ISTITUTO PER LA STORIA DEL RISORGIMENTO ITALIANO

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ISTITUTO PER LA STORIA DEL RISORGIMENTO ITALIANO
Comitato provinciale di Cremona
Borsa di studio “Giacomo Pagliari”
Edizione 2013
Con il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri
L’ITALIA DALLE GUERRE PER L’INDIPENDENZA ALLA
PROCLAMAZIONE DELLA REPUBBLICA: NASCITA DI UN PAESE
LIBERO
Cremona – 2013
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ISTITUTO PER LA STORIA
DEL RISORGIMENTO ITALIANO
Comitato provinciale di Cremona
Viale Trento e Trieste, 33 -26100 – Cremona
www.istitutorisorgimentocremona.it
email: [email protected]
DIRETTIVO
Presidente: comm. Emanuele Bettini
Vice Presidente: prof.ssa Rossella Russo
Segretario: prof. Vincenzo Montuori
Tesoriere: dott.ssa Elena Novellini
Membri: dott.ssa Raffaella Barbierato, prof.ssa Celestina Coppini, geom. Giorgio Mantovani,
Fulvio Rodini;
Membri aggiunti con incarichi speciali di collaborazione: prof.ssa Rossana Saccani, prof.ssa Clara
Vailati Facchini, Roberto Caccialanza
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SOMMARIO
NOTA di Emanuele Bettini (Presidente ISRI Cremona)
Pag. 5
PRIMO PREMIO
Andrea Fenocchio
Pag. 7
SECONDO PREMIO EX AEQUO
Elena Broscritto
Pag. 15
Paolo Zappalà
Pag. 18
TERZO PREMIO
Margherita Del Popolo
Pag. 21
SEGNALAZIONI PARTICOLARI E ATTESTATI
Cristian Baffi
Pag. 26
Simone Butti
Pag. 30
Apollo Federico
Pag. 33
Cinzia Gomiero
Pag. 35
Ilaria Gosi
Pag. 36
Erika Liparulo
Pag. 38
Ilaria Malvassori
Pag. 40
Giulia Manzin
Pag. 42
Alessandro Marchi
Pag. 45
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Gina Ruotolo
Pag. 47
Kaur Sumanpreet
Pag. 48
Riccardo Tansini
Pag. 50
Daniele Uberti
Pag. 52
Paola Zaninelli
Pag. 55
RICERCHE DI GRUPPO
Laura Poli – Maria Cristina Penazzi
Pag. 58
Daniele Capra, Adrian Cirja, Paolo Torri, Carlotta Montani
Pag. 63
Veronica Barbieri, Maria Vittoria Lanfredi, Fadoua Mezzaoui,
Silvia Sartori, Beatrice Verdi
Pag. 66
Mattia Cabrini – Nicolò Poli
Pag. 68
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NOTA
L’Istituto per la storia del Risorgimento italiano – Comitato provinciale di
Cremona, nell’ambito del programma 2013, ha bandito una borsa di studio dedicata
alla Medaglia d’Oro al Valor Militare “Giacomo Pagliari”, eroe della nostra Storia
unitaria caduto il XX settembre 1870 sulla breccia di Porta Pia.
Per l’occasione è stato istituito un Comitato di Garanti composto da: dott. prof.
Tancredi Bruno di Clarafond (Prefetto della provincia di Cremona), prof. Romano
Ugolini (Presidente nazionale Ist. Risorgimento), Generale di Brigata Carlo Maria
Magnani (Presidente nazionale Ist. del Nastro Azzurro tra decorati al Valor
Militare), Cap. di Vascello Ugo d’Atri (Presidente nazionale Reali Guardie d’Onore
al Pantheon), prof.ssa Annita Garibaldi Jallet (Presidente A.N.V.R.G).
La Commissione giudicatrice è composta dal Direttivo dell’ISRI della provincia di
Cremona.
I testi inclusi nel presente volume sono quelli presentati dagli studenti delle Scuole
Secondarie di Secondo Grado di tutto il territorio provinciale, che hanno aderito
all’iniziativa e che sono stati ritenuti meritevoli di premiazione o segnalazione.
I fatti, che hanno visto protagonista Giacomo Pagliari, sono descritti nel diario di
Edmondo De Amicis allora combattente volontario durante la presa di Roma:
“Non ricordo bene che ora fosse quando ci fu annunziato che una larga breccia era stata aperta
vicino a Porta Pia e che i cannoni dei pontifici appostati là erano stati smontati. Quando la Porta
Pia fu affatto libera, e la breccia vicina aperta sino a terra, due colone di fanteria furono lanciate
all'assalto. Non vi posso dar particolari. Vidi passare il 40° (fanteria) a passo di carica; vidi
tutti i soldati, presso alla porta, gettarsi a terra in ginocchio, per aspettare il momento d'entrare.
Udii un fuoco di moschetteria assai vivo; poi un lungo grido "Savoia!" poi uno strepitio confuso;
poi una voce lontana che gridò: "Sono entrati!". Arrivarono allora a passi concitati i sei
battaglioni dei bersaglieri della riserva; sopraggiunsero altre batterie di artiglieria; s'avanzarono
altri reggimenti: vennero oltre, in mezzo alle colonne, le lettighe per i feriti. Corsi con gli altri verso
la Porta. I soldati erano tutti accalcati intorno alla barricata; non si sentiva più rumore di colpi; le
colonne a mano a mano entravano. Da una parte della strada si prestavano i primi soccorsi a due
ufficiali di fanteria feriti; uno dei quali, seduto in terra, pallidissimo, si premeva una mano sul
fianco; gli altri erano stati portati via. Ci fu detto che era morto valorosamente sulla breccia il
maggiore dei bersaglieri Pagliari, comandante del 35°. Vedemmo parecchi ufficiali dei bersaglieri
con le mani fasciate. Sapemmo che il generale Angolino s'era slanciato innanzi ai primi con la
sciabola nel pugno come un soldato. Entrammo in città.”
Emanuele Bettini (Presidente ISRI Cremona)
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(breccia di Porta Pia)
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PRIMO PREMIO
ANDREA FENOCCHIO
(CLASSE 3^ A CLA – LICEO GINNASIO “DANIELE MANIN” – CREMONA)
“Sono figlio della libertà,
ad essa debbo tutto quello che sono”
CAMILLO BENSO CONTE DI CAVOUR
La ricorrenza del centocinquantenario dell’Unità d’Italia, che ha visto una
partecipazione corale del popolo italiano, una partecipazione che è andata al di là di
qualsiasi ragionevole aspettativa, è stata un’eccezionale occasione di riflessione
storica e civile sui processi grandiosi, complessi e travagliati che hanno portato
all’unificazione politico-territoriale della penisola italiana e alla definizione della
nostra identità di cittadini italiani e dei valori condivisi che sono alla base dello
Stato democratico in cui ci troviamo a vivere oggi.
Le celebrazioni del centocinquantenario, soprattutto, hanno avuto il merito di
sottolineare l’esigenza di riscoprire l’eredità del Risorgimento non solo dal punto di
vista della sua valenza storica di momento preparatorio dell’Unità ma anche e
soprattutto per quanto attiene alla sfera dei valori che lo animarono e che ne
costituirono la base: valori di libertà politica e civile, di unità, collaborazione e
fraternità fra i popoli.
Il Risorgimento è stato animato dall’apporto di una pluralità di visioni che oggi non
possiamo più intendere unicamente come contrapposte, ma come fasi di un
processo dialettico accomunate dall’unico obiettivo di creare i presupposti per
l’autodeterminazione delle genti italiane. Insomma, esauritosi il fuoco delle
contrapposizioni ideologiche non possiamo che vedere il pensiero democratico di
Mazzini e di Garibaldi, il federalismo di matrice neoguelfa del Gioberti, il pensiero
repubblicano-federalista di Cattaneo e il liberalismo monarchico di Cavour come i
momenti fondamentali che hanno portato all’unificazione del nostro Paese e che
hanno creato il terreno culturale e spirituale della nuova Italia.
Quando dalla Francia, la ventata rivoluzionaria del 1848 si diffuse per tutta
l’Europa, il sogno di libertà che aveva animato i patrioti italiani fin dai moti del
1821 cominciò a configurarsi come realizzabile. In Piemonte ed in Toscana i
sovrani furono costretti, nell’ottica di soddisfare un’esigenza fortemente avvertita
dagli strati popolari e dalla borghesia, a mettere in atto modifiche istituzionali e
concessioni in senso liberale. Collateralmente, nel Regno delle Due Sicilie, dove la
Corona si era dimostrata indisponibile a venire incontro alle istanze liberali, si
scatenò una serie di rivolte che impose al sovrano di concedere una serie di
garanzie costituzionali. Ma il focolaio da cui prese l’avvio, quello che si può
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considerare come il preludio dell’unificazione politico-territoriale della penisola
italiana (la Prima Guerra d’Indipendenza) fu la sollevazione del Lombardo Veneto.
A Venezia, quando giunse la notizia delle rivolte di Vienna, vi fu l’insurrezione del
popolo che costrinse gli austriaci alla fuga. A capitanare il popolo erano i patrioti
Daniele Manin e Niccolò Tommaseo che proclamarono la Repubblica. L’eco della
vittoria del movimento popolare in Venezia, giunta a Milano, causò la rivolta della
popolazione milanese che nelle famose “Cinque Giornate” costrinse le truppe di
Radetzky a lasciare la città. La capitolazione austriaca nel Lombardo Veneto
incoraggiò la sollevazione di Parma e di Modena nonché l’azione di gruppi militari
di volontari che corsero a dar manforte ai popoli di Venezia e di Milano. A questo
punto, gli esponenti del governo rivoluzionario di Milano, con l’intento di
consolidare le conquiste ottenute si rivolsero al Re di Sardegna, Carlo Alberto, per
offrirgli di mettersi a capo della coalizione antiaustriaca. Tale risoluzione aveva una
duplice origine: da un lato, come si è detto, si voleva dare stabilità a quanto
conseguito con le rivolte attraverso l’apporto di un esercito regolare e dall’altro si
voleva cercare di imporre al movimento di liberazione un’impronta liberale,
ponendosi al riparo dal rischio di derive democratiche e repubblicane. Carlo
Alberto accettò la proposta cedendo alle pressioni dei moderati piemontesi e
soprattutto al timore di capovolgimenti democratici all’interno del Regno di
Sardegna. L’entrata in scena di Carlo Alberto in qualità di guida del fronte
antiaustriaco con la dichiarazione di guerra presentata all’Impero Asburgico il 23
marzo del 1848 segnò la prima fase del processo di unificazione: iniziava la Prima
Guerra d’Indipendenza.
L’esito della Prima Guerra d’Indipendenza, che si era aperta con alcuni successi che
avevano fatto ben sperare, al punto che per la causa il Regno di Sardegna aveva
potuto avvalersi del supporto di truppe ausiliarie inviate da alcuni Stati della
penisola come il Regno delle Due Sicilie, la Toscana e lo Stato Pontificio, fu tuttavia
inconcludente per il comportamento di Carlo Alberto. La figura di Carlo Alberto
risulta alquanto controversa. Fra tutti i giudizi che su questo sovrano furono
elaborati, sarebbe interessante considerare quelli formulati da due esponenti della
cultura democratica: Carlo Cattaneo e Giosuè Carducci. Il giudizio di Carlo
Cattaneo risale a qualche tempo dopo la firma dell’armistizio che sancì la sconfitta
del fronte antiaustriaco ed è contenuto in quello che da molti è considerato il suo
capolavoro: L’insurrezione di Milano. Mentre il giudizio del Carducci, lo possiamo
leggere nella sua famosa ode Piemonte scritta nel 1890, nel periodo in cui il poeta si
era avvicinato, lui fervente repubblicano, alla monarchia, dal momento che riteneva
il popolo italiano non ancora pronto alla forma di governo repubblicana. I due
giudizi sono chiaramente diversissimi tra loro non solo dal punto di vista formale,
com’è ovvio, ma soprattutto negli esiti. Il giudizio formulato dal Cattaneo è
impietoso e caratterizzato da un profondo realismo politico. Per Cattaneo Carlo
Alberto s’era messo alla testa della guerra per una serie di ragioni che avevano come
denominatore comune gli interessi all’espansione territoriale di Casa di Savoia e la
rassicurazione delle dinastie europee preoccupate dai focolai democratici di rivolta.
Molto diversa invece l’interpretazione carducciana della figura del sovrano sabaudo.
Innanzitutto Carducci, scrivendo poesia, non aveva il dovere di attenersi ai criteri
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dell’analisi storico-politica. Inoltre la sua ode fu pubblicata alcuni decenni dopo la
morte di Carlo Alberto quando il processo di unificazione era ormai compiuto e le
figure che vi avevano collaborato erano ormai avvolte nell’alone della leggenda.
Carducci, in Piemonte, ci presenta Carlo Alberto come colui che interpretò il
desiderio di Unità delle popolazioni dei vari stati della penisola e che impugnò la
spada, pur con tutte le sue incertezze, per portare a buon esito l’impresa. Carducci
ci parla di “tristi errori” che questo “italo Amleto” avrebbe compiuto, ma si legge in
quei versi la pietà verso l’uomo che sconfitto si ritirò a morire nel triste esilio di
Oporto. Carducci, come già fece il Manzoni per Napoleone, cercò di figurarsi gli
ultimi istanti di vita del sovrano immaginando che nel “crepuscolo dei sensi” questi
vedesse comparirglisi innanzi Garibaldi e colui “che primo diè il tricolore a l’aure”
Santorre di Santarosa, il patriota protagonista delle lotte del ’21, autore delle
profetiche parole: “La liberazione d’Italia sarà l’avvenimento del secolo XIX”. Che
della figura di questo sovrano, si voglia accettare la visione realistica di Cattaneo, o
la rivisitazione leggendaria e potentemente suggestiva che ne fa il Carducci, è
tuttavia un atto obbligato inserire a pieno titolo Carlo Alberto tra i protagonisti del
Risorgimento e tra gli artefici dell’unificazione della Patria.
Come ho detto dunque, il primo tentativo bellico in chiave antiaustriaca capitanato
dal Regno di Sardegna fallì. Ma questo fatto non significò, nell’immediato, la
soppressione dell’anelito di libertà dei patrioti italiani. Se l’entrata in scena dei
Savoia aveva voluto dire imprimere al movimento di liberazione nazionale
un’impronta marcatamente liberale e monarchica, la sua sconfitta nella Prima
Guerra d’Indipendenza determinò nei democratici la risoluzione di farsi interpeti
delle istanze di autodeterminazione avvertite negli stati italiani. In molte città si
ebbero sommovimenti democratici ma fu in Toscana e nello Stato Pontificio che
queste rivolte ebbero un effetto di qualche rilievo. In Toscana si formò un governo
retto dal Guerrazzi e dal Montanelli mentre nel territorio della Chiesa sorse la
Repubblica Romana ad opera dei “triumviri” Armellini, Mazzini e Saffi.
L’esperienza della Repubblica Romana fu brevissima ma gloriosa e vide la
promulgazione di un avanzatissimo documento costituzionale di carattere
democratico. Fino all’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana,
un secolo dopo, in Italia non si vedrà un’altra carta costituzionale di tale modernità.
Il fuoco acceso dalla reazione democratica fu comunque destinato a spegnersi in
breve tempo e si assisté alla restaurazione dei vecchi sovrani sui troni.
Il cammino verso l’unificazione non fu però interrotto. Proprio in quegli anni
appariva sulla scena politica del Piemonte una figura che dell’Unità sarebbe stata
l’esecutrice principale: Camillo Benso, conte di Cavour.
Camillo Benso fu un intellettuale di formazione liberale e un imprenditore di primo
livello. Nella sua giovinezza aveva soggiornato in alcune delle principali capitali
europee: Bruxelles, Parigi e Londra. A Londra aveva ricevuto l’impronta
fondamentale alla sua formazione che si determinò nel senso del liberalismo di
matrice anglosassone.
Una volta ritornato in Piemonte, riorganizzò la sua impresa con enorme successo
applicando le più moderne tecniche agronomiche apprese in Inghilterra. Entrato in
politica si fece interprete delle esigenze di modernizzazione diffuse nel Regno di
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Sardegna. L’atto politico che segnò il suo primo grande successo fu l’intervento a
sostegno delle leggi Siccardi, una serie di provvedimenti che avrebbero dovuto
limitare drasticamente i privilegi ecclesiastici. Tale successo fece sì che egli fosse
chiamato a cooperare col governo D’Azeglio in qualità di Ministro delle Finanze e
dell’Agricoltura. Il suo ministero ebbe un peso di eccezionale rilievo perché favorì
con azioni concrete la decisa evoluzione dell’economia sabauda e la riduzione del
deficit nel bilancio dello Stato. Ma il moderatismo eccessivamente prudente di
D’Azeglio costituiva un ostacolo alla visione potentemente riformista di Cavour.
Cavour decise così, col fine precipuo di ottenere il controllo del Parlamento, di
provocare una crisi di governo cercando il sostegno dell’ala democratica guidata da
Urbano Rattazzi. Il modificato equilibrio parlamentare impose al riluttante Vittorio
Emanuele II di affidare a Cavour la presidenza di un nuovo governo.
Una volta divenuto Primo Ministro, Camillo Benso pose a base del suo programma
l’espansione del Regno e la realizzazione dell’Unità Italiana. Per poter avviare la
realizzazione di tale progetto, il neo Primo Ministro ritenne, per prima cosa, di
dover creare i presupposti per un clima di solidarietà internazionale, dal momento
che qualsiasi forma di annessione dei territori della penisola non poteva effettuarsi
se non in un contesto internazionale favorevole. L’occasione per raggiungere
questo obiettivo fu costituita dalla guerra di Crimea scoppiata nel 1853. Cavour
decise di inviare un contingente a sostegno del fronte anglo-francese contrapposto
alla Russia. La sua risoluzione fu avversata nel Regno di Sardegna dall’opposizione
che non comprendeva a quali vantaggi potesse condurre la linea politica da lui
adottata. Ma Cavour vedeva lontano: quando, alla fine della guerra di Crimea, nel
1856, si aprì il congresso di Parigi e il Regno di Sardegna si sedette dalla parte dei
vincitori, egli trovò il contesto ideale nel quale presentare la questione italiana alla
quale Francia ed Inghilterra non rimasero indifferenti. Con Napoleone III iniziò
un’intesa che sarebbe sfociata negli accordi di Plombières del 22 giugno 1858, con i
quali la Francia, a fronte della cessione territoriale di Nizza e della Savoia, si
impegnava ad intervenire militarmente in difesa del Piemonte qualora esso fosse
stato oggetto di un attacco dell’Austria.
Ora per iniziare a concretizzare il grande sogno di Cavour non restava che un
passo: farsi dichiarare guerra dall’Austria. A questo scopo Cavour ordinò una serie
di manovre militari sul confine con il territorio austriaco che venivano compiute
dall’esercito piemontese rafforzato dal supporto di un corpo di volontari: i
Cacciatori delle Alpi comandati da Giuseppe Garibaldi. Il governo austriaco,
sentendosi minacciato da queste azioni inviò un ultimatum che fu recisamente
rifiutato da Cavour. L’Austria reagì dichiarando guerra al Regno di Sardegna. Era il
26 aprile 1859: si apriva la Seconda Guerra d’Indipendenza. Le prime battute della
guerra determinarono una serie di successi per il fronte franco-piemontese
culminati con le battaglie di Solferino e San Martino che videro una pesante
sconfitta dell’Austria ma che ebbero un costo enorme in termini di vite umane. In
Toscana e in Emilia, i successi militari incoraggiarono il rovesciamento dei governi
e l’istituzione di governi provvisori. La Francia, tuttavia, improvvisamente venne
meno ai patti firmando un armistizio segreto con l’Imperatore d’Austria a
Villafranca l’11 luglio del 1859. Le ragioni della defezione dell’alleato francese sono
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di duplice natura: da un lato vi furono le perdite di un gran numero di uomini sui
campi di Solferino e San Martino mentre dall’altro vi era il rischio concreto per la
Francia di inimicarsi il Papa e che la Prussia entrasse in scena a fianco dell’Austria
in ottica antifrancese. La guerra si concludeva così con l’acquisizione della
Lombardia da parte del Piemonte e con il ritorno delle monarchie spodestate nel
centro Italia sui loro legittimi troni. La Francia tuttavia, essendo venuta meno ai
termini dell’accordo non poteva pretendere l’acquisizione dei territori di Nizza e
della Savoia. Cavour usò a suo vantaggio questo aspetto offrendo a Napoleone III
Nizza e la Savoia per gli stati del centro Italia, facendo in modo che il territorio
assoggettato alla monarchia sabauda diventasse composto di Piemonte, Liguria,
Sardegna, Lombardia, Emilia, Romagna e Toscana. L’armistizio di Villafranca
sembrò segnare un momento di stallo nel processo di unificazione. Tuttavia, i
democratici che non si erano rassegnati all’interruzione della realizzazione
dell’Unità, presero le redini della situazione. Nell’aprile 1860 a Palermo sorse una
rivolta di popolo capitanata da Crispi e da Rosolino Pilo. Sull’onda di queste rivolte
Garibaldi reclutò volontari per una spedizione finalizzata ad unire i territori del
Nord e del Centro Italia con il Sud. Il 5 maggio del 1860 da Quarto al Volturno,
mille volontari garibaldini salparono per le coste della Sicilia. Poco meno di una
settimana dopo sbarcarono a Marsala per scontrarsi immediatamente con le truppe
borboniche a Calatafimi e per arrivare alla definitiva conquista della Sicilia con la
battaglia di Milazzo dell’agosto 1860. Subito i garibaldini entrarono in Calabria e a
settembre Napoli era già conquistata. A questo punto, il Regno di Sardegna ritenne
di dover riprendere in mano la situazione e così Vittorio Emanuele II, dopo aver
battuto l’esercito pontificio a Castefidardo raggiunse Garibaldi a Teano. Garibaldi,
mise nelle mani di Vittorio Emanuele le terre conquistate e se ne andò sull’isola di
Caprera. Il 17 marzo del 1861 a Torino si riunì il primo Parlamento dell’Italia
unitaria che proclamò la nascita del Regno e incoronò Vittorio Emanuele II primo
Re d’Italia.
Ora, all’Italia rimaneva ancora, per completare l’unificazione l’annessione del
Veneto, del Trentino, del Friuli Venezia Giulia e soprattutto di Roma.
Il Veneto fu unito all’Italia in seguito agli esiti della III guerra d’Indipendenza,
mentre per l’annessione del Trentino e del Friuli si dovrà attendere il primo
conflitto mondiale, guerra che rappresentò per molti storici una fase saliente della
reale unificazione, grazie all’obiettivo comune verso cui erano finalizzati gli sforzi
economici e militari di tutta la società italiana.
La vicenda dell’annessione di Roma, sede dello Stato Pontificio fu il risultato di un
processo lungo e travagliato e di particolari congiunture di politica internazionale.
Nel 1862 vi fu un tentativo di invadere e di annettere Roma da parte di un gruppo
di democratici guidato da Garibaldi. Il governo bloccò questo tentativo inviando un
contingente militare che si scontrò coi Garibaldini in Aspromonte dove Garibaldi
fu ferito ed arrestato. Nel 1864, l’Italia stipulò con la Francia la cosiddetta
“Convenzione di Settembre” con la quale il Regno d’Italia, che avrebbe spostato la
capitale a Firenze, si impegnava a non invadere lo Stato della Chiesa. Garibaldi, che
non aveva accettato l’esito della prima sfortunata spedizione capeggiò un altro
tentativo di invasione di Roma che fu troncato a Mentana nel 1867 dai Francesi.
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Nel 1870 si verificò l’occasione propizia per la presa di Roma: la Francia, impegnata
nella guerra con la Prussia, subì una clamorosa disfatta a Sedan. Tale fatto aveva
costretto, ovviamente, la Francia ad abbandonare il presidio dello Stato della Chiesa
e fu così che i Bersaglieri italiani, praticato un foro nelle mura di Porta Pia poterono
vittoriosamente entrare in Roma determinandone la finale annessione al Regno
d’Italia che la proclamò capitale.
L’annessione di Roma, com’è comprensibile, causò una profonda ostilità fra lo
Stato Italiano e la Santa Sede determinata ad influenzare i rapporti fra i due soggetti
sino a tempi non troppo lontani da noi. Anzi, si potrebbe dire che solo negli ultimi
anni si è giunti alla piena pacificazione fra Stato e Chiesa, una pacificazione che è
stata vigorosamente sancita in occasione del centocinquantenario dell’Unità
Italiana.
Dopo aver rievocato i momenti salienti dell’unificazione italiana resta da
comprendere come si sia potuta realizzare la transizione alla forma di governo
democratica e repubblicana nella quale ci troviamo oggi a vivere. Per comprendere
appieno, tuttavia, il significato essenziale di tale passaggio bisogna tenere ben
presente che esso fu originato soprattutto dalla piena e dolorosa comprensione da
parte del popolo italiano di che cosa significhi la perdita di ogni libertà e bisogna
inoltre ricordare che essa non fu indolore ma che ebbe un costo enorme.
Dal momento che l’obiettivo posto è quello di mostrare come la transizione alla
forma repubblicana sia stata il risultato di una reazione alla perdita della libertà
politica causata dal regime totalitario che ha governato l’Italia tra il 1925 e il 1943,
non prenderò in considerazione la cause che hanno originato l’instaurazione della
dittatura fascista le quali, oltretutto sono motivo di un amplissimo dibattito
storiografico.
Fin da quando il governo del Partito Fascista si configurò come regime totalitario
con la promulgazione delle Leggi eccezionali fascistissime tra il 1925 ed il 1926,
cominciò a crearsi una componente estremamente minoritaria di opposizione
all’interno della società civile italiana che col passare degli anni si ampliò sempre di
più e che costò ai suoi componenti l’esilio, il carcere o il confino. Queste persone,
che facevano capo a diverse correnti politiche, ma che avevano l’unico obiettivo di
restituire al nostro Paese la libertà perduta sono state più volte associate ai patrioti
del Risorgimento. Come loro, si erano gettati a capofitto in una causa impari senza
nessuna apparente speranza di successo. Manara Valgimigli, un alto esponente della
cultura italiana, un grecista e filologo di prim’ordine, antifascista, firmatario del
Manifesto degli intellettuali antifascisti, fervente repubblicano nella giovinezza e
socialista poi, uomo di formazione pienamente risorgimentale, in un suo discorso
intitolato Romagna Garibaldina, tenuto dinanzi al gremito Teatro Mariani di
Ravenna il 7 agosto 1949, poco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale,
presentò una delle più potenti e suggestive associazioni tra il Risorgimento e la lotta
antifascista che siano mai state pronunciate. Leggiamo le sue parole: “La storia tesse
sue trame recondite e procede per suoi tramiti ignoti che poi si scoprono nel corso
degli anni e dei secoli, e allora tutto apparisce voluto e regolato da necessità. Certo
non videro allora i Garibaldini di Romagna per chi e per che cosa operavano; ma
operarono come se avessero visto che poco più su di Cala Martina, dieci anni dopo,
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il 5 di maggio, insieme con loro stessi e coi loro figli, Garibaldi era pronto a Salpare
dal Lido di Quarto. E così, che cosa potevano sapere e immaginare quelli di noi che
dopo il ’24 patirono esilio e carcere e confino e morte, massime quando nel ’39 e
’40 gli eserciti nazisti correvano l’Europa e pareva stessero per sommergere il
mondo? e per le strade d’Italia i fascisti battevano orgogliosamente speroni e
gambali e gonfiavano i loro pennacchi come pavoni le loro code? E seppero ed
ebbero fede, e videro; tanto più videro quanto più gli altri erano accecati da follia. E
i pennacchi si sparpagliarono per l’aria e caddero come stracci”.
