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RICOSTRUIRE COMUNITÀ
Diego Fusaro, Ermanno Bencivenga e
Mauro Scardovelli
Tr a s c r i z i o n e a c u r a d i :
Francesca De Munari
[ 55:50 - 1:09:55 ]
INTERVENTO DI DIEGO FUSARO
NEL 1982 vedeva la luce un testo assolutamente dirimente per la questione che qui
stiamo affrontando (l’autore è Mac Intyre, che a torto o a ragione passa per essere
uno dei principali ispiratori della corrente detta “comunitarista”): questo testo si
intitola “Dopo la virtù”.
La tesi esposta da Mac Intyre, con sofisticate argomentazioni anche, è quella
secondo cui
viviamo in un’epoca in cui la virtù pubblica, (l’etica in senso
aristotelico) si è eclissata, e resta esclusivamente dominante su
tutto il giro d’orizzonte.
L’individuo assoluto di cui prima si diceva.
Mac Intyre nelle pagine del suo testo ripropone come orientamento teologico
fondamentale del pensiero e dell’azione un ritorno ad Aristotele (o se preferite una
ripartenza da Aristotele) da lui contrapposto frontalmente nelle pagine del suo libro
a Nietzsche, l’autore che sarebbe a suo dire l’anti-Aristotele per eccellenza.
Io credo che quel testo di Mac Intyre, trascorsi più di 20 anni, anzi più di trenta, si
presenta a tutti gli effetti come imprescindibile per ragionare sul tema che qui ci
proponiamo di affrontare.
Direi anzi, sviluppando in maniera credo coerente il discorso di Mac Intyre, che
infondo sul piano filosofico due sono, riducendo all’osso, i profili antropologici
frontalmente contrapposti da cui occorre partire contrastivamente per ragionare
sul nostro presente.
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Il primo, quello di Aristotele: l’uomo come animale comunitario,
intrinsecamente socievole.
L’altro quello non di Nietzsche, ma di Thomas Hobbes: il grande
fondatore della soggettività individualistica moderna
antropologicamente pessimistica, il fondatore nonchè
dell’uomo come animale calcolante. (Pensare è calcolare ripete
continuamente Hobbes nei suoi scritti).
Ecco, io credo che da questa contrapposizione frontale si possa ripartire per una
serena riflessione sul tema della comunità e dell’individuo, anzitutto dal punto di
vista filosofico e storico-filosofico.
Hobbes non fa mistero della sua palese avversione conclamata rispetto ai grandi
temi dell’aristotelismo.
Nel Leviatano Hobbes scrive testualmente che il suo sistema di pensiero nasce in
rivendicata e totale antitesi rispetto ad ogni punto della dottrina aristotelica.
Di Aristotele, Hobbes rigetta:
- La metafisica, giudicata una vera e propria sciocchezza da cui occorre
prendere congedo in nome della scienza fisica (unico sapere legittimo a suo
dire);
- L’etica, incardinata sul valore della giusta misura, del tutto insensata nel
quadro dell’antropologia hobbesiana;
- La visione sociale dell’uomo come zoon politikon, alla quale nel Leviatano
ma poi anche nel De cive Hobbes contrappone una visione che a giusto
titolo potremmo qualificare come individualista.
Si sbaglia di gran lunga Aristotele, spiega Hobbes, a pensare l’individuo come zoon
politikon, come animale politico socievole e comunitario: l’individuo è invece per
sua natura egoistico, rivolto solo a sé stesso e al perseguimento del
proprio interesse personale.
Non vi è comunità intrinseca nell’essere al mondo dell’uomo.
La comunità nasce solo in seconda battuta, spiega Hobbes, dalla ricerca che
ciascuno individuo nello stato di natura compie in vista della massimizzazione del
proprio interesse, ma poi soprattutto in vista della garanzia della propria
sicurezza, ciò che lo stato di natura mette continuamente a repentaglio.
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troviamo per un
verso il costituirsi genetico del soggetto moderno, quello che
Ebbene qui, effettivamente, dal punto di vista antropologico
ancora oggi mutatis mutandis persiste nelle retoriche neoliberiste prima
evocate, ma troviamo anche il rovesciamento completo (che procede di conserva
con l’imporsi dell’individualismo moderno,) della prospettiva aristotelica.
