di questi fattori di rischio: obesità addominale, alterata glicemia a digiuno, PA >130/85 mm Hg, basso colesterolo
HDL, ipertrigliceridemia, fa porre diagnosi di sindrome metabolica.
Caratteristiche diagnostiche che caratterizzano il rischio “elevato” e
“molto elevato”.
Pressione arteriosa sistolica>180 mmHg e/o diastolica >110 mmHg
Pressione arteriosa sistolica >160 mmHg con valori diastolici bassi
(<70 mmHg)
Diabete mellito
Sindrome metabolica
3 o più fattori di rischio cardiovascolare
Uno o più marker di danno d’organo sub-clinico:
VALUTAZIONE DIAGNOSTICA
Una corretta valutazione diagnostica prevede di definire la sussistenza di ipertensione arteriosa, degli altri fattori di rischio, del danno
d’organo, del diabete e di eventuali malattie aggiuntive. Occorre valutare anche la gravità delle singole condizioni – cioè, per esempio,
se la PA rientra nel grado di ipertensione lieve o moderata o grave; se
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il danno d’organo è subclinico o già ben consolidato, ecc. Al fine di
stratificare adeguatamente il rischio cardiovascolare e impostare la relativa strategia terapeutica.
Le procedure diagnostiche sono finalizzate a:
1. Definire i valori della pressione arteriosa
2. Identificare le cause secondarie di ipertensione
3. Valutare il rischio cardiovascolare globale mediante la ricerca di
fattori di rischio aggiuntivi, danno d’organo e presenza di affezioni o condizioni cliniche associate.
1.
2.
3.
4.
Tali procedure diagnostiche comprendono:
La misurazione ripetuta della pressione arteriosa
La raccolta della storia clinica
L’esame obiettivo
Le valutazioni strumentali e di laboratorio
Alcune di queste vengono raccomandate come parte integrante
dell’approccio diagnostico di routine in tutti i pazienti con ipertensione
arteriosa.
1. MISURAZIONE DELLA PRESSIONE ARTERIOSA
La pressione arteriosa (PA) è caratterizzata da ampie variazioni sia
nell’arco di un singolo giorno sia nell’arco di giorni, mesi o stagioni diverse. Pertanto la diagnosi di ipertensione arteriosa dovrebbe basarsi
non solo nell’arco di un singolo o più giorni, ma anche nell’arco di
giorni, mesi o stagioni diverse. Inoltre la diagnosi di ipertensione arteriosa dovrebbe basarsi su misurazioni ripetute eseguite in occasioni
diverse nell’ambito di un prolungato periodo di tempo. Se i valori di PA
risultano solo lievemente al di sopra della norma, sarebbe opportuno
ripetere una serie di misurazioni nell’arco di alcuni mesi per meglio definire i valori pressori “abituali” per quel paziente. Se un paziente presenta valori più elevati, evidenze di danno d’organo ipertensione correlato o un profilo di rischio globale elevato o molto elevato, la
ripetizione delle misurazioni pressorie dovrebbe essere ottenuta in un
più breve periodo di tempo, nell’ordine di giorni o settimane. In linea
14
generale, la diagnosi di ipertensione dovrebbe essere formulata in
base ad almeno due misurazioni pressorie per visita, ripetute in almeno
2-3 occasioni, anche se in casi particolari (ipertensione di grado severo) potrebbero essere sufficienti i valori elevati durante la prima visita. La pressione arteriosa può essere rilevata dal medico o dal personale infermieristico nell’ambulatorio o in ambiente ospedaliero
(ambulatorio dedicato o centro di ipertensione), dal paziente a domicilio o automaticamente durante un periodo di 24 ore. Le procedure
di misurazione della pressione sono state recentemente discusse e
pubblicate in un documento a cura del Working Group dell’ESH.
La valutazione diagnostica di ipertensione arteriosa deve essere solo
ed esclusivamente di competenza del medico curante o dello specialista e mai “il fai da te”!
Esse possono essere così riassunte:
1. Pressione clinica o sfigmomanometrica
2. Misurazione ambulatoria della pressione arteriosa nelle 24 ore
3. Misurazione domiciliare della pressione arteriosa o automisurazione
Pressione clinica o sfigmomanometrica
In un passato recente la PA veniva misurata con sfigmomanometro
a mercurio. La Comunità Europea ha proibito l’uso del mercurio e gli sfigmomanometri classici sono attualmente costruiti con alcol e dotate di
prestazioni ugualmente affidabili.
La tecnologia moderna ha messo a disposizione del medico e del paziente strumenti di misurazione della PA non invasivi altamente affidabili
(strumenti oscillo metrici o ascoltatori semiautomatici) e di facile uso, a
patto che si utilizzino misuratori validati secondo protocolli standardizzati (sito web: www.dableducational.org). Le procedure per la misurazione della PA con metodo di sfigmomanometria classica sono riassunte
nel seguente riquadro.
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Procedure per la misurazione
della pressione arteriosa
Quando si valutano i valori pressori è necessario:
• Lasciare il paziente seduto per alcuni minuti in una stanza tranquilla prima di iniziare la procedura di rilevazione pressoria.
• Eseguire almeno due misurazioni intervallate da 1 o 2 minuti e
una misurazione aggiuntiva se le prime due sono molto diverse
tra loro.
• Usare un bracciale standard (12-13 cm. di altezza e 35 cm di lunghezza) ma disporre di bracciali più grandi e più piccoli nel caso
rispettivamente di soggetti obesi e magri. Usare bracciali pediatrici nei bambini.
• Posizionare il bracciale a livello del cuore qualunque sia la posizione del paziente.
• Usare le fasi I e V (scomparsa dei toni di Korotkoff) per identificare rispettivamente la pressione sistolica e diastolica.
• Misurare la pressione arteriosa in entrambe le braccia in occasione della prima visita per identificare eventuali disparità legate
ad una vasculopatia periferica. In tale situazione considerare il valore più alto come quello di riferimento nel caso si impieghi la tecnica auscultatoria.
• Misurare la pressione arteriosa dopo 1 e 5 minuti dall’assunzione
dell’ortostatismo nei soggetti anziani, nei pazienti diabetici e in
altre condizioni in cui può essere frequente o sospetta ipotensione ortostatica.
• Misurare la frequenza cardiaca mediante metodo palpatorio (per
30 secondi) dopo la seconda misurazione pressoria in posizione
seduta.
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Misurazione ambulatoria della pressione arteriosa delle 24 ore
Questa metodica di misurazione della PA consiste nella applicazione
di uno sfigmomanometro che automaticamente misura la pressione arteriosa ad intervalli stabiliti (ogni 15 – 20 minuti) nell’arco delle 24 ore
senza intervento alcuno da parte del medico o del paziente.
Sono disponibili numerosi strumenti (in prevalenza oscillometrici) e
permettono un monitoraggio automatico della pressione arteriosa mentre i pazienti conducono una vita pressoché normale. Tale sistema di rilevazione può fornire informazioni sul profilo pressorio delle 24 ore e anche sui valori pressori medi durante lo stesso periodo o nell’ambito di
un periodo di tempo più limitati quali il giorno, la notte e il mattino. L’informazione che deriva dal monitoraggio pressorio delle 24 ore non dovrebbe essere considerata come sostitutiva di quelle derivabili dalla misurazione convenzionale. Essa può tuttavia fornire informazioni di
rilevanza clinica aggiuntiva in accordo con gli studi longitudinali e trasversali che hanno osservato come i valori rilevati attraverso la misurazione
ambulatoria automatica risultino solo debolmente correlati con quelli rilevati in ambito clinico.
Limiti dei livelli pressori (mmHg) per la definizione di ipertensione a
seconda delle diverse modalità di misurazione
Sfigmomanometrica clinica
Monitoraggio ambulatorio delle 24 ore
Domiciliare (automisurazione)
PAS
140
125
135
PAD
90
80
85
(PAS, pressione arteriosa sistolica; PAD, pressione arteriosa diastolica.)
Misurazione domiciliare della pressione arteriosa
La misurazione della pressione arteriosa a domicilio non può necessariamente fornire le stesse ampie informazioni derivabili dal monitoraggio ambulatorio delle 24 ore. Può tuttavia fornire informazioni sui valori pressori in giorni diversi e rilevati in una condizione il più vicino
possibile alla vita di tutti i giorni. Quando considerate come valore medio di più rilevazioni eseguite in un periodo di più giorni, tali rilevazioni
si sono dimostrate in grado di condividere alcuni dei vantaggi della misurazione ambulatoria delle 24 ore, quali la mancanza dell’effetto “da camice bianco” e una maggiore riproducibilità e predittività della presenza
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e progressione del danno d’organo rispetto alla misurazione tradizionale.
Pertanto, la misurazione domiciliare della pressione per un periodo di
tempo adeguato (ad esempio alcune settimane) prima e durante il trattamento può anche essere raccomandata in quanto procedura economica che può migliorare la compliance del paziente al trattamento.
Qualora si suggerisca di utilizzare l’automisurazione domiciliare della
pressione, si deve prestare attenzione ai seguenti fattori:
1.
L’automisurazione della PA a domicilio è una pratica che deve essere eseguita ed interpretata sotto la supervisione del medico.
2.
Consigliare solo l’impiego di strumenti validati. Nessuno dei rilevatori
pressori da polso attualmente disponibili è stato validato in maniera
soddisfacente. Nel caso in cui qualcuno di tali strumenti dovesse essere validato sarà necessario ricordare al paziente la necessità di tenere il braccio all’altezza del cuore durante la misurazione. Per cui è
preferibile usare rilevatori di pressione con bracciale.
3.
Raccomandare l’impiego di strumenti di misurazione semiautomatici piuttosto che di sfigmomanometri tradizionali (ad alcol e a mercurio) per evitare di dovere istruire il paziente e per non incorrere in
errori di percezione (ascoltazione) dei toni durante la misurazione.
4.
Istruire i pazienti ad eseguire misurazioni in posizione seduta dopo
alcuni minuti di riposo e informarli che i valori possono essere diversi tra le varie misurazioni in ragione delle oscillazioni spontanee
della pressione; per questo motivo bisogna consigliare di eseguire
due misurazioni a distanza di 2-3 minuti l’una dall’altra e segnare
sull’agenda i relativi valori, compresa la frequenza cardiaca. I dati
vanno periodicamente fatti analizzare dal medico al fine di verificare
l’efficacia della terapia in atto.
5.
Evitare di ottenere un eccessivo numero di misurazioni e assicurarsi
che alcune di esse siano eseguite prima di assumere la terapia per
ottenere informazioni sulla durata del trattamento.
6.
Come ricordato per il monitoraggio ambulatorio della pressione, occorre considerare che i valori di pressione rilevati a livello domiciliare sono ridotti rispetto a quelli misurati in ambulatorio. Conside18
rare il valore di 135/85 mmHg come quello che, per la pressione domiciliare, corrisponde al valore di 140/90 mmHg rilevato in ambulatorio o in ospedale.
7.
Fornire al paziente chiare istruzioni sulla necessità di riportare al medico una chiara documentazione dei valori pressori misurati e di evitare di automodificare gli schemi di terapia.
8.
È stata proposta di recente la trasmissione via telefono della pressione automisurata a domicilio, in quanto tale metodica consentirebbe di ridurre la durata del periodo di “aggiustamento posologico”
e di migliorare il controllo pressorio. Le evidenze in merito sono attualmente preliminari.
9.
Dovrebbero sempre essere utilizzati come riferimento i valori pressori rilevati nell’ambulatorio del medico o in ambiente clinico.
10. L’automisurazione pressoria domiciliare dovrebbe essere incoraggiata con la finalità di:
fornire maggiori informazioni su cui basare la decisione terapeutica
del medico, migliorare la compliance del paziente alla terapia.
11. L’automisurazione pressoria domiciliare dovrebbe essere scoraggiata quando:
- può causare ansietà nel paziente;
- può indurre automodifiche dello schema terapeutico.
Prototipi di misuratori della pressione arteriosa
19
Raccomandazioni pratiche per ottenere misurazioni accurate della
pressione arteriosa.
La difficoltà di ottenere misurazioni accurate della PA dipende non
solo dalla accuratezza degli apparecchi selezionati, ma anche dalle caratteristiche del segnale della PA. La pressione arteriosa infatti è un parametro emodinamico estremamente variabile che può essere influenzato da numerosi fattori fisici, psicologici ed ambientali che agiscono su
di essa durante il giorno.
Condizioni per una misurazione corretta della pressione arteriosa
1 - Atteggiamento e posizione corretta del paziente
2 - Supporto per il braccio
3 - Posizionamento del braccio all’altezza del cuore
4 - Scelta del braccio adeguato
5 - Scelta di un bracciale di dimensioni adeguate
6 - Frequenza delle misurazioni
1 - Atteggiamento e posizione corretta del paziente
1a - Rilassamento del paziente
Prima di misurare la PA, occorre permettere al paziente di rimanere
a riposo per un breve periodo (almeno 5 minuti) in un ambiente tranquillo
a una temperatura confortevole. Il paziente non deve parlare prima e durante la misurazione e non deve tenere le gambe accavallate.