Fede e passione, amore per la libertà e per la propria terra sono il denominatore
comune tra i patrioti del primo e del secondo Risorgimento. Dei patrioti che
combatterono per conquistare la libertà e dei patrioti che combatterono per
riacquistarla.
Anche gli artefici della liberazione italiana dall’oppressione dittatoriale avevano fedi
diverse, ma la diversità che in linea di principio poteva creare dissidio tra loro fu
essenzialmente superata in vista dell’obiettivo supremo che consisteva nella
realizzazione delle condizioni per il ritorno alla normale vita civile. Il risultato del
referendum che il 2 giugno 1946 segnò la nascita della Repubblica Italiana è il
risultato di un riconoscimento sostanzialmente collettivo della necessità di passare
ad una forma di governo che offrisse le maggiori garanzie possibili in termini di
rispetto dei diritti civili e politici, la forma della repubblica democratica.
Il dono più grande che i nostri padri, che hanno combattuto a prezzo di sacrifici
immani, ci hanno lasciato è questa nostra repubblica in cui oggi ci troviamo. Molte
sono ancora le sfide che il nostro popolo dovrà affrontare affinché si raggiunga la
piena realizzazione dello spirito democratico che è alla base della fondazione della
nostra Repubblica. Molti sforzi restano ancora da compiere per sanare le numerose
insufficienze che, purtroppo, presenta il nostro sistema. Ma soprattutto il dovere
che ci sta innanzi come un imperativo ineludibile è quello di preservare la nostra
libertà con la continua e incessante difesa dei valori che costituiscono le radici della
nostra identità di popolo, quei valori che si sono delineati nelle lotte del
Risorgimento e che nella battaglia disperata per l’uscita dall’oscura notte totalitaria
hanno raggiunto il loro senso più completo e più alto.
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SECONDO PREMIO EX AEQUO
ELENA BROSCRITTO
(CLASSE V E – LICEO SCIENTIFICO “LEONARDO DA VINCI” – CREMA)
“Abbiamo combattuto insieme per riconquistare la libertà per tutti: per chi c’era,
per chi non c’era e anche per chi era contro”. Così si espresse Arrigo “Bulow”
Boldrini il 24 giugno 1994 nel discorso al Teatro Lirico di Milano per il 50°
anniversario della formazione dei CVL: niente di più vero. L’ex-partigiano si
riferiva al periodo della Resistenza, ma credo che questa frase possa adattarsi a tutta
la storia dello Stato italiano, che ha dovuto lottare per nascere fin da prima di essere
effettivamente considerato tale. Già nel periodo preromantico e romantico gli
intellettuali e gli artisti percepirono di far parte di qualcosa di più grande del
semplice stato regionale e di qualsiasi entità puramente geografica: cominciarono a
volere un’Italia unita, non solo territorialmente e culturalmente, ma anche
emotivamente. In quest’ottica va compreso il lavoro di autori come Ugo Foscolo,
Alessandro Manzoni o Giovanni Berchet, che intesero trovare, tramite la loro
poesia, qualcosa che unifichi e “affratelli” il diviso popolo italiano. Essi intuirono e
vissero tanto intensamente questa emozione da far precedere la consapevolezza e il
desiderio dell’unità ad ogni progetto e iniziativa volta a realizzarla concretamente.
Non a caso, infatti, in quella che non era ancora Italia, definire un intellettuale
‘romantico’ equivaleva spesso a definirlo “patriota”. Nonostante ciò, i moti del
1820-21 si rivelarono fallimentari in quella che diventerà l’Italia, che dopo un
attimo di speranza ritornò ad essere al sud sottomessa alla Spagna. I moti del 183031 la toccarono solo di striscio e si risolsero nel medesimo fallimento, evidenziando
l’insufficienza delle risorse, la mancanza di coordinazione tra gli insorti e, non
meno, la scarsa coscienza popolare della “questione nazionale”. Finalmente nel
1848 la svolta: gli italiani volevano creare un’Italia “libera, una, indipendente”,
anche se forse non repubblicana, come invece auspicava Giuseppe Mazzini. In
questo periodo emerse, ancora più aspramente che nei moti precedenti, il concetto
espresso da Boldrini un secolo e mezzo dopo: si combatte, ma si è divisi. Non si
trovò un fronte unito, ma i vari poli rimasero in conflitto anche quando venne –
più o meno – completata l’unità territoriale. La frammentazione interna dell’Italia si
riconfermò negli anni successivi in politica. Emblematica fu la scissione di idee
all’ingresso della Prima Guerra mondiale: poco dopo l’inizio del conflitto il popolo
italiano fu uno dei pochi la cui entrata in guerra si doveva stabilire in base alla
risoluzione dell’indecisione interna. Non si arrivò ad un punto di accordo e,
probabilmente, si sarebbe trovato a stento. L’unico modo per prendere una
decisione ed unificare le opinioni fu una presa di forza, un atto imposto. Questo si
può dire che avvenne anche nel periodo del fascismo: durante l’ascesa di Mussolini
le opposizioni vennero eliminate o messe a tacere, ma l’antifascismo, ora in forme
più eclatanti e dichiarate, ora più sommesse, non esitò a mostrare ostilità e
15
avversione al regime. Con il prolungarsi del secondo conflitto mondiale credo che
gli italiani si siano trovati di fronte a una delle più difficili scelte che potessero fare:
da una parte un regime in decadenza, un totalitarismo che aveva ormai quasi
completamente perso la credibilità iniziale che poteva dare sicurezza alle masse e
dall’altra l’estrema incertezza di una guerra quasi “illegale”, condotta da gruppi
clandestini aiutati da Alleati quasi fantasma, dato che pochissime persone li avevano
effettivamente visti. Come fu perfettamente espresso dagli “autori della
Resistenza”, la scelta fu però obbligatoria: nessuno ebbe il privilegio di non
prendere una decisione e non agire, qualcosa andava fatto in quanto obbligo morale
verso il proprio Paese, sia che si optasse per una parte sia per l’altra. La non-scelta,
l’attesa, la speranza che tutto si risolvesse per mano di altri era un privilegio che
nessun italiano si poteva permettere, era una fuga in un “sogno” inconcepibile in
un momento tanto delicato. Nella feconda narrativa resistenziale che spiega questo
bisogno emerge anche un’altra caratteristica del tempo: entrambe le parti vanno
rispettate, o meglio, nessuna parte è per principio migliore dell’altra. I Partigiani
non vengono solo lodati, né i fascisti solo biasimati: si descrivono il coraggio e i
valori di entrambe queste parti. Ovviamente scrittori come Beppe Fenoglio, Elio
Vittorini ed Italo Calvino non possono che raccontare la storia da un punto di vista
partigiano ma ciò non significa che ai fascisti venga tolta ogni dignità: entrambi gli
“schieramenti” hanno dei valori, di cui un chiaro esempio possono essere i
cosiddetti “Ragazzi di Salò”, giovani che sacrificarono la vita convinti delle loro
azioni e dei loro ideali, da un certo punto di vista paragonabili ai partigiani. Si sa,
inoltre, che entrambi gli schieramenti usarono la violenza, perciò nemmeno questa
può essere un parametro per elevare un gruppo a discapito di un altro. Se degli
scrittori partigiani hanno voluto trasmettere questi concetti, che ben rendono la
difficoltà di fare una scelta, allora si capisce come prendere la decisione giusta
all’epoca sia stato difficile. Con il senno di poi, ma forse anche con una più attenta
diffusione delle informazioni senza censura, ci si accorse che la scelta giusta era
quella della libertà. Anche i fascisti avevano dei valori, ma combattevano per “un
futuro in catene”, in negativo, di sottomissione ad un regime. I Partigiani portavano
la speranza di un futuro in positivo, di quella libertà che il popolo italiano non
aveva ancora potuto godere appieno senza crisi economiche, politiche o sociali.
Elemento fondamentale e caratteristico che va sottolineato della Resistenza è che i
partigiani non erano la maggioranza nel paese. Essi erano un insieme eterogeneo,
con adesioni da ogni classe sociale e regione: le Resistenza non fu, come molti
pensano, un fenomeno prettamente settentrionale, ma partì dal sud (cacciata
dell’esercito tedesco nell’ottobre del 1943) ed ebbe appoggi nella classe operaia,
nelle grandi città e, più o meno apertamente, nel popolo. Come disse il filosofo
Antonino Franca: “Tutto ciò per cui un popolo è disposto a combattere e a morire
è un valore indistruttibile”. Con questo si vuole sottolineare sia l’unione di varie
componenti nella lotta partigiana sia, a mio parere, il sentimento che vi profuse
ogni singolo partecipante. Credo sia anche per questo motivo che le persone
inizialmente indecise aderirono poi alla lotta o, in qualche modo, aiutarono i
partigiani, incorrendo in gravi rischi, poiché le rappresaglie nazifasciste non
facevano grandi differenze. I resistenti sembrano quasi aver formato uno “stato
16
nello stato”, con il proprio credo e i propri valori, e mi sembra ragionevole
affermare che questo sia diventato la base per la successiva Italia repubblicana e
democratica. La Resistenza divenne il fulcro attorno al quale gli italiani si
raccolsero, ormai stanchi, e a cui guardavano con speranza: il seme positivo, che era
riuscito ad attecchire durante un periodo tanto tragico come la guerra, doveva
sbocciare in un fiore alla fine del conflitto ed aprire, ad un popolo sfinito e tradito
dalle proprie istituzioni, la possibilità di decidere del proprio futuro. La
Costituzione italiana è quindi il maturo frutto della Resistenza, per questo va
rispettata, così come lo Stato: lo sforzo dei partigiani rischierebbe di andare perduto
se, a causa di mode o ideologie, si arrivasse a negare le radici e le origini ideali della
nostra nazione. Nell’attuale periodo di crisi è forse difficile credere a queste idealità,
ma la base dell’Italia è qui: come non si rinnega la colpa e il peso del fascismo, non
si può nemmeno rinnegare la crescita morale e civile dovuta alla Resistenza. A che
pro cancellare ciò che è accaduto di positivo? Il futuro si costruisce sul passato e la
Resistenza è la base di quello che siamo diventati e di quello che saremo. Se questo
si ricordasse più spesso, si renderebbe giustizia a chi ha dato la vita per noi e per il
futuro. Si riuscirebbero a recuperare quegli ideali che nell’Italia di oggi, attraversata
da un degrado istituzionale e morale ben più grave della crisi economica, devono
riacquistare credibilità e spessore. Dalla Resistenza nacque la Costituzione, paziente
e prezioso compromesso di tutte le forze politiche che, a partire dalla Costituente,
aprirono la nuova stagione della Repubblica. In essa la differenza e la pluralità sono
riconosciute ed abbracciate da un sentimento patriottico che le supera e rende
quindi possibile quell’affratellamento che già due secoli fa Ugo Foscolo aveva
cercato di promuovere. Affratellamento e patriottismo rischiano forse di sembrare
termini antichi e desueti per noi giovani: io non penso più questo da quando ho
cominciato ad entrare un po’ nel vivo della nostra storia , nelle “pieghe” della gente,
conosciuta e comune, che ha fatto la storia piccola, minuta e la grande storia. Le
storie di questa gente mi aiutano a comprendere il senso ed il valore della memoria,
della parola “patria”, mi aiutano a comprendere che la memoria sono io, è ciascuno
di noi che scopre la storia e le tante storie che, con un volto e un nome, riempiono
di valore le commemorazioni, altrimenti sterili e inutili. «Nostro compito -ha scritto
sempre Arrigo “Bulow” Boldrini nel suo ultimo messaggio come presidente
onorario dell'ANPI- è raccontare la nostra esperienza partigiana, con le sue luci e le
sue ombre. Perché possa essere di esempio e monito per fare comprendere il valore
della libertà, il rischio di perderla, il sacrificio che occorre per riconquistarla».
Chissà se noi giovani sappiamo veramente cosa è la libertà? Certamente anche la
consapevolezza delle nostre origini e della nostra storia ci aiuta a scoprirlo.
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SECONDO PREMIO EX AEQUO
PAOLO ZAPPALÀ
(CLASSE V B LICEO SCIENTIFICO “ASELLI” – CREMONA)
23 Marzo 1848, scoppia la prima guerra d'indipendenza.18 Giugno 1946, nasce
ufficialmente la Repubblica Italiana. In poco meno di cent’anni da tanti piccoli stati
è nata l’Italia. Nel 1848 la Penisola vedeva situazioni governative frammentarie: il
Sud Italia, unito sotto al Regno delle due Sicilie, apparteneva a sovrani spagnoli; al
centro si distinguevano lo Stato Pontificio e il Granducato di Toscana, mentre nel
nord si contavano diversi stati, ma il più esteso di questi era il Regno di Sardegna.
La Lombardia e il Veneto erano invece sotto il dominio della casata degli Asburgo.
Ognuno di questi stati batteva la propria moneta e aveva il proprio codice di leggi.
Come nell’Italia attuale, esistevano delle forti tradizioni locali e l’uso del dialetto era
diffuso.
Da questa descrizione appare un’Italia disgregata e ben lontana dall’unità, che sarà
effettiva a distanza di meno di quindici anni. In realtà era già presente l’idea di
un’unità culturale, oltre che geografica. Dante1 e Petrarca2 nel Medioevo fanno
riferimento ad un’entità ben definita con il nome di Italia. Senza scomodare il
pensiero politico di illustri personaggi, come Machiavelli3 e Guicciardini,4 che
hanno ben chiaro tale concetto, nel Rinascimento anche altri autori, come Ariosto,5
fanno riferimenti all’Italia. Tuttavia la diffusione di questo concetto si ha solo a
cavallo tra Settecento e Ottocento grazie al neoclassicismo, che porta grandi
personaggi europei, prima i neoclassici e poi i romantici (Mozart,6 Goethe,7
Stendhal,8 Mendelssohn),9 ad innamorarsi dell’Italia. Questo interesse e la
1
”Ahi serva Italia, di dolore ostello,/ nave senza nocchiero in gran tempesta,/ non donna di provincie, ma bordello!...”
Divina Commedia, Purgatorio, Canto VI, 76-151 [1321]
2
Canzoniere, "Italia mia, benché 'l parlar sia indarno" [1374]
”Il bel paese ch'Appennin parte e 'l mar circonda e l'Alpe”
3
Niccolò Machiavelli, Il Principe, Capitolo XXVI, Esortazione a liberare l'Italia dai Barbari [1513]
4
Francesco Guicciardini, Storia d'Italia [1540]
5
”O città bene avventurosa [Ferrara]... /...la gloria tua salirà tanto / ch'avrai di tutta Italia il pregio e 'l vanto” [1525]
”O d'ogni vizio fetida sentina, / dormi, Italia imbriaca, e non ti pesa / ch'ora di questa gente, ora di quella / che già
serva ti fu, sei fatta ancella?” [1525]
6
Mozart nelle sue lettere parla dei suoi viaggi in Italia (tra le sue destinazioni, ricordo la Sicilia, Napoli, Milano, Parma,
Roma, Torino, Verona e anche Cremona) non elencando i vari staterelli, ma parlando di Italia. Lo stesso Mozart
compose diverse opere in italiano, come il "Don Giovanni" [1769-1773]
7
”Conosci la terra dei limoni in fiore, / dove le arance d'oro splendono tra le foglie scure, / dal cielo azzurro spira un
mite vento, / quieto sta il mirto e l'alloro è eccelso, / la conosci forse? / Laggiù, laggiù io / andare vorrei con te, o
amato mio!” [1786-1788]
8
”[Parlando degli italiani] Sono convinto che il popolo inglese, sottoposto alle situazioni che dal 1530 avvelenano
l'Italia in tutte le maniere e da ogni parte, sarebbe più disprezzabile.” [1800-1802]
9
Sinfonia N°4 "Italiana [1829]
18
successiva diffusione del Romanticismo portano a sollevare il problema dell’unità
politica.
A posteriori, appare difficile comprendere quanto fosse complicato arrivare all’unità
politica dell'Italia. Per comprendere meglio, si faccia un confronto con l’Europa di
oggi. Si può affermare facilmente la presenza di una cultura e negli ultimi tempi
anche di un’identità europea (grazie alle politiche di mobilità, quali per esempio il
progetto Erasmus). Tuttavia l’unità politica dell’Europa è destinata a realizzarsi in
tempi molto lunghi, specialmente in seguito a questo periodo di crisi economica.
Allo stesso modo, dopo il Congresso di Vienna (1815) la prospettiva di realizzare
l'unità politica italiana era molto lontana.
Il Congresso aveva portato gli stati europei alla Restaurazione, ovvero al processo
che doveva riportare sul trono i sovrani deposti da Napoleone Bonaparte.
L’imperatore francese muore nel 1821, anno in cui si verificano i moti di marzo,
celebrati da Manzoni nell'ode “Marzo 1821”. L’insurrezione si rivela un fallimento,
ma bisogna segnalare la concessione della Costituzione da parte del principe Carlo
Alberto e la prima volta che viene sbandierato il tricolore in un moto risorgimentale
(viene sventolata la stessa bandiera della Repubblica Cispadana del 1797). Nel 1848,
sulla scia dei moti insurrezionali in tutta Europa, il Regno di Sardegna si propone
come lo stato che può realizzare l’unità italiana. La rivolta anti-austriaca inizia in
modo positivo, con le Cinque Giornate di Milano (18-22 marzo), e si conclude,
dopo la Prima Guerra d’Indipendenza, nel marzo 1949 con la soppressione della
rivolta di Brescia. Nel decennio successivo, grazie all’opera ideologica di Mazzini e
alla politica di Cavour, il Piemonte guadagna un ruolo importante all'interno dello
scacchiere europeo. L'alleanza con la Francia si rivela decisiva nella vittoria contro
gli Austriaci nella Seconda Guerra d’Indipendenza (1859), che porta alla conquista
di territori importanti come Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana (1860). Nello
stesso anno l’impresa di Garibaldi e dei Mille porta alla deposizione del sovrano
borbonico nel Sud Italia. L’Unità d’Italia viene proclamata il 17 marzo 1861,
nonostante il Veneto e Roma non siano ancora sotto il dominio dei Savoia.
Il territorio veneto viene acquisito alla fine della Terza Guerra d’Indipendenza
(1866). Il conflitto si conclude con la sconfitta della neonata Italia, ma la
contemporanea vittoria della Prussia permette di ottenere una posizione
vantaggiosa nelle trattative di pace. Nel 1861 Roma era diventata capitale del
Regno, nonostante si trovasse sotto lo Stato Pontificio. L’occasione per la sua
conquista avviene nel 1870. La sconfitta della Francia, da tempo protettrice del
Papa, nella guerra contro la Prussia permette all’Italia di entrare a Roma (breccia di
Porta Pia), determinando la fine del potere temporale della Chiesa. Completata
l’unità d'Italia (escluse le terre irredente, Trento e Trieste), sorgono immeritamente i
primi problemi, dovuti al forte ritardo tecnologico rispetto alle altre nazioni
europee. Questo spread si traduce in una popolazione pressoché analfabeta, una
grave mancanza di infrastrutture e soprattutto nel fenomeno del brigantaggio,
simbolo delle lotte contro l’unità d’Italia. La Destra (1861-1876) favorisce
l’accentramento rispetto al decentramento, mentre i governi di Sinistra (1876-1896)
introducono il protezionismo e portano avanti una fallimentare politica coloniale
19
(guerra in Etiopia, 1896). Queste decisioni politiche e le gravi difficoltà economiche
sono le cause principali del fenomeno dell’emigrazione di massa. La crisi si
accentua a fine secolo con le dure repressioni delle lotte operaie (Milano, 1898) e il
fenomeno dell’anarchia (attentato al re Umberto I, 1900). La contemporanea salita
al potere di Vittorio Emanuele III e dei governi liberali, guidati abilmente da
Giolitti, porta ad un decennio di pace interna.
Nel 1914 scoppia la Grande Guerra. Dopo un anno di neutralità, la corrente
interventista porta l’Italia ad entrare in guerra contro l’Impero Austro-Ungarico. Sul
finire del 1917 la sconfitta di Caporetto e la successiva vittoria sul Piave portano
alla conclusione della guerra e alla firma dell’armistizio (1918). L’Italia ottiene
Trento, Trieste e tutta l’Istria, restando priva della Dalmazia. Il malcontento
generato dalla vittoria “mutilata” e la grave crisi economica sono le basi su cui fa
affidamento il nuovo Partito Nazionale Fascista, guidato da Mussolini. Dopo aver
ordinato il delitto Matteotti, deputato socialista ucciso dalla polizia fascista,
Mussolini impone la dittatura (1925). Viene attuata una dura repressione contro gli
avversari politici, mentre la firma dei Patti Lateranensi porta alla pacificazione con
la Chiesa (1929). L’invasione dell’Etiopia, avvenuta senza il rispetto dei patti
internazionali, costringe l’Italia a una politica di autarchia. Nel 1938 Mussolini
stringe un’alleanza con Hitler, a cui segue la promulgazione delle leggi razziali
contro gli ebrei. Nel 1940 l’Italia entra nella Seconda Guerra Mondiale al fianco
della Germania. L’inadeguatezza dell’esercito italiano produce una serie di sconfitte,
solo in parte bilanciate dalle vittorie di Hitler. La sfiducia verso il governo
Mussolini porta Vittorio Emanuele III a sostituirlo con Pietro Badoglio e a firmare
l’armistizio con gli Alleati (1943). L’Italia si divide in due e scoppia la guerra civile.
Il re e Badoglio fuggono nel Sud Italia, liberato dalle forze angloamericane. Al
Nord si forma la Repubblica di Salò, guidata dai reduci fascisti, che sono contrastati
dalle formazioni partigiane. Per due anni si susseguono gli eccidi nazisti e le
rappresaglie partigiane. La liberazione del Nord Italia dalle truppe naziste avviene
solo nell'aprile del 1945, ad opera dei partigiani e degli Alleati. Lo scontento verso il
regno di Vittorio Emanuele III fa sì che nel referendum del 2 giugno la Repubblica
risulti vincitrice. Il re è costretto a fuggire in esilio in Portogallo e l’Italia ritorna alle
urne, per eleggere i componenti della nuova Assemblea Costituente. Nel 1948, in
occasione della promulgazione della Costituzione, ha inizio la storia della
Repubblica Italiana.
20
TERZO PREMIO
MARGHERITA DEL POPOLO
(CLASSE 1^C PEG PROFESSIONALE ENOGASTRONOMICO – SRAFFA – CREMA)
Nella prima metà dell’800 in Europa si verificarono diversi moti di rivoluzione in
particolare in Francia, Austria e Germania. Quest’ondata rivoluzionaria fece crollare
l’ordine venutosi a creare con la Restaurazione. Le cause immediate del 1848 vanno
ricercate direttamente nella crisi che attraversò l’economia continentale nel biennio
1846-47. Essa fu dovuta al fenomeno di sovrapproduzione che si può considerare
come una malattia, cioè che non si seppero vedere gli effetti disastrosi in tempo.
I moti ebbero come obiettivo ottenere una costituzione: in Italia il 4 marzo 1848
venne concessa da Carlo Alberto di Savoia la prima e vera costituzione, lo Statuto
Albertino. La concessione dello Statuto Albertino non fu proprio una libera scelta,
infatti, le rivolte liberali stavano mettendo in coalizione tutta l’Europa e a nessun
buon osservatore poteva sfuggire che l’assolutismo monarchico stava oramai
vivendo la sua ultima stagione. Carlo Alberto, seppure dopo molte incertezze,
ritenne più prudente concedere uno statuto moderato piuttosto che subire
l’imposizione di una costituzione più avanzata sull’onda dei moti risorgimentali. Lo
chiamò statuto per rilevare che era stato stabilito, cioè concesso unilateralmente dal
Re e non era stato imposto con la forza da un’assemblea popolare come era
accaduto nella Francia rivoluzionaria. Lo Statuto Albertino fu definito “Legge
fondamentale, perpetua ed irrevocabile della monarchia sabauda”. Il 17 marzo
1861, con la fondazione del Regno d’Italia, divenne la Carta Costituzionale della
nuova Italia unita e rimase tale fino al biennio 1944-46 quando, con successivi
decreti legislativi, fu adottato un regime costituzionale transitorio valido fino
all’entrata in vigore della Costituzione della Repubblica Italiana, il 1 gennaio 1948.
In seguito ai moti promossi dalle classi borghesi, cui partecipò anche l’aristocrazia,
nelle principali città del Regno di Sardegna, Carlo Alberto prese una serie di
provvedimenti di stampo liberale: nel 1837 emanò il codice civile cui seguì il codice
penale nel 1839; nel 1847 riformò la disciplina della censura(imposta da Vittorio
Emanuele I) permettendo la pubblicazione di giornali politici. Creò una Corte di
Revisione(ossia di Cassazione) riducendo le competenze dei vecchi senati e
pubblicando il codice di procedura penale basato sulle pubblicità del dibattimento.