La prospettiva aristotelica è qui completamente rovesciata.
Hobbes ne rigetta punto dopo punto ogni aspetto.
L’individuo di Hobbes è un individuo calcolante ,
è un vero e
proprio individuo nel senso dell’espressione.
La sapienza greca , di cui Aristotele è in qualche misura il punto culminante sul
piano della coscienza, mai si sarebbe sognata di chiamare individuo l’uomo, o
con il lessico greco atomo, da cui appunto deriva il nostro individuum.
Atomo significa la parte più piccola in cui può essere scomposta la quantità
materiale.
Per i greci l’uomo non è mai atomo o individuum, è sempre
psychè ,
cioè anima
soggetta a dialogo socratico e maieutico, mai quantità interscambiabile
materiale come invece diventa nella modernità.
La modernità sostituisce il concetto di Psykè greca con quello di
individuo, che è una quantità interscambiabile di materia, oggetto non di dialogo
socratico, ma di calcolo scientifico galileiano.
Appunto la società moderna viene costituendosi a partire dall’amissione di
quella che Hegel (nemico giurato di questo paradigma e ripropositore a suo modo
di una ripartenza da Aristotele) chiamerà poi l’ atomistica delle solitudini.
Singoli atomi isolati.
Aristotele nella Politica prende le mosse dalla comunità: la
koinonìa, dove risuona chiaramente nel timbro dell’espressione il
tema del koinòn, del comune, ciò che è in comune, ciò che è
condiviso, ciò che appunto riguarda la communitas... diranno i
latini.
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Aristotele partiva dalla comunità.
Prima viene la comunità, e poi sul terreno della comunità,
anzitutto quella familiare, viene costituendosi l’individuo come
secondario rispetto alla comunità e imprescindibile rispetto
ad essa.
Hobbes rovescia il paradigma: innanzitutto vi è l’individuo.
Nello stato di natura troviamo individui isolati che poi, ciascuno perseguendo il
proprio interesse, addivengono alla stipula di un patto mediante il quale mettono in
sicurezza la loro esistenza.
Non è dato di sapere nei testi di Hobbes in quale lingua venga stipulato questo
patto, come facciano ad entrare in relazione tra loro nonostante il loro naturale
antagonismo... Ad ogni modo, la società nasce in seconda battuta, come
unione di atomi isolati e conflittuali.
Hegel dirà confutando radicalmente questa prospettiva, che è una visione del tutto
barbara, perché pone in primis l’individuo dimenticando che prioritaria è invece la
comunità, e in secondo luogo perché pensa lo Stato (che è l’ente superiore, l’idea
etica razionale, la comunità perfetta, secondo Hegel) nei termini analoghi di un
“contratto privato”, scaturente dalla stipula di un accordo tra individui privati.
Ebbene, in Hobbes troviamo esattamente la genesi dell’individualismo moderno.
L’individuo come calcolante, non pensante.
Pensare e calcolare: si calcola, tutto è ridotto alla dimensione del
calcolo, la società stessa nasce come contratto tra individui privati.
Ebbene potremmo dire che mutatis mutandis le retoriche neoliberiste (che lo
sappiano oppure no, che si pongano oppure no nel solco della tradizione
hobbesiana) non fanno altro che portare a compimento questa avventura
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travagliatissima del soggetto moderno, a tal punto che si potrebbe dire che il
grande paradigma, il grande mito del soggetto moderno qui raffigurato da Hobbes
in termini filosofici è Robinson Crusoe.
Il grande mito della soggettività moderna: l’individuo solo e alla ricerca del
proprio interesse individuale, l’individuo che si dà per mare per costituire ex-novo la
stessa società di tipo mercatistico anche sull’isola deserta, l’individuo che non
intrattiene rapporti con l’altro se non in vista della massimizzazione del proprio
profitto, a scapito del povero Venerdì di turno, come avviene nell’isola di Robinson.
Questo è il paradigma dominante nell’epoca moderna.
La globalizzazione , (parola che continuamente ritorna nel lessico comune,
parola che è compito della filosofia problematizzare) questa parola così utilizzata,
così abusata, potrebbe forse essere meglio declinata come universalismo
degli egoismi, come esportazione su scala planetaria del profilo
antropologico dell’individualismo acquisitivo e rapace di marca hobbesiana,
come imposizione del paradigma dell’individuo anticomunitario.