1b - Impatto emotivo della misurazione della PA effettuata da un medico
(effetto “camice bianco”)
È noto da decenni che la misurazione della PA da parte del medico
induce una reazione pressoria nel paziente. Nel 1897 Scipione Riva
Rocci affermava che ...la semplice applicazione dello strumento (lo
sfigmomanometro) può causare un rialzo temporaneo della PA e di conseguenza necessario non effettuare una sola misurazione, ma diverse,
una successiva all’altra, per esempio in 2-3 minuti, finché non si ottiene
una pressione costante…”.
Questa osservazione è stata interpretata come il risultato emodinamco di una reazione di allarme da parte del paziente nei confronti dell’esame medico, una reazione che è stata denominata effetto “camice
bianco”.
1c - Ipertesione clinica isolata o da “camice bianco”
In alcuni pazienti la pressione clinica è peristentemente elevata men20
tre i valori pressori della giornata, o nell’arco delle 24 ore o a domicilio,
sono perfettamente normali. Questa condizione è nota come “ipertensione da camice bianco (white coat effect)”, nonostante ne sia stata proposta una definizione più descrittiva e meno meccanicistica, quale “ipertensione ambulatoria (o clinica) isolata”. Tale definizione è preferibile in
quanto l’incremento pressorio rilevato mediante la misurazione ambulatoria non corrisponde all’incremento dei valori di pressione legato alla
presenza del medico o dell’infermiera, che rappresenta il vero effetto “camice bianco”. Indipendentemente dalla terminologia, gli studi disponibili dimostrano che l’ipertensione clinica isolata si riscontra nel 15% delle
popolazione generale ed è responsabile di una percentuale non trascurabile di casi di ipertensione. Esistono inoltre evidenze che nella popolazione di pazienti con ipertensione clinica isolata il rischio cardiovascolare è minore rispetto a ciò che si osserva nei pazienti che presentano
aumento della pressione clinica e ambulatoria.
1d - Posizione del paziente
Non è stato stabilito se la PA debba essere misurata in posizione supina o seduta. Di solito si osservano solo piccole differenze nella PA misurata tra la posizione supina e quella seduta e per ragioni pratiche si
deve preferire la posizione seduta. Soprattutto nei pazienti anziani e in
quelli in trattamento la PA deve essere misurata in posizione eretta.
Per quanto riguarda il tempo di riposo che deve precedere la misurazione, vi è un consenso generale sul fatto che 5 minuti di riposo debbano precedere i rilevamenti effettuati in posizione supina o seduta
e 1 minuto debba intercorrere prima delle successive misurazioni in
stazione eretta.
2 - 3 - Supporto per il braccio e posizione del braccio
Durante la misurazione della PA è essenziale che il braccio sia sorretto
in posizione eretta. Ciò può avvenire se il braccio del soggetto è sostenuto dall’osservatore a livello del gomito. Questa procedura evita al paziente di compiere un esercizio isometrico che può indurre un aumento
della frequenza cardiaca, soprattutto nei pazienti ipertesi. Inoltre, l’avambraccio deve trovarsi a livello del cuore: se è al disotto si verifica una sovrastima della pressione sistolica e di quella diastolica, mentre se esso
viene tenuto al di sopra, la pressione viene sottostimata.
Il braccio deve essere in posizione orizzontale durante la misurazione
e deve essere tenuto all’altezza del cuore (questo è particolarmente im21
portante per gli apparecchi che misurano la pressione a livello del polso).
Ai pazienti che eseguono l’automisurazione della PA, soprattutto
quando usano apparecchi per la misurazione a livello del polso, si devono fornire le istruzioni necessarie ad evitare gli errori correlati ad una
posizione inappropriata del braccio.
4 - Scelta del braccio adeguato
Alcuni studi che hanno valutato i risultati della misurazione simultanea
della PA nelle due braccia hanno dimostrato una differenza significativa
tra i due lati e questa differenza può variare nel tempo. Pertanto la differenza dei valori di PA tra le due braccia nell’arco di misurazioni consecutive può riflettere sia la variabilità della PA sia errori di misurazione. Di
conseguenza, la misurazione ad entrambe le braccia deve essere eseguita alla visita iniziale (meglio se simultaneamente) e, se si riscontrano
differenze consistenti superiori a 20 mm Hg per la pressione sistolica o
10 per la pressione diastolica, il paziente deve essere sottoposto ad ulteriori indagini per escludere una possibile arteriopatia, e si deve utilizzare
in visite successive il braccio con la pressione più elevata.
Posizione corretta per l’automisurazione
5 - Scelta del bracciale
Bracciale: camera d’aria che circonda l’80-100% della circonferenza
del braccio.
22
Circonferenza del braccio nel punto mediano (cm):
Bracciale piccolo
22-26
Bracciale standard
27-34
Bracciale grande
35-44
Bracciale da coscia (cosciale)
45-52
6 - Frequenza delle misurazioni
6a - Valutazione iniziale e valutazione del trattamento, prima di ogni visita in clinica o nello studio medico; per almeno 3 giorni e preferibilmente
sino a 7.
6b - Misurazioni due volte al giorno. Ripetere le misurazioni al mattino
(prima dell’assunzione della terapia se sotto trattamento farmacologico) e alla sera (preferibilmente prima di cena).
6c - Follow-up a lungo termine: una volta alla settimana se la PA è stabile = 1 settimana prima della visita del medico.
FATTORI INDIVIDUALI CHE INFLUENZANO LA MISURAZIONE
DELLA PRESSIONE ARTERIOSA
Sussistono dei fattori individuali che influenzano la misurazione della
PA e sono dovuti all’età, alla costituzione fisica o ad alterazioni emodinamiche.
Bambini
La varaibilità della PA è maggiore nei bambini che negli adulti. Nei
bambini si preferisce la pressione sistolica a quella diastolica a causa di
una maggiore accuratezza e riproducibilità. Il problema è costituito dalle
dimensioni del bracciale. In alcuni casi è opportuno utilizzare l’ecografia Doppler o l’oscillometria.
Soggetti anziani
Nei soggetti anziani possono spesso essere osservate oscillazioni frequenti e brusche della PA che possono influire sull’accuratezza delle tecniche di misurazione.
La variabilità della PA è più frequente in due condizioni cliniche:
l’ipertensione sistolica isolata e la disautonomia.
L’ipertensione sistolica isolata è la forma più comune di ipertensione
nell’anziano ed i risultati di diversi studi hanno dimostrato che negli anziani, la PA sistolica misurata nello studio medico può essere in media
23
20 mm Hg superiore alla PA diurna misurata con il monitoraggio ambulatorio (ABPM), con sovrastima della vera ipertensione sistolica.
Nella disautonomia abitualmente si verificano episodi ipotensivi intramezzati da picchi ipertensivi ed alterazione del profilo delle 24 ore.
Questa condizione è difficile da affrontare, perché il trattamento antipertensivo può esacerbare i periodi di ipotensione. Pertanto la terapia antipertensiva deve essere individualizzata sulla base dei risultati del monitoraggio ambulatorio delle 24 ore.
Soggetti obesi
L’obesità è frequente nei pazienti con ipertensione, e può portare
a misurazioni inaccurate della PA. Il rischio di tale in accuratezza è
maggiore quando l’obesità è associata a infanzia, età giovane o
avanzata, diabete e gravidanza.
Soggetti con aritmie
Le modificazioni della gittata sistolica che si accompagnano alle aritmie cardiache rendono difficile misurare la PA in questa condizione.
La misurazione della PA è particolarmente difficile nella fibrillazione
atriale, ed in questa condizione si può ottenere soltanto una stima approssimativa della PA. Si devono ottenere diverse misurazioni, facendone
una media per superare la variabilità da battito a battito.
Donne in gravidanza
Sussiste un problema controverso quando si misura la PA con lo
sfigmomanometro tradizionale e cioè se si debba utilizzare il quarto
o quinto tono di Korotkoff per identificare la pressione diastolica. Al
giorno d’oggi, esiste un consenso generale che si debba prendere
in considerazione la scomparsa dei toni (quinta fase), tranne quando
i toni persistono fino allo zero; in questo caso si dovrebbe utilizzare
l’attenuazione del tono.
Pazienti in trattamento
Benché ci si attenda che i farmaci antipertensivi producano effetti di
riduzione omogenea della PA per tutte le 24 ore, possono verificarsi modificazioni sull’effetto sulla PA nel tempo, specialmente con i farmaci a
più breve durata d’azione. Per questo motivo, nei pazienti che ricevono
un trattamento con farmaci antipertensivi, il momento in cui si misura la
pressione può essere importante per determinare la reale efficacia tera24
peutica in termini di controllo della PA e possono essere necessarie diverse misurazioni, specie in pazienti in terapia con più farmaci.
Fattori che influenzano l’accuratezza dell’automisurazione della PA
Numerosi fattori possono influenzare l’accuratezza dell’automisurazione della PA. Le misurazioni della PA ottenute dai pazienti sono spesso
inaffidabili. Molti pazienti tendono a riferire valori pressori più bassi o ad
eliminare le misurazioni che si ritengono non ricadenti nei valori abituali.
Gli strumenti dotati di memoria hanno il potenziale vantaggio di ridurre
le interferenze dovute alle aspettative dell’osservatore. Alcuni, anche se
più costosi, hanno il vantaggio di poter essere connessi ad una stampante o ad un personal computer. Recentemente si sono resi disponibili strumenti in grado di calcolare la media delle misurazioni in memoria, e di mostrarla direttamente.
I medici hanno il dovere di informare i pazienti sull’uso degli apparecchi dell’automisurazione, fornire un adeguato addestramento sulla
procedura di misurazione della PA, sulle variazioni della PA in risposta
agli stimoli psicologici, sulla necessità di un’adeguata manutenzione dell’apparecchio e, ancora più in generale, sulle caratteristiche dell’ipertensione arteriosa e sulla sua gestione.
La PA varia con le stagioni, essendo più alta durante l’inverno e più
bassa in estate, e queste variazioni devono essere prese in considerazione nell’interpretazione dell’automisurazione su lunghi periodi nei singoli pazienti. Solo un ristretto numero di pazienti è incapace di eseguire
l’automisurazione della PA, ma questa metodica può essere inadatta per
i pazienti con problemi fisici, o disabilità mentali, se non c’è il sostegno
di un familiare che li aiuti durante le misurazioni.
L’automisurazione è molto più indicata in pazienti ipertesi che desiderano contribuire alla propria gestione.
Limiti di normalità
Poiché la correlazione tra la PA e rischio cardiovascolare è continua,
il valore limite tra PA normale e anormale è arbitrario.
Tuttavia, per ragioni pratiche, devono essere adottati valori soglia per
decidere se debba essere iniziata una terapia antipertensiva.
La soglia di 135/85 mm Hg recentemente proposta dal Gruppo di Studio della Società Europea dell’Ipertensione Arteriosa (ESH) e dalle Linee
Guida delle Società Europee di Cardiologia e Ipertensione (ESC/ESH) del
2007 per l’ipertensione valutata usando l’automisurazione è uguale a
25
quella suggerita per la media diurna ottenuta con il monitoraggio ambulatorio (ABPM).
Soglie diagnostiche per il monitoraggio domiciliare della PA.
I dati ottenuti dagli studi longitudinali sono limitati e i valori di riferimento derivano principalmente da una valutazione statistica di database
Valori di ≥135/85 mmHg possono essere considerati compatibili
con una ipertensione.
Valori <135/85 mmHg possono essere considerati normali
Valori <120/80 mm Hg possono essere considerati valori ottimali
La definizione dei valori di normalità ed anormalità per la pressione automisurata a domicilio si basa su solide evidenze provenienti da numerosi studi. Non sono ancora disponibili evidenze per fare raccomandazioni sugli intervalli pressori intermedi tra “normale” ed “anormale”, o per
raccomandazioni riguardo al raggiungimento di valori pressori più bassi
nei pazienti ad alto rischio, come quelle fatte per le misurazioni della PA
misurata nello studio medico.
Si deve tuttavia sottolineare che i valori suggeriti sono solo una guida
alla “normalità” e che valori “ottimali” più bassi possono essere più indicati in pazienti il cui profilo di fattori di rischio è alto, e nei quali sia presente una affezione concomitante, come il diabete mellito.
Valutazione dell’efficacia del trattamento con l’automisurazione
della pressione arteriosa.
L’automisurazione della PA svolge un ruolo importante nella valutazione della efficacia a lungo termine dei farmaci antipertensivi al di fuori
dello studio medico. L’annullamento dell’effetto “camice bianco” e la valutazione dei livelli e della variabilità della PA in condizioni di vita quotidiana e nel corso di diversi giorni è il principale vantaggio dell’uso dell’automisurazione nei pazienti ipertesi in trattamento. A questo proposito
l’automisurazione può essere utile sia nella pratica clinica che negli
studi epidemiologici. Essa può permettere di valutare la durata dell’azione di un farmaco antipertensivo nel corso di diversi giorni o settimane, valutando diversi periodi della giornata.