Su ispirazione austriaca, aggiornò anche la composizione del Consiglio di Stato
creato nel 1831 e nel quale avrebbe chiamato due rappresentanti per ogni divisione
territoriale fra i Consiglieri delle Province componenti la divisione. Con la
concessione borbonica del febbraio, Carlo Alberto cedette e fece preparare una
dichiarazione di principi che saranno alla base dello Statuto e che furono proclamati
al popolo l’8 febbraio 1848, tre giorni prima che il Granduca di Toscana prendesse
la stessa decisione. È da notare come lo statuto non sia mai stato qualificato con il
termine costituzione. Statuto definiva una forma di monarchia costituzionale e tese
21
ad evolversi verso la differente forma di monarchia parlamentare, rivelando quindi
una natura di costituzione flessibile. La prima modificazione che lo statuto stabilirà
sarà quella relativa alla bandiera, da quella con la coccarda azzurra a quella tricolore,
in occasione della ribellione del Lombardo - Veneto. Lo Statuto Albertino
corrisponde a ciò che si definisce una costituzione breve, poiché si limita ad
enunciare i diritti e ad individuare la forma di governo. Riconosce il principio di
eguaglianza, la libertà individuale, l’inviolabilità di domicilio, la libertà di stampa e la
libertà di riunione. Per quanto riguardava la libertà di religione, il Regno di Sardegna
era uno stato confessionale. La religione, si scrisse, “è quella Cattolica, Apostolica e
Romana” e gli altri culti esistenti erano unicamente tollerati. La monarchia era
costituzionale ed ereditaria seconda la legge salica, il Re era e restava capo supremo
dello Stato e la sua persona era sacra e inviolabile, anche se questo non significava
che non dovesse rispettare le leggi, ma solo che non poteva essere oggetto di
sanzioni penali. Il Re esercitava il potere esecutivo attraverso i ministri, la sovranità
non appartiene alla Nazione ma, al Re, il quale, da sovrano assoluto, si trasformava
in principe costituzionale. Nella prassi Carlo Alberto cercò di far in modo che il
proprio Governo avesse la fiducia del parlamento. Inizialmente i ministri venivano
considerati soltanto singoli collaboratori del Re, senza riconoscimenti ufficiali di
loro riunioni in organi collegiali. Se il rapporto di fiducia con il Re veniva meno, il
ministro poteva essere sostituito. Il parlamento, invece, era composto da due
camere: quella di nomina regia(Senato) e quella elettiva(la Camera dei Deputati). I
progetti di legge potevano essere promossi dai ministri, dal governo, dai
parlamentari, oltre che dal Re. Per diventare legge dovevano essere approvati nello
stesso testo da entrambe le camere e dovevano essere munite di sanzione regia. Le
due camere del Re rappresentavano perciò, per lo statuto, i “tre poteri legislativi”:
bastava che uno fosse contrario per quella sessione ed il progetto non poteva più
essere riprodotto. La Giustizia aveva il potere di grazia. Prima dello Statuto il Re
aveva il potere discrezionale di nominare, promuovere, spostare e sospendere i suoi
giudici. Ora veniva introdotta qualche garanzia in più per i cittadini e anche per i
giudici, che dopo tre anni di esercizio, avevano garantita “l’inamovibilità”. Dopo
l’emissione dello Statuto Albertino, però, il processo che avrebbe portato
all’unificazione di tutta la penisola non era finito: iniziavano le guerre
d’indipendenza, in tutto tre. Tali eventi bellici furono gli episodi cardine del
Risorgimento e il punto di arrivo della politica del Regno di Sardegna. Protagonisti
del Risorgimento italiano furono il primo ministro, conte di Cavour, e vari
movimenti e gruppi politici, fra cui quelli ispirati da Giuseppe Mazzini. A partire
dalla fine delle guerre napoleoniche, essi propugnavano l’unificazione delle terre
abitate da italiani. Tale unificazione si realizzò come un’espansione, sancita da
plebisciti, dello Stato Sabaudo, sostenuto politicamente dall’Inghilterra liberale e
dall’alleanza militare con l’impero francese retto da Napoleone III prima, con la
Prussia di Otto Van Bismarck poi, ai danni dei preesistenti stati formatisi nella
penisola a seguito del Congresso di Vienna e dei possedimenti della casa d’Asburgo.
Avendo paura che nel regno di Sardegna accadessero fatti analoghi a quelli di
Milano e Venezia, Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria il 23 marzo del 1848.
L’entusiasmo dei liberali costrinse i sovrani della Toscana e di Napoli, e lo stesso
22
papa a inviare truppe d’aiuto all’esercito regolare sabaudo. I volontari ,però, erano
molto lenti e incerti. Inoltre Carlo Alberto aveva fretta di annettere la Lombardia al
Piemonte e ciò fece insospettire molto gli altri sovrani che temevano il
rafforzamento della monarchia piemontese. Uno dopo l’altro i sovrani
cominciarono a ritirare le truppe, indebolendola possibilità offensiva dell’esercito. A
dire la verità non procedeva, l’esercito, perché il sovrano era impegnato a tenere a
bada l’iniziativa popolare e i democratici. Dopo tre giorni lunghi e sanguinosi il 25
luglio del ’48 le truppe piemontesi furono sconfitte e Carlo Alberto fu costretto a
ritirarsi precipitosamente lasciando Milano nelle mani degli austriaci. Il 9 agosto il
generale Salasco firmò un armistizio con l’Austria, che pose fine all’ostilità. Cosi si
svolse la prima guerra d’indipendenza. La seconda fu simile ma nel 1859 l’Austria
chiese un “PERENTORIO ULTIMATUM” a Vittorio Emanuele II nel quale si
chiedeva un disarmo delle forze sabaude ammassate al confine del Ticino e lo
scioglimento dei corpi volontari. L’Ultimatum fu respinto e il 24 aprile del 1859
l’Austria dichiarò aperte le ostilità con i popoli Sardi. L’esercito Franco-Piemontese
si scontrò con le truppe austriache in violente battaglie ma riportando decisive
vittorie, che gli aprirono la strada verso Milano. L’11 luglio del ’59, a Villafranca,
Napoleone III stipulò un armistizio segreto con l’imperatore d’Austria. Il 5 maggio
1860,Giuseppe Garibaldi, contro il parere di Cavour, che temeva una risposta
francese, salpò con i Mille da Quarto, vicino a Genova, dando avvio alla famosa
spedizione. Il nizzardo, con l’appoggio di Vittorio Emanuele II, avanzò
rapidamente risalendo lo stivale. Nel frattempo l’esercito Sardo batteva il pontificio
nella Battaglia di Castelfidardo, che permise l’annessione delle Marche e
dell’Umbria al Regno di Sardegna. In seguito all’incontro tra Giuseppe Garibaldi e
Vittorio Emanuele II, anche tutte le regioni del sud entrarono nel regno sabaudo.
Con un’Italia ormai unificata dalle Alpi alla Sicilia, ma ancora mancante del nordest
e del Lazio, il 17 marzo 1861 il parlamento nazionale riunito a Torino, capitale del
nuovo stato, proclamò la trasformazione del Regno d’Italia di cui Vittorio
Emanuele II fu il primo re. Alla completa unificazione dell’Italia mancavano, però,
ancora l’acquisizione del Veneto annesso nel 1866, di Roma annessa nel 1870, del
Trentino e del Friuli Venezia Giulia, annessi tra il 1915-1919 (prima guerra
mondiale). Il nuovo Stato Italiano era poco incline a iniziare una nuova guerra,
mentre i rivoluzionari italiani puntavano ad azioni come la spedizione dei Mille che
sfruttando l’appoggio della popolazione locale permettesse la liberazione dei
territori. Una spedizione di Garibaldi contro lo Stato Pontificio fu fermata
dall’esercito italiano, che temeva una guerra con la Francia, allora protettrice dello
Stato Pontificio. Nel 1866 il Regno d’Italia si alleò con la Prussia contro l’Austria.
La guerra sul fronte Italiano fu segnata da alterne vincente, ma la vittoria prussiana
consenti al Regno d’Italia di annettere il Veneto. Sin dalle prime riunioni del
parlamento Italiano, era stato dichiarato il programma di rendere Roma capitale del
Regno. Lo Stato Pontificio rimaneva però ancora al Papa e comprendeva una
buona parte del centro Italia; tuttavia il Regno d’Italia aveva firmato la
Convenzione di settembre con la Francia, in cui si impegnava ad occupare Roma.
Le cose cambiarono nel 1870,quando scoppiò la guerra Franco-Prussiana:
l’efficientissima macchina da guerra del cancelliere Otto Von Bismarck e
23
dell’imperatore Guglielmo I ottiene una schiacciante vittoria sulla Francia. Dopo la
sconfitta francese l’Italia non si senti più obbligata a rispettare il patto sottoscritto
con l’imperatore francese, ormai deceduto. Inoltre la guarnigione francese a difesa
di Roma era stata ritirata e Papa Pio IX si rifiutava di trattare. Vittorio Emanuele II
fece allora avanzare il suo esercito verso Roma. Fu la fine della storia millenaria
dello Stato della Chiesa. La reazione del Papa non si fece attendere: nonostante
l’Italia avesse approvato la Legge delle Guarentigie in cui si concedevano al
pontefice il Palazzo Pontificio di Castel Gandolfo, i palazzi del Vaticano e un
indennizzo annuo in denaro, Pio IX rifiutò di trattare e ribadì la sua disposizione ai
cattolici di non partecipare alla vita politica del regno. Nel luglio 1871 Roma
divenne la capitale del regno d’Italia, ove è tuttora la capitale d’Italia. Dopo le
guerre d’indipendenza e al termine della prima guerra mondiale in Italia si sviluppò
un’ideologia politica chiamata Fascismo, che sorse per principale iniziativa di
Benito Mussolini. È un movimento di carattere nazionalista, anticapitalista,
autoritario e totalitario, ma allo stesso tempo si può interpretare come un
movimento rivoluzionario e reazionario, sebbene la sua natura prevalente sia
tuttora oggetto di dibattito. In seguito alla crisi del 1924-25 il regime fascista subirà
una svolta autoritaria che porterà all’abolizione delle libertà democratiche e alla
realizzazione di una dittatura autoritaria. Il potere relativamente ampio del regime
mussoliniano, ottenuto tramite la soppressione poliziesca dell’opposizione politicopartitica, consentirà al fascismo di imprimere radicali modificazioni al paese, alla sua
società, alla sua cultura e alla sua struttura economica. Nel corso dei due decenni di
governo, detti Ventennio, il fascismo cercherà anche di imporre la propria visione
antropologica al popolo italiano attraverso politiche educative e culturali, e
purtroppo attraverso una legislazione razzista e antisemita. In politica estera, il
regime promuoverà prima una blanda revisione dei trattati di pace del 1919 per
assicurare contemporaneamente una maggiore forza all’Italia e la stabilità in
Europa, ma in seguito al sorgere del nazismo in Germania, a metà degli anni
Trenta, il regime compì una spirale di scelte tali che nel suo ultimo quinquennio il
fascismo finì col legarsi sempre più al regime nazista, con il quale finirà coinvolto
nella seconda guerra mondiale. L’esperienza bellica sarà disastrosa per il regime e
per il paese. Le sconfitte sui fronti d'Africa e Russia con la conseguente invasione
alleata delle regioni meridionali italiane portò alla caduta del governo di Mussolini e
al suo arresto e la nomina del generale Badoglio come primo ministro: in una sola
giornata venti anni di regime - oramai completamente privato di consenso popolare
- vennero spazzati via e quindi a una divisione della penisola in due tronconi,
occupati rispettivamente dalle forze dell'Asse al nord e Alleati al sud. Questa
divisione consentì una temporanea rinascita del fascismo nelle regioni settentrionali,
dove esso organizzò uno Stato di fatto (Repubblica Sociale Italiana, RSI)
riconosciuto solo dai paesi dell’Asse. Negli ultimi venti mesi di esistenza il fascismo
fu coinvolto nella guerra civile con le formazioni partigiane che fiancheggiavano
l’avanzata alleata. Alla fine di aprile 1945 con il crollo del fronte e l’insurrezione
popolare proclamata per il giorno 25 dal Comitato di Liberazione Nazionale, la RSI
fu spazzata via. I suoi elementi dirigenti - compreso Mussolini - catturati dai
partigiani, furono fucilati fra 28 e 29 aprile 1945. Con la morte di Benito Mussolini
24
l’esperienza fascista può essere considerata conclusa. In Italia nacque l’era liberale.
Il liberalismo è un insieme di dottrine, definite in tempi e luoghi diversi durante
l’età moderna e contemporanea, che pongono precisi limiti al potere e all’intervento
dello stato, al fine di proteggere i diritti naturali, di salvaguardare i diritti di libertà e,
di conseguenza, promuovere l'autonomia creativa dell'individuo. Dopo aver
ottenuto la Costituzione scritta, unificato l’intera penisola, abbattuta la dittatura,
rimaneva un ultimo importante passo per fare dell’Italia un paese davvero liberale.
Si trattava di concedere il voto alle donne: esse votarono per la prima volta il 2
giugno 1946 per scegliere la forma di governo, monarchia o repubblica. Vinse
quest’ultima.
25
SEGNALAZIONI PARTICOLARI E ATTESTATI
Cristian Baffi
(I.I.S. “SRAFFA” CREMA - CLASSE: 1^C PEG
- PROFESSIONALE ENOGASTRONOMICO)
Nella prima metà dell’800 l’Italia conobbe un processo di graduale
riscoperta e sempre più netta rivendicazione della propria identità
nazionale. Questo processo, noto come Risorgimento, portò alla
fondazione dello stato unitario italiano, ovvero che fece della penisola un
organismo politico indipendente a base nazionale. Sarà sufficiente
ricordare che, secondo la ricostruzione della più accreditata dottrina,
possono contarsi ben 23 costituzioni nel nostro territorio, sin dai tempi
dal primo progetto di Costituzione italiana, votato a Bologna in San
Petronio il 4 dicembre 1796, passando per il famoso proclama di Murat
lanciato a Rimini il 30 marzo 1815, fino agli statuti fondamentali nati “nel
clima di tempesta del 1848”. In ogni caso, lo Statuto Albertino ha
rappresentato per circa un secolo la carta costituzionale di riferimento
per il nostro ordinamento. In particolare, come noto, dopo il famoso
proclama di Carlo Alberto dell’8 febbraio 1848, in cui lo statuto venne
preannunciato, il consiglio di conferenza, nel corso di cinque sedute (10,
17 e 24 febbraio, 2 e 4 marzo 1848), ne elaborò il testo. Si segnala che i
processi verbali delle citate riunioni (ed altre collegate) del consiglio di
conferenza, sono stati tradotti in lingua italiana da quella francese alla
presidenza del consiglio dei ministri, il dipartimento per l’informazione e
l’editoria, “lo Statuto Albertino illustrato da lavori preparatori”, Roma,
1996. Lo Statuto fu poi concesso da Carlo Alberto con regio decreto del
4 marzo 1848; fu pubblicato in lingua italiana domenica 5 marzo 1848
nella “Gazzetta Piemontese” ed in lingua francese a Chambéry, inserito
nella “raccolta degli atti di governo di Sua maestà il re di Sardegna” con il
numero 674 e nella corrispondente raccolta in lingua francese con il
numero 456. Infine, esso entrò in vigore l’8 maggio 1848. Caratteristica
peculiare dello Statuto Albertino è data dall’aver avuto un carattere
certamente ottriato, ma al contempo con una qualche forma di sanzione
popolare mediante i plebisciti, pur con tutte le note oscillazioni della
dottrina circa il valore da attribuire a questi ultimi, anche e soprattutto
26
come atti di approvazioni dello Statuto stesso. Relativamente alle
caratteristiche solitamente attribuite allo Statuto Albertino quale carta
fondamentale, sarà sufficiente ricordare, in particolare, l’elasticità, la
flessibilità, la sobrietà espressiva o con terminologia meno datata, la sua
peculiarità di Costituzione breve. Per quanto riguarda i suoi singoli
contenuti, gli 84 articoli possono essere suddivisi nelle partizioni stesse
del testo e ricostruiti sinteticamente nei loro contenuti in 8 tematiche
principali: la corona, il senato del regno, la camera dei deputati, le norme
comuni alle due Assemblee parlamentari, il governo del re, l’ordine
giudiziario, i diritti e i doveri dei cittadini, nonché le disposizioni generali
e transitorie. Lo Statuto Albertino, però, non placò i moti Rivoluzionari
che sfociarono nelle tre guerre d’indipendenza, tre conflitti che ebbero
esito l’unificazione della quasi totalità dell’Italia. Tali eventi bellici furono
gli episodi cardine del Risorgimento e furono il punto di arrivo della
politica del Regno di Sardegna, guidato dal primo ministro Conte di
Cavour e dei vari movimenti e gruppi, fra cui quelli ispirati da Giuseppe
Mazzini, che a partire dalla fine delle guerre napoleoniche propugnavano
l’unificazione delle terre abitate da italiani, ma sotto la dominazione
straniera, austriaca e britannica. La prima ebbe inizio quando Carlo
Alberto di Savoia, il re, si pose a capo di una coalizione di stati italiani
che dichiararono guerra all’Austria, che allora occupava il Regno
Lombardo-Veneto. Inizialmente la guerra fu favorevole alle truppe
guidate da Carlo Alberto di Savoia, ma l’iniziale successo preoccupò gli
altri stati italiani, la maggior parte dei quali ritirò il proprio appoggio
all’impresa, lasciando il Regno di Sardegna a combattere contro l’Austria.
La guerra si concluse definitivamente nel marzo del 1849 con la sconfitta
di Novara, cui seguì l’abdicazione di Carlo Alberto in favore del figlio
Vittorio Emanuele II. La seconda guerra d’indipendenza cominciò nel
1858 quando Camillo Benso Conte di Cavour primo ministro del Regno
di Sardegna firma un accordo di mutua assistenza in caso di guerra con
Napoleone III, detti i famosi patti di Plombières. Il 26 aprile 1859, grazie
ad una serie di stratagemmi, il Regno di Sardegna riesce a farsi dichiarare
guerra dall’Austria, attuando manovre militari lungo il fiume Ticino. La
seconda guerra d’indipendenza vede schierati da un lato la Francia e il
Regno di Sardegna, dall’altro l’Austria. Gli eserciti Franco-Piemontesi,
guidati da Napoleone III, sconfiggono gli austriaci nelle Battaglie di
Magenta, Solferino e San Martino. Successivamente, però, Napoleone III
abbandonò la guerra temendo che il Piemonte si rafforzasse troppo e
cominciò ad avviare trattative con l’Austria, con la quale firmò
27
l’armistizio il 20 luglio 1859, a Villafranca. L’anno successivo anche il
Piemonte firmava la pace con l’Austria: la Francia acquisiva così la Savoia
e Nizza, al Piemonte si annettevano la Lombardia, l’Emilia e il Gran
Ducato di Toscana. Venezia rimaneva sotto il dominio austriaco, la Stato
Pontificio sotto il governo del Papa e il Regno delle due Sicilie sotto la
monarchia assoluta dei Borboni. Intanto nel 1858 moriva Ferdinando II,
re di Napoli, e saliva al trono il figlio Francesco II. Il Piemonte mirava ai
territori del meridione, ma voleva evitare di dichiarare una guerra che
sarebbe stata un’aggressione ingiustificata, così incoraggiò segretamente
un gruppo di volontari guidato da Giuseppe Garibaldi. Proprio lui, il 5
maggio 1860, salpava da Quarto, vicino a Genova, con i suoi uomini e
dava l’avvio alla spedizione dei Mille. La spedizione di Garibaldi
contribuì ad annettere le regioni del sud Italia mediante plebisciti, il 17
marzo 1861 il parlamento nazionale riunito a Torino, capitale del nuovo
stato, proclamava Vittorio Emanuele II re d’Italia. Alla completa
riunificazione mancavano ancora l’acquisizione del Veneto, di Roma, del
Trentino e di Trieste. Gli ultimi due verranno annessi tra il 1915-1919
alla fine della Prima Guerra Mondiale”. Nel frattempo il nuovo stato
italiano era poco incline ad iniziare una nuova guerra, la terza, mentre i
rivoluzionari italiani puntavano ad azioni come la spedizione dei Mille
che, sfruttando l’appoggio della popolazione locale, permettesse la
liberazione dei territori. Una spedizione di Garibaldi contro la Stato
Pontificio fu fermata dall’esercito italiano, che temeva una guerra con la
Francia allora protettrice dello Stato Pontificio. Nel 1866 il Regno d’Italia
si alleò con la Prussia contro l’Austria. La guerra per l’Italia fu un
insuccesso, ma la vittoria prussiana consentì di annettere il Veneto al
Regno d’Italia. Gli avvenimenti che portarono a dichiarare l’unità d’Italia
furono molteplici e coinvolsero moltissimi personaggi vissuti nella
seconda metà del 1800, le cui gesta note ancora oggi, le apprendiamo noi
studenti sui libri di scuola. Da dove cominciare, quindi, per raccontare i
fatti principali che, in questi anni di grande cambiamento, portarono a
proclamare l’Italia unita sotto la giurisdizione di un’unica sovranità
nazionale? Potremmo cominciare dall’epilogo che, in realtà a guardar
bene, rappresenta proprio l’inizio dello Stato italiano. Iniziamo quindi dal
17 marzo 1861, storica data durante la quale l’Italia fu fatta, almeno sulla
carta. Dopo l’approvazione del Senato e della Camera dei deputati del
Regno di Sardegna, infatti, furono le seguenti parole messe nero su
bianco a Torino: il re Vittorio Emanuele II assume per sé e i sui
successori il titolo di re d’Italia. “Ordiamo che la presente, munita del
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sigillo dello stato, sia inserita nella raccolta degl’atti del governo,
mandando a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge
dello stato”. Il processo che portò alla proclamazione dello Stato d’Italia
cominciò però qualche anno prima, quando molte zone della nostra
penisola assistettero al successivo sfaldamento dei vari stati nazionali che
lo componevano. Motivazione di questo crollo è di attribuirsi al fatto che
molti stati italiani avevano legato la propria sorte nazionale alla presenza
austriaca nel nostro paese, senza però fare i conti con l’altra potente
presenza, quella Franco-Piemontese che, in questi anni, si faceva sempre
più ingente fino a culminare nella vittoria dei suoi eserciti nel 1859.
L’unificazione dell’Italia in questo senso non fu particolarmente cruenta
Si registrarono poche resistenze e la spedizione dei Mille fu una vera e
propria marcia militare da nord a sud. Le altre sovranità nazionali e le
vecchie classi dirigenti accettarono il fatto con pacata consapevolezza,
preparandosi ad un nuovo corso politico ed amministrativo italiano. In
effetti, nonostante le differenze in cui avevano vissuto Nord e Sud
durante i secoli, il primo con tradizioni signorili e comunali e il secondo
con tradizioni monarchiche e accentrate, l’Italia già allora poteva vantare
una base culturale comune che andava al di là dei problemi linguistici.
Quello che mancava all’Italia, quindi, era una forma politica ed
amministrativa unitaria che poi trovò il proprio coronamento proprio
nella proclamazione del 17 marzo 1861. Diventata Stato nazionale l’Italia
cessava di essere terreno di scontro tra diverse faziosità per assumere
uno status di stabilità all’interno dell’Europa, andando anche a creare un
nuovo aspetto tra le diverse potenze europee. La posizione strategica al
centro del Mar Mediterraneo, infatti, ha avuto la positiva conseguenza di
rendere meno aspre le mire espansionistiche e il contrasto tra Gran
Bretagna e Francia. Non solo, per dimostrare al resto del mondo che
l’Italia era davvero uno Stato liberale restava un’ultima cosa da fare:
concedere il voto alle donne. Ciò non avvenne nell’immediato, visto che
le italiane votarono per la prima volta solamente in occasione del
referendum monarchia-repubblica il 2 giugno 1946. Concludo citando
una frase del Marchese Massimo D’Azeglio: “fatta l’Italia ora bisogna
fare gli italiani”.
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SIMONE BUTTI
(I.T.C. “E. BELTRAMI” 5^B - I.G.E.A – CREMONA)
VIVA VERDI: NASCITA DI UN PAESE LIBERO
“Viva Verdi!!!” Questo innocente elogio nasconde in realtà significati ben più
profondi: rappresenta un’idea, un movimento, un pensiero, un Risorgimento. E per
Risorgimento si intende il sorgere di nuovo, il tornare in vita, non in senso
materiale, ma in senso spirituale, rievocare quei sentimenti patriottici sedimentati
nei cuori degli Italiani da ormai troppo tempo. Il nostro Risorgimento si può
paragonare alla notte dei poli terrestri: dopo sei mesi di buio, ecco che il sole sorge,
o meglio risorge, nella speranza che possa risplendere per l’eternità.
Il motto di apertura si può considerare un punto di partenza: questa frase cominciò
ad apparire sui muri di Roma nell’anno 1859, quando ormai il celeberrimo
compositore Giuseppe Verdi era osannato dal pubblico. Il suo vero significato era
“Viva Vittorio Emanuele Re d’Italia”, ma chiaramente nessun italiano dotato di
buon senso avrebbe scritto una frase del genere al di fuori del regno di Sardegna;
proprio per questo si inventò un semplice e apparentemente innocente acronimo.
Si può affermare che lo spirito patriottico del musicista crebbe
contemporaneamente a quello del popolo; il primo segnale fu involontario, ma
decisivo: il nove marzo 1842 al teatro “Alla Scala” di Milano andò in scena la prima
del “Nabucco” e alle ore 22.00 iniziò il famoso coro del “Va Pensiero”, il coro
cantato dal popolo ebreo prigioniero in Babilonia, che sogna la terra promessa.
Ebbene, il pubblico italiano, sotto il dominio austriaco, si immedesimò nella
condizione degli israeliti, in quella percezione reale di prigionia, di apnea
intellettuale, in cui i propri ideali venivano calpestati dall’occupazione straniera.
L’opera fu un successo strepitoso. Questo ci ricorda un poco un pensiero che
maturerà cinquant’anni dopo, quello del superuomo di Nietzsche, che deve riuscire
a liberarsi dai vincoli che impone la società: così il Popolo italiano doveva liberarsi
dell’invasione austro-ungarica, senza sfociare però nel nazionalismo integralista che
precedette entrambe le guerre mondiali.
Verdi comprese cosa aveva inconsciamente suscitato e non se ne dispiacque, anzi,
anche in lui maturò quel bisogno di libertà che andava parallelo col suo pubblico.
In seguito Mazzini gli affidò il compito di comporre un inno nazionale (“L’inno
delle nazioni”), egli accettò volentieri, ma fu presto dimenticato, benché il
compositore sognasse una nuova “marsigliese”; era il 1848 e forse, nonostante le
cinque giornate di Milano, i tempi non erano ancora quelli giusti.
Questi cinque giorni di insurrezione milanese uniti ad una volontà di liberazione
diffusa, causarono in Verdi non pochi dubbi, incertezze, ripensamenti: il musicista,
infatti, pensò addirittura di abbandonare la sua brillante carriera di compositore per
30
dedicarsi interamente alla causa comune. Ciò è significativo e ci fa pensare come
fosse davvero sentito il bisogno di unità, come le persone, anche le più abbienti,
fossero disposte a cambiare completamente rotta pur di raggiungere un sogno che
oramai dal 476 d.C., anno della caduta dell’impero romano, era inseguito, ma non
fu mai conquistato.
Tuttavia il nostro bussetiano non cedette alla tentazione, ma neppure la abbandonò:
trovò un equilibrio e mentre componeva capolavori, partecipava attivamente alla
causa con contributi non solo spirituali ma anche materiali. Per esempio, quando, a
capo di una delegazione delle province parmensi e modenesi, presentò al re Vittorio
Emanuele II il risultato del plebiscito tenutosi per confermare la volontà delle
province di annessione al Regno, oppure quando, poche settimane più tardi,
finanziò di tasca sua, l’acquisto da parte del comune di Busseto di 172 fucili per la
Guardia Nazionale locale.
Nel 1861, tutti gli sforzi compiuti dal popolo italiano non andarono vanificati e
nacque il Regno d’Italia, che tuttavia non comprendeva ancora, grosso modo, il
Lazio, facente parte dello Stato della Chiesa.
Ma perché nella popolazione nacque il desiderio di unità o, più in generale, perché
le persone cercano sempre un’identità nazionale? L’uomo, come l’Ulisse di Dante
non smette mai di cercare, ha bisogno di sentirsi parte di qualcosa di più grande
che, in una piccola porzione, appartenga anche a lui, affinché possa dare il proprio
contributo per una crescita comune che arricchisca la cultura, l’umanità, la
spiritualità, il pathos, per dare un senso alla sua esistenza. Essa non può avere come
unico fine il vile denaro, che altro non è se non carta stampata a campione, causa
diretta o indiretta di tutte le guerre, nella speranza che l’uomo del futuro,
utopisticamente, possa soffrire al massimo di cuore e mai di mano.