Per questo oggi il discorso del capitalista è quello che mira a
neutralizzare ogni comunità residua, da quella familiare a quella
statale, imponendo come profilo antropologico quello hobbesiano (pur con
sostanziali modifiche), cioè il paradigma dell’uomo acquisitivo,
individualistico, pessimistico sul piano antropologico, basato
appunto su una geometria di passioni fredde, strutturalmente
anticomuntiarie.
Tutto diverso è invece il discorso con Aristotele, da cui oggi più che mai
forse occorre ripartire.
Se occorre definirsi, io mi definisco fermamente aristotelico da questo punto di
vista. Riconosco appunto l’importanza ancora prima di Hegel, di Aristotele, nel
tema della comunità.
Aristotele per primo codifica in maniera chiara ed inequivocabile il
tema dell’uomo come animale comunitario, è nella Poitica che
troviamo la nota definizione dell’uomo come zoon politikon,
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solitamente tradotta e tradita con l’espressione “uomo animale
politico”.
In Aristotele abbiamo una determinazione triplice in questa espressione.
Zoon politikon significa a un tempo
- animale politico
- socievole
- comunitario,
cioè animale che si rapporta necessariamente con gli altri
soggetti, con gli altri animali razionali, perché rientra nella sua
stessa natura il rapporto inter-soggettivo, non può realizzare sè
stesso se non nella dimensione comunitaria.
(Occorrerebbe essere una bestia o un Dio, dice Aristotele, per essere soli).
Ma poi animale politico, perché necessariamente vive nella
polis, nella strutturazione politica della polis.
E poi socievole per natura, nella ricerca di quella amicizia prima
evocata che forse potremmo a giusto titolo considerare la
molecola originaria della comuntà, il primo elemento fondamentale
della comunità.
Troppo spesso si dimentica che nella Politica Aristotele intreccia e tiene insieme le
due definizioni dell’uomo come zoon politicon , e dell’uomo come zoon logon
hecon .
Anche in questo caso spesso si travisa questa espressione, rendendolo unicamente
come “animale dotato di ragione”, razionale, o talvolta come “animale dotato di
linguaggio.”
Anche in questo caso l’espressione zoon logon hecon, racchiude insieme tre
espressioni che debbono essere rese congiuntamente.
Zoon logon hecon vuol dire che:
- l’uomo è un animale dotato di ragione
- dotato di calcolo
- dotato di linguaggio
dove per calcolo qui si intende il calcolo delle giuste proporzioni sociali, il calcolo
della giusta misura da attuarsi nello spazio della polis.
Sappiamo che la Politica aristotelica è integramente costruita in base al dispositivo
per cui occorre sempre individuare con il calcolo del pensiero il giusto
mezzo rispetto agli eccessi, proprio come l’etica individua sempre nella
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mesotes, nel giusto mezzo, il cardine fondamentale su cui strutturare il
proprio discorso.
La città giusta, la giusta polis dice Aristotele, è quella che non ha né troppi abitanti
né troppo pochi. È quella che non ha abitanti né troppo ricchi né troppo poveri, è
quella che non è né troppo grande né troppo piccola, è quella cioè che
strutturalmente assume il metron come elemento strutturante la polis stessa, è
quella che si mantiene a giusta distanza dagli eccessi.
Aristotele sapeva benissimo l’aneddoto legato a uno die sette sapienti,l Talete, che
una volta interrogato su quale fosse la polis migliore, rispose in maniera secca
dicendo “quella dive vi sono cittadini né troppo ricchi né troppo poveri”.
La giusta misura, quella che evita la sfrenatezza di una democrazia eccessiva (che
forse nel nostro lessico più sarebbe appropriato tradurre con “anarchia”) e quella
che invece procede nella direzione opposta dell’oligarchia, che è la negazione
stessa della giusta democrazia basata sul giusto mezzo.
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Nell’espressione aristotelica che dice la comunità, koinonìa, risuona come già
dicevo la parola koinon, il comune, quello che riguarda non soltanto l’individuo
astratto, ma una dimensione che lo trascende, qualcosa che è in comune, che non
è né mio né tuo ma nostro, qualcosa che ci riguarda in quanto appartenenti a una
dimensione sociale, comunitaria.