L’automisurazione della PA: istruzioni per utenti.
Raccomandazioni generali:
1. L’automisurazione della PA deve essere effettuata sotto controllo
medico;
26
2. L’automisurazione della PA è complementare rispetto alla misurazione della PA nello studio medico;
3. Evitare l’abuso di questa metodica e l’automedicazione della terapia
sulla base delle automisurazione domiciliari;
4. Devono essere utilizzati solo apparecchi affidabili (accurati).
Condizioni di misurazione
1. 5 minuti di riposo prima della misurazione della PA
2. 30 minuti di astensione da fumo, alcol, caffeina, te, pasti pesanti, esercizio fisico;
3. Posizione seduta con supporto per la schiena, braccio appoggiato sul
tavolo a livello del cuore;
4. Corretta applicazione del bracciale;
5. Il paziente deve rimanere immobile, senza parlare durante l’automisurazione della PA;
6. Le misurazioni vanno ripetute a distanza di 1-2 minuti;
7. I dati vanno registrati su carta a meno che l’apparecchio non sia dotato di memoria;
8. Misurazioni effettuate in condizioni di stress possono essere fuorvianti
e dovrebbero essere evitate.
Tipo di manometro
1. Sfigmomanometro a mercurio vietato;
2. Sfigmomanometro aneroide: necessita di calibrazione e addestramento all’uso, sconsigliato;
3. Apparecchi da polso e da dito: sconsigliati;
4. Apparecchi elettronici semiautomatici o automatici da braccio: preferiti;
5. Utilizzare apparecchi clinicamente validati ed accurati (verificare nel
sito web www.pressionearteriosa.net);
Valori di riferimento
1. Media di una serie di misurazioni (almeno 12, meglio 24-25 misurazioni, rilevate in 7 giorni);
2. ≥ 135/85 mm Hg possono essere considerati compatibili con ipertensione;
3. < 130/85 mmHg possono essere considerati valori normali;
4. < 120/80 mmHg possono essere considerati valori ottimali.
Interpretazione
1. Interpretazione di “PA media di diversi giorni”
27
2. Misurazioni in “singole occasioni” possono essere piuttosto alte o
basse: scarso valore – possono non essere rappresentative della PA
“abituale”;
3. Aumento della PA automisurata non è di per sé un’indicazione alla terapia: il medico consiglierà quando iniziarla e quale sia il trattamento
indicato;
3. La PA normale nello studio del medico non implica una PA domiciliare
normale (ipertensione mascherata): particolare attenzione ed interpretazione da parte del medico.
Chi dovrebbe effettuare l’automisurazione della PA?
1. Pazienti con ipertensione clinica isolata (PA domiciliare normale e alta
nello studio del medico);
2. Pazienti con ipertensione mascherata (PA domiciliare alta e normale
nello studio del medico);
3. Pazienti ipertesi che non rispondono adeguatamente al trattamento
farmacologico;
4. Pazienti ipertesi che non assumono regolarmente i farmaci antipertensivi [scarsa compliance (aderenza) al trattamento];
5. Anziani;
6. Donne in gravidanza; Diabetici.
(Maggiori dettagli sulle procedure della PA a domicilio sono disponibili nelle recentissime Linee Guida ESH per lo Home Blood Pressare
Monitoring.
2. ANAMNESI
Per ogni paziente si deve raccomandare una anamnesi familiare
completa con particolare attenzione al riscontro di ipertensione, diabete,
dislipidemia, eventi coronarici precoci, ictus, vasculopatia periferica e insufficienza renale.
La storia clinica dovrebbe includere:
a. La data della ipertensione e i precedenti dei valori pressori;
b. I sintomi suggestivi di una causa secondaria di ipertensione e informazione sull’assunzione di farmaci o sostanze che possono aumentare i valori pressori quali liquirizia, cocaina, anfetamine, contraccettivi orali, steroidi, farmaci antinfiammatori non steroidei, eritropietina
e ciclosporina;
28
c. Le abitudini di vita quali l’assunzione dietetica di grassi (in particolare
grassi animali), sale e alcol, la quantificazione del fumo e dell’attività
fisica, l’incremento di peso a partire dall’adolescenza;
d. Una storia clinica o sintomi suggestivi di cardiopatia ischemica,
scompenso cardiaco, malattia cerebrovascolare o vascolare periferica, malattia renale, diabete mellito, gotta, dislipidemia, asma o qualsiasi altra malattia e l’impiego di farmaci per curare tali condizioni;
e. Un precedente trattamento antipertensivo, la sua efficacia, e la comparsa di effetti collaterali;
f. I fattori personali, familiari e ambientali che potrebbero influenzare i
valori di pressione arteriosa, il rischio cardiovascolare così come
l’uso di farmaci ed i loro effetti. Il medico dovrebbe anche ottenere dal
paziente e/o dal suo partner informazioni sulla presenza di russamento notturno per identificare la sindrome da apnee ostruttive che
si associa ad un incremento del rischio cardiovascolare.
3. ESAME OBIETTIVO
Oltre alla misurazione della pressione arteriosa si dovrebbe valutare
in modo accurato anche la frequenza cardiaca (esame del polso o ecg),
poiché il riscontro di valori alterati può associarsi a un rischio cardiovascolare maggiore, ad ipertono simpatico, ridotto tono vagale e a scompenso cardiaco. Durante l’esame obiettivo si dovrebbe ricercare la presenza di fattori di rischio addizionali, di segni suggestivi di ipertensione
secondaria e di danno d’organo; anche i segni obiettivi sono attualmente
supportati dai comuni esami strumentali quali ecografia dell’addome superiore, ecocardio, ecodoppler vascolare, ecc. oltre che esami bioumorali; esami peraltro diventati obbligatori non solo per l’assetto diagnostico cardiovascolare, ma anche per una prevenzione di eventuali altre
affezioni (tumori, ecc).
In ciascun paziente, posto in posizione ortostatica, si dovrebbe misurare la circonferenza addominale, il peso corporeo, l’altezza e calcolare l’indice di massa corporea.
4. ESAMI DI LABORATORIO
Gli esami bioumorali hanno lo scopo di accertare la presenza di fattori di rischio aggiuntivi (es. ipercolesterolemia, iperglicemia, ecc) ed alla
29
ricerca di elementi suggestivi di ipertensione secondaria nonché alla presenza o assenza di danno d’organo. La valutazione degli esami di laboratorio di routine dovrebbe includere: glicemia a digiuno, colesterolemia
totale, colesterolemia HDL e LDL, trigliceridi (a digiuno), uricemia, creatininemia, potassiemia, emoglobina ed ematocrito, esame delle urine mediante stick che permette di identificare la presenza di microalbuminuria, analisi del sedimento urinario ed un elettrocardiogramma.
Test di routine
a. Glicemia a digiuno
b. Colesterolemia totale
c. Colesterolemia HDL
d. Colesterolemia LDL
e. Trigliceridemia a digiuno
f. Potassiemia
g. Uricemia
h. Creatininemia plasmatici
i. Creatitniemia clearance
j. Emoglobina ed ematocrito
k. Analisi delle urine (completato da uno stick per la microalbuminuria
e da un’analisi del sedimento urinario
l. Elettrocardiogramma
Test raccomandati
m. Ecocardiogramma
n. Valutazione ultrsonografica carotidea
o. Misurazione quantitativa dell’albuminuria in presenza di stick positivo
p. Esame del fundus oculare
q. Curva da carico di glucosio (se la glicemia a digiuno è > 5.6 mmol (102
mg/dl)
r. Misurazione della pressione arteriosa a domicilio (automisurazione) ed
eventualmente monitoraggio delle 24 ore (ABPM)
Valutazioni più approfondite (compito dello specialista)
s. In caso di ipertensione complicata sono necessari ulteriori esami
per la ricerca di danno del cervello, cardiaco, renale e vascolare
t. Nel sospetto di ipertensione secondaria è consigliabile il dosaggio di
renina, aldosterone, ormoni cosrticosteroidei, catecolamine plasmatiche e/o urinarie, arteriografia; ecografia renale e surrenalica, tomografia assiale computerizzta, risonanza magnetica cerebrale.
30
5. ANALISI GENETICA
Spesso i pazienti ipertesi presentano una storia familiare positiva per
ipertensione arteriosa. Ciò suggerisce che fattori ereditari possono contribuire alla patogenesi della malattia. L’ipertensione arteriosa essenziale
ha un carattere fortemente eterogeneo che indirizza verso l’etiologia multifattoriale e la presenza di anomalie poligeniche. L’analisi genetica può
essere utile per confermare o escludere diagnosi specifiche.
6. VALUTAZIONE DEL DANNO D’ORGANO
Per danno d’organo si intende una alterazione strutturale degli organi
appartenenti all’apparato cardiovascolare (cuore, arterie, cervello, reni).
Si suole distinguere in danno d’organo clinico e sub-clinico in rapporto
alla gravità del medesimo; si parla di danno d’organo clinico se l’alterazione strutturale è di importanza tale da generare una sintomatologia clinica ben evidente, per esempio l’infarto del miocardio, lo scompenso di
cuore, l’angina, l’ictus cerebrale, l’insufficienza renale, ecc. Si parla invece di danno d’organo sub-clinico se l’alterazione è di grado lieve, o
meglio iniziale, che non determina una sintomatologia evidente ma è
ugualmente apprezzabile con le indagini strumentali (per es. l’ipertrofia
cardiaca lieve, l’ispessimento delle pareti delle arterie o la presenza di
placche, l’albuminuria, ecc.).
L’esame clinico accurato e le moderne tecniche diagnostiche sono
oggi in grado di identificare il danno d’organo nella fase sub-clinica e soprattutto di valutare la progressione dello stesso nel corso degli anni.
Ecco perché in presenza di uno o più fattori di rischio (per esempio ipertensione, dislipidemia, diabete, fumo, ecc.) è di fondamentale importanza
individuare precocemente l’eventuale danno d’organo. L’aspetto importante è dato dal fatto che gli studi clinici hanno dimostrato che il trattamento terapeutico del fattore di rischio, è in grado di arrestare o impedire la progressione del danno d’organo da fase sub-clinica a fase
conclamata. Tali studi hanno suggerito l’importanza della valutazione del
danno d’organo non solo nell’inquadramento clinico iniziale ma anche
e soprattutto nel corso del tempo per verificare l’efficacia del trattamento.
Cuore
L’elettrocardiogramma dovrebbe essere parte integrante della valutazione di routine dei pazienti ipertesi. Pur essendo ridotta la sensibilità
della metodica elettrocardiografia nell’identificare la presenza di ipertrofia
31
ventricolare sinistra, la positività di alcuni indici è in grado di predire futuri eventi cardiovascolari. Tale approccio tuttavia può essere utilizzato
come marker di danno cardiaco o della sua regressione durante il trattamento almeno nei pazienti di età superiore a 55 anni. L’esame elettrocardiografico è utile per identificare i segni di sovraccarico ventricolare (indicativi di un livello di rischio cardiovascolare più severo), la
presenza di difetti di conduzione e di aritmie, inclusa la fibrillazione
striale, di non raro riscontro nei pazienti ipertesi anziani.
La registrazione elettrocardigrafica secondo Holter trova la sua indicazione nel sospetto diagnostico di aritmie o di epidsodi ischemici silenti.
Essa inoltre può risultare utile per valutare la variabilità della frequenza
cardiaca, spesso ridotta nei soggetti ipertesi.
L’ecocardiogramma, anche se non esente da alcuni limiti importanti
(variabilità osservatore-dipendente, scarsa qualità delle immagini nei
soggetti obesi o in condizione di enfisema polmonare) è sicuramente più
sensibile rispetto all’elettrocardiogramma nell’identificazione della ipertrofia ventricolare sinistra e nel predire il rischio cardiovascolare. Questa
metodica risulta utile nella stratificazione del rischio cardiovascolare e nel
guidare l’intervento terapeutico. La valutazione ecocardiografica include
una misura del setto interventricolare, dello spessore della parete posteriore e del diametro telediastolico ventricolare sinistro. La ricognizione
di questi parametri è utile per valutare nel tempo l’evoluzione della ipertrofia cardiaca ma soprattutto verificare l’efficacia della terapia antipertensiva. Si è fatto cenno alla misura del setto interventricolare che normalmente ha uno spessore di 10 mm. Nei soggetti affetti da ipertensione
arteriosa è comune il riscontro di accresciemento progressivo di tale indice a 12 mm e più. L’efficacia della terapia antipertensiva si può misurare, non solo dalla normalizzazione dei valori pressori, ma anche da una
mancata progressione dell’ipertrofia miocardia, di cui lo spessore del
setto interventricolare è un indice abbastanza fedele.