Una delle composizioni più famose di Verdi è la “Messa da Requiem”, scritta nel
1874 a un anno dalla morte di Alessandro Manzoni, che il musicista ammirava
molto. È curioso notare come ci fosse un “legame” risorgimentale tra i due grandi
dell’arte: Manzoni nei “Promessi Sposi” cercò una lingua nazionale, che si potesse
comprendere da Nord a Sud, circa quarant’anni prima dell’unificazione. Inoltre
partecipò anch’egli attivamente alla formazione dell’identità nazionale, divenendo
prima senatore del Regno e poi presidente di una commissione che si occupava del
problema della lingua italiana, ancora incerta e poco diffusa (basti pensare al fatto
che i soldati del Nord che occuparono il Sud nel periodo del brigantaggio non
capivano ciò che la popolazione locale diceva loro e viceversa).
Il Risorgimento proseguì con un altro anno cruciale, il 1870, quando, con la breccia
di Porta Pia, anche quel che rimaneva dello Stato Pontificio venne annesso. Con ciò
terminò definitivamente anche il potere temporale della Chiesa e Roma divenne la
nuova capitale del Regno, coronando il sogno di molti. Ma la situazione unitaria
non era ancora del tutto risolta e si dovette aspettare per altri 48 anni.
Infatti l’ultima guerra d’indipendenza, la quarta, fu la prima guerra mondiale, detta
la “Grande guerra”, che oltre a causare milioni di morti cruente e ignobili, annesse
all’Italia il territorio tridentino e altoatesino che ancora facevano parte dell’ormai
ex-impero austro-ungarico.
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L’ideale per tutta la razza umana sarebbe di abbandonare i desideri materiali: il
bisogno continuo di “cose”, come definì bene Giacomo Leopardi nella “Teoria del
piacere”, rende l’uomo infelice, scontento anche se appare il contrario,
insoddisfatto, portandolo a commettere azioni malevole in nome di un ideale
fasullo; l’uomo se vuole sopravvivere nel futuro, in animo e corpo, deve lasciare
egoismo e nazionalismo per costituirsi in una grande unità umana, che ponga le
proprie basi sui principi di giustizia, verità e bellezza, perché gli esseri umani
possano aiutarsi a vicenda gratuitamente e senza timore.
In questo senso Giuseppe Verdi può essere un esempio per ciascuno di noi, un
uomo semplice, un benefattore, un filantropo, lo ha dimostrato in tutte le sue
scelte, dalla musica meravigliosa che tuttora possiamo ascoltare, elevando lo spirito
umano, ai gesti di carità più concreti ed autentici.
Morì a Milano il 27 gennaio del 1901, lasciando un magnifico ricordo in ognuno di
noi. Egli rappresentò e continua a rappresentare tutti quei simboli che ci
condussero all’unificazione nazionale; contribuì a far sì che alla domanda “Chi sei?”
noi oggi potessimo rispondere fieramente “Io sono Italiano”.
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APOLLO FEDERICO
(V A - IGEA - ITC “E. BELTRAMI” - CREMONA)
I FASCI SICILIANI
Esattamente 30 anni dopo l’unificazione del regno d’Italia nelle province della
Sicilia nacquero movimenti socialisti e democratici, i fasci siciliani. Nulla a che fare
col fascismo; erano, bensì, dei movimenti di lavoratori composti da gente di tutte le
età – anziani, “carusi” (manovali ragazzini) piccolo-borghesi, contadini, minatori e
artigiani e molte donne con l’aspirazione di un posto elevato nella scala sociale – col
progetto di una società migliore, la sconfitta della mafia dei gabellotti e il
ridimensionamento del potere dello stato che affamava i poveri lavoratori.
Il primo Maggio del 1891 fu fondato il primo Fascio dal socialista G. Giuffrida, che
divenne deputato dopo poco. L’anno seguente anche Palermo crea il suo
movimento con a capo Garibaldi Bosco e così tutte le province (tranne la centrale
Caltanissetta) danno vita ai Fasci Siciliani.
Bisogna contestualizzare il fatto per capire perché le idee dei fasci non rimasero
inespresse dalla rassegnazione maturata negli anni. Troppe vicende risvegliarono
l’animo dei lavoratori siciliani: dalla crisi creata dall’economia capitalista alla figura
dei gabellotti (intermediari mafiosi tra i padroni terrieri e i braccianti), dalla
fondazione del PSI del 1892 all’emanazione dell’enciclica “Rerum novarum” (1891)
da parte di Leone XIII con la quale la chiesa prese posizione sulle nuove
problematiche sociali e fondò la moderna dottrina sociale cristiana e infine l’ascesa
al potere di Giolitti, più moderato del predecessore Crispi e più aperto agli ideali
citati prima.
Purtroppo non mancarono le tragiche repressioni da parte dello stato e dai mafiosi
locali.
La prima repressione avvenne nel culmine dell’espansione di questi ideali.
Nel gennaio del 1893 a Caltavulturo (PA) poliziotti, soldati e carabinieri spararono
su circa 500 contadini che tornavano da una breve occupazione di terre demaniali:
13 i morti e più di un centinaio di feriti.
Da qui scaturirono altre manifestazioni in tutta la Sicilia con conseguenti
repressioni.
A Palermo, pochi mesi dopo, si svolse un congresso dove tra i 500 delegati,
rappresentanti di 90 fasci, ne vennero eletti 9 che costituirono il “comitato
centrale”.
Nel congresso si stabilirono le condizioni da porre alla controparte padronale per il
rinnovo dei contratti di mezzadria e di affitto.
Pochi giorni dopo, il 31 luglio del 1893, seguirono i patti di Corleone, una
manifestazione contro il “terraggio” a cui parteciparono 150000 persone, ma la
settimana dopo alcuni capi dei fasci locali vennero arrestati.
33
Continuarono gli scioperi e manifestazioni e nell’ottobre del 1893, grazie al
congresso di Grotte, si stabilirono le garanzie minime per il lavoro in miniera.
Con il ritorno in politica di Crispi la situazione peggiorò, si intensificò l’azione
repressiva e la Sicilia venne dichiarata sotto assedio dai fasci.
Il presidente del consiglio, allora, inviò il generale Morra di Lavriano in Sicilia che
represse e sciolse i fasci facendone arrestare i dirigenti. Ma nel 1895, grazie ad
un’amnistia, i capi come Giuffrida e Bosco vennero liberati.
Ciò denota quanto la giustizia italiana dell’epoca fosse già contraddittoria.
L’esempio è dato appunto dalla carcerazione e dalla scarcerazione dei capi dei
movimenti nell’arco di soli due anni.
I fasci persero importanza e forza anche perché i sindacati, che appoggiavano gli
operai, si distaccarono dagli ideali dei dimostranti “fascisti” aumentando così il
divario tra contadini e lavoratori salariati.
L’avere represso nel sangue il movimento dei fasci, quindi, non fu solo una scelta
etica condannabile, ma anche un gravissimo errore politico, che ritardò
notevolmente la modernizzazione della Sicilia, compromettendone lo sviluppo. Le
conseguenze di una simile scelta le paghiamo ancora oggi, in termini di sviluppo
ritardato e di presenza condizionante della criminalità mafiosa. L’alleanza tra
aristocrazia agraria e borghesia mafiosa, sostenuta dallo Stato liberale di allora, ha
condizionato lo sviluppo della vita democratica in Sicilia e in tutto il Paese.
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CINZIA GOMIERO
(I.I.S. “SRAFFA” CREMA - CLASSE: 3^A TGC - TECNICO GRAFICA PUBBLICITARIA)
Il Risorgimento è l’insieme di eventi che nell’Ottocento ha portato all’indipendenza
e all’unità d’Italia, nel 1861, escluse la regione del Veneto e Roma. La regione che
ha guidato questo movimento è il Piemonte con i Savoia. Le tre guerre
d’indipendenza (capitanate da Garibaldi) hanno influito molto sul Risorgimento,
alcune con un rilevante successo e altre invece poco. Era il periodo in cui
cominciavano ad affiorare nuove idee politiche: ma di particolare rilievo fu quella di
Giuseppe Mazzini, una delle principali figure del Risorgimento italiano, il quale
afferma di voler raggiungere l’unità d’Italia e di voler cacciare gli Austriaci e i
sovrani loro alleati per ottenere l’indipendenza; inoltre propone un nuovo
ordinamento politico basato sulla repubblica e non, come fino ad allora, sulla
monarchia costituzionale. Sulla base di queste idee fondò la Giovine Italia, che era
sostanzialmente una società segreta che si contrapponeva alla Carboneria. Il
Risorgimento ha affermato valori molto solidi e duraturi quali, l’amore per la libertà
e il patriottismo. Questo movimento costituisce uno dei capitoli più belli e più
significativi della storia italiana poiché molti uomini valorosi quali Garibaldi,
Mazzini, Cavour hanno combattuto per uno stato libero. Non avendo ancora
affrontato a scuola lo studio di questo periodo, ho potuto solo documentarmi
attraverso enciclopedie e internet. L’Italia oggi è definito un paese democratico, ma
non è realmente così; i rappresentanti del popolo italiano dovrebbero costruire uno
stato solido e pieno di valori, senza pensare ai propri interessi solo a scopo di lucro
ma dovrebbero riaffermare i valori trasmessi dai nostri patrioti. Oggi molte
persone si uccidono per scappare da un mondo ormai corrotto, dove gli ideali sono
soldi e potere; abbiamo bisogno di uomini onesti pronti a realizzare ciò che dicono
per farsi eleggere senza prendersi gioco di noi. La colpa però non è solo dei nostri
rappresentanti ma anche nostra in quanto ci lamentiamo del loro operato ma non
facciamo nulla per cambiare questo sistema. Secondo me il sistema che governa
l’Italia è un sistema corrotto, chiamato più comunemente l’élite globale, in mano
alle lobbie che governano il mondo. Per quanto mi riguarda il potere di un governo
è la forza che questo ha di governare le menti dell’uomo, invece oggi siamo tutti
burattini poiché la mente umana è controllata. Questo processo è stato influenzato
dall’elevata disinformazione: infatti risulta più semplice controllare una massa
ignorante, che non si ribella. Il mondo politico a noi proposto oggi risulta poco
credibile, la gente ha bisogno di certezze, che però non trova davanti a candidati
che si presentano con la faccia di cartone, pronti a promettere, ma incapaci di
mantenere.
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ILARIA GOSI
(I.I.S. LUIGI EINAUDI - CREMONA - 3A - TECNICO GRAFICA E COMUNICAZIONE)
Il percorso storico che ha portato l’Italia all’unità e alla libertà è stato lungo e
sofferto. Un primo tentativo per garantire alcune libertà e tutelare il cittadino,
avvenne nel Regno di Sardegna con l’introduzione della Carta Costituzionale dello
Statuto Albertino, nel 1848. I suoi articoli prefiguravano una monarchia
costituzionale, ma nel 1852, grazie a Cavour si pensò ad un regime “parlamentare”.
Nella nostra penisola il diritto di voto, la libertà di stampa e di pensiero non erano
garantiti. Al Piemonte dunque guardarono tutte le forze che sentivano ormai
intollerante l’occupazione e la sottomissione straniera, degli austriaci in particolare.
La storia dei Savoia, grazie a Carlo Alberto, che si era alleato con il movimento di
liberazione nazionale, si intrecciò dunque con quella del Risorgimento italiano.
Tra i sostenitori della democrazia, dell’Indipendenza e della libertà, ricordiamo:
Giuseppe Mazzini, Carlo Cattaneo, Carlo Pisacane, Giuseppe Garibaldi, nonché lo
statista Camillo Benso Conte di Cavour.
Cremona partecipò attivamente alla prima guerra di indipendenza, nelle sue due
fasi; tra i volontari ricordiamo Bartolomeo Rasnesi, un patriota cremonese che morì
a soli diciannove anni, dopo molti giorni di agonia, durante l’assedio in difesa della
Repubblica Romana nel 1849. Molti furono poi i cremonesi condannati a morte,
esiliati e imprigionati, fra questi: Ferrante Aporti, Gaspare, Cerioli, Carlo e
Vincenzo, Lancetti, Cesare e Pietro Stradivari.
Operosa a Cremona fu l’attività clandestina di un nucleo della Giovane Italia
fondata da Luigi Tentolini e Gaspare Rosales, nonostante l’arresto di quest’ultimo
l’attività continuò. In una lettera del 7 Aprile 1848 Giuseppe Mazzini afferma :
“Sono emozionato, perché duemila soldati al servizio degli austriaci, si sono rifiutati
di sparare sul popolo, costringendo gli ufficiali austriaci a fuggire.”
Gli ammutinati raggiunsero Milano e sfilarono sotto le finestre di Mazzini,
gridando: “ Viva l’Italia.” Il cammino che doveva portare all’unità d’Italia era però
ancora lungo, bisognava superare la seconda guerra d’indipendenza e arrivare alla
spedizione dei Mille, guidati da Garibaldi, sostenuta dai Savoia, avvenuta nel 1860.
Il Re Vittorio Emanuele II, il 17 Marzo 1861, proclamò finalmente la nascita del
Regno d’Italia, ma mancavano alcuni territori della penisola e soprattutto mancava
la città di Roma. La terza guerra d’indipendenza del 1866 risolse solo in parte la
situazione e il governo unitario dovette affrontare il problema del brigantaggio al
Sud dell’Italia. Successivamente anche i bersaglieri cremonesi parteciparono alla
cosiddetta presa di Roma; il protagonista più famoso fu il Maggiore Giacomo
Pagliari cremonese che morì nell’impresa e ricevette la medaglia d’oro per l’episodio
di Porta Pia, avvenuto il XX settembre del 1870.
L’unità dell’Italia dal punto di vista politico era avvenuta, ma mancavano una unità:
economica, legislativa e di cultura. Ogni regione usava poi il proprio dialetto,
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pertanto non vi era nemmeno una unità linguistica l’italiano era poco conosciuto,
l’analfabetismo era una vera e propria piaga. Vi erano poi pratiche diverse in
agricoltura in una Italia che era soprattutto contadina.
A partire dalla seconda metà del 1800, fino al 1915 si ebbe anche in Italia una
seconda rivoluzione industriale che portò grandi innovazioni nel campo militare,
medico, industriale e della comunicazione. Con essa nacquero però nuovi problemi
in quanto si aggravò lo sfruttamento degli operai che erano costretti ad affrontare
lunghi e pesanti orari di lavoro. Nelle fabbriche la sicurezza era pressoché
inesistente e gli incidenti sul lavoro erano spesso mortali. Anche i bambini venivano
sfruttati, pochi andavano a scuola, erano malnutriti e indossavano vestiti laceri.
Nacquero alcune organizzazioni: CRI ( Croce Rossa Italiana, 1864 ), con l’intento
di assistere i feriti e i malati a causa delle guerre.
Nella prima metà del secolo si delinearono però in Europa idee di nazionalismo e
razzismo, in contrasto con le idee di giustizia e democrazia, che contribuirono
quindi a diffondere la violenza e l’ideologia della guerra.
Intorno al 1919/1920 in Italia ci furono molte agitazioni e nel 1922 il fascismo
giunse al potere distruggendo gradualmente lo stato liberale per instaurare una vera
e propria dittatura.
L’Italia fu purtroppo coinvolta nella Seconda Guerra Mondiale come alleata dei
tedeschi; tutti ricordiamo le atrocità che vennero commesse dai nazifascisti: gli
episodi di razzismo nei confronti degli ebrei, preti, disabili, malati e zingari. In Italia
dal 1943 i partigiani contribuirono alla Liberazione della penisola dai tedeschi di cui
eravamo diventati nemici e alla fine della guerra il motto dei partigiani era:” Dateci
la Libertà o dateci la Morte”.
Anche a Cremona si combatté una strenua lotta armata, figure eroiche furono i
fratelli Di Dio, Amedeo Tonani, Guido Ghidetti e Don Buzzuffi che, pur non
essendo un partigiano, operò nel mio paese, a Corte de’ Frati e nel Cremonese,
contro il Fascismo. A migliaia seppero combattere e morire. Dopo la fine della
guerra il nostro paese il 2 Giugno 1946 votò per decidere tra la Monarchia e la
Repubblica, per la prima votarono anche le donne; gli italiani scelsero la Repubblica
e venne poi emanata la Costituzione, che entrò in vigore il primo Gennaio del
1948.
Tutti noi dobbiamo guardare al passato per recuperare, attraverso la vita e
l’esempio di alcuni patrioti, partigiani e di tutti coloro che pur non appartenendo a
nessun gruppo politico hanno lottato e trasmesso quei valori che sono alla base di
uno Stato Libero e Democratico.
In un periodo come il nostro in cui tra la gente c’è molto pessimismo, dobbiamo
guardare al passato per non ripetere gli stessi errori e capire quanto sia importante
rispettare i nostri diritti e doveri, senza calpestare quelli altrui. Noi giovani siamo
nati in un paese libero, i diritti di cui godiamo non li abbiamo conquistati, ma
dobbiamo essere consapevoli che essi sono il frutto di infinite lotte e del sangue
versato e dalla fede dei nostri avi. Concluderei affermando che spetta a noi giovani,
con la nostra ansia di vivere, conoscere, capire e riflettere, saper portare a
compimento ciò che ancora rimane di incompiuto… perché ora siamo Noi la
Storia dell’Italia.
37
Erika Liparulo
(I.I.S. “SRAFFA” CREMA - CLASSE: 3^A TGC - TECNICO GRAFICA PUBBLICITARIA)
Le guerre d’indipendenza italiane furono tre e ebbero come esito l’unificazione
dell’Italia. Queste guerre furono gli episodi principali del Risorgimento. La prima
guerra che scoppiò nel 1848, ebbe inizio quando Carlo Alberto di Savoia, il re del
regno di Sardegna, si pose a capo di una coalizione di stati italiani che dichiararono
guerra all’Austria che allora occupava il regno Lombardo-Veneto. Inizialmente la
guerra fu favorevole alle truppe guidate da Carlo Alberto di Savoia, ma l’iniziale
successo preoccupò gli altri stati italiani la maggior parte dei quali ritirò il proprio
appoggio all’impresa, lasciando il solo regno di Sardegna a combattere contro
l’Austria. La guerra si concluse definitivamente nel Marzo 1849 con la sconfitta di
Novara, cui seguì l’abdicazione di Carlo Alberto in favore del figlio Vittorio
Emanuele II. La seconda guerra d’indipendenza avvenne nove anni dopo la prima,
nel 1858, durante la quale Camillo Benso conte di Cavour primo ministro del regno
di Sardegna firmava un accordo di mutua assistenza in caso di guerra con
Napoleone III.
La seconda guerra d’indipendenza italiana vede schierati da un lato la Francia e il
regno di Sardegna e dall’altra l’Austria. Gli eserciti Franco-Piemontesi, guidati da
Napoleone III, sconfiggono gli Austriaci nelle battaglie di Magenta, Solferino, San
Martino. Successivamente però Napoleone III abbandonò la guerra, temendo che il
Piemonte si rafforzasse troppo, e cominciò ad avviare trattative con l’Austria, con
la quale firmò l’armistizio il 20 Luglio 1859, a Villafranca. A partire dall’anno dopo
molte altre regioni firmarono la pace con l’Austria. Il 5 Maggio 1860 Giuseppe
Garibaldi salpa da Quarto, vicino a Genova, con i suoi uomini e dà l’avvio alla
Spedizione dei Mille. La spedizione di Garibaldi innesca il conflitto anche nel Sud
Italia e dopo una serie di guerre nel 1861 il regno Sabaudo acquisisce il Sud Italia; il
17 Marzo 1861 il parlamento nazionale riunito a Torino proclama Vittorio
Emanuele II re d’Italia, ma alla completa riunificazione d’Italia mancavano ancora
l’acquisizione del Veneto, di Roma, del Trentino e di Trieste che verranno annessi
tra il 1915 e il 1919. Il nuovo stato italiano era poco incline a iniziare una nuova
guerra, mentre i rivoluzionari italiani puntavano ad azioni come la Spedizione dei
Mille che sfruttando l’appoggio della popolazione locale permettesse la liberazione
dei territori. Una spedizione di Garibaldi contro lo Stato Pontificio fu fermata
dall’esercito italiano, che temeva una guerra con la Francia, allora protettrice dello
Stato Pontificio. Nel 1866 il regno d’Italia si alleò con la Prussia contro l’Austria. La
guerra in Italia fu un insuccesso, ma la vittoria prussiana consentì al Regno d’Italia
di annettere il Veneto.
Nel 1946 avvenne un altro fatto degno di nota, ovvero la nascita della Repubblica
Italiana, a seguito dei risultati del referendum istituzionale del 2 giugno, indetto per
determinare la forma di stato dopo il termine della seconda guerra mondiale. La
notte fra il 12 ed 13 giugno 1946 il Consiglio dei ministri conferì al presidente
38
Alcide De Gasperi le funzioni di Capo provvisorio dello Stato repubblicano, senza
attendere il pronunciamento ufficiale della Corte di Cassazione, fissato per il
successivo 18 giugno. Messo di fronte al fatto compiuto dalla propria
esautorazione, Umberto II lasciò il paese il 13 giugno 1946. Alla sua prima seduta, il
28 giugno 1946, l’Assemblea Costituente elesse a Capo Provvisorio dello Stato
Enrico De Nicola, con 396 voti su 501, al primo scrutinio. Con l’entrata in vigore
della nuova Costituzione della Repubblica Italiana, De Nicola assumerà per primo
le funzioni di Presidente della Repubblica Italiana il 1º gennaio 1948. La
Costituzione della Repubblica Italiana è la legge fondamentale dello Stato e
fondativa della Repubblica italiana. Poco dopo il 22 dicembre 1947 fu approvata
dall’Assemblea Costituente la costituzione e promulgata dal capo provvisorio dello
Stato Enrico De Nicola il 27 dicembre1947.
Fu pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana n. 298, edizione
straordinaria, del 27 dicembre 1947 ed entrò in vigore il 1º gennaio 1948.
Della Carta Costituzionale vi sono tre originali, uno dei quali è conservato presso
l’archivio storico della Presidenza della Repubblica. La Costituzione è composta da
139 articoli (ma 5 articoli sono stati abrogati: 115; 124; 128; 129; 130), divisi in
quattro sezioni: Principi fondamentali (articoli 1-12); Parte prima: Diritti e doveri
dei cittadini (articoli 13-54); Parte seconda: Ordinamento della Repubblica (articoli
55-139).
Da quello che ho potuto capire documentandomi personalmente, visto che a scuola
non ho ancora affrontato lo studio di questo periodo storico, le guerre
d’Indipendenza sono state molto importanti per la storia d’Italia: senza, le diverse
parti d’Italia farebbero ancora la guerra tra loro anche per una minima sciocchezza,
e senza guerre d’indipendenza non ci sarebbe stata nessuna repubblica, nessuna
costituzione e nessun diritto o dovere dei cittadini italiani, cioè quello che noi oggi
chiamiamo stato italiano.
39
ILARIA MALVASSORI
(V A - IGEA - ITC “E. BELTRAMI” - CREMONA)
LA FIGURA FEMMINLE DURANTE IL RISORGIMENTO
La figura femminile è sempre stata presente nella rinascita dell’Italia unita anche
nella Spedizione dei Mille. La partecipazione della donna era fondata sull’idea di
poter costruire una nuova patria e si fece sentire durante il Risorgimento Italiano.
L’unione italiana non ricompensò in modo adeguato gli sforzi delle donne e le loro
battaglie. La figura femminile fu partecipe ed attiva, ma la “storia” tese a cancellare
la sua partecipazione perché venne definita: “soggetto scomodo” soprattutto dagli
uomini dell’epoca. Il Risorgimento italiano, così come la Spedizione dei Mille, è
sempre stata descritta come movimento maschile, composto da leader politici
maschili, mentre la donne vengono ricordate solo come figure di madri, mogli dei
grandi protagonisti, e non come figure attive. Le donne, tuttavia, facevano parte
della nazione, quindi, esse hanno partecipato a questi movimenti prima di tutto in
veste di italiane, lottando a fianco di uomini. Oltre a questo ruolo esse coprivano
un altro ruolo, furono fondamentali per la sopravvivenza dei volontari, dei soldati,
dei patrioti che parteciparono all’Impresa, perché senza il loro aiuto non sarebbero
stati in grado di sopravvivere. Le donne si travestirono da soldato combattendo
come uomini, e tra queste “donne-soldato” voglio ricordare Colomba Antonietta
Porzi che combatté e morì nelle vesti di soldato, oppure Betta “la cannoniera” altra
“donna-soldato” che combatté in Sicilia durante l’Impresa dei Mille, il soprannome
fu dovuto a causa della posizione che le fu assegnata nell’esercito, ovvero addetta al
funzionamento dei cannoni.
Le donne a livello sociale ebbero un importante ruolo nella struttura sanitaria,
perché a quell’epoca non esisteva e, quindi, si senti la necessità di qualcuno che la
organizzasse; inoltre, assunsero anche il ruolo di proteggere, nascondere i fuggitivi,
convincere il Re a liberare i prigionieri, nascondere documenti importanti.
Le donne furono fondamentali nella creazione di uno spirito nazionale che si
diffuse nei teatri, nei salotti, nei luoghi pubblici più frequentati e dove era possibile
far circolare liberamente le idee. Quindi la figura femminile partecipò e contribuì al
Risorgimento con atteggiamenti coraggiosi e innovativi, dove, accanto alla figura
della “madre educatrice”, si accostano le figure di eroine, patriote, filantrope ed
artiste, che troppo spesso svanirono dietro la figura maschile.
Per avere loro notizie bisogna cercare non in archivi storici, occorre cercare nelle
testimonianze familiari, nelle corrispondenze, o nei diari privati. La condizione
sociale della donna durante il periodo dell’Impresa dei Mille era quasi inesistente, in
campo giuridico perché doveva sempre dipendere dalla figura del marito, la donna
non era libera di prendere decisioni, ed era destinata solo a curare i figli e la
famiglia. Il ruolo femminile durante il Risorgimento e l’Impresa dei Mille venne
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sempre messo in secondo piano, ma nonostante questo, le donne parteciparono
attivamente.
Coloro che ebbero un ruolo importante furono numerose, di diverse estrazioni
sociali, esse si dimostrarono coraggiose, determinate, con idee e progetti da portare
a termine, tra i quali l’unificazione dell’Italia.
(donne briganti 1861-1864)
41
GIULIA MANZIN
(V B - IGEA - ITC “E. BELTRAMI” - CREMONA)
ALL’OMBRA DEL RISORGIMENTO ITALIANO
Il Risorgimento in Italia è stato un periodo storico molto importante perché ha
portato l’unità e di conseguenza la nascita della nostra nazione. È il momento in cui
si affermano la nostra identità di popolo e gli ideali di patriottismo e appartenenza
che la caratterizzano; è il tempo di grandi personalità come Mazzini, Cavour e
Garibaldi.