Il termine latino in questo caso riesce a dire forse di più di quello greco:
communitas , oltre a riprendere quanto già espresso nel termine greco koinon,
koinonia, il comune, aggiunge anche un’altra dimensione già evocata più volte in
precedenza, che è quella del dono, della donatività: il munus .
Su questo tema Roberto Esposito nel suo libro “Communitàs” ha scritto parole di
rara raffinatezza.
Communitas dice insieme il comune e il munus, la donatività
coessenziale, la solidarietà che struttura i rapporti all’interno della comunità.
All’interno della comunità non tutto si commisura secondo il criterio del valore di
scambio.
Vi sono valori altri: solidarietà e coappartenenza a un insieme.
Aristotele lo dice chiaramente nella politica: la polis non è costituita solamente dagli
scambi mercantili, o dallo spazio fisico in cui i singoli soggetti dotati di ragione,
calcolo e linguaggio si trovano a coesistere.
Questo certo è fondamentale perché vi sia la polis, ma non basta.
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Accanto a queste dimensione occorre che vi sano anche il senso di appartenenza,
la solidarietà, il senso di appartenenza a qualcosa di più grande rispetto ai singoli
soggetti.
Appunto la comunità implica una dimensione comune, che rende più grande
rispetto alla somma delle singole parti l’appartenenza alla città.
Questo tema, che qui ho semplicemente in maniera impressionistica accennato,
tornerà con enfasi nelle pagine di Tommaso d’Aquino, che in qualche modo il
prosecutore in età cristiana del discorso aristotelico.
Quando nella Summa Tommaso d’Aquino spende parole importanti e degne di
considerazione anche oggi sul bene comune, il bonum commune, sulla
communitas, giustificando addirittura la possibilità del tirannicidio, allorchè il
governante invece che tutelare il bonum commune tuteli solo sè stesso.
Appunto abbiamo qui un pieno riconoscimento dello ius resistentiae,
dell’opposizione che non è una sedizione: la perturbatio (come la chiama Tommaso
D’Aquino) in realtà non corrisponde a un criterio anarchico di rovesciamento
dell’ordine, significa semmai ristabilimento del giusto ordine divino, contro il
disordine imposto dal tiranno.
Perché il giusto ordine divino è quello in cui la totalitas è ante partes dice Tommaso,
la totalità sta prima delle parti.
Ciò significa sul piano teologico che Dio sta prima rispetto alle creature, e che sul
piano politico la communitas sta prima rispetto ai singoli individui, e non può essere
trascesa rispetto ad esso.
I singoli individui debbono coesistere all’interno della communitas come parte di
essa, alla ricerca del bene comune.
Questo ci porterebbe ovviamente molto lontani, ma volevo semplicemente mettere a
punto questa dicotomia netta tra Aristotele e Hobbes per segnalare come la nostra
epoca sia stata definita dalla sociologia più attenta a questi temi come “l’epoca del
legame sociale spezzato”, “l’epoca dell’io narcisista”, l’epoca dell’io autistico che
gode illimitatamente ed è incapace di perseguire passioni sociali.
L’epoca del gregge amorfo degli ultimi uomini.
Nulla di grande in cui sperare, nulla di grande in cui credere.
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Semplicemente il degrado inautentico della vita all’insegna della forma
merce, dell’individuo che persegue il proprio godimento acefalo.
Ebbene in questo scenario sembra non esservi alcuno spazio per la
dimensione comunitaria, è Tomas Hobbes moltiplicato all’ennesima potenza.
Infondo la società di mercato, la civiltà dei consumi, è anticomunitaria per sua
stessa natura (la funzione del consumo è quella più individualistica che si possa
immaginare, l’homo consumens è strutturalmente solo al cospetto della merce, solo
di fronte allo sfavillante succedersi delle merci.
Ebbene, la società di consumo è quella che unisce dialetticamente
onnipotenza astratta e impotenza concreta.
E’ quella che celebra l’individuo ingigantendolo ad atomo autocratico, l’individuo
alleggerito com’è da ogni identità, da ogni rapporto con dio, da ogni comunità, e
che insieme produce l’impotenza concreta, riducendo l’individuo ad atomo isolato.