Da un punto di vista funzionale l’esame ecocardiografico è utile per
valutare la funzione sistolica del ventricolo sinistro, la frazione di eiezione
e la frazione di accorciamento centro-parietale, che è stata proposta
come fattore predittivo dell’incidenza di eventi cardiovascolari. Lo stesso
approccio permette una stima della distensibilità diastolica del ventricolo
sinistro (la cosiddetta “funzione diastolica”) che può essere valutata
mediante tecnica doppler del rapporto tra le onde E / A del flusso transmitralico. Notevole interesse ha suscitato la possibilità che aspetti
32
ecocardiografici riconducibili alla “disfunzione diastolica” possano risultare predittivi della comparsa di scompenso cardiaco diastolico. Alterazioni della funzione diastolica sono di frequente riscontro nei pazienti
ipertesi. Si stima che circa un quarto dei pazienti ipertesi anziani presenti
tale alterazione, che può manifestarsi in assenza di modificazioni della
funzione sistolica e persino in assenza di ipertrofia ventricolare sinistra.
Alcuni studi hanno suggerito che la disfunzione diastolica si associa ad
un aumentato rischio di fibrillazione atriale. L’ecocardiografia può fornire
inoltre informazioni sulle dimensioni dell’atrio sinistro, correlate con il rischio di fibrillazione atriale e di eventi cardiovascolari morbosi e mortali.
Infine l’ecocardiografia può rilevare la presenza di ipocinesie ventricolari, cioè deficit distrettuali di contrattilità miocardica, espressione di ridotta
perfusione miocardica, cioè di coronaropatia. Ancor più significativa è la
valutazione della funzione coronarica con l’esame ecocardiografico in
corso di stress farmacologico che consente di porre una indicazione precisa all’angiografia coronarorica, in assenza di sintomatologia anginosa e,
in definitiva, contribuire ad attuare una efficace prevenzione della cardiopatia ischemica (infarto del miocardio, angina, ecc).
Sempre con l’esame ecocardiografico è possibile esplorare il tratto
iniziale dell’aorta per individuare aumenti del suo diametro e la presenza
di eventuali aneurismi.
Altre procedure diagnostiche, quali la TAC, la risonanza magnetica nucleare, la scintigrafia miocardia, il test da sforzo dovrebbero essere riservate a condizioni cliniche specifiche.
Vasi arteriosi
Sono disponibili numerosi approcci non invasivi per identificare le alterazioni della struttura e della funzione delle grandi arterie nell’ipertensione arteriosa. La valutazione ultrasonografica con l’ecodoppler vascolare delle arterie carotidi consente di misurare lo spessore della
parete delle arterie, il cosiddetto complesso intima-media, e la ricerca
delle placche ateromasiche; tale valutazione si è rivelata in grado di predire l’incidenza di ictus ed infarto del miocardio.
Per convenzione il limite normale del complesso intima-media oscilla
intorno a 0.9 mm ed il suo aumento è in diretta relazione con il rischio
cardiovascolare. Oltre allo spessore intima-media l’esame ecodoppler
delle arterie del collo (carotidi comuni, biforcazione carotidea, carotidi interne) è molto utile per individuare la presenza delle placche ateromasiche, tipiche alterazioni strutturali vascolari di frequente riscontro nei
33
pazienti ipertesi non trattati, negli ipercolesterolemici, nei fumatori accaniti e pertanto forniscono una stima più precisa sulla sussistenza del
danno d’organo vascolare e in definitiva del profilo del rischio cardiovascolare globale.
Rene
La diagnosi di danno renale legato ad uno stato ipertensivo si basa
sul riscontro di elevati livelli di creatinina sierica, di una riduzione della
clearance della creatinina o di una elevata escrezione urinaria di albumina. Una valutazione specialistica permette di diagnosticare il grado
di insufficienza renale e di conseguenza la gravità del rischio cardiovascolare.
Mentre un aumento della creatininemia indirizza verso una riduzione
della filtrazione glomerulare, un incremento dell’escrezione urinaria di albumina o di proteine suggerisce un’alterazione della membrana deputata alla filtrazione glomerulare; infatti la microalbuminuria si è dimostrata
in grado di predire uno sviluppo di nefropatia diabetica conclamata sia
nei diabetici di tipo 1 che di tipo 2.
Il riscontro pertanto di una compromissione della funzione renale in
un paziente iperteso, documentata da un’alterazione dei marker sopra
ricordati, è frequente e rappresenta un elemento in grado di predire in
modo accurato al morbosità e mortalità cardiovascolari.
Encefalo
Il danno d’organo cerebrale può essere rilevato mediante un attento
esame clinico neurologico e gli esami strumentali con tecniche di immagine. La tomografia computerizzata del cranio (TC) e la risonanza
magnetica nucleare (RMN) consentono di rilevare le alterazioni vascolari cerebrali, sia quelle di grande importanza quali l’ictus cerebrale
ischemico o emorragico, che quelle di piccole dimensioni peraltro passate inosservate come gli infarti cerebrali silenti. Queste ultime alterazioni si verificano spesso nei pazienti ipertesi anziani associandosi
in genere ad aumentato rischio di ictus e deterioramento cognitivo o
demenza.
Nonostante la rilevanza clinica di queste osservazioni, la ridotta disponibilità e gli elevati costi delle metodiche non ne permettono un impiego diffuso per la valutazione diagnostica degli ipertesi anziani. La metodica comunque è raccomandata in tutti gli ipertesi che presentano
disturbi neurologici ed in particolare perdita di memoria. Infine, poiché i
34
disturbi cognitivi dell’anziano sono, almeno in parte, correlati all’ipertensione, il ricorso a test di valutazione cognitiva dovrebbe avvenire più
spesso nella valutazione clinica del paziente iperteso anziano.
IL TRATTAMENTO TERAPEUTICO
Gli studi clinici hanno ormai dimostrato che la terapia antipertensiva
si è dimostrata efficace nel far regredire o rallentare la progressione del
danno d’organo (microalbuminuria, ipertrofia ventricolare sinistra) e si associa ad una riduzione degli eventi cardiovascolari fatali e non fatali.
È ormai dimostrato che:
1. Il trattamento antipertensivo induce una significativa riduzione
della morbosità e mortalità cardiovascolare e in parte della mortalità globale.
2. I benefici del trattamento sono evidenti anche nei pazienti anziani,
inclusi i pazienti con ipertensione sistolica isolata.
3. La riduzione del rischio cardiovascolare è simile nei due sessi e nei
diversi gruppi etnici (razza caucasica, asiatica e nera).
4. Il trattamento antipertensivo si associa ad una maggiore riduzione
del rischio di eventi cerebrovascolari fatali e non fatali (circa il 3040%) rispetto a quelli coronarici (circa 20%).
5. Esso rallenta lo sviluppo dello scompenso cardiaco.
6. Ogni qual volta si ottiene una riduzione della pressione arteriosa sistolica pari a 10 mm Hg si osserva una riduzione di ictus e di eventi
coronarici del 20-30% indipendentemente dal farmaco antipertensivo impiegato.
7. È stato anche rilevato come la riduzione dei valori pressori con terapia farmacologica potrebbe avere di per sé un certo effetto antiaterogeno nel senso che potrebbe rallentare la progressione dello
spessore medio-intimale della parete carotidea a livello della biforcazione, nel ridurre la progressione della placca e nel favorirne la regressione.
8. Per quanto riguarda la funzione cognitiva è stato rilevato un lieve ma
significativo miglioramento della funzione cognitiva rispetto al placebo per differenze pressorie pari a 4.8/2.6 mmHg.
9. Effetto benefico sulla funzione renale è stato rilevato con un trattamento antipertensivo purché attuato in maniera più aggressiva in
termini di controllo della PA intorno a valori al di sotto di 120/80
mmHg.
35
10. Diabete di nuovo riscontro. È stato rilevato che diabete e ipertensione sono spesso presenti contemporaneamente nello stesso paziente, con un impatto particolarmente deleterio sulla morbosità e
mortalità cardiovascolari. Da segnalare inoltre che alcuni studi clinici hanno rilevato l’incidenza di nuovi casi di diabete verosimilmente provocati da effetti metabolici sfavorevoli da parte di numerosi farmaci antipertensivi. Lo studio SHEP del 2005 è l’unico studio
con controllo placebo che ha valutato l’insorgenza di nuovo diabete
in corso di terapia antipertensiva, evidenziando una maggior incidenza di questa affezione nel gruppo di pazienti in trattamento attivo (diuretico tiazidico e beta-bloccante).
Infine i risultati di una recente meta-analisi, che ha incluso 22 studi e
160.000 pazienti hanno messo in evidenza che l’effetto antidiabetogeno della terapia antipertensiva è maggiore per i farmaci antagonisti dell’angiotensina 2 (sartani) e ACE-inibitori; seguono i calcio-antagonisti e il placebo (effetto neutro). Betabloccanti e diuretici
presentano invece effetti prodiabetogeni.
Quando iniziare il trattamento antipertensivo
La decisione di quando iniziare il trattamento antipertensivo si deve
basare su due elementi:
a. I livelli di pressione arteriosa sistolica e diastolica uguali o maggiori
di 135/85 mmHg.
b. Il livello di rischio cardiovascolare globale (moderato, elevato e molto
elevato).
Tutti i pazienti che, dopo ripetute misurazioni pressorie, presentano
un’ipertensione di grado 2 e 3 dovrebbero essere candidati al trattamento antipertensivo. Ciò perché, come ampiamente descritto nelle
Linee Guida ESH/ESC 2003, numerosi trial clinici con controllo placebo
hanno mostrato che la riduzione dei valori pressori indotta dal trattamento si associa ad una minore incidenza di eventi cardiovascolari
morbosi e mortali indipendentemente dal rischio totale. Anche se le evidenze relative ai benefici del trattamento antipertensivo nei pazienti con
ipertensione di grado 1 sono limitate, è confermata la raccomandazione
di trattare valori pressori sistolici pari o superiori a 140 mm Hg.
In tutti i pazienti ipertesi (gradi, 1, 2 e 3) sono raccomandate le modifiche dello stile di vita non appena viene posta o sospettata la diagnosi
di ipertensione. Tuttavia, anche i questi pazienti la mancanza di un controllo pressorio dopo l’impostazione di misure non farmacologiche richiede comunque l’impiego della terapia farmacologica.
36
Obiettivi del trattamento
L’obiettivo primario del trattamento del paziente iperteso è quello di
ottenere la massima riduzione del rischio di mortalità e morbosità cardiovascolari a lungo termine. Questo obiettivo richiede il trattamento di
tutti i fattori rischio identificabili e reversibili, che comprendono il fumo,
la dislipidemia, l’obesità addominale o il diabete, un trattamento appropriato delle condizioni cliniche associate, nonché il trattamento degli elevati valori di pressione arteriosa.
Obiettivi pressori nei pazienti diabetici ed in quelli a rischio elevato
e molto elevato
Per ottenere la massima protezione cardiovascolare nei pazienti diabetici è raccomandato un trattamento antipertensivo più rigoroso ed un
controllo della PA inferiore a 130 / 80 mmHg.
Per i pazienti non diabetici ma che presentano altri fattori di rischio,
le informazioni più solide riguardano i pazienti con pregresso ictus o attacco ischemico cerebrale transitorio. Nello studio PROGRESS condotto in un gruppo di pazienti con storia di malattia cerebrovascolare,
è stata rilevata una riduzione del 28% di recidive di ictus e del 26% di
eventi cardiovascolari maggiori rispetto al gruppo placebo e i valori di
PA sono stati ridotti da 147/86 mmHg a 138/82 mmHg. Tali benefici cardiovascolari sono stati osservati anche nei soggetti normotesi nei
quali la PA veniva ridotta, durante la terapia, a valori pari a 127/75
mmHg. Anche gli studi che hanno confrontato la terapia attiva versus
placebo in pazienti con angina pectoris o con coronaropatia hanno dimostrato che l’incidenza di eventi cardiovascolari è minore quando si
raggiungono valori pressori particolarmente ridotti, in genere intorno a
125/75 mmHg.
Nei pazienti affetti da nefropatia diabetica si ritiene che un obiettivo
pressorio inferiore a 130/80 mmHg possa ripercuotersi favorevolmente
sulla progressione della malattia renale, specie in presenza di proteinuria.
Obiettivi della misurazione della pressione domiciliare
In considerazione dell’evidenza che la pressione domiciliare ha rilevanza prognostica, questa metodica è sempre più utilizzata per valutare
l’efficacia clinica del trattamento. È stato dimostrato che, pur a parità di
pressione clinica, valori pressori ridotti con la misurazione domiciliare si
associano ad una minor incidenza di eventi cardiovascolari.
37
MODIFICHE DELLO STILE DI VITA
Quando necessarie, le modificazioni dello stile di vita dovrebbero essere suggerite ed attuate in tutti i pazienti, compresi i soggetti con pressione arteriosa normale-alta ed in quei pazienti che richiedono un trattamento farmacologico. La finalità è quella di ridurre la pressione
arteriosa, di correggere gli altri fattori di rischio e le condizioni cliniche
associate; di ridurre il numero e la posologia dei farmaci antipertensivi
da utilizzare. Le modifiche dello stile di vita che si ritiene riducano i valori pressori o il rischio cardiovascolare sono:
1.