Nell’epoca risorgimentale, gli storici comprendono anche l’incipit dei moti
insurrezionali per l’indipendenza e la libertà, che sono il contesto in cui hanno
ampia diffusione le idee democratiche mazziniane. Infatti nel 1853, nonostante il
fallimento dei moti, il movimento democratico permane e ha la sua espressione
ufficiale nella nascita del Partito d’Azione. Contemporaneamente lo stratega Cavour
sta organizzando una serie di provocazioni rivolte all’Austria per entrare in conflitto
e liberare i territori del Nord Italia sotto il suo controllo; qui incontriamo per la
prima volta la figura di Garibaldi, ufficiale richiamato dall’America per reclutare
volontari.
Nel 1859 l’Austria lancia un ultimatum all’Italia che Cavour lascia scadere e così il
Piemonte entra in guerra alleato con la Francia, la quale però non si rende conto
della situazione fino alla vittoria di Solferino, in seguito alla quale Napoleone III
firma l’armistizio di Villafranca e pone bruscamente fine al conflitto. Il Piemonte
ottiene così la liberazione della Lombardia e con le successive trattative
diplomatiche vengono annesse anche Emilia-Romagna e Toscana mentre alla
Francia vengono concesse Nizza e la Savoia. Tuttavia la questione era tutt’altro che
risolta per via dell’attività diplomatica di Cavour mirata a istituire una piccola
potenza europea emergente e per le insurrezioni popolari nelle regioni liberate e
catapultate nel contesto internazionale.
In questo clima si prepara la spedizione dei Mille, dato che ormai è di primaria
importanza il completamento dell’unificazione italiana, nonostante Cavour
preferisca trattative diplomatiche riguardo la questione del Sud.
La guerra contro l’Austria ha portato la disponibilità di molti volontari per questa
impresa ma Garibaldi, nonostante le pressioni, non è deciso a intervenire perché
sostiene che la spedizione risulterebbe inutile senza l’appoggio di autonome
insurrezioni locali. L’occasione si presenta con la rivolta di Palermo, che conferma
la situazione siciliana in cui vi sono radicati ideali democratici dei borghesi e
un’aspirazione a grandi cambiamenti da parte del mondo contadino, temuti dalla
nobiltà latifondista.
La spedizione è imminente, i volontari si radunano a Genova e viene stabilito che
Garibaldi si debba fermare a Napoli, senza raggiungere Roma per evitare un
42
intervento militare francese a difesa del papa. I Mille partono da Quarto, in Liguria,
nel 1860 e sbarcano a Marsala, in Sicilia, dove una serie di vittorie tra cui la presa di
Palermo e la battaglia di Milazzo consentono loro il controllo dell’isola. Per non
perdere l’appoggio della classe dirigente, Garibaldi ordina a Nino Bixio di fermare
presso Bronte l’occupazione delle terre da parte dei braccianti; successivamente i
Mille attraversano lo Stretto di Messina e risalgono fino a entrare trionfalmente a
Napoli, lasciata sguarnita tatticamente da Francesco II. In questo momento c’è
grande tensione dal punto di vista diplomatico, perché Cavour teme che le forze
repubblicane prendano il sopravvento e nasca una repubblica nel Sud, e,
soprattutto, che Garibaldi abbia la meglio sui Borbone e attacchi Roma.
Fortunatamente dopo la vittoria del Volturno i soldati del papa Pio IX obbligano i
Mille a deviare e ad aggirare Roma fino ad arrivare nei pressi di Teano dove avviene
il celebre incontro tra Garibaldi e Vittorio Emanuele II, che simboleggia la
consegna dei territori liberati del meridione al sovrano. Termina qui l’impresa dei
Mille e finalmente nel 1861 viene proclamata la tanto agognata unità d’Italia. La
fama di questa spedizione e del suo condottiero è nota a tutti ma, forse, non tutti
sono a conoscenza dei personaggi celebri che vi hanno partecipato. In particolare
Alexandre Dumas, grande amico di Garibaldi, autore dei noti romanzi “Il conte di
Montecristo” e “I tre moschettieri” è stato il primo reporter e ha raccontato la
storia dell’impresa dei Mille. Recentemente è apparso sul quotidiano “La
Repubblica” un articolo di Roberto Saviano a proposito dell’autore e dei suoi
rapporti con la Camorra nel periodo risorgimentale. Dumas ha sentito la necessità
di raccontare, o meglio, di denunciare la grande contraddizione del Sud Italia in una
serie di articoli, in cui dice che vi è la felicità nel caos, la resistenza a un destino
drammatico, la bellezza nel disordine e che il vero potere è quello nascosto: la
Camorra.
Occorre tenere presente che la questione meridionale è sempre stata all’ordine del
giorno senza mai venire affrontata ufficialmente e risolta; la necessità di una riforma
agraria è lampante ma, nonostante questo dato di fatto, non sarà effettuata e anche
per molti decenni successivi. Questo ha determinato l’affermarsi dell’arretratezza
del meridione e la netta contraddizione con il Nord invece industrializzato e
sviluppato. La scarsa attenzione al Sud ha permesso anche che nell’arretratezza e
disorganizzazione nascessero organizzazioni come la Camorra. Dumas fa
dell’ironia, tenta di descrivere questo fenomeno ai francesi, ma dice che è
incomprensibile per chi non lo veda con i suoi occhi, la Camorra è la Camorra, è la
remunerazione del male e la glorificazione del crimine. Essa sarebbe una società
segreta e ha, come tutte le società segrete, la caratteristica di essere pubblica, è come
una setta segreta con tutti i suoi riti di iniziazione e soprattutto con un suo tribunale
che giudica e condanna e chi tradisce è punito con la morte. La Camorra raccoglie
denaro chiedendo un decimo di ciascun affare che viene effettuato e questo denaro
è utilizzato per mantenere la protezione della polizia, per gli ufficiali camorristi che
sono in prigione, per i capi, i generali e i vari camorristi minori. Dumas è indignato
perché non capisce “come si poteva star tanto bene in un luogo al contempo così
corrotto e così sublime”, e soprattutto non comprende perché si è fatta una rivolta
con Masaniello per un’imposta e non ci si ribella alla Camorra per tutto il male che
43
fa. L’autore ha voluto denunciare questa realtà e il potere della Camorra che egli ha
saputo descrivere da attento osservatore come qualcosa di domestico, familiare,
radicato nelle persone che quindi non hanno possibilità di ribellione. Dumas, che
ha vissuto e osservato questa situazione, ne ha visto la pericolosità e ha raccontato
il dramma e il potere ma non per ferire il luogo che anzi reputa meraviglioso ma
proprio come gesto d’amore verso questa terra. Egli stesso ambienta i suoi romanzi
in realtà imperfette, non crede nell’utopia di un mondo meraviglioso, ma racconta i
fatti in situazioni difficili in cui i personaggi sono in lotta con un potere superiore.
I temi del Risorgimento italiano come il patriottismo, l’idea di appartenere a
un’unica nazione, l’esaltazione della propria nazione devono fare i conti con la
realtà del meridione, caratterizzato dall’arretratezza in cui dilaga la Camorra e
l’accentramento del potere. Possiamo notare quanto questi temi siano attuali,
soprattutto perché dopotutto lo stato italiano è di recente formazione rispetto agli
altri, dato che nel 2011 è stato celebrato il 150esimo dell’unità e inoltre perché
permangono le differenze con il Sud Italia e la Camorra. L’unità è stato solo un
fatto formale come dimostrano i successivi avvenimenti storici, perché non ci si è
preoccupati di uniformare anche le condizioni di vita delle persone. Di fatto il
nostro Stato è rimasto e rimane tutt’oggi anche se in misura meno evidente, diviso
in due, da una parte una realtà sviluppata, industriale, aperta mentre dall’altra una
situazione di “mentalità agraria”, arretrata, vincolata dal morbo della Camorra.
L’impresa dei Mille di Garibaldi è stato un atto significativo perché ha portato
all’effettiva unità ma avrebbe dovuto essere l’incipit di un’unità integrale, su tutti i
fronti, e non solo geograficamente. Infatti il reporter dell’impresa si è reso
immediatamente conto delle profonde differenze e del bisogno di sviluppo
necessario al meridione e ha denunciato questi fatti quando ormai però la Camorra
era già una presenza radicata e costante come appare dai suoi scritti.
Il Risorgimento ha il sapore del patriottismo e della libertà ma porta
contemporaneamente con sé l’affermazione di un altro fenomeno radicato in Italia
che è la Camorra, centro di potere che si basa sull’interesse e appare come
l’opposto degli ideali dell’epoca.
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ALESSANDRO MARCHI
(V B - IGEA - ITC “E. BELTRAMI” - CREMONA)
Patria, Nazione, Libertà... questi sono gli ideali che emersero nello scenario italiano
dall’ultima grande battaglia del 1848 sino all’unità apparente del 1861. Ideali ancora
vivi oggi nelle mentalità aperte dei giovani rivoluzionari, capaci di far valere i
principi della Democrazia. Risorgimento! Cosa significa realmente? A mio avviso
può essere interpretato quale rinascita, non soltanto a livello politico, ma anche in
ambito di ideali, sentimenti. La volontà di divenire un popolo, il desiderio di far
valere la propria patria nel Mondo, la mentalità comune orientata verso un concetto
di Stato ancora sconosciuto ai giovani italiani. Mazzini, Manzoni, Cavour,
Garibaldi, tutti grandi nella loro solitudine nonostante le difficoltà epocali. Uomini,
nient’altro che uomini simili a chiunque altro, ma capaci di osservare oltre le grandi
ingiustizie per vederne una possibilità di miglioramento. È proprio all’interno di
questo contesto che personaggi, solitari ma valorosi, poterono crescere fino a
divenire idoli dell’epoca moderna. Vorrei quindi, ora, approfondire la vita e gli
ideali di chi la storia la visse, alla ricerca di una morale, di un obiettivo, forse
lontano, ma al contempo molto adiacente! E come parlare di Italia senza citare il
celebre Goffredo Mameli? Quale miglior esempio di rinascita idealistica e di
divulgazione di principi risorgimentali se non proprio quello del giovane patriota
ideatore dell’inno italiano. Nato a Genova e musicato a Torino, il “Canto degli
italiani”, meglio conosciuto come Inno di Mameli, preludeva già, grazie all’impeto
patriottico impostato dalle parole che andremo analizzando, una guerra contro
l’Austria. L’armoniosità e l’immediatezza dei versi fecero si che Giuseppe Verdi,
Riconoscendone i valori, lo chiamasse a simboleggiare la patria italiana, ponendolo
accanto alla Marsigliese francese e God save the Queen inglese.
“Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa. Dov’è la Vittoria? Le
porga la chioma; ché schiava di Roma Iddio la creò. Stringiamci a coorte siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò””
Versi brevi ma incisivi che rimangono nella mente del popolo. Forte è il richiamo
alla Roma Repubblicana per un’Italia pronta a combattere perché indossatrice
dell’elmo del vittorioso Scipione. La vittoria dell’indipendenza si offre a Roma, la
cui dea fu schiava per un volere divino! È altresì forte ed impetuoso il richiamo dei
giovani italiani alla guerra in nome della Patria. Personalmente, mi rifiuto però di
parlare di questi principi in modo esclusivamente oggettivo. È il momento di
metterci nei panni di chi l’inno lo visse in prima persona, cosi come oggi farebbe un
ben noto personaggio, Roberto Benigni. Ogni volta che cantiamo questa prima
strofa del’'articolato Canto Italiano, dobbiamo sentire la necessità di soffermarci
sulla vita personale dei singoli soldati, mandati in guerra con la sola possibilità di
morte! Cosa spinse migliaia di giovani a combattere? Ebbene immagino, come se
potessi utilizzare una grandissima lente di ingrandimento sul passato, un soldato, un
giovane Soldato! Chiamato alla guerra all’età di diciotto anni ancora non può
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possedere, fare suo, un vero ideale! Ma lo vedo su una strada, mentre avanza in
marcia insieme al plotone. Pensa, è inquieto, ma comincia a cantare. Non è un
canto popolare, è un inno al patriottismo. Da subito non ne comprende i versi, ma
mirando finalmente gli austriaci schierati a pochi chilometri prende coraggio ed
intona le ultime parole del canto: "Stringiamci a coorte... siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò, Sì!” Si alza un coro che lo accompagna, non è più solo... sa di essere
destinato alla morte, ma ha finalmente compreso quelle crude parole. Morire ha un
valore, quello della libertà non come fine a se stessa, ma per un’Italia nuova e sola.
Ancora non sono sicuro che molte delle menti italiane, oggi, possano e siano in
grado di comportarsi come il piccolo soldato, che nella sua piccolezza ha segnato la
Storia. Sembra sparito quel principio di patriottismo, nonostante nel 1948
l'Assemblea Costituente avesse elencato tra i Doveri dei Cittadini il mantenimento
del valore della Patria sacra ed inviolabile. Sono stati necessari secoli per giungere
all’evento che ha condizionato la nascita dello Stato italiano nel 1861, eppure oggi,
centocinquant’anni dopo, l’inno non è più riconosciuto come ideale, ma come
passatempo e coro da intonare per le competizioni sportive.
A cosa è servito il Risorgimento, se oggi sessantacinque milioni di persone
preferiscono far fronte ai singoli interessi, piuttosto che a quelli della patria? Anche
l’immagine del soldato è stata completamente modificata: da quel combattente
fedele ai propri principi e disposto a morire per farli valere, si è clamorosamente
passati a uomini armati, portatori della bandiera italiana, nonostante tra i propri
valori rientri principalmente l’accumulazione di ricchezza! La Democrazia ha
facilitato la vita dei Cittadini, ma ha completamente occluso il pensiero riformista,
che rimane vivo soltanto per chi ancora ha il coraggio di intonare:
Uniamoci, uniamoci, l’unione e l’amore rivelano aio popoli le vie del Signore. Giuriamo far libero
il suolo natio: uniti per Dio chi vincer ci può? Strin giamoci a coorte, siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò… Sì!”
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GINA RUOTOLO
(I.I.S. “SRAFFA” CREMA - CLASSE: 3^A TGC - TECNICO GRAFICA PUBBLICITARIA)
Il Risorgimento è un’epoca, un movimento che inizia con la fine del dominio
napoleonico poiché dopo che Napoleone cadde, il congresso di Vienna restituì i
territori agli stati in modo omogeneo ma negando le aspirazioni dei patrioti.
Importante sottolineare il ruolo che questo processo storico ha avuto portando un
grande rinnovamento culturale, politico e sociale che consentì la formazione dello
Stato Italiano. Noto il nome di Giuseppe Mazzini secondo il quale l’Italia doveva
essere il risultato di un popolo educato attraverso la sua adesione a valori e
istituzioni democratiche. Fu così che nel 1831 fondò a Marsiglia la “Giovane Italia’’,
sinonimo di lotta per l’indipendenza nazionale che mirò in seguito ad ottenere
istituzioni più liberali: la Costituzione. Mi sono documentata tramite internet e da
testi scolastici storici poiché non ho ancora trattato questo argomento a scuola. Ci
sono differenti idee sull’unione d’Italia: alcuni pensano che sia giusto e altri
vorrebbero dividere l’Italia in regioni come era una volta. Dividere l’Italia
significherebbe distruggere tutto quello che il Risorgimento ha faticosamente
costruito e rifiutare l’eredità di quegli uomini che per un’Italia unita hanno perso la
vita, sono stati imprigionati, hanno lasciato casa e famiglie o stati esiliati. Persone
che hanno lottato per garantire la propria libertà e quella per il futuro. Se non ci
fossero state le guerre, ci sarebbero stati meno morti, ma grazie a esse questo paese
ora è un paese libero. Uno stato democratico è quello in cui il potere è in mano al
popolo, ma oggi il nostro paese non è pienamente democratico. Il nostro paese è
definito democratico anche se il popolo “subisce’’ le azioni, e le decisioni dei
politici. Il popolo vota le persone candidate sperando di fare una scelta corretta
basandosi sul fatto che sembrano colti o che per farsi votare fanno credere di
cambiare l’Italia. Il loro scopo principale non è quello di costruire un’Italia bella e
pulita perché, pensano solo ai loro interessi, ad esempio i soldi o avere potere. Per
questi motivi ci sono stati suicidi di persone stanche di questa Italia e stanche di
essere per la maggior parte una semplice pedina, in quanto tutto ciò che sanno fare
è prendersi gioco di noi attraverso sotterfugi e strategie. Libertà s’intende la
condizione per cui un individuo può decidere di pensare in modo libero senza
essere condizionato da altri. Vuol dire poter esporre i propri pensieri senza aver
timore: questo vuol dire essere in un paese democratico. Secondo me i nostri
rappresentanti d’Italia dovrebbero essere capaci di ascoltare il paese cercando di
migliorarlo: questo non viene fatto oppure solo in modo superficiale senza dar peso
alle idee dei cittadini. Di politica non me ne intendo, ma sentendo quello che
accade nel nostro Paese mi viene automatico capire cosa c’è di sbagliato.
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KAUR SUMANPREET
(V B - IGEA - ITC “E. BELTRAMI” - CREMONA)
LE DONNE D’ITALIA
La parola “Risorgimento” indica il processo storico che ha portato alla formazione
dello Stato unitario italiano, ponendo fine alla divisione politica della penisola e alla
dominazione straniera. Questa nozione, tuttora, è oggetto di discussione da parte
degli storici in relazione a diversi ambiti. Il processo di unificazione dell’Italia iniziò
dopo la fine dei moti del 1848, cioè nel 1849 in cui l’Italia ricevette una durissima
reazione austriaca nel Lombardo – Veneto, e ci fu un ritorno alle politiche
assolutiste in tutti gli stati italiani, tranne il Piemonte, dove era in vigore lo Statuto
Albertino con a capo il nuovo re Vittorio Emanuele II.
Gli antecedenti del Risorgimento furono la Rivoluzione francese ed in particolare il
periodo napoleonico, e alla sua affermazione contribuirono anche gli aspetti
economici e sociali provocati dalla presenza della nuova borghesia spesso in
contrasto con la vecchia aristocrazia e dalle masse popolari, legate ad una secolare
civiltà contadina.
Solo nel Regno di Sardegna rimane in vigore un Parlamento, il Primo Ministro
Cavour dà inizio a una serie di riforme, con aiuti militari agli stati esteri riuscì a
stringere alleanze importanti, con la Francia soprattutto, per combattere contro
l’Austria. L’Austria chiede il ritiro, ma ottenne un rifiuto, e allora attacca: siamo nel
1859, la cosiddetta Seconda Guerra d’Indipendenza in cui interviene anche la
Francia che libera Milano e i ducati di Toscana, Parma, Modena, Romagna
chiedono l’annessione al Regno di Sardegna. La Francia teme che il regno
piemontese si ampli troppo, allora firma l’Armistizio di Villafranca con l’Austria,
con cui la Lombardia passa al Piemonte e il Veneto torna agli austriaci. Mancava da
liberare il Regno delle due Sicilie di cui se ne occupò il liberale Giuseppe Garibaldi;
quando nel 1860 scoppiò una rivolta a Palermo partì con un migliaio di uomini da
Quarto verso la Sicilia. Garibaldi voleva costruire un’Italia monarchica sotto la
giuda dei Savoia, sconfisse l’esercito borbonico a Milazzo e liberò l’isola e a lui si
unirono migliaia di volontari. Sbarcò in Calabria ed entrò a Napoli. Cavour
temendo che Garibaldi volesse marciare su Roma, suggerì a Vittorio Emanuele II di
recarsi in centro Italia con un esercito. Garibaldi vinse la battaglia e pochi giorni
dopo si incontrò a Teano con il re a cui cedette i territori conquistati.
Il 17 Marzo 1861 fu proclamato il Regno d’Italia a Torino da parte del Parlamento
nazionale italiano che designò come re Vittorio Emanuele II.
Nel Risorgimento italiano ci furono molti eroi, ma oltre a questi ci furono anche
donne che contribuirono alla costruzione dello Stato nazionale italiano, esse sono
state vicino, hanno ispirato o sostenuto gli uomini. Le donne, nonostante la poca o
la nulla visibilità pubblica, non solo ebbero un ruolo rilevante, ma furono
48
numerose, di diversa estrazione sociale e si dimostrarono determinate, con idee e
progetti da costruire. Pochi nomi sono noti: tra questi Anita Garibaldi, moglie
dell’eroe dei due mondi, combatté a fianco del marito in numerose battaglie;
Cristina Trivulzio Belgiojoso che guidò la rivolta dei patrioti napoletani nel periodo
delle Cinque giornate di Milano; Rose Montmasson, moglie di Francesco Crispi e
unica donna tra i Mille; Costanza D’Azeglio, nobile donna che sfruttava la propria
posizione sociale per favorire nei salotti la causa italiana; Giulia Beccaria, esaltata
nel ruolo di madre di Alessandro Manzoni, compagna di Carlo Imbonati e figlia di
Cesare Beccaria. Queste donne si muovevano con una straordinaria libertà, erano
appassionate al processo di indipendenza, furono delle vere “patriote”. Persero i
beni, la libertà, i figli o la loro stessa vita, alcune furono ferite sul campo di
battaglia, esse usarono sia la parola che l’azione. Intrapresero diverse cariche:
organizzarono e gestirono ospedali, curarono i feriti, si occuparono di carceri,
aprirono scuole di mutuo insegnamento e attivarono le prime esperienze di tipo
socialista, informarono i lavoratori dei loro diritti. Vere eroine, esse hanno
consegnato alla storia e al futuro dell’Italia, un patrimonio di valori morali e civili
che accompagnerà sempre il percorso unitario.
La loro presenza risulterà fondamentale al processo unitario della nostra nazione,
sottolineo questo poiché, come ho affermato precedentemente, i loro nomi
risultano ai più sconosciuti. Tale “dimenticanza” storica ci fa comprendere come il
riconoscimento del valore della figura femminile sia ancora non pienamente
avvenuto, nonostante la cospicua presenza di eccezionali donne che hanno onorato
la patria.
49
RICCARDO TANSINI
(V B - IGEA - ITC “E. BELTRAMI” - CREMONA)
BRONTE: DA UN DRAMMA, LA RINASCITA DEL POPOLO ITALIANO
Il processo di unificazione dell’Italia comportò, di certo, il trascorrere di molti anni.
Iniziò con la prima guerra d’Indipendenza il 23 marzo 1848, si protrasse nel 1859
con la seconda guerra d’Indipendenza, in cui grazie all’aiuto della Francia si riuscì a
cacciare gli Austriaci dal Nord e ad ottenere Lombardia, Toscana ed Emilia, e
terminò nel 1860 con la “Spedizione dei Mille” e la proclamazione del Regno
d’Italia il 17 marzo 1861. In particolare, vorrei analizzare proprio la spedizione nel
Meridione che permise di liberarlo dalla dominazione borbonica. La spedizione fu
affidata a Giuseppe Garibaldi, venne finanziata grazie ad un aiuto dell’Inghilterra ed
ebbe un esito positivo. È estremamente interessante considerare che la spedizione
ebbe successo grazie ad uno sperato, ma non sicuro, intervento che si verificò: la
partecipazione attiva del popolo contadino. Questo “aiuto interno” venne favorito
anche da diversi fattori, primo tra tutti la condizione in cui la popolazione era stata
costretta a vivere per molti secoli. Nel Sud era presente, infatti, il Regno delle due
Sicilie, che assunse questa denominazione a seguito della “Restaurazione” nel 1816;
prima si avevano due regni, il Regno di Napoli ed il Regno di Sicilia. Tuttavia il
problema che sussisteva e che continua a sussistere nel Meridione è che questo era
molto arretrato, con un’agricoltura ancora di tipo feudale, con la presenza di
latifondi e, quindi, con una maggior parte della popolazione, la più povera, ridotta
alla fame e costretta, in alcuni casi, a ricorrere al banditismo. In questo clima,
naturalmente quando Garibaldi sbarcò in Sicilia e promise un radicale
cambiamento, non ebbe molta difficoltà a conquistarsi la fiducia dei contadini,
inizialmente, e della borghesia agraria. Dopo la conquista dell’isola, però, le varie
promesse come la riforma agraria e la ridistribuzione delle terre non furono
mantenute, dato che Garibaldi non voleva perdere il favore dei ceti dirigenti
dell’isola, e il Governo provvisorio, instaurato da Garibaldi, in Sicilia venne
considerato una vera e propria dittatura. A seguito di ciò, il popolo stanco di
continuare a subire decise di ribellarsi nuovamente. L’episodio più significativo si
ebbe nelle campagne di Bronte, nel Catanese, del quale si ha testimonianza nella
novella “Libertà” di Giovanni Verga. L’Autore rievoca la vicenda e con un
linguaggio scarno, disadorno, ma molto incisivo, descrive i momenti violenti e
cruenti della rivolta. È proprio questo modo di esprimersi che evidenzia tutto il
rancore, l’odio e il desiderio di rivalsa, di vendetta esploso contro la classe dirigente
e ricca che ha dominato per secoli. Più che una “questione politica” la rivolta di
Bronte è stata determinata da un’esigenza, da un bisogno di carattere sociale, da un
desiderio di “quasi uguaglianza” che iniziava a serpeggiare nelle popolazioni più
sfruttate, ma impreparate a gestirsi e a governarsi. Infatti nella novella è evidente
50
che, dopo che i popolani hanno ucciso i “galantuomini” cioè i proprietari terrieri, i
notabili e il clero corrotto, costoro abituati a sottostare a qualcuno non sapevano
più cosa fare. Questa non è altro che la dimostrazione del fatto che i contadini
volevano sì un cambiamento di Governo, ma desideravano che i “nuovi
governanti” guardassero non più agli interessi di singoli individui, come fece alla
fine Garibaldi, ma guardassero ai bisogni collettivi. Proprio per questo si può quasi
considerare l’evento di Bronte come la prima Rivoluzione politico-sociale; la
seconda sarà quella russa nel 1917. Purtroppo, ai fatti sanguinosi di Bronte è seguita
una spedizione di violenta repressione da parte dell’esercito garibaldino, guidata da
Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi, per evitare la possibilità di emulazione. È
quindi evidente che la “Spedizione dei Mille” non fu una vera e propria
“liberazione” per il Meridione; proprio perché non si videro cambiamenti
veramente innovativi. Ciò non toglie il fatto che la spedizione di Garibaldi, insieme
alle varie operazioni belliche del Nord Italia, abbia contribuito al sorgere del Regno
d’Italia, al risorgere del popolo italiano.