Il Robinson postmoderno all’ombra del potere, totalmente soggiogato ai
meccanismi del mercato globale della finanza, totalmente proiettato in una
dimensione individualistica.
Questo si riverbera poi in moltissimi fenomeni magnificamente descritti dalla
sociologia. Per esempio, il fenomeno detto “della folla solitaria”, che qui a Milano è
scena di ordinaria postmodernità: trovarsi soli pur in mezzo a milioni di propri simili.
E in fondo ancora una volta la condanna di Robinson Crusoe.
Nelle riflessioni scritte da Defoe dopo il romanzo di Robinson Crusoe, si racconta
che Robinson, rientrato a Londra dopo l’avventura sull’isola, dichiara
espressamente di sentirsi più solo a Londra in mezzo a milioni di individui che non
quando era con Venerdì sull’isola deserta.
Questa è la scena di ordinaria postmodernità che ci affligge nell’odierna metropoli
del villaggio globale: sulla metro si è puntualmente soli, si evita il contatto, lo
sguardo dell’altro. Ci si isola tramite dispositivi tecnici la cui unica funzione sembra
quella di impedire il dialogo in partenza, di troncare ogni possibile comunicazione.
È quella che Gunther Anders ne “L’uomo è antiquato” aveva qualificato con felice
intuizione come l’epoca degli “eremiti di massa”, isolati, autistici, incapaci di
stabilire un contatto sociale.
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In fondo questo è il paradosso della nostra epoca della comunità assente:
abbiamo due polarità, che in realtà sono due facce della stessa medaglia, due
figure che sono pienamente complementari e si integrano a vicenda.
- Da un lato la già rievocata figura dell’ultimo uomo di nietzschiane
memorie, “nulla di grande in cui sperare”, nessun futuro che non sia quello
della crescita infinita (il folle mito che il culto del capitale quotidianamente ci
propina, o che non sia la nuova merce che la religione del mercato
continuamente immette nella circolazione)
- Dall’altro abbiamo la figura degli individui lividi, società livida potremmo
dire variando Baum.
Singoli individui che avvertono il peso opprimente degradante dell’odierna
società, che avvertono con coscienza il potenziale di miseria e sfruttamento
non riescono a trasformare
ragioni in passione politica
che si è schiuso con il 1989, e che insieme
questa rabbia gravida di buone
condivisa,
che sappia costruire una social catena in grado di rendere operativa
questa ira.
Prima dell’89, quando ancora vi erano il partito comunista e la chiesa cattolica
pienamente operativi (il primo muore nell’89 a Berlino, il secondo resta mutilo quando il bancone di S. Pietro
quando nel 2013 il balcone di S. Pietro resta vuoto), vi era in qualche modo la possibilità di quelle
che Peter Sloterdijk ha chiamato “le banche dell’Ira”, cioè istituti politici sociali in
grado di dare forma politica espressiva e sociale alle grandi passioni.
Oggi invece in assenza di questi istituti restano le passioni come proietatte
nell’antro della coscienza individuale dell’io abbandonato.
Appunto, la società è livida, composta di individui in balia di un
groviglio di passioni tristi e incapaci di dare uno sviluppo sociale di
queste passioni.
È la scena di ordinaria follia del nostro tempo. E’ la scena per cui le ingiustizie che
in tempi non molto remoti sarebbero bastate a fare esplodere e divampare dieci
rivoluzioni russe e venti rivoluzioni francesi, restano prigioniere della coscienza
individuale, dell’io livido incapace di agire socialmente.
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Ecco potremmo dire che in questo paradigma, il potere (per usare una formula
dal vago sapore foucaultiano ma che in realtà dice una cosa molto concreta) ha
continuamente l’interesse a che non si ricostruisca il legame sociale, ha
continuamente l’interesse a mantenere l’individuo sospeso in questa ambigua
compresenza di onnipotenza astratta e di impotenza concreta.
Finchè il legame sociale resta interrotto non vi è la possibilità che in qualche modo
si costituisca un fronte oppositivo rispetto a tutto questo.