2.
3.
4.
5.
6.
L’abolizione del fumo
Il calo ponderale nei pazienti in sovrappeso.
La riduzione dell’eccessivo consumo di acol.
L’esercizio fisico.
La riduzione del consumo di sodio nella dieta.
L’incremento di frutta e verdura e la riduzione della quantità totale di
grassi nell’alimentazione ed in particolare di grassi saturi.
L’adozione di queste misure non dovrebbe in alcun modo procrastinare l’impostazione del trattamento farmacologico, specialmente nei
soggetti a rischio elevato o molto elevato.
1.1 Abolizione del fumo
È noto che il fumo aumenta la pressione arteriosa e la frequenza cardiaca e che questi effetti perdurano ben oltre i 15 minuti necessari per
fumare una sigaretta. L’incremento pressorio è dovuto alla stimolazione
del sistema nervoso simpatico sia a livello centrale che periferico con
conseguente aumento delle catecolamine plasmatiche. La tecnica del
monitoraggio della PA nelle 24 ore ha rilevato che nei fumatori normotesi o ipertesi non trattati i valori pressori diurni sono più elevati rispetto
a quelli dei non fumatori, specialmente nei fumatori accaniti.
Il fumo è un importante fattore di rischio cardiovascolare e la sua cessazione è probabilmente l’intervento non farmacologico più efficace per la
prevenzione di molte malattie cardiovascolari, inclusi l’ictus e l’infarto del
miocardio. Ciò è confermato dall’evidenza che coloro che smettono di fumare prima della mezza età hanno un’aspettativa di vita sovrapponibile a
quella dei non fumatori. Si dovrebbe sempre raccomandare, quindi, come
intervento non farmacologico la cessazione dal fumo.
Se si ritiene necessario, può essere presa in considerazione la tera38
pia sostitutiva con nicotina o bupropione. La vareniclina è una nuova
molecola selettiva che antagonizza parzialmente il recettore nicotinico,
appositamente studiata per favorire l’abolizione dal fumo.
1.2 Moderato consumo di bevande alcoliche
Numerosi studi clinici hanno dimostrato che esiste una relazione
particolare tra consumo di alcol e mortalità. Secondo questa relazione
un consumo lieve o moderato di bevande alcoliche si associa ad una minore mortalità mentre un consumo alcolico rilevante comporta una maggiore mortalità.
È comunque accertato che un eccessivo consumo di bevande alcoliche (anche occasionale) si associa ad un maggiore rischio di ictus. L’alcol attenua gli effetti dei farmaci antipertensivi. Alcuni studi hanno rilevato che la restrizione del consumo di alcol ha un chiaro effetto
antipertensivo e che si dovrebbe sempre consigliare ai pazienti ipertesi
che fanno uso di bevande alcoliche di limitarne il consumo ad una
quantità non superiore a 20-30 g di etanolo al giorno per gli uomini e 1020 g per le donne.
Si dovrebbe, inoltre ricordare, che l’assunzione occasionale di eccessive quantità di alcol si associa comunque ad un aumentato rischio
di eventi cerebrovascolari.
1.3 Riduzione di apporto di sodio nella dieta
Gli studi epidemiologici hanno suggerito che l’apporto alimentare di
sodio è in grado di ridurre un incremento della pressione arteriosa e della
prevalenza della ipertensione. Altri studi hanno peraltro dimostrato che
una riduzione del consumo alimentare di sodio a 80 – 100 mmol (4.7 –
5.8 g) al giorno riduce la pressione arteriosa di circa 4-6 mmHg anche
se con ampia variabilità interindividuale. La riduzione dell’introito alimentare di sodio, se associata ad altri interventi dietetici, può avere effetti antipertensivi più spiccati e quindi consentire una riduzione della posologia dei farmaci antipertensivi utilizzati.
Le raccomandazioni più recenti suggeriscono di ridurre l’introito giornaliero di sodio da 100 a 65 mmol (3.8 g/die), misura quest’ultima
spesso di difficile attuazione. Un obiettivo meno ambizioso (e quindi di
più facile attuazione) consiste nella riduzione dell’apporto giornaliero di
sale a meno di 5 g/die (85 mmol/die).
39
1.4 Altri interventi dietetici
Nel corso degli ultimi dieci anni, l’introduzione di alcuni accorgimenti
dietetici proposti dallo studio DASH (dieta ricca in frutta e verdura, vegetali e alimenti a basso contenuto di grassi per ridurre l’apporto quotidiano di grassi saturi e colesterolo) e l’incremento dell’impiego di cibi ad
elevato contenuto di potassio si sono dimostrati strumenti efficaci per ridurre i valori pressori.
Come regola generale si dovrebbe consigliare ai pazienti ipertesi di
mangiare più frutta e verdura (300 g di verdura al giorno) più pesce e di
ridurre l’apporto di grassi saturi e colesterolo.
1.5 Calo ponderale
Numerosi studi hanno descritto l’esistenza di una relazione diretta tra
l’aumento di peso e incremento della pressione arteriosa e che la vera
obesità predispone allo sviluppo di ipertensione. È altrettanto noto che
nei soggetti obesi il calo ponderale ha un impatto favorevole non solo sui
valori pressori ma anche sui fattori di rischio associati quali l’insulino-resistenza, il diabete, l’ipertrofia ventricolare sinistra e la sindrome delle apnee notturne. I risultati di un recente studio hanno rilevato che una perdita di peso di circa 5.1 kg si associa ad una riduzione media dei valori
pressori sisto-diastolici pari, rispettivamente, a 4.4. e a 3.6 mmHg. Poiché il peso corporeo tende ad aumentare progressivamente negli individui di mezza età (0.5-1.5 kg all’anno), si dovrebbe cercare di raggiungere una stabilizzazione del peso corporeo.
1.6 Esercizio fisico
La sedentarietà, intesa come assenza di esercizio fisico, è un predittore piuttosto importante della mortalità cardiovascolare, indipendentemente dalla pressione arteriosa e dagli altri fattori di rischio. Uno studio
recente ha dimostrato che l’esercizio fisico dinamico aerobico riduce i
valori della pressione arteriosa sisto-diastolica a riposo rispettivamente
di 3.3 / 2.4 mmHg e quelli diurni (registrazione pressoria delle 24 ore) rispettivamente di 3.3 / 3.5 mmHg. Interessante rilevare come la riduzione
della pressione arteriosa è risultata maggiore negli ipertesi (-6.9 / -4.9
mmHg) rispetto ai normotesi (-1.9 / -1.6 mmHg).
Un esercizio fisico moderato non solo ha effetti favorevoli sui valori
pressori ma può indurre anche una riduzione del peso corporeo, dell’eccesso di grasso viscerale e della circonferenza addominale, incrementando
inoltre la sensibilità tissutale all’insulina e il livelli di colesterolo HDL.
40
Si dovrebbe consigliare ai pazienti sedentari di svolgere regolarmente un’attività fisica aerobica di entità moderata per 30-45 minuti al
giorno caratterizzata in genere da cammino, nuoto, jogging, bicicletta.
È bene attuare una corretta valutazione clinica del paziente prima di
intraprendere un programma di attività fisica relativamente non solo al
tipo e intensità dell’esercizio, ma anche ai sintomi, al profilo cardiovascolare globale e condizioni cliniche associate.
L’esercizio isometrico intenso, quale quello indotto dal sollevamento
pesi, può avere un effetto pressorio e dovrebbe conseguentemente essere sconsigliato.
Infine nei pazienti che non mostrano un buon controllo pressorio si
dovrebbe evitare l’esercizio fisico o proporlo solo quando sia stato istituito un trattamento farmacologico adeguato.
BENEFICI DEL TRATTAMENTO FARMACOLOGICO
La stragrande maggioranza degli studi clinici, finalizzati a paragonare
il trattamento attivo nei confronti del placebo o di tipi diversi di trattamento attivo, hanno confermato quanto già messo in evidenza nelle linee guida ESH/ESC del 2003, e cioè che:
- I principali benefici della terapia antipertensiva dipendono dalla riduzione degli elevati valori pressori di per sé e solo in parte dal tipo di
farmaco impiegato
- I diuretici tiazidici (come il clortalidone e l’indapamide), i beta-bloccanti, i calcio-antagonisti, gli ACE-inibitori e i bloccanti recettoriali dell’angiotensina II sono tutti farmaci dotati di un’efficacia antipertensiva
ben documentata e in grado di ridurre in modo significativo l’incidenza
degli eventi cardiovascolari fatali.
È quindi possibile concludere che le classi principali dei farmaci antipertensivi sono tutte indicate come scelta terapeutica con cui iniziare e
proseguire il trattamento, sia in monoterapia che in associazione. Anche
se le cinque classi di farmaci hanno differenti proprietà terapeutiche e caratteristiche specifiche. Infatti è stato rilevato che i beta-bloccanti pare
non abbiano alcun effetto in termini di protezione cerebrovascolare nonostante gli effetti favorevoli sugli eventi coronarici morbosi e mortali. Pertanto la terapia con beta-bloccanti dovrebbe essere riservata a quei pazienti con storia di angina pectoris, scompenso cardiaco e recente infarto
del miocardio, e cioè le principali complicanze dello stato ipertensivo.
I beta-bloccanti non dovrebbero essere prescritti negli ipertesi con
41
sindrome metabolica o in presenza di obesità addominale, alterata glicemia a digiuno, intolleranza ai carboidrati o rischio diabetogeno elevato,
in quanto inducono un aumento del peso corporeo, hanno effetti sfavorevoli sul metabolismo glico-lipidico e favoriscono più spesso rispetto ad
altre classi di farmaci antipertensivi lo sviluppo di diabete.
Analoghe conclusioni valgono per i diuretici tiazidici.
Queste considerazioni, tuttavia, non necessariamente riguardano i betabloccanti di nuova generazione, come il carvedilolo ed il nebivololo, che,
rispetto ai classici beta-bloccanti, dimostrano un minor effetto diabetogeno.
Gli ACE-inibitori e gli antagonisti recettoriali dell’angiotensina II si sono
dimostrati in grado di favorire la regressione dell’ipertrofia ventricolare sinistra inclusa la componente fibrotica, di ridurre la microalbuminuria e la
proteinuria e di rallentare la progressione della disfunzione renale.
I Calcio-antagonisti si sono rivelati più efficaci nel rallentare la progressione del processo aterogeno e l’ipertrofia vascolare a livello delle
carotidi.
Di prossimo impiego sarà un nuovo agente antipertensivo, l’aliskiren, che
agisce bloccando l’azione della renina; è di comprovata efficacia antipertensiva sia in monoterapia che in associazione con un diuretico tiazidico.
Poiché nella stragrande maggioranza dei pazienti è necessario impiegare due o più farmaci antipertensivi in associazione per raggiungere
l’efficacia terapeutica, non risulta utile sul piano pratico definire quale sia
la classe di farmaci di prima scelta terapeutica.
SCELTA DEI FARMACI ANTIPERTENSIVI
I principali benefici della terapia antipertensiva dipendono dalla riduzione dei valori di PA
Le cinque classi principali di farmaci antipertensivi – diuretici, calcioantagonisti, ACE-inibitori, inibitori dell’angiotensina II (detti sartani) e beta-bloccanti – sono tutte indicate come scelta terapeutica con
cui iniziare e proseguire il trattamento, sia in monoterapia sia in associazione. I beta-bloccanti, specie se associati ad un diuretico, sono
sconsigliati nei pazienti con sindrome metabolica o ad alto rischio diabetogeno.
Poiché nella stragrande maggioranza dei pazienti è necessario impiegare due o più farmaci antipertensivi per raggiungere l’efficacia terapeutica non è utile sul piano pratico definire quale sia la classe di prima
42
scelta. I risultati di alcuni studi clinici hanno tuttavia dimostrato la superiorità di alcune classi di farmaci rispetto ad altre in alcune condizioni cliniche particolari.
Scelta dei farmaci antipertensivi
Danno d’organo subclinico
Ipertrofia ventricolare sinistra
Aterosclerosi asintomatica
Microalbuminuria
Danno renale
Eventi patologici
Pregresso ictus
ACEI, CA, ARB
CA, ACEI
ACEI. ARB
ACEI, ARB
qualsiasi farmaco dotato
di efficacia antipertensiva
Pregresso infarto acuto
del miocardio
Angina pectoris
Scompenso cardiaco
BB, ACEI, ARB
BB, CA
Diuretici, BB, ACEI,
antialdosteronici
Fibrillazione atriale
Parossistica
Permanente
Vasculopatia periferica
ARB, ACEI
BB, CA non diidropiridinici
CA
Condizioni particolari
Ipertensione sistolica isolata (anziano)
Sindrome metabolica
Diabete mellito
Gravidanza
Razza nera
Diuretici, CA
ACEI, ARB, CA
ACEI, ARB
CA, metildopa, BB
Diuretici, CA
ACEI: ACE-inibitori, ARB: bloccanti recettoriali dell’angiotensina II; CA:
calcio-antoagonisti; BB: beta-bloccanti
MONOTERAPIA
La terapia antipertensiva può essere iniziata con un singolo farmaco,
che dovrebbe essere impiegato a basso dosaggio. Se la pressione non
risulta essere ben controllata si può potenziare la sua posologia oppure
si può impiegare in sostituzione un farmaco di un’altra classe (che ini43
zialmente può essere prescritto a basse dosi per poi essere impiegato
a pieno dosaggio). In caso di mancata efficacia antipertensiva o di comparsa di effetti collaterali si raccomanda di sostituire il farmaco con un
altro appartenente ad un’altra classe.