51
DANIELE UBERTI
(Cl.. 5E - Liceo Scientifico “L. Da Vinci” Crema)
L’ Italia, diversamente da altri paesi europei costituitisi come Stati nazionali già a
partire dal secolo XIV , raggiungerà l’unità solo nella seconda metà del
diciannovesimo secolo, al culmine di un lungo percorso di maturazione, irto di
difficoltà e di conflitti che la porterà, attraverso le guerre mondiali, fino alla
proclamazione della Repubblica e della Costituzione. Al termine del Congresso di
Vienna che pose fine alla bufera napoleonica iniziarono a maturare anche in Italia le
prime forme di orgoglio nazionale e soprattutto la volontà di unificare il paese,
frammentato in regni indipendenti tra loro, sotto il dominio più o meno diretto
dell’Austria, del Pontefice e dei Borboni. I primi esempi di patriottismo
inizialmente non riuscirono a ottenere grandi risultati concreti, non furono
compresi dalla maggioranza della popolazione in quanto si svilupparono tramite le
Società segrete, molto settarie e poco organizzate come la Carboneria, oppure nei
circoli di intellettuali romantici. Significativo fu il contributo di Foscolo con il suo
celebre carme “Dei sepolcri”, in cui esortò gli Italiani a ritrovare in se stessi lo
stesso spirito glorioso che aveva animato un tempo gli eroi del nostro Paese. Tra i
patrioti e gli intellettuali italiani sussistevano inoltre molte differenze di pensiero
circa il possibile assetto politico dell’Italia. Mazzini, Cattaneo, D’Azeglio, Gioberti,
Ferrari e molti altri vestirono l’unità e l’indipendenza dell’Italia con abiti diversi:
dalla repubblica una, alla repubblica federale, alla confederazione di Stati, alle
articolate ipotesi delle parti neoguelfe e neoghibelline. La svolta avvenne il 23
marzo 1848 quando Carlo Alberto di Savoia, esortato soprattutto dalla fazione
democratica, dichiara guerra all’Austria. Nonostante lo scontro terminò con una
pesante sconfitta, essa non fu comunque sufficiente per demotivare i patrioti
italiani. Fu cosi che Camillo Benso Conte di Cavour, inizialmente ministro del
governo liberale d’ Azeglio, riuscì sapientemente ad ottenere l’gappoggio di
Napoleone III e della Francia. L’ Italia forte delle nuova alleanza riuscì così a
liberare la Lombardia(1859). L’ anno seguente partì da Quarto in Liguria la celebre
spedizione dei 1000 guidata dall’eroe nazionale Giuseppe Garibaldi che riuscì a
liberare il sud della penisola dal governo borbonico annettendola al Regno sabaudo.
Questi 1000 volontari vennero da tutta l’ Italia settentrionale a conferma del fatto
che il Risorgimento italiano fu vissuto intensamente anche a livello locale, nei
piccoli paesi. Per la liberazione del sud combatterono fianco a fianco bergamaschi e
napoletani, veneti e calabresi. Molti semplici cittadini diedero il proprio contributo
alla causa dell’ unificazione poiché capirono di essere gli artefici ed i prodotti di una
storia comune, di condividere la stessa cultura. Accantonarono le divergenze,
iniziarono a sentirsi “ fratelli d’ Italia”. Nel 1861 venne proclamata l’ unità d’Italia e
Vittorio Emanuele II divenne il suo primo re. Nel marzo del 1861 mentre lo
Statuto albertino venne esteso a tutto il territorio. Quella prima Italia, forse, stava
ancora all’ombra del piemontesismo, che molti temevano e molti invocavano, pur
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di liberarsi dall’Austria, ma Italia finalmente eravamo! Da quel momento
cominciammo a riempire di sentimento nazionale, di valore patriottico e, solo
dopo, di “buon governo” quello stivale che da tempo era il nostro così ben definito
confine geografico. Esso aspettava solo di essere abitato da un popolo che si
riconoscesse suo figlio. L’Italia, dunque, aspettava gli Italiani e gli Italiani, prima di
essere chiamati con questo nome dovettero togliere dal loro vecchio vestito le
toppe dell’occupazione austriaca e borbonica Durante la Terza Guerra
d’Indipendenza (1866) venne liberato il Veneto mentre Roma divenne capitale nel
1870. Finalmente provammo l’ebrezza della libertà, ma ci era chiesto il coraggio di
rompere con un passato da sudditi, di rinunciare alla sicurezza di essere sottomessi
per diventare artefici della nostra storia. Negli anni successivi, mentre il nostro
Paese cercava di costruirsi, non seppe resistere alla tentazione di intervenire nella
Grande Guerra. Fu così risucchiato nel suo vortice, dal 1915 a fianco dell’Intesa.
Sebbene il conflitto abbia contribuito a completare l’unità del Paese, la vittoria della
guerra non preservò il governo liberale di Giolitti da una gravissima crisi che favorì
l’ascesa del fascismo, il capitolo più negativo della nostra storia.
Mussolini si impose al governo con la forza, in seguito alla marcia su Roma
dell’ottobre 1922 e creò uno dei tre grandi totalitarismi del ‘900. Mussolini eliminò
ogni opposizione, teorizzò e razionalizzò l’utilizzo della violenza per governare,
come è evidente nell’ assassinio di Matteotti, creò una milizia di partito che era la
milizia dello Stato, perché in ogni ideologia totalitaria il partito, la società civile e lo
Stato sono perfettamente congruenti . Dopo circa vent’anni anche il fascismo
giunse al termine: il 25 luglio del 43, tre anni dopo l’ingresso dell’Italia nel secondo
conflitto mondiale a fianco della Germania, viene data la sfiducia a Mussolini. L’ 8
settembre del ‘43 viene reso noto l’armistizio firmato pochi giorni prima. Questa fu
la data che diede una svolta al secondo conflitto mondiale ma che anche colpì
duramente il nostro orgoglio nazionale: dopo la notizia dell’armistizio, infatti
ognuno reagì a suo modo; illustri generali scapparono lasciando l’esercito solo
senza direttive e ordini, centinaia furono colti dal panico nella più totale
confusione. Molti italiani divennero partigiani proprio come scelta morale, per
ridare dignità alla nostra nazione. La Resistenza fu la base per la nascita della nostra
democrazia. Sicuramente anche i partigiani fecero grande uso della violenza, anche
quando, con un più attento coordinamento del loro operato, avrebbe potuto essere
evitata. Ciò è da condannare. Tuttavia penso che non si possa non rimanere colpiti
da quella gente che rimase coinvolta nel conflitto senza necessariamente ricorrere
alle armi, ma aiutando a proprio modo i soldati, offrendo loro un semplice pasto o
un posto per nascondersi. Ciò acquista valore se si considera che quella gente era
proprio come noi, non aveva nulla di speciale o di diverso da noi; si trattava di
uomini, donne e giovani che nonostante i rischi e la paura della cattura fecero la
scelta più coraggiosa, garantendo a noi un futuro libero dalla dittatura. Anche
Crema ebbe i suoi protagonisti. In occasione della giornata della memoria ho letto
un interessante articolo riguardante Luigi Viviani: nato a Crema il 3 novembre
1903, fu un esponente dell’ Azione Cattolica Italiana. Dopo l’ armistizio fu uno di
quelli che scelse di continuare a combattere e per questo perse la vita ad Atene,
fucilato dai Tedeschi. Finalmente il 25 aprile del 45 l’Italia è libera ed il fascismo
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definitivamente sconfitto. Il 2 giugno del 46 l’Italia passa da monarchia a repubblica
con un referendum a cui votarono per la prima volta anche le donne. La nuova
Costituzione repubblicana, frutto prezioso ed espressione pluralistica
dell’Assemblea Costituente, entrò in vigore il primo gennaio del ’48, esattamente
cento anni dopo lo Statuto albertino. I principi che emergono dai primi 12 articoli
fondamentali della nostra Costituzione prospettano in modo organico e coerente
l’essenza di un paese libero. Essere cittadini italiani significa avere il diritto di
pensiero e libertà di parola, il dovere di rispettare l’ opinione altrui, il diritto ad
essere tutelati dalla legge senza distinzione alcuna per sesso, razza, idee politiche o
religiose. Questi principi possono sembrare ovvi e apparire scontati ma riflettendo
mi rendo conto che in molte altre parti del mondo la libertà non esiste ancora e la
dignità umana ancora è gravemente calpestata ed offesa. Oggi ci ritroviamo a
godere di questo preziosissimo bene che è la libertà che fu pagata a caro prezzo:
oggi non ne godremmo se non fosse per quegli Italiani che ci hanno preceduto e
che hanno fatto la storia della nostra nazione. Mi ha colpito, qualche giorno fa, la
testimonianza di Boris Pahor, un testimone ormai centenario della persecuzione e
della Resistenza del popolo sloveno contro la persecuzione fascista. In quell’uomo
minuto, scavato dalla sofferenza, carico di un secolo di storia, nato quando il nostro
Paese era parte dell’Impero austro-ungarico, emergevano la grinta e la lucidità di un
testimone vero, in cui la memoria non diventa ossessione, odio, ma significativo
passaggio di testimone a tante generazioni In quella occasione Pahor, ormai
centenario, ha sottolineato che sebbene in seguito la pazzia di Hitler non ebbe
rivali, inizialmente lo stesso dittatore tedesco si ispirò a Mussolini considerandolo il
proprio maestro. In un certo senso fummo noi il nemico della libertà ed è per
questo che dobbiamo valorizzare ulteriormente quelle persone che provarono a
cambiare il nostro paese andando contro il governo e il potere, rischiando la vita
ogni giorno per creare un futuro migliore, passando attraverso la sofferta stagione
della Resistenza. Pensando a loro, oggi dobbiamo temere ancor di più tutti i
tentativi di subordinare e ghettizzare alcuni gruppi o minoranze sulla base di sottili
classificazioni o esclusioni. Dobbiamo chiederci in nome di quali principi, o meglio,
in nome di quali presunti privilegi escludiamo altre persone dal nostro “status” o
eleviamo muri anche in questa nostra Italia che, già ce ne stiamo dimenticando, non
abbiamo edificato proprio da soli. Come è possibile oggi riempirsi la bocca di
termini come “multicultura”, globalizzazione quando spesso sopportiamo a fatica il
nostro vicino di casa straniero o la persona della regione confinante solo perché ha
un accento diverso dal nostro? Eppure oggi, grazie al sacrificio di molti, noi e loro
calpestiamo questo stesso suolo, siamo tutti liberi e abbracciati da una stessa
bandiera.
54
PAOLA ZANINELLI
(I.I.S. “SRAFFA” CREMA - CLASSE: 4^A TSO - TECNICO SERVIZI SOCIALI)
Alla metà dell’ Ottocento, l’Italia era un paese diviso politicamente poiché era
formato da tanti stati più o meno grandi, ognuno dei quali aveva la sua moneta, i
suoi dazi e le sue leggi. Ciò ostacolava la libera circolazione delle persone e delle
merci e la creazione di un’economia sviluppata.
Inoltre l’Italia non era uno stato indipendente perché controllato dagli Stati
Stranieri. Nonostante questi fattori, nell’Ottocento emerse un senso di comune
appartenenza al popolo italiano che fu ben definito da uno dei più grandi scrittori
romantici italiani, Alessandro Manzoni il quale affermò che la Nazione è una
comunità d’uomini “una d’arme, di lingua, d’altare, di memorie, di sangue, e di cor”.
Già Alfieri aveva indicato il popolo italiano come unico mezzo per portare l’Italia
ad essere Stato Indipendente. Per questo venne visto dai patrioti risorgimentali
come profeta della futura unità d’Italia. Secondo gli studiosi non era mai esistito
uno Stato Italiano fino al 1861, però sin dal Medioevo si era formata una nazione
italiana; si era sviluppata un’ identità culturale e la consapevolezza di un comune
interesse economico. Tale sentimento venne diffuso dal Risorgimento che è il
processo che portò alla formazione di un unico Stato italiano, e grazie a ciò
avvenne la resurrezione d’Italia attraverso il raggiungimento di un’identità unitaria
che si era iniziata a delineare.
Uno dei più grandi sostenitori dell’ideale di unità nazionale fu Giuseppe Mazzini,
che nel 1831 fondò la “Giovine Italia” che aveva come obiettivo la liberazione dai
suoi sovrani e l’unificazione in un unico stato.
Secondo Mazzini, la “Giovine Italia è la fratellanza degli italiani credenti in una
legge di Progresso e di Dovere” e con questo l’unico mezzo per arrivare al
traguardo è il metodo dell’insurrezione con il coinvolgimento del popolo. Tale
metodo va abbinato a un principio di educazione Nazionale.
Tutto ciò diede vita a un forte dibattito tra due schieramenti: quello moderato e
quello democratico. Fu così che nel ‘48 in tutta Europa vi furono proteste e rivolte
ed anche gli Stati Italiani ne furono coinvolti. Un evento di grande rilevanza fu
l’insurrezione di Milano con le famose cinque giornate durante le quali gli italiani
cacciarono le truppe austriache. Dopo queste giornate Carlo Alberto riuscì a
sconfiggere gli Austriaci a Curtatone e Montanara, grazie anche all’aiuto dei giovani
volontari toscani che sacrificarono la loro vita per la patria. Nelle loro
testimonianze si può trovare quanto amassero l’Italia, tanto da arrivare al punto di
uccidere a fucilate chi osava offendere la loro patria pur soffrendo dell’azione
commessa poiché non erano soldati di professione.
Questi fatti segnarono la I guerra di indipendenza che se non ebbe risultati concreti
dal punto di vista territoriale, vide la promulgazione dello Statuto Albertino,
emanato dal sovrano del Regno di Sardegna, Carlo Alberto. Esso sarebbe diventato
la carta fondamentale della nuova Italia unita fino al 1946 quando fu adottato un
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regime costituzionale transitorio valido fino all’entrata in vigore della Costituzione
della Repubblica Italiana, il primo gennaio 1948.
Dieci anni dopo i moti che sconvolsero l’800, in un clima internazionale acceso in
Italia scoppiò la II guerra di indipendenza. Il protagonista fu Cavour, un politico
liberale che si diede da fare per favorire lo sviluppo dell’agricoltura, dell’industria e
della finanza.
La seconda guerra di indipendenza terminò con l’armistizio a Villafranca firmato da
Napoleone III con gli austriaci.
Grazie alla spedizione dei Mille con a capo Giuseppe Garibaldi si arrivò all’unità
d’Italia nel 1861; la forma di governo adottata fu la Monarchia Costituzionale
avente come sovrano Vittorio Emanuele II di Savoia. Il neo nato Stato italiano
dovette affrontare problemi dal punto di vista territoriale, in quanto alcune zone
non erano ancora state annesse e dal punto di vista economico poiché il meridione
risultava più arretrato rispetto al nord. Inoltre, la Nazione aveva bisogno di dare
unità al popolo, anche attraverso l’istruzione come affermò D’Azeglio quando
disse “fatta l’Italia, bisogna fare gli Italiani”.
La capitale venne spostata da Torino a Firenze e momentaneamente l’Italia
rinunciò a Roma. Nel 1866 iniziò la III guerra di indipendenza che consentì la
conquista del Veneto e successivamente con la breccia di Porta Pia, Roma divenne
capitale.
L’inizio del nuovo secolo fu segnato dall’uomo di governo Giovanni Giolitti.
Nell’età Giolittiana iniziò il decollo della seconda rivoluzione industriale italiana con
grandi progressi nei campi siderurgico, elettrico e meccanico. Le prime grandi
industrie, come la Fiat, ebbero l’opportunità di svilupparsi anche se l’Italia restava
un paese prevalentemente agricolo.
Nel 1914 scoppiò la I Guerra Mondiale causata, dalle rivalità economiche, politiche
e nazionaliste tra gli stati europei. Gran Bretagna, Francia e Russia si allearono e
fondarono la triplice intesa. Germania Austria e Italia fondarono la triplice alleanza
da cui però l’Italia uscì dichiarandosi neutrale. In seguito, a causa delle forti
pressioni degli interventisti, l’Italia dichiarò guerra all’Austria e alla Germania. Fu
un conflitto sanguinoso che coinvolse tutta la popolazione e provocò milioni di
morti. La Grande Guerra terminò nel 1918 e nel 1919 iniziò a Parigi la conferenza
per la pace. L’ Italia ottenne Trento-Trieste, L’Alto Adige, e la Venezia Giulia.
Sparirono grandi imperi e vennero create nuove nazioni.
L’Italia anche se vittoriosa subì devastanti conseguenze. Sul piano economico e
sociale, cominciò a diffondersi un forte malcontento, sia nella media e piccola
borghesia sia tra i contadini ai quali era stata promessa terra da coltivare. La
disoccupazione tra gli operai era altissima, si formarono i primi sindacati e ci furono
moltissimi scioperi.
In questo periodo nacquero i fasci di combattimento fondati da Mussolini che
sosteneva la necessità di riforme sociali e grazie a ciò ottenne grandi consensi. Il
movimento si concretizzò da subito per la grande aggressività e violenza dei suoi
membri. Tali atteggiamenti furono evidenti in episodi cruciali di questo periodo
come la marcia su Roma da parte delle camicie nere, l’omicidio di Matteotti e
l’arresto di Antonio Gramsci. Una volta che Mussolini fu certo del proprio potere
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emanò le così dette leggi fascistissime che di fatto segnarono l’inizio della dittatura
e della violazione di ogni libertà. Queste furono le premesse per la nascita di uno
stato totalitario cioè una forma di Stato che non ammette alcuna opposizione
legale, di conseguenza impedisce sia ai singoli individui sia ai movimenti politici di
criticarlo e di opporsi. Il termine viene utilizzato per indicare medesime forme che
si sono verificate in Germania con Hitler e nell’ ex Unione Sovietica con Stalin.
In Italia, Mussolini prendendo come esempio Hitler, introdusse le leggi razziali che
prevedevano la deportazione e l’ uccisione nei campi di concentramento di Ebrei,
zingari, omosessuali e disabili. Il popolo italiano non condivise questa politica
persecutoria e si diffuse lo sdegno tra le persone.
La guerra terminò con l’armistizio dell’8 settembre 1943, ma di fatto esso che
provocò una divisione tra i sostenitori del fascismo e i partigiani che formarono la
Resistenza che lottò per la libertà e i diritti del popolo fino alla fine della guerra, il
25 aprile del 1945.
Con la caduta del fascismo il 2 giugno del 1946 gli Italiani si recarono alle urne per
decidere se mantenere la monarchia o instaurare la repubblica. I repubblicani
ottennero la maggioranza e il re fu costretto a lasciare Roma e si recò in esilio in
Portogallo.
Partendo dalle guerre per l’Indipendenza che ebbero origine nell’Ottocento si
arrivò al 1948 quando per la prima volta la Repubblica ebbe una Costituzione
fondata sul diritto alla libertà e all’uguaglianza dei cittadini ai quali vengono garantiti
l’istruzione, il lavoro, e la protezione sociale.
In questo modo si pose fine idealmente al lungo processo di formazione dello Stato
italiano che ebbe origine con il Risorgimento.
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LAURA POLI – MARIA CRISTINA PENAZZI
(RICERCA DI GRUPPO)
(V A - IGEA - ITC “E. BELTRAMI” – CREMONA)
IL BRIGANTAGGIO E LA LEGGE PICA (1861-1865)
Nel 1863 il Parlamento italiano approva, come misura straordinaria tesa a debellare
la piaga del brigantaggio, un provvedimento noto come Legge Pica, dal nome del
deputato che la promuove.
Per il neonato Regno d’Italia, questo sembra essere l’estremo rimedio ad un
estremo male che già nei mesi successivi alla spedizione dei Mille si è espresso con
rivolte e turbolenze sociali. In realtà, però, l’origine e la consistenza di tale
fenomeno sono ben più complesse di quanto si pensi, come dimostrano sia i
documenti che, purtroppo, i risultati del provvedimento stesso.
“Chi sono i briganti? Lo dirò io, nato e cresciuto tra essi. Il contadino non ha casa,
non ha campo, non ha vigna, non ha prato, non ha bosco, non ha armento; non
possiede che un metro di terra comune al camposanto. Non ha letto, non ha vesti,
non ha cibo d’uomo, non ha farmachi. Tutto gli è stato rapito dal prete al giaciglio
di morte o dal ladroneccio feudale o dall’usura del proprietario o dall’imposta del
comune e dello stato. Il contadino non conosce pan di grano, né vivanda di carne,
ma divora una poltiglia innominata di spelta (farro), segale omelgone, quando non
si accomuni con le bestie a pascare le radici che gli da la terra matrigna a chi l’ama.
Il contadino robusto e aitante (…) guadagna ottantacinque centesimi, beninteso
nelle sole giornate di lavoro (…). Con questi ottantacinque centesimi vegeta esso, il
vecchio padre, spesso invalido dalla fatica già passata, e senza ospizio, la madre, un
paio di sorelle, la moglie e una nidiata di figli. Se gli mancano per più giorni gli
ottantacinque centesimi, il contadino, non possedendo nulla, nemmeno il credito,
non avendo da portare nulla all’usuraio o al monte dei pegni, allora (oh io
mentisco!) vende la merce umana; esausto l’infame mercato, pigli il fucile e strugge,
rapina, incendia, scanna, stupra, e mangia”10. Così si esprime, in una lettera dei
censurati del Tavoliere datata 1863 e destinata ad una postuma fortuna, Francesco
Saverio Sipari, una delle voci di più autorevoli, insieme a Gaetano Salvemini, della
questione meridionale. Un discorso che esordisce con una domanda
apparentemente in un primo tempo evasa; il brigantaggio come conseguenza,
pressoché inevitabile, di una condizione estrema e priva di alcuna opportunità di
riscatto che accomuna le masse dei contadini del Sud Italia. Nelle parole dello
storico e letterato campano, si possono cogliere, nemmeno troppo celate,
sfumature di indulgenza verso chi, spinto dalla disperazione, decide di darsi alla più
10
F.S. Sipari, Lettura ai censurati del Tavoliere. Tip. Cardone, Foggia 1863, pp. 15-16
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feroce illegalità: lo sfociare disilluso di una ricerca di risarcimento sociale che ai
margini della legge non trova ascolto.
In un passaggio successivo, lo stesso Sipari dirà: “In fondo nella sua idea bruta, il
brigantaggio non è che il progresso, o, temperando la crudezza della parola, il
desiderio del meglio”11. Una ricerca di riscatto che non ha alternative, come Sipari
stesso sottolinea, alla scelta della delinquenza e della violenza. “Certo, la vita è
scellerata, il modo è iniquo e infame… Ma il brigantaggio non è che miseria, è
miseria estrema, disperata: le avversioni del clero, e dei caldeggianti il caduto
dominio, e tutto il numeroso elenco delle volute cause originarie di questa piaga
sociale sono scuse secondarie e occasionali, che la abusano e la fanno perdurare.”12
All’identificazione, pressoché automatica, della figura del contadino ridotto alla
fame nera con il brigante, aggiunge dettagli preziosi una dichiarazione di Francesco
Saverio Nitti: “ Per le plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il
benefattore: qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o
incoscienti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge
rivolte proletarie. Ciò spiega quello che ad altri e a me è accaduto tante volte di
constatare; il popolo delle campagne meridionali non conosce assai spesso
nemmeno i nomi dei fondatori dell’unità italiana, ma ricorda con ammirazione i
nomi dell’abate Cesare e di Angelo Duca e dei loro più recenti imitatori.”13
La stretta compenetrazione e la complicità ad oltranza tra brigantaggio e
popolazione civile non potrebbe avere giustificazione se non affondasse le sue
radici in un rapporto di reciproco bisogno nato in un passato plurisecolare,
addirittura all’indomani dei funerali di Federico II, l’ultimo sovrano in grado di
illuminare il Sud Italia attraverso la raffinatezza della sua corte e la portata
rivoluzionaria delle sue iniziative culturali e politiche. A partire infatti dal successivo
dominio angioino, il Meridione imboccherà una inesorabile marcia verso il
definitivo declino, a causa di una politica di impietoso prelievo fiscale unito alla
repressione di qualsiasi tentativo di rinascita.
Da questo momento, questi gruppi armati di fuorilegge mossi dalla disperazione e
impegnati in azioni di banditismo contro le più disperate situazioni
accompagneranno la storia del Sud Italia.
In una lettera datata 9 dicembre 1860, lo storico Pasquale Villari riferisce al
luogotenente regio Carlo Farini la complessità dei problemi connaturati alla società
meridionale, dove le contraddizioni tra la miseria della popolazione e il malgoverno
borbonico si combinano, appunto, con le puntuali azioni dei gruppi fedeli a
Ferdinando II volte a destabilizzare.
“Si immagini una società fondata unicamente sugli abusi. (…) Sopravvive un
governo onesto e comincia a togliere gli abusi; la conseguenza inevitabile è che la
società si sfascia delle sue fondamenta.” 14. Nelle amare parole dello storico, si
possono cogliere, nel ritratto dell’ex regno borbonico le radici di un’unificazione
11
F.S. Sipari, Lettura ai censurati del Tavoliere. Tip. Cardone, Foggia 1863, pp. 15-16
F.S. Sipari, Lettura ai censurati del Tavoliere. Tip. Cardone, Foggia 1863, pp. 15-16
13
Francesco Saverio Nitti, Scritti sulla questione meridionale, Laterza, 1958, pp.44
14
In “La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d’Italia, Carteggi di Camillo Cavour, Zanichelli,
Bologna, 1954, vol. IV, pp. 40-42, 222-224
12
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nazionale non solo lontana ma nella sostanza forse impossibile, impedita da un
malcostume e da una sfiducia nello Stato forse incontrovertibili. “Il vivere”,
continua Villari, “le abitudini, le idee, sono come di paese diversi; onde fra di loro
non si conoscono”. Nel solco di questi due mondi, di queste due mentalità opposte
che la spedizione di Garibaldi prima e l’annessione al Regno sabaudo poi non
sembrano poter trovare fusione il brigantaggio si insinua con la forza della sua
profonda compenetrazione con il malessere della popolazione.
Ma esso non è solo la rappresentazione di una rabbia istintiva e priva di qualsiasi
disegno organizzativo; nelle bande di briganti non gravita solo la parte più violenta,
ignorante e irrazionale della plebe. Il brigantaggio infatti è un fenomeno trasversale
e sfuggente, che include nelle sue file, oltre a pastori, braccianti e fuorilegge (tra cui,
con un sostegno ora implicito ora diretto, anche numerose donne), ma anche
soldati e ufficiali provenienti dal disciolto esercito borbonico, religiosi scappati dai
conventi a seguito delle numerose soppressioni avvenute all’indomani dell’Unità
d’Italia, esponenti della più eterogenea nobiltà legittimista giunti da mezza Europa,
addirittura – per ragioni opposte – ex camicie rosse non ammesse ai ranghi del neo
costituito esercito nazionale.
“Dunque riteniamo, o signori, che i briganti considerati in sé stessi altro non sono
se non furfanti, se non che assassini dell’infima classe. Loro scopo è arricchirsi con
i ricatti, i loro mezzi sono il terrore e le sevizie; la loro speranza il ritorno di
Francesco II onde legittimare l’acquisto”.