Per questo
il potere,
o se preferite il nuovo ordine mondiale con cui il potere si
deve continuamente delegittimare ogni
comunità, deve delegittimare le famiglie, gli stati, deve
delegittimare ogni forma di comunità solidale.
struttura su scala globale,
Sempre, ovviamente, con grammatiche orwelliane, fingendo di promuovere diritti ed
emancipazione.
Deve disintegrare le famiglie di modo che venga meno la comunità
originaria, quella in nome della quale autori diversi come Aristotele ed Hegel
dimostravano essere l’individuo secondario rispetto alla comunità familiare.
L’individuo non nasce solo nella foresta, come se lo figura Hobbes: l’individuo
nasce in una comunità, la famiglia.
Distruggere la famiglia significa negare questa comunitarietà originaria
dell’individuo, e significa distruggere il munus legato alla communitas, l’aspetto
donativo.
Significa rimuovere ciò che caratterizza inequivocabilmente un rapporto all’interno
della famiglia, che è la dimensione solidale: una madre non si rivolgerà mai a un
figlio, o un padre non si rivolgerà mai ad una madre secondo una grammatica
improntata all’assiomatica dell’utile e all’algida geometria del do ut des.
Ci sarà sempre un rapporto solidale di altro tipo, eccedente rispetto a quella
dimensione. Per questo il capitale non vuole vedere la famiglia: vuole vedere solo
singoli atomi consumistici, che si rapportano tra loro secondo il do ut des, vuole
vedere pienamente realizzata una società atomizzata, conflittuale di monadi isolate
e autoproiettate.
Ancora, il nuovo ordine mondiale non accetta gli stati nazionali, deve continuamente
promuovere il mercato globale e abbattere ogni frontiera, di modo che si imponga al
piano liscio del mondo ridotto al mercato. Gli stessi che cantano trionfalmente la
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fine delle frontiere, l’abbattimento delle frontiere, sono gli stessi che stanno oggi
innalzando un muro sempre più alto tra gli ultimi e i primi, la base e il vertice.
Complici queste stesse logiche della creazione del mercato globale con annessa
delocalizzazione, volatilizzazione dei capitali...
La legge del capitale è una sola. Infondo, lo sappiamo.
Trovare qualcuno disposto a produrre lo stesso a meno.
Per questo occorre abbattere le frontiere, per questo occorre favorire i flussi delle
migrazioni, per questo occorre utilizzare tutti questi strumenti promettendo
emancipazione, diritti, il miraggio dell’integrazione, e poi in realtà usarli come
strumento nella lotta di classe, che oggi diventa per inciso un massacro di classe.
I dominanti stanno trionfalmente sancendo su tutto il giro d’orizzonte il loro primato
e la loro vittoria, senza incontrare resistenza o alcun ritorno di fiamma rossa.
Semplicemente, è una vittoria che non è nemmeno meno più conflitto: gli ultimi
subiscono in silenzio.
Questa è la scena dall’89 ad oggi, il conflitto che diventa massacro.
Ebbene, io credo che in questo scenario certo non rassicurante, certo non
confortevole (ma la filosofia, diceva Hegel, non deve essere mai edificante) occorre muovere
verso la ricostituzione di quella che, variando la sintassi di Marx, vorrei
chiamare un
partito comunitarista ,
cioè una nuova formazione politica che
superando categorie oggi obsolete come destra e sinistra, stranieri e autoctoni, atei
e credenti, sappia costituire un fronte unico dell’opposizione al capitale in vista di
una comunità democratica, composta da individui liberi, uguali e solidali.
Che sappia cioè tenere come stella polare del proprio agire parole come quella di
democrazia, oggi utilizzata orwellianamente per giustificare il primato della finanza
sui rapporti reali, parole come quella di comunità, oggi continuamente vituperata e
presentata come una forma arcaica e reazionaria, e che sappia per ciò stesso
portare avanti un discorso centrato sul primato dell’uomo rispetto a quello delle
merci, o del denaro se preferite.
Occorre cioè elaborare una nuova forma di comunità o di comunitarismo, che
sappia andare oltre e ai comunitarismi delle destre, o ai livellamenti sociali in cui il
comunismo si è prodotto nel ‘900, o ancora rispetto all’epoca dell’individualismo
selvaggio detto anche neoliberismo.