Questo approccio terapeutico, noto con il termine di “monoterapia sequenziale” permette di identificare il composto a cui il singolo paziente risponde nel migliore dei modi sia in termini di efficacia che di tollerabilità.
TERAPIA DI ASSOCIAZIONE
La maggior parte degli studi clinici ha rilevato che il raggiungimento
dell’obiettivo pressorio si può ottenere con l’impiego di una terapia di associazione tra due o più farmaci antipertensivi. I vantaggi della terapia
di associazione sono rappresentati dalla possibilità di impiegare due farmaci a basso dosaggio, avendo così maggiori probabilità di evitare la
comparsa di effetti collaterali. La formulazione farmacologica di una associazione fissa nella stessa compressa consente di semplificare la
schema terapeutico e ottimizzare l’adesione (compliance) alla terapia. Ed
è più probabile ottenere un adeguato controllo pressorio in un tempo più
breve rispetto alla monoterapia; questo è particolarmente importante nei
pazienti a rischio cardiovascolare elevato.
Qualsiasi sia il farmaco scelto, la monoterapia permette di ridurre
i valori pressori solo in un numero limitato di soggetti ipertesi.
Nella maggior parte dei pazienti per raggiungere l’obiettivo pressorio è necessario impiegare una terapia di associazione tra due o
più farmaci. Sono disponibili molte associazioni farmacologiche efficaci e ben tollerate.
Il trattamento farmacologico dovrebbe essere iniziato con un solo
farmaco o con una terapia di associazione tra due farmaci a basso
dosaggio, con la possibilità di incrementare la dose o il numero di
farmaci a seconda delle necessità cliniche.
La monoterapia rappresenta la scelta terapeutica iniziale in
presenza di valori pressori moderatamente aumentati con un profilo di rischio cardiovascolare totale basso o moderato. Una terapia di associazione tra due farmaci a basso dosaggio dovrebbe
rappresentare la scelta terapeutica iniziale in caso di ipertensione
44
di grado 2 o 3 o di rischio cardiovascolare totale elevato o molto
elevato.
Le associazioni fisse tra due farmaci facilitano lo schema terapeutico e aumentano la compliance (adesione alla terapia).
Nei pazienti nei quali non viene raggiunto un buon controllo
pressorio nonostante la terapia con due farmaci, sarà necessario
utilizzare una combinazione di tre o più farmaci.
Nei pazienti non complicati e negli anziani il trattamento farmacologico dovrebbe essere iniziato gradualmente. Nei pazienti a rischio cardiovascolare elevato si dovrebbe raggiungere il target
pressorio più rapidamente, preferendo una terapia di associazione
e una più rapida stabilizzazione delle posologie.
Le associazioni tra due farmaci che si sono rivelate negli studi clinici dotate di maggiore efficacia e tollerabilità sono:
Diuretici tiazidici e ACE-inibitori
Diuretici tiazidici e bloccanti recettoriali dell’angiotensina II
Calcio-antagonisti e ACE-inibitori
Calcio-antagonisti e bloccanti recettoriali dell’angiotensina II
Calcio-antagonisiti e diuretici tiazidici
Beta-bloccanti e calcio-antagonisti (diidropiridinici)
INTERVENTI TERAPEUTICI IN SPECIFICHE CONDIZIONI CLINICHE
Terapia antipertensiva nel paziente anziano
Gli studi clinici randomizzati hanno rilevato che i benefici della
terapia antipertensiva, in termini della riduzione della morbosità e
mortalità cardiovascolari, sono evidenti anche nei pazienti di età
≥ 60 anni affetti da ipertensione sisto-diastolica o sistolica isolata.
Il trattamento farmacologico dovrebbe iniziare con diuretici tiazidici, calcio-antagonisti, bloccanti recettoriali dell’angiotensina II, ACEinibitori e beta-bloccanti. Gli studi condotti nell’ipertensione sistolica
isolata hanno dimostrato gli effetti favorevoli dei diuretici tiazidici e dei
calcio-antagonisti. Una sub-analisi di altri studi ha evidenziato anche
l’efficacia dei bloccanti recettoriali dell’angiotensina II.
45
Nell’impostazione della terapia iniziale e nelle eventuali modifiche terapeutiche successive si deve utilizzare un basso dosaggio.
Nel paziente anziano infatti dosaggi elevati aumentano l’incidenza
degli effetti collaterali.
L’obiettivo terapeutico è quello già definito per i soggetti più
giovani e cioè con valori pressori pari o inferiori a 140/90 mmHg. I
pazienti in età più avanzata necessitano di due o più farmaci per
raggiungere un buon controllo pressorio, tenendo presente che
spesso è difficile ridurre la pressione sistolica a valori inferiori a 140
mmHg.
Il trattamento farmacologico dovrebbe essere modulato sulla
presenza di fattori di rischio aggiuntivi, di danno d’organo e di affezioni cardiovascolari e non cardiovascolari, di frequente riscontro
nell’anziano. Poiché con l’aumentare dell’età aumenta il rischio di
ipotensione ortostatica la misurazione della pressione dovrebbe
includere anche misurazioni di PA in ortostatismo.
Non vi sono evidenze univoche sui benefici del trattamento antipertensivo nei pazienti di età pari o superiore agli 80 anni. Se ben tollerata ed efficace, la terapia può essere proseguita oltre questa età.
Terapia antipertensiva nel paziente diabetico
Le principali forme cliniche del diabete sono caratterizzate da una condizione di iperglicemia ed includono il diabete di tipo 1, di riscontro elettivo nei soggetti più giovani e caratterizzato da una distruzione delle cellule pancreatiche beta con deficit assoluto di insulina e diabete di tipo 2
caratteristico della popolazione di mezza età o dell’età più avanzata che
include forme caratterizzate prevalentemente da insulino-resistenza (specialmente nel distretto muscolare scheletrico che metabolizza una quota
consistente di glucosio). Il diabete di tipo 2 è la forma più comune, con
una incidenza 10-20 volte maggiore al diabete di tipo 1. La prevalenza di
ipertensione nei pazienti diabetici di tipo 2 è assai elevata, pari al 70-80%.
È stato ampiamente dimostrato che la coesistenza di ipertensione e
diabete (di tipo 1 e 2) incrementa in maniera considerevole lo sviluppo
di danno d’organo sistemico e renale, l’incidenza di ictus, malattia coronarica, scompenso cardiaco, vasculopatia periferica e favorisce l’aumento della mortalità cardiovascolare.
Gli studi clinici hanno permesso di concludere che anche nel diabete
il beneficio della terapia antipertensiva dipende in gran parte dalla ridu46
zione della pressione arteriosa a valori inferiori a 130 / 80 mmHg. Ed in
tutti i pazienti si dovrebbero consigliare rigorose modifiche dello stile di
vita con particolare riguardo agli interventi (dieta ed esercizio fisico) che
favoriscono il calo ponderale. Ciò perché sovrappeso ed obesità sono
condizioni di frequente riscontro nel diabete di tipo 2.
Tutti i farmaci antipertensivi possono essere considerati di prima
scelta terapeutica, tenendo presente che il raggiungimento di un adeguato controllo pressorio è spesso difficile e che frequentemente si
deve ricorrere ad una terapia di associazione tra due o più farmaci.
I beta-bloccanti ed i diuretici non rappresentano i farmaci di prima
scelta terapeutica perché peggiorano il grado di insulino-resistenza e determinano un incremento del numero o della posologia dei farmaci antidiabetici utilizzati.
Le evidenze disponibili suggeriscono che in presenza di microalbuminuria o di nefropatia diabetica il trattamento antipertensivo dovrebbe
essere iniziato con un farmaco che agisce bloccando il sistema reninaangiotensina come gli ACE-inibitori o gli inibitori recettoriali dell’angiotensina II.
Infine nei pazienti diabetici dovrebbe essere consigliato anche l’impiego dei farmaci ipolipemizzanti, come suggerito dallo studio CARDS,
che ha dimostrato gli effetti benefici di questa classe di farmaci nei pazienti diabetici.
In tutti i pazienti diabetici di tipo 2 si dovrebbero consigliare rigorosi
interventi di tipo non farmacologico, quali il calo ponderale e la dieta iposodica.
L’obiettivo del trattamento è il raggiungimento di valori pressori inferiori a 130/80 mmHg. Il trattamento farmacologico dovrebbe essere iniziato anche quando i valori pressori sono nel range normale-alto.
Per raggiungere questo obiettivo pressorio possono essere impiegati
tutti i farmaci di comprovata efficacia e tollerabilità. Spesso è necessario ricorrere ad una terapia di associazione.
Le evidenze disponibili suggeriscono che la riduzione pressoria ha effetti di nefroprotezione. Un effetto di nefroprotezione additivo può essere
ottenuto con l’impiego di un bloccante del sistema renina-angiotensina
(sartano o ACE-inibitore).
Il trattamento di associazione dovrebbe includere un bloccante del sistema renina-angiotensina, che dovrebbe rappresentare il farmaco di
47
scelta in caso di monoterapia.
Il riscontro di microalbuminuria rappresenta una indicazione all’impiego della terapia farmacologica antipertensiva, anche in presenza di
valori pressori normali-alti. I farmaci bloccanti il sistema renina-angiotensina svolgono importanti effetti antiproteinurici. Questi farmaci dunque rappresentano la prima scelta terapeutica.
Le strategie terapeutiche devono prendere in considerazione anche
l’intervento sui fattori di rischio cardiovascolare. Tale intervento include
l’impiego di una statina.
La misurazione della pressione arteriosa deve essere eseguita anche
in ortostatismo a causa della elevata probabilità di riscontro di ipotensione posturale.
TERAPIA ANTIPERTENSIVA NEI PAZIENTI NEFROPATICI
La nefropatia e l’insufficienza renale sono caratterizzate da un rischio
cardiovascolare molto elevato.
La nefroprotezione nel paziente diabetico si deve basare su: a) un rigoroso controllo pressorio (valori pressori inferiori a 130/80 mmHg o addirittura più bassi se è presente una proteinuria >1g/die) e b) una riduzione o se possibile una normalizzazione della proteinuria.
Per ottenere una efficace riduzione pressoria è di solito necessario ricorrere ad una terapia di associazione tra diversi farmaci (inclusi i diuretici dell’ansa).
Per ridurre la proteinuria è necessario l’impiego di un bloccante dell’angiotensiva II, di un ACE-inibitore o di entrambi.
Spesso nei pazienti nefropatici deve essere preso in considerazione
un intervento terapeutico mirato (farmaci antipertensivi, statine e antiaggreganti piastrinici) in quanto il rischio cardiovascolare di questi pazienti è estremamente elevato.
TERAPIA ANTIPERTENSIVA NEI PAZIENTI CON AFFEZIONI CEREBROVASCOLARI
Nei soggetti con storia di ictus o attacco ischemico transitorio, la terapia antipertensiva è in grado di ridurre drasticamente le recidive di ic48
tus e il rischio di eventi cardiaci associati.
I benefici del trattamento antipertensivo si evidenziano sia nei pazienti
ipertesi sia in quelli con valori pressori nel range normale-alto. L’obiettivo terapeutico è raggiungere valori pressori inferiori a 130/80 mmHg.
I risultati degli studi clinici suggeriscono che i benefici della terapia
sono legati alla riduzione pressoria. Può essere quindi utilizzato da solo
o in terapia di associazione qualsiasi farmaco. La stragrande maggioranza delle informazioni riguardano gli Ace-inibitori o i bloccanti recettoriali dell’angiotensina II, in associazione alla terapia convenzionale o
diuretica. Sono necessari ulteriori studi per chiarire gli effetti di protezione
cerebrovascolare di questi farmaci.
Non sono ancora ben definiti i benefici legati alla riduzione pressoria
durante la fase acuta di un ictus. I numerosi studi in corso di esecuzione
contribuiranno a chiarire questo aspetto. Vi è invece accordo sul fatto che
il trattamento antipertensivo dovrebbe essere iniziato in condizioni di stabilità clinica, di solito dopo diversi giorni dall’evento acuto. Rimangono
da valutare con attenzione gli effetti della terapia antipertensiva sullo sviluppo o progressione della demenza e del deficit cognitivo (che colpiscono rispettivamente il 5% e il 15% della popolazione di età ≥ 65 anni.
È noto che lo stato ipertensivo provoca alterazioni del microcircolo,
responsabili dello sviluppo di infarti lacunari e di lesioni della sostanza
bianca, di frequente riscontro nei pazienti ipertesi con deterioramento cognitivo.