Forte di questa diversificata e in alcuni casi contraddittoria compagine, grazie anche
all’appoggio dei cacciati Borbone, dal loro rifugio papalino di Gaeta, e dell’alto
clero, ostile al nuovo Stato laico, il brigantaggio finisce per elevarsi a sistema
parallelo di controllo del territorio, tanto che a partire dai primi decenni successivi
all’Unità d’Italia i prefetti e i questori delle provincie meridionali cominciano a
parlare di “Camorra” a Napoli e di “mafia” in Sicilia. “Bisognerebbe mettere un
argine a questa Camorra, che è una cancrena del paese”15, conclude lo stesso Villari
nella sua lettera auspicando come risoluzione del problema “atti di severità
esemplare”16, da introdurre per offrire non solo una degna punizione al fuorilegge
ma anche la possibilità di un riscatto al cittadino onesto ma avvilito dalla miseria
nera. “Date una maggiorata al contadino e si farà scannare per voi, e difenderà la
sua terra contro tutte le orde straniere e barbariche dell’Austro - Francia”17
Nell’aprile del 1861, ad un mese dalla proclamazione del Regno d’Italia, in Basilicata
scoppia una violenta rivolta che immediatamente si estende poi a quasi tutte le
provincie meridionali. Il governo sabaudo affida all’esercito comandato da Enrico
Cialdini (lo stesso che aveva condotto le truppe regie verso Sud) il compito di
reprimere alla radice le violenze legate al fenomeno del brigantaggio. Per piegarne le
resistenze, arruola ex garibaldini non entrati nelle bande e scatena una sanguinosa
reazione che ha il sapore della guerra civile; compie efferatezze contro il clero e i
15
In “La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d’Italia, Carteggi di Camillo Cavour, Zanichelli,
Bologna, 1954, vol. IV, pp. 40-42, 222-224
16
In “La liberazione del Mezzogiorno e la formazione del Regno d’Italia, Carteggi di Camillo Cavour, Zanichelli,
Bologna, 1954, vol. IV, pp. 40-42, 222-224
17
F.S.Sipari, Lettera dei censurati del Tavoliere, Tip. Cardone, Foggia 1863, pp. 15-16
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nobili lealisti, ordina rappresaglie contro la popolazione accusata di fiancheggiare (e
in molti casi di coprire) le bande, “Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a
riscontro di questi cafoni, sono latte e miele”.18
Nel Meridione vengono inviati oltre centomila soldati e nei combattimenti
moriranno più di cinquemila briganti. La lotta è quanto mai molto sanguinosa: da
un lato, la ferocia dei briganti, dall’altro un’altrettanta feroce repressione. Un
ufficiale dell’esercito così descrive in che modo viene soffocata una rivolta a
Pontelandolfo, dove la popolazione aveva fatto quadrato attorno ai briganti: “Un
battaglione di bersaglieri entrò nel paese, uccise quanti vi erano rimasti, saccheggiò
tutte le case e poi mise il fuoco al villaggio intero, che venne distrutto”.
In una seconda fase, comanderà una dura repressione messa in atto attraverso un
sistemato ricorso ad arresti di massa, esecuzioni sommarie, distruzione di casolari e
masserie, vasti azioni contro interi centri abitati: fucilazioni e incendi di villaggi,
rifugio di briganti, sono all’ordine del giorno. A tutt’oggi restano famigerati il
cannoneggiamento di Mola di Gaeta, poi inglobata da Formia, del 17 febbraio 1861
nonché gli eccidi di Casalduni e Pontelandolfo nell’agosto 1861.
Tra il 1862 e il 1866 le truppe destinate alla repressione aumentano fino a
raggiungere le centocinquemila unità, circa i due quinti delle forze armate italiane
del tempo. Il generale Cialdini, che torna a capo dell’iniziativa, giungerà ad
eliminare le grande bande di Crocco, di Romano e di Caruso. Romano, nativo di
Gioia del Colle, è un ex tenente dell’esercito borbonico con notevoli abilità di
strategia.
Al culmine di questi anni convulsi e drammatici, giunge nel 1863 la promulgazione
della Legge Pica, un provvedimento marziale con cui, anche sulla scorta di semplici
sospetti, è possibile procedere ad arresti con sentenza immediata, senza consentire
all’imputato alcun processo. In un regno d’Italia appena costituito, tale intervento si
pone come una lacerante violazione dei principali diritti civili e una aperta
contraddizione con principi fondamentali dello statuto Albertino. Ad essere colpita,
peraltro senza ottenere un’effettiva soluzione della piaga, è un’intera comunità,
messa a ferro e fuoco tanto da rischiare lo sterminio collettivo.
Anche Verga, nella novella “Libertà”, rievoca un episodio tragicamente noto come
“I fatti di Bronte”, dove un’orda incontrollata di contadini di ribella contro i nobili
della città uccidendo senza freni chiunque si trovi sul loro passaggio. Dopo la
rivolta, c’è da spartire la terra rimasta senza padroni, e visto che il notaio è ormai
morto i contadini sembrano quasi volersi uccidere tra loro. Quando poi arriva il
generale Nino Bixio, le donne lo accolgono in festa, ma non sanno che la giustizia
sarà sommaria e alquanto amara. Egli infatti farà fucilare alcuni rivoltosi scelti a
caso senza interpellarne alcuni, e ne porterà altri in città, a Catania, con le donne
piangenti al seguito, per processarli. Il paese, in questo modo, torna all’antico:
giungeranno altri signori che ridurranno i contadini alla loro consueta miseria. La
rivoluzione di Garibaldi aveva dato solo l’effimera speranza di un riscatto che mai
avverrà.
18
Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II a Napoli.
61
D’altronde, come un altro illustre isolano farà dire ad uno dei personaggi del
celebre romanzo “Il Gattopardo”, “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna
che tutto cambi”. E ancora, “Appartengo ad una generazione disgraziata a cavallo
fra i vecchi tempi ed i nuovi, e che si trova a disagio in tutti e due. Per di più, come
lei avrà potuto fare a meno di accorgersi, sono privo di illusioni…”. Non c’è
possibilità di cucire due mondi che rimangono dolorosamente lontani. Ciò dimostra
che è necessario, per promuovere uno sviluppo omogeneo della Nazione,
localizzare l’attenzione dei governi sulla “questione meridionale” perché essa, pur in
un contesto mutato, è ancora uno degli snodi fondamentali per il progresso
dell’Italia Unita.
(briganti nel 1861)
62
DANIELE CAPRA, ADRIAN CIRJA, PAOLO TORRI, CARLOTTA MONTANI
(RICERCA DI GRUPPO)
(V A - IGEA - ITC “E. BELTRAMI” - CREMONA)
I FATTI DI BRONTE
La vicenda si inserisce nella secolare contesa delle plebi siciliane per la divisione
delle terre demaniali, contesa che l’arrivo di Garibaldi nell’isola aveva riacceso. In
particolare, a Bronte, la contesa risaliva al 1494, quando una bolla pontificia aveva
stornato i terreni comunali destinati agli sui civici a favore dell’ospedale maggiore di
Palermo; in più la casa reale borbonica, dopo la rivoluzione napoletana del 1799,
aveva confermato l’usurpazione del territorio, trasferendone lo sfruttamento
all’ammiraglio inglese Horatio Nelson. Già nel 1820 e nel 1848 i cittadini di Bronte
si erano ribellati a questa situazione, ma inutilmente.
Le condizioni favorevoli a una spedizione militare per la liberazione del Meridione
d’Italia si crearono con lo scoppio di una insurrezione a Palermo nell’aprile del
1860. Inizialmente i moti vennero repressi dall’esercito borbonico, ma nelle
settimane successive il clima insurrezionale si estese alle campagne, dove si
formarono bande armate pronte ad appoggiare un eventuale intervento militare
antiborbonico. Fu Francesco Crispi, avvocato siciliano esiliato a Genova, ad
appoggiare Garibaldi per raccogliere un esercito di volontari.
Ottenuti in prestito due piroscafi (il Piemonte e il Lombardo) dalla compagnia
marittima Rubattino, Garibaldi partì da Quarto (vicino a Genova) il 5 maggio 1860,
fece rifornimento di armi presso Talamone (Toscana) e sbarcò l’11 Maggio a
Marsala. Lo sbarco non fu facile: le due navi garibaldine sfruttarono la presenza di
imbarcazioni inglesi per proteggersi da eventuali attacchi borbonici.
Il 15 maggio, la vittoria nei pressi di Calatafimi creò in Sicilia un’atmosfera di
esaltazione e portò all’entusiastico appoggio delle bande contadini locali. Garibaldi,
già autoproclamatosi “dittatore” della Sicilia per conto di Vittorio Emanuele re
d’Italia, entrò nel capoluogo siciliano.
La popolazione della cittadina di Bronte era divisa in “comunisti” (o “comunali”),
che aspiravano a dividersi i terreni comunali confiscati dalla dittatura garibaldina, e
in “civili” (o “ducali”), intenzionati a non mollare i loro privilegi. Garibaldi, però,
aveva stabilito con i decreti dittatoriali la divisione delle terre demaniali,
profetizzato la riforma agraria, l’abolizione delle tasse sul macinato e sui cereali.
La vittoria dei “ducali” alle elezioni amministrative, esasperò l’animo dei popolani
che vedevano come il generale non desse esecuzione ai decreti della divisioni delle
terre.
Questo avvenimento non fece altro che aumentare la rabbia dei cittadini i quali
rivendicavano libertà, della quale avevano, però, una concezione diversa da quella
comune. Secondo loro, essere liberi significava che ogni contadino avesse un
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appezzamento di terra pari a quello degli altri, esclusi i “cappelli” in quanto
quest’ultimi erano proprietari terrieri ma, non essendo in grado di lavorare la terra,
facevano affidamento sui contadini che riuscivano a malapena a guadagnarsi da
vivere.
Il continuo aumento della rabbia del popolo e della voglia di libertà, portò
all’insurrezione popolare. L’eccidio, scrive Radice, era già nell’aria. La prova era un
popolano, ritenuto demente dai comunali, girava per le strade annunciando
l’avvicinamento dell’ora del giudizio, ma questi, ritenendolo matto, non lo presero
in considerazione e ridevano di lui, finché la sera del ventinove Luglio uno stormo
di ragazzi si recò in giro per il paese con torce accese e bare, inscenando una
processione funebre sotto le case dei borbonici. La situazione precipitò nel giro di
pochi giorni: le insurrezioni nelle piazze sfuggirono di mano a Nicolò Lombardo. Il
primo Agosto, scrive Radice, una sentinella, dal campanile, avvisa la gente del paese
che si sta avvicinando la folla in rivolta. Il due Agosto la cittadina fu completamente
sotto assedio, vennero innalzati posti di blocco per bloccare i “cappelli” e vennero
appiccati incendi a case e luoghi pubblici. Tra il tre ed il quattro vennero uccisi
sedici comunali di una certa importanza e tanti altri di minor rilievo. Dietro questi
eccidi si nascondeva una fame secolare di terre che alimentava un ira da lungo
repressa e la loro violenza si scagliava anche su donne e bambini in certi casi
addirittura squartati.
Il 4 Agosto giunse a Bronte da Catania una compagnia della Guardia Nazionale
(ottanta militi comandati dal questore Gaetano De Angelis) per ristabilire l'ordine,
ma i tumulti ed il massacro continuarono. Il 5 Agosto, domenica, comandata dal
colonnello Giuseppe Poulet arrivò a Bronte una compagnia di soldati e la folla
cominciò a placarsi. La rivolta si era quasi fermata, il 6 agosto, quando il generale
Bixio arrivò a Bronte. E lo stesso Poulet aveva inviato una lettera al generale
informandolo sulla situazione, ma appena arrivato il generale dichiarò lo stato di
assedio, ordinò l’immediata consegna delle armi di qualsiasi tipo e specie,
operazione per la verità già iniziata il giorno precedente dal colonnello catanese
giunto prima di lui. Sciolse il municipio e la guardia nazionale del posto, che aveva
dato cattiva prova di sé nei giorni della rivolta e si era limitata o per paura o per
cattiva organizzazione a starsene alla larga senza alcuna volontà di intervenire.
Per dare un esempio che metta paura, attuò una rappresaglia senza precedenti
contro la popolazione contadina. Egli andava in cerca di individui da dichiarare
colpevoli in pubblico e da destinare ad una immediata punizione. Per tale motivo
egli prese subito per buono, nel corso dei suoi personali interrogatori e senza
l’aggiunta d’una minima riflessione, quanto gli veniva raccontato, poco curandosi,
come la ragione avrebbe suggerito, di verificare o far verificare da altri la credibilità
delle deposizioni che gli venivano via via offerte. Il sicario di Garibaldi non si
preoccupò minimamente di accertare o meno la colpevolezza dell’accusato, ma
sotto l’effetto dell’ira più violenta ordinò al Poulet di arrestare il Lombardo e i
principali colpevoli della tragica sommossa. Con gravissime violazioni delle
procedure giuridiche e processuali, la causa fu conclusa, la sera del 9 Agosto in
appena quattro ore. La commissione arrivata da Palermo giudicò ben 150 persone e
condannò alla pena capitale l’avvocato Nicolò Lombardo considerato capo della
64
rivolta insieme a Nunzio Ciraldo Fraiunco, Nunzio Longi Longhitano, Nunzio
Nunno Spitaleri e Nunzio Samperi. La sentenza venne eseguita mediante
fucilazione l'alba successiva e cadaveri furono lasciati esposti al pubblico. L’azione
imposta da Bixio ai giudici della Commissione mista di guerra fu frutto di scelta
freddamente calcolata. Sacrificava certamente la giustizia ma rispondeva
pienamente alle necessità della politica e alle dure leggi della guerra.
Le fucilazioni dettero ampia soddisfazione alla nazione britannica i cui interessi
secolari sulla Ducea erano stati seriamente minacciati dall’ondata rivoluzionaria. Ne
seguì un secondo processo contro altri 145 contadini accusati di reati minori, e il 12
agosto 1863 la Corte emise la sentenza definitiva con 37 condanne tra cui 25
ergastoli.
A Bronte non dovevano assolutamente scalfirsi questi privilegi, che il popolo
voleva abbattere e che avevano intristito ed avvilito nella miseria per molte
generazioni tutta la comunità brontese. contadini sempre più poveri. «In paese conclude Verga la sua novella Libertà - erano tornati a fare quello che facevano
prima; già i galantuomini non potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e
la povera gente non poteva vivere senza i galantuomini. Così fu fatta la pace.»
Ai brontesi non restavano che le condizioni miserevoli, la fame, il desiderio di
“libertà”
dalla schiavitù e dalla miseria e l’amara certezza delle promesse non mantenute.
Nino Bixio avrà per tutta la vita sulla coscienza i morti di Bronte; così si esprimeva
in una lettera alla moglie: “Missione maledetta, dove l'uomo della mia natura non
dovrebbe mai essere destinato”.
65
VERONICA BARBIERI, MARIA VITTORIA LANFREDI, FADOUA MEZZAOUI,
SILVIA SARTORI, BEATRICE VERDI
(RICERCA DI GRUPPO)
(V A - IGEA - ITC “E. BELTRAMI” - CREMONA)
I MOTI DI MILANO DEL 1898
A distanza di un secolo, non si sa ancora se la grande rivolta del 1898 fu un moto
organizzato da veri e propri professionisti, oppure un’ insurrezione spontanea
causata dalle pesanti condizioni in cui viveva il Paese.
Da molti anni i Governi avevano cercato di risanare le finanze statali imponendo
tasse sul grano, la cosiddetta “tassa sul macinato”, fonte di molte proteste e
disordini; questa politica, infatti, aveva portato ad un rincaro dei prezzi dei generi
alimentari, soprattutto del pane, un bene di prima necessità. La protesta contro il
carovita aumentava in modo esponenziale.
Difficile indicare dove si ebbero i primi segni di rivolta; si registrarono dapprima in
Emilia-Romagna, in Puglia alla fine di aprile per poi giungere in Toscana ed in
Campania agli inizi di maggio. A protestare erano soprattutto i braccianti, la classe
più disagiata del Regno.
A differenza delle altre regioni d’ Italia, in Lombardia era prevalentemente la classe
operaia a reclamare con forza il riconoscimento dei propri diritti. La protesta si
stava avvicinando pericolosamente alla città più avanzata industrialmente: Milano.
Il 5 maggio, il prefetto di Milano, il barone Winspeare, comunicò al generale Bava
Beccaris, comandante del III corpo d’armata, che per il giorno dopo erano previsti
disordini in città.
Così avvenne; verso mezzogiorno del 6 maggio la polizia fece irruzione nella
fabbrica Pirelli per arrestare sindacalisti ed operai che distribuivano volantini
incolpando il Governo dell’aumento dei prezzi e della carestia, da ciò ne scaturì uno
sciopero cittadino. Il resoconto di questa prima giornata fu di numerosi morti e
feriti.
La mattina del giorno successivo si ebbe uno sciopero generale, il Governo reagì
decretando lo stato di assedio e proferendo pieni poteri al generale Bava Beccaris.
Egli si mise subito all’opera chiudendo numerose fabbriche, ma le ritorsioni degli
operai, rimasti ormai disoccupati, non si fecero attendere molto. Prove tangibili di
questa ritorsione si manifestarono mediante l’innalzamento di barricate a Porta
Venezia, Porta Vittoria, Porta Romana e Porta Ticinese.
Domenica 8 maggio i dimostranti formarono dei capannelli che rendevano più
semplice il compito dell’artiglieria, la quale aveva come obiettivo quello di
disperdere i rivoltosi. Inoltre Beccaris fece arrestare chi secondo lui era a capo di
questo movimento, ovvero Turati, De Andrei, Don Albertario e la famosa Anna
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Kuliscioff. Alcuni giornali furono chiusi, altri censurati, venendo così a mancare la
libertà di pensiero.
La rivolta si concluse lunedì 9 maggio dopo che le truppe presenti a Milano
sfondarono a cannonate il muro del convento dei frati Cappuccini di Via Monforte,
dove si pensava fossero nascosti molti rivoltosi. Quest’ azione risultò infruttifera
poiché all’ interno del convento i soldati trovarono solamente persone povere e
frati.
Al termine di questa rivolta il numero delle vittime non fu mai definito: le autorità
parlano di 100 morti e 400 feriti ma alcuni oppositori, tra cui il politico
repubblicano Paolo Valera parlano di 300, 800 o addirittura 1.000 morti. La Croce
Rossa non fornì dei dati certi in quanto non ebbe il controllo totale delle operazioni
di soccorso.
Il Governo si congratulò con il generale piemontese per aver placato
l’insurrezione; ma nella realtà Milano rimaneva intrisa del sangue degli insorti uccisi
e di tanta gente innocente che forse per sbaglio, si era trovata sotto il tiro dei
soldati.
La questione si risolse, ma le repressioni causate da ciò rimasero prolungate nel
tempo e ci volle molto prima che le acque si placassero.
Bisognerà attendere l’ arrivo al potere di Giolitti e l’ ascesa al trono di Vittorio
Emanuele III, per respirare un’ aria diversa e più tollerante e per far emergere di
nuovo le ragioni di un dialogo più costruttivo e duraturo tra le forze speciali del
Paese.
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MATTIA CABRINI – NICOLÒ POLI
(CLASSE 5^ A – LST – I.I.S. “J. TORRIANI)
L’ITALIA DALLE GUERRE D’INDIPENDENZA ALLA REPUBBLICA
All’interno della storia travagliata del nostro paese troviamo non pochi dissidi e
guerre, che molto spesso ci hanno visto protagonisti sia diretti che indiretti.
Il nostro tema è ispirato prima di tutto dalle celebrazioni appena trascorse
dell’anniversario del centocinquantesimo dell’unità d’Italia, animati da amore per la
patria e rispetto nei confronti della storia, della nostra Storia. Abbiamo voluto
ricercare e riassumere quelli che possono essere stati gli avvenimenti che hanno
gettato le basi per l’unificazione e la successiva formazione della nostra Repubblica;
partendo dai moti rivoluzionari del ’48 sino ad arrivare alla firma della nostra carta
costituzionale avvenuta il 27 Dicembre 1947.
Dopo questa doverosa premessa passiamo a quelli che sono stati i fatti che hanno
interessato direttamente la nostra penisola, che all’inizio del periodo che noi
consideriamo si può definire come investita da uno spirito di libertà e rivoluzione al
contempo.
Il 1848 in Italia inizia con una serie di tumulti che scoppiano in varie città della
penisola, in particolare il 12 gennaio 1848 insorge Palermo, esigendo l’autonomia
dell’Isola dal governo di Napoli; l’11 febbraio 1848 Ferdinando II concesse una
costituzione ‘liberale’ cosiddetta “octroyèe” ( cioè concessa dall’alto), seguito da
Leopoldo II di Toscana, Carlo Alberto di Savoia e Pio IX papa e sovrano dello
stato pontificio.
Queste particolari costituzioni prevedevano che il governo fosse eletto dal sovrano,
il quale comunque deteneva tutti e tre i poteri e che il suffragio fosse censitario e
maschile, grande novità per l’epoca.
Queste concessioni, tuttavia, non fermano i moti insurrezionali. Così abbiamo che
il 17 marzo 1848 insorse anche Venezia, dove Manin diede vita ad un governo
repubblicano indipendente, seguita poi fra il 18 e il 23 marzo 1848 da Milano. Gli
insorti cacciarono così il maresciallo Radetzky, costringendo le guarnigioni
austriache a ripararsi nel Quadrilatero fortificato rappresentato da Mantova,
Peschiera, Verona e Legnago. Si formò dunque un governo provvisorio.
Gli insorti potevano essere divisi in posizioni anti (vedi Cattaneo) e filo (vedi
d’Azeglio e Balbo) sabaude.
C’è infatti chi auspica e preme per un intervento armato del re di Savoia contro
l’Austria in modo da indurre i governi autonomi a proclamare l’annessione al
Piemonte; Carlo Alberto ambendo ad ampliare il proprio governo a tutta la
penisola era frenato dalla scarsa preparazione dell’esercito e da un possibile
intervento delle potenze straniere a sostegno dell’Austria.
L’Italia si trovò cosi catapultata nella prima guerra per la propria indipendenza. Il
23 marzo 1848 Carlo Alberto dichiarò guerra all’Austria ed entrò in Lombardia con
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il proprio esercito, affiancato da volontari e truppe inviate da Leopoldo II di
Toscana, Ferdinando II di Napoli e Pio IX; fra i volontari possiamo scorgere un
giovane ed intraprendente Giuseppe Garibaldi.
Nel corso della prima guerra d’indipendenza Pio IX ritirò i suoi contingenti
giustificando il gesto con la necessità di mantenere la neutralità nello scontro tra
potenze cattoliche. I sovrani seguirono cosi l’esempio del pontefice, preoccupati
che la possibile vittoria del Piemonte potesse rafforzare lo stato sabaudo.
Dopo una serie di vittorie identificabili in quelle del 29 e 30 maggio 1848 a
Curtatone, Goito e Montanara, l’impreparazione delle truppe sabaude portò, il 25 e
26 luglio 1848, alla sconfitta delle stesse nelle battaglie di Custoza e
Sommacampagna. Forte di questa supremazia il 9 agosto 1848 Radetzky impose a
Salasco un armistizio che riportò la Lombardia ed il Veneto nelle mani dell’Austria.
Si segue allora la via dell’insurrezione popolare.
A Roma dopo l’assassinio del primo ministro di Pio IX Pellegrino Rossi (15
novembre 1848) il pontefice revocò la costituzione e si rifugiò a Gaeta.
Il 9 febbraio 1849 abbiamo l’istituzione della repubblica di Roma, governata dal
triumvirato costituito da Mazzini, Saffi e Armellini, nella quale venne redatta una
costituzione innovativa, che prevedeva la sovranità popolare, l’uguaglianza, la
libertà e la fraternità, la sussistenza degli indigenti e degli inabili a carico dello Stato,
la soppressione della censura, dei tribunali ecclesiastici, dei privilegi e delle
immunità del clero ed infine che le cariche pubbliche fossero elettive.
Il 20 marzo 1849 Carlo Alberto, desideroso di recuperare il proprio prestigio e la
guida del movimento nazionale, decise di riprendere la guerra contro l’Austria, a
suo danno; infatti il 23 marzo 1849 venne sconfitto a Novara, episodio che segnò la
fine del governo di Carlo Alberto che si arrese ed abdicò in favore del figlio
Vittorio Emanuele II.
Il 6 agosto 1849 abbiamo così l’armistizio di Vignale, primo atto firmato da
Vittorio Emanuele II, che venne poi perfezionato con il trattato di Milano, nel
quale il Piemonte rinunciò alla Lombardia e dovette versare all’Austria una pesante
indennità come debito di guerra.
Da qui in poi, come fatto finora, ci limiteremo ad analizzare solo il contesto bellico
che interessa la penisola, approfondendo successivamente il discorso politico dopo
l’unificazione del regno d’Italia.
Cavour, appena nominato primo ministro dal Re e forte dei trattati di Plombières,
volle provocare l’aggressione austriaca per ottenere l’aiuto da parte della Francia;
per fare ciò costituì un corpo di volontari, i cacciatori delle alpi, guidati da
Giuseppe Garibaldi. Il 26 aprile 1859, in seguito all’entrata in azione del corpo
militare sopracitato, l’Austria dichiarò guerra al Piemonte, e la Francia, come
auspicato da Cavour, si schierò a fianco delle truppe sabaude. Grazie alla velocità di
spostamento dei contingenti tramite ferrovia le forze Franco-Piemontesi vinsero le
battaglie di Magenta, Solferino e San Martino, grazie alle quali conquistarono la
Lombardia, i successi ottenuti accesero i cuori dei filo sabaudi i quali insorsero,
crearono governi provvisori in varie città della penisola e richiesero a gran voce
l’annessione al regno piemontese. Napoleone III, sovrano francese, vide sfumare i
suoi piani di un’Italia sotto il governo francese e perciò, spaventato anche dalla
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possibilità di un intervento prussiano, l’11 Luglio 1859 stipulò l’armistizio di
Villafranca nel quale alla Francia venne ceduta la Lombardia e venne richiesta la
restaurazione degli antichi domini nelle regioni appena insorte.
Cavour, indignato per il voltafaccia di Napoleone, si dimise ma, sotto la spinta dei
governi provvisori appena creatisi, che si unirono per opporsi alla Restaurazione,
tornò al governo e riaprì le trattative con Napoleone dalle quali ottenne il
riconoscimento delle annessioni in cambio di Nizza e della Savoia; in questo modo
ampliò i domini piemontesi ed accrebbe il prestigio dei Savoia.
La rapida estensione dei territori sabaudi e la cessione di alcuni territori furono però
motivo di insoddisfazione e sospetto tra i mazziniani.
In questo clima di sfiducia nel moderatismo piemontese maturò il progetto della
spedizione di Garibaldi.
Cavour, preoccupato dalla creazione di un possibile governo repubblicano nel sud
non diede il suo consenso, ma neanche intervenne, lasciando spazio a quella che
conosciamo come la spedizione dei Mille. Il 5 maggio 1860 Garibaldi, seguito da
mille volontari, salpò da Quarto per la Sicilia, regione in cui l’insofferenza nei
confronti del dominio borbonico contribuì alla sua liberazione.
Le “camicie rosse”, appoggiate dalla popolazione locale, entrarono vittoriose a
Calatafimi, Palermo e Milazzo, dopo aver cacciato senza troppa difficoltà le truppe
borboniche.
Garibaldi assunse il controllo dell’isola in nome di Vittorio Emanuele II; il governo
provvisorio guidato da Crispi, nominato dallo stesso Garibaldi, abolì la tassa sul
macinato, alleggerì i dazi, distribuì le terre demaniali ai combattenti, incamerò i beni
ecclesiastici con il fine di acquisire popolarità tra la popolazione. I contadini,
insoddisfatti dal governo provvisorio, poiché non attuò la tanto attesa riforma
agraria, si diedero al saccheggio delle case dei nobili Siciliani, attività che vennero
represse con forza da Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi, al quale era stato
affidato il compito di mantenere l’ordine sull’isola. Ai “Mille” di Garibaldi si
unirono migliaia di altri volontari e “picciotti” siciliani i quali, il 20 agosto 1860,
senza nessun plebiscito , sbarcarono in Calabria e travolsero la debole opposizione
nemica.