Occorre cioè per il nuovo movimento, per il nuovo partito comunitarista,
elaborare un universalismo delle differenze: riuscire a coniugare fra
loro il polo del
particolare comunitario con quello
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dell’ universale appartenenza al genere umano , essendo
l’umanità per sua stessa natura un soggetto unitario che esiste però nella pluralità
delle culture, delle lingue, dei costumi, dei modi di essere plurali.
La
globalizzazione finge di promuovere l’universalismo, e invece è
ideologia del medesimo.
Vuole vedere ovunque lo stesso: neutralizza ogni diritto alla diversità, alla
differenza e alla pluralità.
Vuole vedere l’unico modello dell’individuo senza comunità identità e cultura,
incapace di parlare ed intendere altra lingua che non sia quella dell’inglese
mercatistico, tale cioè da rinunciare alla propria cultura, alla propria tradizione, e da
gettarsi come spesso si dice nel flusso e nelle sfide della globalizzazione.
Ecco, io credo che contro questa globalizzazione (che potremmo qualificare
come falso universalismo, cattiva universalità variando Hegel) occorra tener
insieme il momento dell’universale e quello delle differenze, perseguendo
appunto un’opposizione ragionata, un’indocilità riflessa rispetto a tutto
questo.
Quello che manca più di tutto probabilmente è una
koinè,
cioè una grammatica condivisa dell’opposizione.
L’opposizione (dove esista), i dissensi (ove ancora sopravvivano), sono ancora
dispersi e frammentati. Perfino micro-lotte in sè nobilissime come quella per
l’acqua, per i beni comuni, per le rivendicazioni più diverse, finiscono
puntualmente per essere disperse per produrre un effetto analogo a quello
dei due minuti d’odio di “1984” di Orwell (I due momenti in cui si scarica la
rabbia per poi ritornare produttivi e interni al regime, il quale è appunto
funzionante a pieno regime grazie anche a questi due minuti d’odio.)
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Occorre appunto costituire una koinè che sappia ripartire
dalla comunità e dalla vocazione universale di questa
comunità, tenendo insieme questi due momenti
senza riprecipitare nelle patologie del passato, opponendosi anzitutto (anche sul
piano antropologico) al profilo dell’uomo egoistico individuale, quello del
godimento autistico.
Vi sarete accorti, e non è un mistero, che le grandi battaglie per i temi
comunitari e sociali (diritti del lavoro, diritti sociali, welfare state che nemmeno è
più menzionato nei trattati europei) sono sparite sotto al cielo.
Restano, anzi prosperano, le battaglie per tutto ciò che riguarda l’individuo.
Diritti individuali è la parola magica del nostro tempo, in
assenza totale dei diritti sociali.
Anche qui, il paradosso della società a venire ce la possiamo immaginare con
Orwell come quello in cui “astrattamente ci si potrà sposare con chi si vuole,
concretamente non ci si potrà sposare tout court” perchè si vivrà in una situazione
di precariato assoluto che porterà all’impossibilità di produrre quella stabilizzazione
etica, professionale e affettiva che Hegel chiamava
slittlichkeit,
che è
esattamente ciò che l’ordine economico nega.
L’ordine economico vigente oggi è nemico giurato di Hegel e di Marx:
- di Marx perchè deve neutralizzare il sogno di una cosa, la passione utopica
rivolta a ulteriorità nobilitanti rispetto alla prosa reificante del sistema del
mercato,
- e di Hegel perchè deve neutralizzare L’elemento sittlich etico borghese
legato alla dimensione della comunità, della stabilità sentimentale
professionale.
Per questo il capitale deve neutralizzare insieme Hegel e Marx.
Per tutto questo io credo che il lavoro sia molto lungo, e che questo sia solo l’inizio.
Occorre anzitutto riappropriarsi delle grammatiche.
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Mai come oggi le grammatiche sono dettate dal potere. Le mappe stesse con cui i
dominati si muovono sono quelle gestite univocamente dal potere e dal pensiero
unico. Ecco, forse la vera strategia di contrattacco è quella della
contestazione programmatica del pensiero unico e della cattività simbolica
che esso continuamente produce su di noi, ponendoci nella condizione analoga
agli abitatori del grande fratello di Orwell, costretti a vedere il nero dove è bianco e
costretti a pensare che 2+2 dia 5.
Per cui, decolonizziamo l’immaginario.
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