In alcuni studi clinici il deterioramento cognitivo e la comparsa di demenza sembrano in relazione diretta con i valori pressori. È accertato che
la comparsa di queste due complicanze può essere ritardata dal trattamento antipertensivo.
TERAPIA ANTIPERTENSIVA NEI PAZIENTI CON MALATTIA CORONARICA E SCOMPENSO CARDIACO
Nei pazienti con pregresso infarto del miocardio la somministrazione
precoce di beta-bloccanti, ACE-inibitori o antagonisti recettoriali dell’angiotensina II riduce la mortalità e le recidive di infarto. Questi effetti
favorevoli sono imputabili alle proprietà cardioprotettive di questi farmaci
49
e in parte anche alla riduzione pressoria.
La terapia antipertensiva è risultata efficace anche nei pazienti ipertesi con malattia coronarica. Gli effetti favorevoli si manifestano con l’impiego di diverse associazioni farmacologiche (compresi i calcio-antagonisti) e correlano con l’entità della riduzione pressoria ottenuta.
Benefici sono stati rilevati anche in presenza di valori pressori inferiori a
140/90 mmHg o addirittura inferiori a 130/80 mmHg.
Il riscontro anamnestico di ipertensione è frequente nei pazienti con
scompenso cardiaco congestizio, anche se i valori pressori sono
spesso ridotti a causa della riduzione della gittata cardiaca. La terapia dovrebbe includere i diuretici tiazidici o dell’ansa in aggiunta a
beta-bloccanti, ACE inibitori, sartani e antialdesteronici. I calcio-antagonisti dovrebbero essere evitati se non per controllare la sintomatologia anginosa.
Nei pazienti con storia di ipertensione non è infrequente il riscontro di una disfunzione diastolica del ventricolo sinistro. Tale riscontro si associa ad una prognosi sfavorevole. Non sono al momento disponibili informazioni sufficienti sui benefici della terapia
antipertensiva in caso di disfunzione diastolica.
FIBRILLAZIONE ATRIALE
L’ipertensione arteriosa costituisce uno dei principali fattori di rischio
per la comparsa di fibrillazione atriale nella popolazione generale. E questa affezione aritmica accresce il rischio di eventi cardiovascolari morbosi
e mortali di circa 4-5 volte, con ulteriore incremento del rischio embolico.
La presenza di un aumento delle dimensioni dell’atrio sinistro e della
massa ventricolare sinistra è stata identificata come fattore di rischio indipendente per l’insorgenza di nuovi casi di fibrillazione atriale. Pertanto,
i pazienti ipertesi che presentano queste caratteristiche dovrebbero essere sottoposti ad un trattamento antipertensivo aggressivo. Ed in caso
di concomitante terapia con anticoagulanti orali è richiesto un buon controllo pressorio, al fine di prevenire eventi letali o emorragici che sono più
frequenti quando la pressione arteriosa sistolica è superiore a 140 mm Hg.
Uno studio recente ha dimostrato che i bloccanti recettoriali dell’angiotensina II riducono l’incidenza di nuovi casi di fibrillazione atriale e ne
suggerisce l’impiego in questo contesto.
50
IPERTENSIONE NELLA DONNA
I valori pressori nel sesso femminile sono mediamente inferiori rispetto
a quelli rilevati nel sesso maschile nelle fasce d’età comprese tra i 30 e
44 anni. Tuttavia, con l’avanzare dell’età la pressione arteriosa tende ad
aumentare più rapidamente nelle donne che negli uomini al punto che,
dopo i 60 anni, la prevalenza di ipertensione arteriosa risulta superiore
nel sesso femminile. La relazione lineare tra pressione arteriosa e affezioni cardiovascolari è simile nei due sessi, ad eccezione di una minore
frequenza di affezione coronarica nelle donne prima della menopausa.
Per quanto riguarda gli effetti del trattamento antipertensivo, non sono
emerse differenze significative di benefici tra i due sessi.
Uno dei principali problemi della terapia antipertensiva nel sesso
femminile riguarda i possibili effetti teratogeni dei farmaci. Tra i farmaci
di uso comune è consiglibile evitare, durante i periodo fertile e la gestazione, gli ACE-inibitori e i bloccanti recettoriali dell’angiotensina II.
I Contraccettivi orali
I contraccettivi orali causano nella maggior parte delle donne un modesto incremento della pressione arteriosa e, nel 5% dei casi una condizione di ipertensione stabile. Il rischio di complicanze cardiovascolari
risulta aumentato nelle donne di età superiore ai 35 anni e nelle fumatrici. In genere l’ipertensione indotta dall’uso di contraccettivi orali è di
lieve entità e si ha una normalizzazione pressoria entro 6 mesi dalla sospensione del trattamento ormonale.
Si ritiene che gli estrogeni siano il principale fattore responsabile
dell’incremento pressorio probabilmente attraverso un processo di stimolazione epatica di angiotensinogeno.
Una recente revisione degli studi clinici ha analizzato l’uso dei contraccettivi orali a basse dosi nelle pazienti ipertese e ha messo in luce
un maggior rischio di infarto del miocardio e di ictus. In queste pazienti
è stata descritta anche una maggior incidenza di ictus trombotici ed una
aumento di 2-6 volte del rischio di complicanze tromboemboliche.
Terapia ormonale sostitutiva
Nei paesi occidentali è stato riscontrato un progressivo incremento
dei valori di pressione arteriosa nelle donne in post-menopausa, ma non
è chiaro se questo fenomeno sia legato al fattore età o alla menopausa,
in quanto gli studi pubblicati hanno fornito risultati discordanti.
Non vi è dubbio che le donne in post-menopausa siano caratterizzate
51
da un incremento del rischio di malattie cardiovascolari e ciò ha indotto
i ricercatori a promuovere studi di intervento sugli effetti cardiovascolari
della terapia ormonale sostitutiva con risultati discordanti. Pertanto, al
momento attuale, la terapia ormonale sostitutiva non è raccomandata a
fini cardioprotettivi nelle donne iin post-menopausa.
Ipertensione in gravidanza
Gli stati ipertensivi che si manifestano in gravidanza rappresentano in
tutto il mondo una delle principali cause di morbosità e mortalità materna, fetale e neonatale. In condizioni fisiologiche, la pressione arteriosa,
di solito, si riduce nel secondo trimestre di gravidanza raggiungendo valori in media 15 mmHg inferiori rispetto a quelli rilevati nel periodo pregravidico. Nel terzo trimestre si assiste ad un incremento che riporta le
pressione a valori riscontrati prima della gravidanza. Queste
oscillazioni pressorie si possono riscontrare in donne normotese, in
donne già affette da ipertensione prima della gravidanza, e in quelle che
svilupperanno nel corso della gravidanza uno stato ipertensivo.
Per quanto riguarda la definizione di ipertensione in gravidanza, oggi
si preferisce una definizione basata sui valori assoluti di pressione arteriosa (PA sistolica pari o superiore a 140 mmHg o pressione diastolica
pari o superiore a 90 mmHg). È essenziale che tale incremento pressorio sia confermato in due occasioni.
Il monitoraggio pressorio delle 24 ore rispetto alla misurazione della
PA con metodo convenzionale ha oggi acquisito maggiore rilevanza prognostica, consentendo di predire la comparsa di proteinuria, il rischio di
parto prematuro, il peso del feto alla nascita e, in genere, le complicanze
della gravidanza. Ed è anche di particolare utilità per la diagnosi e le
scelte terapeutiche nelle donne gravide ipertese a rischio elevato, o in
quelle con diabete o danno renale.
L’ipertensione gravidica, se associata anche ad una proteinuria significativa (> 300 mg/l o > 500 mg/24 ore o rilievo di uno stick ++ o superiore) viene definita pre-eclampsia.
Nelle pazienti gravide che presentano alla rilevazione pressoria effettuata in clinica, valori sistolici compresi tra 140 e 149 mmHg e/o diastolici tra 90 e 99 mmH si dovrebbe impostare un trattamento non farmacologico. Tale trattamento può includere un monitoraggio stretto
della paziente e una restrizione delle sue attività quotidiane; è consigliata
una dieta normale senza restrizione sodica.
Basse dosi di acetilsalicilico vengono comunque utilizzate a scopo
52
profilattico nelle pazienti con anamnesi precoce (meno di 28 settimane
di gravidanza) di pre-eclampsia.
Sebbene il calo ponderale possa essere utile nel ridurre i valori pressori in donne non gravide, non è un intervento consigliato in donne obese
in corso di gravidanza. Esso può infatti ridurre il peso del neonato e ritardarne la crescita nei primi anni di vita.
È dibattuto se continuare una terapia con farmaci antipertensivi in
donne gravide affette da ipertensione di grado lieve o moderato. Ciò perché in primo luogo queste pazienti presentano un rischio ridotto di sviluppare complicanze cardiovascolari durante la gestazione. La prognosi è generalmente favorevole sia per la madre che per il neonato. Si ritiene tuttavia
ragionevole iniziare un trattamento antipertensivo in presenza di valori sistolici pari o superiori a 150 mmHg o diastolici pari o superiori a 95mmHg.
Il trattamento terapeutico va comunque iniziato se i valori pressori corrispondono a 140/90 mmHg e si accompagnano ad una condizione:
- ipertensione gravidica (con o senza proteinuria)
- stato ipertensivo pre-esistente con associata ipertensione gravidica
- ipertensione complicata da danno d’organo subclinico
- sintomatica comparsa di danno d’organo in qualsiasi momento della
gravidanza.
Valori pressori sistolici pari o superiori a 170 mmHg o diastolici pari
o superiori a 110 mm Hg, rilevati nel corso di una gravidanza, rappresentano una emergenza ipertensiva e richiedono il ricovero ospedaliero.
In condizioni di emergenza la riduzione pressoria dovrà essere ottenuta
mediante l’impiego per via endovenosa del labetalolo o per via orale dalla
metildopa o dalla nifedipina.
Quando uno stato ipertensivo si associa ad edema polmonare acuto
il farmaco di scelta è la nitroglicerina.
Per le forme ipertensive di grado non severo, e nel contesto di una situazione di routine, i farmaci scelta includono la metildopa, il labetalolo
e i calcio-antagonisti.
Gli ACE-inibitori e i bloccanti recettoriali dell’angiotensina II non dovrebbero essere utilizzati in gravidanza. Non è indicato altresì l’impiego
di diuretici (se non in presenza di oliguria) in quanto nella pre-eclampsia
il volume plasmatico è ridotto.
Nella prevenzione dell’eclampsia e nel trattamento delle convulsioni
si è dimostrata efficace la somministrazione endovenosa di solfato di
magnesio.
È indicata l’indicazione all’induzione del parto nell’ipertensione gra53
vidica complicata da proteinuria, disturbi visivi, alterazioni della coagulazione e segni sofferenza fetale.
SINDROME METABOLICA
La sindrome metabolica include una serie di condizioni cliniche caratterizzate dall’associazione tra obesità viscerale, alterazioni del metabolismo glicidico, metabolismo lipidico ed ipertensione arteriosa. La prevalenza della sindrome metabolica è elevata negli individui di mezza età
e negli anziani.
Il riscontro di marker di danno d’organo, quali la microalbuminuria,
l’ipertrofia ventricolare sinistra ed una ridotta distensibilità arteriosa, è frequente nei pazienti con sindrome metabolica. In questi pazienti il rischio
di sviluppare eventi cardiovascolari o diabete è molto elevato.
I pazienti con sindrome metabolica dovrebbero essere sottoposti ad
una accurata valutazione diagnostica del danno d’organo. In questi pazienti è indicato valutare i valori pressori anche mediante monitoraggio
delle 24 ore e l’automisurazione domiciliare.
In tutti i pazienti con sindrome metabolica dovrebbero essere intraprese modifiche dello stile di vita. Il trattamento farmacologico dovrebbe essere iniziato con farmaci che ritardano la comparsa di diabete.
Si dovrebbero preferire i bloccanti del sistema renina-angiotensina associati, se necessario, a calcio-antagonisti o a diuretici tiazidici a basse
dosi. È auspicabile una riduzione pressoria a valori inferiori della soglia
“normale-alta”.
Non vi sono al momento studi specifici che suggeriscono l’impiego
di farmaci antipertensivi in tutti i pazienti con sindrome metabolica e valori pressori normali-alti. È ad ogni modo evidente che il blocco farmacologico del sistema renina-angiotensina è in grado di ritardare la comparsa di ipertensione.
Un trattamento con statine o con antidiabetici dovrebbe essere istituito nei pazienti con sindrome metabolica associata rispettivamente a
dislipidemia o a diabete. I sensibilizzatori dell’insulina sono in grado di
prevenire l’insorgenza di nuovi casi di diabete. Non si hanno informazioni
sui benefici di questi trattamenti nei pazienti con sindrome metabolica
in assenza di diabete.