Cavour, preoccupato per il governo democratico e la mancata annessione della
Sicilia, oltre che per il fatto che Garibaldi potesse invadere lo Stato Pontificio
provocando la rottura dei rapporti diplomatici tra Francia e Piemonte, provocò
disordini a Roma e, con la scusa di intervenire, ottenne il permesso da Napoleone
III ad entrare nello Stato Pontificio con le sue truppe. Dopo la vittoria dell’esercito
sabaudo a Castelfidardo, nel quale vennero sconfitte le armate pontificie, il 25
ottobre 1860 Cavour e Garibaldi si incontrarono con i rispettivi contingenti a
Teano, dove il comandante dei “Mille” cedette i territori da lui conquistati a
Vittorio Emanuele II.
Nel Febbraio del 1861 si tennero le elezioni del primo Parlamento dello Stato
unitario a cui seguirono l’estensione dello Statuto, dei codici e delle leggi piemontesi
al resto della penisola; infine il 27 marzo 1861 Vittorio Emanuele II, nuovo Re
d’Italia, proclamò Roma capitale del regno.
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In mezzo a questi avvenimenti possiamo ritrovare il papa, Pio IX, il quale, senza
poter agire, venne accerchiato e spodestato dei propri domini e della propria città,
infatti i tentativi da parte del governo Cavour di ottenere Roma non andarono a
buon fine, soprattutto a causa delle pressioni da parte della Francia, alleata di
vecchia data del pontefice.
Garibaldi rientrò dall’esilio volontario e decise di intraprendere una nuova
spedizione, con l’obbiettivo di liberare Roma con le armi.
Sotto imposizione di Napoleone III l’esercito italiano fermò Garibaldi e i suoi
uomini sull’Aspromonte e Cavour venne costretto a stipulare nel Settembre 1864 la
cosiddetta “convenzione di Settembre” nella quale il sovrano francese si pose come
garante della libertà del papa, e all’Italia venne imposto di rispettare i confini dello
stato pontificio, perciò la capitale venne spostata a Firenze e non a Roma.
Garibaldi intraprese una seconda spedizione a Roma che venne considerata come
violazione della Convenzione di Settembre, perciò Napoleone III inviò un suo
contingente a presidiare Roma, truppe che però dovettero ritornare
immediatamente in patria a causa della sconfitta Francese a Sedan e della seguente
abdicazione di Napoleone III.
Cavour si sentì libero da costrizioni e convenzioni, perciò intavolò immediatamente
delle trattative di riappacificazione con il papa, Pio IX però rifiutò la legge delle
guarentigie, con le quali il Parlamento italiano offriva importati garanzie al
Pontefice, che si dichiarò prigioniero e con il decreto “non expedit” invitò i
cattolici a non partecipare alle elezioni. Di risposta il 20 settembre 1870 l’esercitò
italiano attaccò Roma conquistandola, e l’anno seguente la città venne proclamata
capitale del regno.
Da questa attenta analisi degli anni dell’unificazione si riscontrano solo alcuni dei
problemi che la destra storica, primo partito che guidò l’Italia in questi anni difficili,
dovette affrontare, infatti il paese era si unificato, ma soltanto legalmente e non
realmente, infatti tante erano ancora le differenze tra le varie regioni che ancora
oggi interessano la politica del paese.
Dopo l’unificazione dell’Italia in un unico regno, eccetto il Trentino, Il FriuliVenezia Giulia e il Veneto, Cavour morì e lasciò lo stato in mano ad una serie di
governi di destra, liberal-moderati, eredi del connubio cavouriano e politici liberali
delle regioni appena annesse. Questi governi, eletti da una minoranza della
popolazione (circa l’1,9 %) non seppero come comportarsi nei confronti delle
regioni meno avanzate e peggiorarono situazioni già complicate.
Il primo obbiettivo era quello di unificare effettivamente l’Italia, perciò venne
creato un sistema amministrativo basato sui prefetti , rappresentanti nelle provincie
dell’autorità governativa, che però non poterono comprendere i problemi di regioni
diverse per cultura, storia e alle volte per lingua. Le nuove riforme, come lo
sviluppo della ferrovia, la creazione di una moneta unitaria e l’apertura delle dogane
interne non fecero altro che industrializzare il nord del paese e condannare il sud ad
una vita contadina, infatti le aziende del meridione erano troppo deboli per poter
rivaleggiare con quelle del nord Italia, oltretutto la famigerata tassa sul macinato,
emanata per risanare il bilancio dello stato, colpì ancora di più i contadini
meridionali. Come risposta a questa insofferenza verso le differenze nacque il
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brigantaggio. Gruppi di contadini si riunirono per combattere contro lo stato ed in
questo modo radicarono le organizzazioni criminali già presenti, come la camorra e
la mafia. Come risposta il governo emanò la Legge Pica con la quale venne estesa la
legge marziale ai territori del sud, perciò i briganti erano sottoposti a tribunali
militari.
Anche se osteggiata a causa della sua politica “piemontesista”, la destra storica
riuscì a risanare il bilancio dello stato e ad annettere il veneto, infine nel Marzo del
1876 perse la maggioranza e lasciò il regno in mano ai successivi governi di sinistra i
quali si ritrovarono ancora di fronte al difficile problema del “mezzogiorno”.
Vittorio Emanuele II conferì ad Agostino Depretis, leader della sinistra storica,
l’incarico di formare un nuovo governo. Provenienti dallo stesso tessuto sociale
della destra storica (aristocratici e borghesi) e non meno divisi (liberali, moderati, ex
garibaldini e mazziniani) gli esponenti della sinistra storica si differenziarono però
dai loro predecessori per il loro interesse nei confronti della nuova componente
industriale e finanziaria. Depretis elencò il suo programma, in antitesi con quello
della destra, nel discorso di Stradella, indicando come riforme prioritarie
l’allargamento del suffragio, l’ampliamento dell’istruzione obbligatoria e gratuita, la
diminuzione della pressione fiscale ed il decentramento amministrativo (elettività
sindaci).
La sinistra si presentò alle elezioni, anche se in realtà cominciò a governare da
qualche mese prima, e vinse con una grossa maggioranza ma Depretis abbandonò
molti punti della lista di Stradella per guadagnare appoggio anche tra le file della
destra, questa politica venne detta del trasformismo; la mancanza di una reale
opposizione al governo favorì la logica degli accordi personali che sfociarono in
fenomeni di corruzione e clientele che d’ora in avanti accompagneranno la politica
del paese. Esponenti radicali dell’ ”estrema” sinistra abbandonarono il partito per
presentarsi alle elezioni con una lista autonoma. La legislazione dei primi governi di
sinistra lasciò delusi gli elettori, infatti le varie riforme promesse non vennero
attuate oppure vennero attuate solo in parte.
Nei fatti neppure la sinistra riuscì a risolvere i problemi dell’Italia.
Indebolito dalle elezioni del 1880 il governo Depetris accentuò la sua involuzione
conservatrice abbandonando il liberismo economico per proteggersi dalla crisi che
in quel periodo colpì l’Europa, facendo ciò si attirò le ire dei francesi, che ritirarono
i propri prodotti, e non ebbe l’effetto sperato a causa delle speculazioni che
legavano i latifondisti del Sud con gli industriali del Nord.
Tuttavia, proprio nel corso degli anni ottanta, l’Italia vide un importante sviluppo
industriale, soprattutto nel cosiddetto triangolo industriale, Milano-Torino-Genova,
grazie ai finanziamenti da parte dello stato e delle banche. Il governo oltre al campo
meccanico (Breda, Fiat) quello chimico (Pirelli), quello elettrico e quello
cantieristico, puntò ad un miglioramento anche della siderurgia per potenziarsi
militarmente ed avere una più complessiva crescita economica. Ovviamente al di
fuori del triangolo domina la crisi agraria che spinge ad emigrazioni di massa da
parte dei contadini soprattutto verso l’America. Il ritiro dei prodotti da parte della
Francia e la successiva occupazione della Tunisia, già pubblicamente nelle mire
espansionistiche dell’Italia spinse il governo ad allearsi con la Germania e con
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l’Austria-Ungheria e a cominciare campagna coloniale in africa orientale dove
cominciò ad acquisire dei territori. La politica coloniale non era però ben vista
dall’opinione pubblica che si inasprì di più dopo che un contingente di 500 uomini,
durante un tentativo di penetrazione verso l’interno del paese, venne massacrato
dalle truppe etiopi.
A Depretis seguì Francesco Crispi, primo esponente della politica meridionale e
ben visto sia dalla sinistra sia dalla destra, poiché conservatore. Crispi, seguì
l’esempio di Bismarck, ed accentrò il potere nella figura del primo ministro. In
primo luogo intese garantire l’ordine pubblico e la stabilità dello stato, infatti
eliminò quella corruzione e quei favoritismi che avevano caratterizzato il governo
Depretis. Da quando salì al potere si susseguirono una serie di riforme
contraddittorie.
Le gravi difficoltà che colpirono l’Italia acuirono il malessere collettivo, infatti
nacquero diverse associazioni, cooperative, organizzazioni di mutuo soccorso,
sindacati, in cui i contadini e i lavoratori cercarono protezione.
La disorganizzazione di queste forze spinse i lavoratori alla creazione di partiti di
ispirazione socialista. Dopo un primo partito capeggiato da Andrea Costa nacque il
partito dei lavoratori italiani, poi PSI il quale venne fondato da Turati e da Anna
Kuliscioff, esule russa. I due puntarono alla socializzazione dei mezzi di produzione
e alla lotta del proletariato. Turati poi rifiutò la parte rivoluzionaria del socialismo
dividendo, come in ogni partito socialista europeo, i riformisti dai rivoluzionari che
si separarono, dai due gruppi nacquero due sindacati, la CGL (riformista) e l’USI
(rivoluzionario).
Negli stessi anni nacque anche La confederazione nazionale dell’industria fondata
dagli imprenditori.
In questi fermenti i cattolici, spinti dall’enciclica “rerum novarum”, si lanciarono
nelle riforme sociali e fondarono organizzazioni o aiutarono quelle già esistenti,
Nacque anche la lega Democratico-cristiana, capeggiata da Murri e lo stesso papa
Pio X con il concilio dei vescovi non osteggiò la creazione di alleanze fra clericali e
moderati ed autorizzò la presentazione di candidature dichiaratamente cattoliche.
Dopo uno stop a causa dello scandalo della Banca Romana Crispi ritornò al potere
e si trovò costretto a sedare delle rivolte in varie città italiane, tutte da parte del
movimento dei fasci siciliani, organizzazione eterogenea e mossa da ideali ispiratori
spesso contraddittori, i quali non vennero accettati dal partito socialista a causa
della loro matrice prettamente rivoluzionaria. Per reprimere le agitazioni Crispi
mise in stato d’assedio l’isola uccidendo gli esponenti del movimento e con le leggi
anti-anarchiche impose lo scioglimento del partito socialista, erroneamente
imputato come il fautore delle agitazioni. Lo stato si ritrovò sotto una semi
dittatura ma il partito socialista non si arrese, anzi acquisì maggiore solidarietà.
Come ultima carta del suo governo Crispi giocò il colonialismo, conquistò la
Somalia che divenne protettorato italiano, l’Eritrea ed altri territori etiopi grazie al
trattato di Uccialli con l’Etiopia. Dalla traduzione italiana nel trattato era concesso
al governo italiano il controllo dello stesso stato etiope, cosa che invece venne
elencata come possibile nella versione originale (in lingua amharica) perciò
l’incomprensione riaccese gli scontri fra i due paesi, l’Italia occupò comunque la
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zona del tigre ma venne schiacciata dalla reazione etiope, sottovalutata da Crispi.
L’esercito subì due pesanti sconfitte ad Amba Alagi e nella gola di Adua dove
venne massacrato un intero corpo di spedizione. Due giorni dopo Crispi fu
costretto a dimettersi e la pace tra i due paesi venne riportata da Rudinì a cui
l’Etiopia concesse l’Eritrea.
Negli ultimi anni dell’800 ormai era ben visibile la crisi che la politica italiana
attraversava già da prima dell’arrivo di Crispi. L’ex ministro Sidney Sonnino
provocò lo stato, infatti propose un ritorno allo statuto Albertino, cioè un ritorno
alla monarchia costituzionale in modo tale da limitare la libertà del parlamento,
provocatrice dell’instabilità della politica italiana, infatti già più di trenta governi si
erano succeduti in poco più di quarant’anni, problema da imputare anche alle
clientele e alla corruzione. La proposta di Sonnino era di restituire al re il potere del
governo, e diminuire così l’influenza del parlamento sulle scelte politiche. Intanto il
governo venne dato in mano a Rudinì, il quale represse nel sangue diverse rivolte
della popolazione. Come successore di Rudinì venne scelto Pelloux, generale legato
agli ambienti di corte che per reprimere le rivolte presentò un pacchetto di leggi
con l’obbiettivo di limitare le libertà dei rivoltosi. Il parlamento, per la maggioranza
dell’opposizione, rifiutò le leggi ed applicò l’ostruzionismo parlamentare facendo
finalmente cadere il governo nel 1900. In seguito a Saracco, periodo durante il
quale morì assassinato Umberto I succeduto da Vittorio Emanuele III, e Zanardelli,
il governo tornò in mano alla sinistra con la nomina di Giolitti a capo del governo.
Il nuovo capo del governo si tenne sempre neutrale rispetto agli scontri fra i partiti,
infatti applicò una politica unificante ed affermò che il governo non doveva
schierarsi ma regolamentare e promuovere la dialettica fra i partiti e soprattutto non
fece uso della polizia per reprimere gli scioperi ma la utilizzò solo nel caso in cui
questi violarono la legge.
Le sue riforme furono principalmente di stampo liberale e permisero l’entrata di
capitale straniero con il quale vennero finanziate le nuove imprese, stranamente
non venne appoggiato dai partiti socialisti, diffidenti nei suoi confronti.
Come tutti i precedenti governi però anche Giolitti non riuscì a risolvere il
problemi del mezzogiorno, anzi li sfruttò per guadagnare voti facili, e si vide
costretto anche a cambiare i propri orientamenti politici a causa della perdita
dell’appoggio da parte dei liberali, anch’essi divisi internamente.
Spinto dai movimenti nazionalisti e dai banchieri attaccò la Libia, ma la campagna si
rivelò più lunga e costosa del previsto, infatti i libici erano alleati con i turchi; grazie
al disgregamento dell’impero ottomano la minaccia turca venne debellata ma
Giolitti fu costretto a dimettersi a causa della perdita della maggioranza. Come suo
successore indicò Salandra, ritenuto dallo stesso Giolitti incapace di governare e
con poche possibilità di ottenere la maggioranza, infatti il piano di Giolitti era
quello di ritornare al governo dopo il fallimento di Salandra, tentativo che fallì a
causa dell’inizio della guerra.
Gli italiani, presi alla sprovvista dall’inizio di quella che viene chiamata “la grande
guerra” si ritrovarono divisi: Da una parte vi erano i neutralisti, e dall’altra gli
interventisti, tra i quali possiamo trovare un giovane ed intraprendente Benito
Mussolini, attivista del partito socialista prima, e di quello nazionalista poi.
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La decisione di entrare in guerra o no avrebbe avuto anche un risvolto economico,
infatti, lo schieramento con la Germania e l’Austria avrebbe interrotto i
rifornimenti inglesi. Dopo mesi di discussione e di contrasti nel paese, il 26 aprile
1915 il governo Italiano, firmò a Londra un patto segreto con la Francia e con
l’Inghilterra impegnandosi ad entrare in guerra entro un mese.
Questo fu il primo caso nella politica italiana in cui una minoranza ottenne la
vittoria, infatti tra i politici e la popolazione i più erano neutralisti.
L’esercito Italiano venne schierato sul lago di Garda fino a Gorizia. La strategia dei
comandi militari era basata inizialmente sulla guerra di movimento, per questo
motivo furono lanciate quattro grandi offensive sul fiume Isonzo, senza nessun
vantaggio militare concreto.
Così, anche sul fronte italiano si passò alla guerra di Trincea. L’unico risultato
significativo degli italiani fu la presa di Gorizia nel 1916.
Poiché il fronte orientale era stato abbandonato dai russi Il comando austriaco si
concentrò verso il fronte meridionale ed organizzò una potente offensiva contro
l’Italia sul fiume Isonzo. L’attacco, effettuato tra il 24 e il 30 ottobre 1917, sfondò
lo schieramento italiano a Caporetto, la ritirata fu disastrosa e diverse postazioni
furono abbandonate. Il generale Cadorna fu sostituito da Armando Diaz.
L’offensiva nemica fu successivamente fermata sull’altopiano di Asiago, sul monte
Grappa e lungo il fiume Piave, soprattutto grazie all’innalzamento del morale delle
truppe, infatti si promise ai soldati la distribuzione della terra una volta terminata la
guerra. Il 3 novembre del 1918 le truppe italiane entrarono a Trento poi a Trieste.
Con la sconfitta della Germania e dell’Austria finiva la PRIMA GUERRA
MONDIALE.
Il bilancio della guerra fu tragico, i morti in Italia furono 9 milioni più mutilati,
invalidi e feriti, in più vi era il problema del difficile reinserimento dei reduci.
La durezza delle condizioni di pace sarà la premessa per lo scoppio della seconda
guerra mondiale.
Le radici del fascismo, quindi, possiamo intendere che affondino nell’esperienza
terribile, e da alcuni punti di vista anche fallimentare, della prima guerra mondiale.
All’interno del regno serpeggiavano non pochi malumori dovuti sicuramente alla
grave crisi morale, detta si dalle gravi perdite umane ma anche dalla forte pressione
fiscale dovuta alle enormi spese che una guerra comporta.
Altra causa destabilizzante per gli equilibri socio-politici italiani fu la rivoluzione
russa, che influenzò profondamente le classi operaie italiane e alla quale seguì il
biennio rosso ( 1919-1920 ), periodo che portò l’Italia ad una serie di scontri che
rischiarono di sfociare in una guerra civile attuata dalle classi operaie come accadde
in Russia.
Ed è qui che la nostra storia si colora di un fitto nero, quello delle camice degli
squadristi di Benito Mussolini. Questi era stato direttore dell’Avanti fino al primo
decennio del ‘900 salvo poi essere espulso per le sue idee troppo interventiste.
Mussolini non si limitò a fondare un nuovo giornale ma creò anche il movimento
dei “fasci di combattimento” che si evolverà poi nel Partito Nazionale Fascista
(PNF).
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Mussolini fu abile nello sfruttare questa situazione di tumulto, raccolse attorno a sé
nazionalisti delusi, ex combattenti e giovani della media borghesia.
Il 23 marzo del 1919, a Piazza San Sepolcro, Mussolini fondò i “Fasci di
Combattimento”, il traguardo era quello di fondare un vero e proprio partito
politico. Alle sempre più presenti leghe socialiste si contrapposero le squadre
d’azione fasciste, in seguito a questo importante passo Mussolini riuscì ad ottenere,
durante le elezioni del 1921, alcuni seggi in parlamento, momento che si rivelò
decisivo per quella che poi sarà la storia seguente.
Nel novembre dello stesso anno, in occasione del III Congresso Nazionale,
Mussolini decise di trasformare i fasci di combattimento in un vero e proprio
Partito politico.
Era ormai evidente il doppio binario della politica mussoliniana: quello legale,
mediante l’entrata nel parlamento dei fascisti e la continua ricerca di una coalizione
di governo forte e quello illegale, attuato dagli squadristi in tutto il Paese.
Il 28 ottobre, vari gruppi di fascisti provenienti da varie parti d’Italia, si radunarono
e mossero verso Roma, un gruppo consistente di giovani si appostarono alle porte
della città schierati dinnanzi all’esercito regio.
Venne chiesto e negato lo stato d’assedio, atto che portò alla caduta del governo
della sinistra e al conseguente insediamento di Mussolini quale primo ministro.
Il 28 ottobre 1922 gli squadristi vinsero questa “battaglia” e questo avvenimento
prese il nome di “Marcia su Roma”.
Ciò che avvenne dopo è storia, Mussolini a colpi di decreto legge modificò lo
statuto albertino diventando il Duce del Regno d'Italia, che nel 1938 proclamò
l’Italia Impero. Mussolini deteneva quindi ogni potere, le sue Camicie Nere
spadroneggiavano per tutta la penisola ed i suoi gerarchi governavano in suo nome
(ricordiamo il gerarca cremonese Roberto Farinacci, molto vicino al duce).
Il 1929 fu un anno fondamentale per il fascismo e il suo consolidamento.
Dal punto di vista economico il fascismo intraprese la via dell’autarchia: tale politica
economica si proponeva di mettere l’Italia in condizione di produrre da sola tutto
ciò che le occorreva, rendendo così l’economia italiana autosufficiente.
Il governo fascista inoltre può annoverare il merito del pareggio di bilancio oggi
tanto inseguito, prima di lui solo la destra storica vi era riuscita sul finire dell’800.
Mussolini divenne così l’uomo attorno a cui ruotava tutto lo stato italiano.
Intraprese non solo trattati bellici con la Germania, ma anche campagne
colonialiste in Libia ed Eritrea, come anche in Grecia e Albania. Poi, arrivò quello
che, forse, in tanti anni di governo del Duce fu il suo errore più grande, l’alleanza
con una personalità ancor più nera della sua, Adolf Hitler. In Italia ormai non si
parlava più di fascisti ma di mussoliniani.
Il 22 maggio 1939 venne sancito il Patto d’Acciaio, che obbligava l’Italia a sostenere
militarmente la Germania nazista nella seconda guerra mondiale. Mussolini ad un
certo punto pensò quasi di schierarsi dalla parte anglo-francese. Ma nel diario di
Ciano leggiamo: “se l’Italia dovesse denunciare il Patto, quali assicurazioni
avremmo che Hitler non accantonerebbe la questione polacca per saldare il conto
con l’Italia?” fonte: (Il Diario di Ciano - 18 agosto 1939 pag. n 330).
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La conseguenza di un gesto simile, atto forse a cercare quello che sarebbe stato il
male minore per l’Italia, portò all’inevitabile scoppio del secondo conflitto
mondiale che assunse dimensioni inimmaginabili.
Per l’Italia fu disastrosa, le truppe tedesche erano stabilmente disposte nella
penisola, gli italiani erano dispersi su più fronti a morire ora di freddo ora di colpi
d’arma da fuoco, quando il re decise che era giunto il momento di intervenire, i
vertici fascisti avevano già ripudiato Mussolini, e lui si era già stabilito nella neonata
Repubblica di Salò.
Più precisamente il 19 luglio del 1943 le forze aeree americane bombardarono
Roma e Frascati, sedi del comando tedesco, il 24 e il 25 luglio il Gran Consiglio del
Fascismo, approvava l’ordine del giorno “Grandi”, che stabiliva il ripristino dello
Statuto delle libertà costituzionali e la fine del regime Fascista. Nello stesso giorno,
Vittorio Emanuele III convoca Mussolini ordinandone l’arresto e l’internamento: in
un primo momento nell’isola di Ponza e poi successivamente sul Gran Sasso a
Campo Imperatore.
Tutto ciò diede entusiasmo ai gruppi antifascisti e l’Italia pensò finalmente di essere
uscita dalla guerra. Capo del governo venne nominato il generale Pietro Badoglio,
che primo atto sancì la resa incondizionata agli alleati americani e il conseguente
rientro dell'Italia nel conflitto a fianco degli Anglo-Americani. Essendo tutto ciò
stato frutto di una trattativa segreta, il comando centrale nazista inviò numerose
truppe con lo scopo di preservare la supremazia sulla penisola. Il 3 settembre 1943
ci fu la firma dell’armistizio e l’8 settembre 1943 ci fu l’annuncio, la cosa ebbe
risvolti catastrofici.
I risvolti furono tragici, infatti la proclamazione avvenne mentre in Italia si
trovavano ancora un cospicuo numero di truppe tedesche, il gesto di Badoglio,
dettato più dalla paura che dal pensiero del bene del suo paese, portò ad una
devastazione ancora maggiore del paese, infatti le truppe tedesche nel rientrare
verso il fronte nordico fecero terra bruciata di tutto ciò che trovarono, gli episodi
più famosi furono quelli di Marzabotto e Sant'Anna di Stazzema.
Quindi l’Italia, oltre ad essersi macchiata dell'atroce delitto delle leggi razziali e della
costituzione dei campi di sterminio, si ritrovava a dover combattere quelli che
letteralmente fino al giorno prima erano alleati. La risoluzione del conflitto avvenne
come tutti noi sappiamo, con gli USA che sganciarono le due bombe atomiche su
due isole del Giappone.
Il 12 aprile del 1944 il Re stipulò un accordo in base al quale, al momento della
liberazione, sarebbe stato eletto il figlio Emanuele alla carica di “ luogo tenente del
regno” e alla fine della guerra indetto un referendum per la scelta fra Monarchia e
Repubblica. Cosi fu possibile costituire l’unico governo legittimato dell'Italia
liberata.
Il 27 aprile 1944 Mussolini è catturato e ucciso assieme a Claretta Petacci, i loro
cadaveri vengo appesi nudi in piazza e vengono seviziati in ogni modo come
conseguenza del male commesso. L’Italia così si trovò ad affrontare una nuova
unificazione, dopo quella ben più nota del 1861. Come promesso dal Re, Vittorio
Emanuele III, il 2 giugno 1946 per la prima volta tutta la popolazione venne
chiamata alle urne per decidere se continuare con l’istituto monarchico oppure
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passare alla repubblica; dalle urne risultò che doveva essere la repubblica la forma di
governo adatta per l’Italia.
Così ci si mise subito all’opera per dare allo stato nascente una costituzione che
impedisse il ripetersi di ciò che si era visto nei vent’anni precedenti.
Così il primo parlamento italiano, comprendente tutti gli schieramenti politici,
scrisse quella che sarebbe diventata la nostra carta costituzionale. Questa venne
firmata a Roma il 18 aprile 1948. In essa sono contenuti tutti i principi
fondamentali del nostro stato, tutti i diritti e doveri fondamentali dell’uomo.
In essa è scritto in modo molto chiaro che l’Italia è una ed indivisibile.
L’Italia in questo secolo trascorso fra unificazione e grandi guerre non ha mai perso
la sua identità di paese unito, malgrado le differenze superficiale che posso farci
apparire distanti; l’Italia ha saputo superare il dramma della seconda guerra
mondiale e le devastazioni causate dalla guerra, ha saputo rialzare la testa dopo i
vent’anni di governo di Mussolini, l’Italia ha saputo riprendersi il ruolo di rilievo
che le spetta nell'economia europea e mondiale.
L’Italia non è solo costituita da i suoi confini fisici e dalle sue terre, è fatta anche di
persone straordinarie che hanno saputo far risorgere la penisola e riportarla
all’antico splendore, in nessun modo potrà mai essere dissolto il legame che lega
ogni italiano alla sua Italia.
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