54
IPERTENSIONE RESISTENTE AL TRATTAMENTO
Si definisce ipertensione refrattaria al trattamento quella condizione
clinica in cui gli interventi non farmacologico e farmacologico, quest’ultimo basato sull’impiego di almeno tre farmaci antipertensivi a dosaggi
adeguati, non sono in grado di ridurre sufficientemente i valori di pressione arteriosa sistolica e diastolica.
Cause di ipertensione resistente al trattamento
Scarsa aderenza al piano terapeutico
Incapacità di modificare lo stile di vita
- incremento ponderale
- elevato consumo di bevande alcoliche
Assunzione abituale di farmaci o sostanze che aumentano la pressione
(liquirizia, cocaina, steroidi, antinfiammatori non steroidei, ecc.)
Sindrome delle apnee notturne
Ipertensione da cause secondarie
Danno d’organo irreversibile o poco responsivo alla terapia
Ipervolemia plasmatica
- Terapia diuretica inadeguata
- Insufficienza renale ingravescente
- Elevato consumo di sodio
- Iperaldosteronismo
Cause di ipertensione resistente “spuria”
Ipertensione da “camice bianco”
Impiego di bracciali di misure inadeguate
Pseudoipertensione
EMERGENZE IPERTENSIVE
Le emergenze ipertensive sono quelle condizioni in cui uno stato ipertensivo di grado severo favorisce lo sviluppo di un danno d’organo
acuto. Anche se non di frequente riscontro, le emergenze ipertensive
55
sono condizioni cliniche minacciose che richiedono un trattamento immediato.
Encefalopatia ipertensiva
Ipertensione associata a infarto del miocardio
Ipertensione associata ad angina instabile
Ipertensione associata a dissecazione aortica
Ipertensione grave associata a emorragia sub aracnoidea
o ad eventi cerebrovascolare
Crisi ipertensive da feocromocitoma
Uso di anfetamine, LSD, cocaina o ectasy
Ipertensione peri-operatoria
Pre-eclampsia o eclampsia di grado severo
TRATTAMENTO DEI FATTORI DI RISCHIO ASSOCIATI
Terapia ipolipemizzante
Anche se i dati epidemiologici hanno dimostrato una stretta relazione
tra colesterolemia ed eventi coronarici, ma non con gli eventi cerebrovascolari, vi è tuttavia evidenza che la terapia con statine può prevenire
entrambi gli eventi sia negli ipertesi che nei normotesi. In uno dei più
ampi studi (HPS) del 2002 effettuato con l’impiego di statine, si è osservata una riduzione significativa degli eventi cardiaci e cerebrovascolari in pazienti con storia di malattie cardiovascolari trattati con simvastatina.
Pertanto, tutti i pazienti con malattia coronarica, vascolopatia periferica, cerebrovasculopatia e diabete mellito (insorto da almeno 10 anni)
dovrebbero ricevere un trattamento con statine almeno sino ad 80 anni.
Terapia antiaggregante
È stato dimostrato che in pazienti asintomatici di mezza età e con un
profilo di rischio cardiovascolare alto o in soggetti con storia di pregressi
eventi cardiovascolari, la terapia antiaggregante, e in particolare l’acido
acetilsalicilico a basse dosi (75-100 mg/die) è in grado di ridurre il rischio
di ictus e infarto miocardico.
È tuttavia opportuno raccomandare l’impiego dell’acido acetilsalicilico nei pazienti ipertesi a rischio elevato o molto elevato solo dopo aver
raggiunto un buon controllo pressorio.
56
Controllo dei valori glicemici
Il diabete mellito, ma anche la ridotta tolleranza ai carboidrati, rappresentano i principali fattori di rischio cardiovascolare. Se si associa uno
stato ipertensivo ad un diabete tipo 2 il rischio cardiovascolare è marcatamente elevato; inoltre l’ipertensione arteriosa di per sé raddoppia il
rischio di sviluppare diabete di tipo 2.
Da queste considerazioni emerge l’importanza di ottenere un buon
controllo glicemico nei pazienti ipertesi e diabetici. Le Linee Guida per
il trattamento del diabete indicano come obiettivo terapeutico i valori di
glicemia post-prandiale pari o inferiori a 108 mg/dl e di emoglobina glicosilata pari o inferiori a 6.5%.
A causa degli effetti dismetabolici sfavorevoli, l’impiego di diuretici tiazidici e beta-bloccanti in soggetti con tolleranza glucidica può richiedere
un trattamento con farmaci antidiabetici più precoce ed intenso.
Forme secondarie di ipertensione
Solo una piccola frazione di pazienti ipertesi è affetta da forme secondarie di ipertensione; cioè l’ipertensione è secondaria, è un sintoma
o complicanza di affezioni diverse: malattia nefroparenchimale, ipertensione nefrovascolare, feocromocitoma, iperaldosteronismo primario,
sindrome di Cushing, sindrome delle apnee ostruttive notturne, coartazione dell’aorta e ipertensione indotta da farmaci.
La specificità e varietà delle affezioni esulano dall’obiettivo educazionale della presente trattazione.
CONTROLLO CLINICO PERIODICO (FOLLOW-UP)
Durante la fase di induzione della terapia farmacologica, i pazienti dovrebbero essere di frequente sottoposti a visita medica (ogni due o
quattro settimane) per adeguare il regime terapeutico scelto (incremento
del dosaggio, aggiunta di altri farmaci, riduzione del dosaggio o sospensione del farmaco) in base all’obiettivo pressorio o alla comparsa
di effetti collaterali. In questa prima fase i pazienti dovrebbero essere
sollecitati ad effettuare l’automisurazione a domicilio.
Una volta raggiunti gli obiettivi del trattamento, che includono il controllo della pressione e degli altri fattori di rischio, è possibile ridurre la
frequenza delle visite mediche.
I pazienti che presentano un basso profilo di rischio e valori pressori
moderatamente elevati possono essere sottoposti a visita medica ogni
57
sei mesi, mentre quelli che presentano uno stato ipertensivo di maggiore
gravità o un rischio cardiovascolare elevato o molto elevato dovrebbero
essere visitati ad intervalli di tempo più ravvicinati.
È importante che anche i pazienti non trattati farmacologicamente
siano sottoposti frequentemente ad una visita di controllo perché:
a. l’adesione alle modifiche dello stile di vita è ridotta
b. la risposta pressoria è variabile
c. è necessario stimolare il paziente ad adottare questo approccio terapeutico, il cui fallimento richiede una terapia farmacologica.
L’automisurazione della pressione arteriosa domiciliare è
senz’altro utile per dilazionare nel tempo l’intervallo tra le visite
mediche.
In genere, non è consigliabile programmare le visite mediche ad intervalli di tempo troppo lunghi, in quanto la compliance alla terapia è
strettamente legata a buon rapporto tra medico e paziente ed è favorita
da visite frequenti. Se l’obiettivo terapeutico non riesce ad essere raggiunto nell’arco di sei mesi o se, una volta acquisito, può essere necessaria una valutazione del paziente da parte dello specialista nella diagnosi e cura dell’ipertensione.
È altresì importante valutare periodicamente il danno d’organo in
quanto il riscontro di una sua regressione o di ritardata progressione può
avere implicazioni prognostiche favorevoli.
Follow-up clinico
Durante la fase di titolazione della terapia farmacologica i pazienti dovrebbero essere di frequente sottoposti a visita medica per modificare
il regime terapeutico scelto in base all’obiettivo pressorio e alla comparsa
di effetti collaterali.
Una volta raggiunto l’obiettivo pressorio è possibile ridurre la frequenza delle visite mediche. Non è consigliabile programmare le visite
mediche ad intervalli di tempo troppo lunghi, in quanto la compliance alla
terapia è strettamente legata a un buon rapporto tra medico e paziente.
I pazienti che presentano un basso profilo di rischio o con ipertensione
di grado 1 dovrebbero essere sottoposti a visite mediche ogni 6 mesi,
anche in caso di auto misurazione pressoria domiciliare i controlli potranno essere più dilazionati nel tempo. I pazienti che presentano un profilo di rischio elevato o molto elevato dovrebbero essere visitati ad in58
tervalli più ravvicinati. I pazienti in trattamento non farmacologico dovranno essere sottoposti frequentemente a visite di controllo in quanto
la compliance alle misure non farmacologiche è ridotta e la risposta pressoria è variabile.
Le visite di follow-up sono finalizzate a monitorare tutti i fattori di
rischio reversibili e il danno d’organo. Poiché gli effetti della terapia sul
danno d’organo sono evidenziabili solo nel lungo termine, le visite preposte a questi controllo dovranno essere programmate con scadenza
annuale.
La sospensione del trattamento da parte del paziente in cui è stata
correttamente effettuata diagnosi di ipertensione si associa di solito,
più o meno precocemente, alla ricomparsa dello stato ipertensivo. È
quindi consigliabile proseguire per tutta la vita il trattamento. È tuttavia possibile che dopo un prolungato periodo caratterizzato da un
buon controllo pressorio si possa tentare di ridurre la posologia dei farmaci assunti, specialmente se il paziente segue in maniera rigorosa le
misure non farmacologiche.
59
CONCLUSIONI
Obiettivo della presente trattazione è suggerito dal fatto che una significativa porzione di soggetti ipertesi non è a conoscenza della propria
condizione o, anche se edotta della propria condizione, non assume terapia. Di rado gli obiettivi pressori riescono ad essere raggiunti nella pratica clinica, nonostante sia stato prescritto un trattamento antipertensivo.
Ed è particolarmente difficile ottenere il controllo dei valori di pressione
sistolica, soprattutto quando l’obiettivo pressorio è ambizioso (pressione
arteriosa inferiore a 130 mmHg) come nel caso dei pazienti diabetici o
di quelli che presentano un rischio cardiovascolare molto elevato.
Queste considerazioni rendono ragione del fatto che l’ipertensione rimane in tutto il mondo, e anche nei paesi industrializzati, una delle principali cause di morbosità e mortalità cardiovascolare. È quindi importante
estendere al maggior numero di soggetti le procedure diagnostiche per
identificare la presenza di uno stato ipertensivo, la sussistenza di un
danno d’organo e la valutazione del rischio cardiovascolare.
60
INDICE
Prefazione ..............................................................................................3
Introduzione ...........................................................................................5
Ipertensione e rischio cardiovascolare ..................................................5
Classificazione dell’Ipertensione ..........................................................6
Il rischio cardiovascolare .......................................................................7
Danno d’organo .....................................................................................9
Malattie aggiuntive...............................................................................10
Il rischio cardiovascolare globale ........................................................11
Valutazone diagnostica........................................................................13
Misurazione della pressione arteriosa .................................................14
Prototipi di misuratori della pressione arteriosa ..................................19
Posizione corretta per l’automisurazione ............................................22
Fattori che influenzano la misurazione della PA ..................................23
Anamnesi .............................................................................................28
Esame obiettivo ...................................................................................29
Esami di laboratorio.............................................................................29
Analisi genetica....................................................................................31
Valutazione del danno d’organo ..........................................................31
Il trattamento terapeutico ....................................................................35
Modificazione dello stile di vita............................................................38
Benefici del trattamento farmacologico ..............................................41
Interventi terapeutici in specifiche condizioni cliniche ........................45
Sindrome metabolica...........................................................................54
Ipertensione resistente al trattamento .................................................55
Emergenze ipertensive ........................................................................55
Trattamento dei fattori di rischio associati...........................................56
Controllo clinico periodico (follow-up).................................................57
Conclusioni ..........................................................................................60
Stampato in proprio
Ottobre 2010
Il Dott. Giuseppe Maiorano, classe 1938, è specialista in Cardiologia,
Medicina Interna ed Ematologia. Esperto di Pedagogia Medica è stato
professore di Bioetica e Deontologia Professionale nel Corso di Laurea
Tecnici di Laboratorio Biomedico presso la Facoltà di Medicina dell’Università di Bari dal 1995 al 2008.
Dirigente Medico ospedaliero presso la Clinica Medica dell’Università di
Bari dal 1970 al 2000, è stato Primario di Medicina Interna delle Unità
Operative di Medicina Interna Ospedaliere (N. Pende e L. Ferrannini)
del Policlinico di Bari dal 2000 al 2007.
È socio delle Società Italiane di Cardiologia e Ipertensione Arteriosa.
È autore di circa 200 pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali ed internazionali nel campo della Ipertensione Arteriosa e della Cardiologia.
È autore di un manuale di due volumi sulla Ipertensione Arteriosa edito
da Masson nel 1987.
È stato relatore in numerosi congressi in ambito nazionale ed internazionale.
Il Dott. Francesco Bartolomucci, classe 1965, specialista in Medicina
Interna e dottore di ricerca in Cardiologia.
Dirigente Medico presso la Unità Operativa di Cardiologia dell’Ospedale Civile di Andria dal 1999 è responsabile del laboratorio di Ecocardiografia, con particolare esperienza nel campo della diagnostica non
invasiva della cardiopatia ischemica: ecocardiografia e sindrome coronarica acuta.
È autore di circa 80 pubblicazioni scientifiche su riviste nazionali ed internazionali.
È relatore in numerosi congressi in ambito nazionale ed internazionale.