(341-270 a.C.)
Sommario: il quadrifarmaco, l'atomismo, il piacere
Le filosofie post-aristoteliche, dette anche filosofie ellenistiche, focalizzarono il
loro interesse su problematiche di ordine etico. In quell'età - l'Ellenismo (323
a.C. -30 a.C.) - la filosofia definisce infatti in modo diverso il proprio compito.
Fino ad Aristotele, essa si era data come mèta la conoscenza del reale,
scorgendo in essa il fine supremo del pensiero e della vita stessa; ora si
accentua particolarmente l'ideale pratico, e compito specifico della filosofia
diventa quello di indicare i contenuti e le condizioni di realizzabilità di una vita
giusta e felice. Da qui la nascita delle tre grandi scuole filosofiche
dell'Ellenismo: Epicureismo, Stoicismo e Scetticismo. Il fine che questi tre
indirizzi avevano di vista era identico: quello di garantire all'uomo la
tranquillità dello spirito. ma le vie che essi additano per raggiungere tale fine
erano molto diverse.
E' di Epicuro la celebre sentenza: "Vana è la parola del filosofo se non allevia
qualche sofferenza umana". Se la filosofia ha diritto di cittadinanza nel mondo
degli uomini, ciò è dovuto alla sua capacità di placare le sofferenze che la vita
comporta. Il valore della filosofia è dunque strumentale: il suo fine principale è
di raggiungere la felicità. Epicuro ritiene infatti che la verità possa facilmente
essere scoperta e compresa dall'uomo e che quindi la filosofia, come attività
che ci permette di conoscere razionalmente la verità, sia alla portata di tutti ed
abbia un carattere liberatorio. E' naturale quindi, come corollario, che la
filosofia sia per tutti - uomini e donne - e per tutte le età. Coerentemente con
questa tesi, le comunità epicuree erano aperte a tutti, senza distinzione di
sesso o di condizione sociale. "Se siamo felici abbiamo tutto ciò che ci occorre",
e la felicità è ottenibile da parte di tutti ed è per tutti. Per possederla però il
giovane deve liberarsi dalle paure "per affrontare con coraggio l'avvenire",
mentre il vecchio deve saper conservare i bei ricordi per rimanere giovane
nello spirito. La filosofia si presenta sotto una duplice veste: da una parte
insegna, attraverso la conoscenza della natura delle cose, a liberare la mente
dalle inquietudini; dall'altra insegna a godere dei piaceri della vita. E' quello
che Epicuro esprime nella sua dottrina del quadrifarmaco: la filosofia 1) libera
l'uomo dalla paura degli dèi; 2) libera l'uomo dalla paura della morte; 3)
dimostra la brevità e provvisorietà del dolore; 4) dimostra la facile
raggiungibilità della felicità, che consiste nel piacere.
Vediamo uno per uno i singoli punti.
1) Per quanto riguarda il timore verso gli dèi, Epicuro sostiene che gli dèi di
certo esistono, hanno forma simile all'umana ma più perfetta, ed abitano gli
spazi vuoti tra i mondi (intermundia) che sono infiniti, ed in essi ogni cosa è
composta di atomi e vuoto. L'uomo non deve avere paura degli dèi perché essi
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non si preoccupano né del mondo né tantomeno dell'uomo. Ogni
preoccupazione sarebbe infatti contraria alla loro beatitudine giacché sarebbe
una sorta di obbligo nei nostri confronti, mentre invece essi sono senza
obblighi e beati. D'altra parte, nel mondo vi è il male e ciò indica che gli dèi
non intervengono. Infatti -dice Epicuro - "la divinità o vuol togliere i mali o non
può, oppure può e non vuole o anche non vuole né può o infine vuole e può. se
vuole e non può, è impotente; se può e non vuole, è invidiosa; se non vuole e
non può, è invidiosa e impotente; se vuole e può, donde viene l'esistenza dei
mali e perché non li toglie?" (fram. 374 Usener). Perciò il saggio, liberato dalle
superstizioni, può vivere con pienezza la sua vita terrena e attingere in questo
modo la felicità.
2) La morte non deve essere temuta perché... non è nulla. "Quando ci siamo
noi, la morte non c'è, e quando c'è la morte, non ci siamo noi", dice Epicuro.
Inoltre, visto che la morte consiste nella separazione dell'anima dal corpo e
visto che per Epicuro anche l'anima è materiale essendo composta da atomi,
nel momento della morte, quando gli atomi si separano, ogni sensazione cessa,
e noi non 'sentiamo' più nulla, né dolore né piacere. La morte è quindi semplice
assenza di sensazioni, ed è dunque sciocco averne paura.
3) Per dimostrare la brevità del dolore, Epicuro afferma quanto segue: se il
male è lieve, il dolore fisico è sopportabile, e non è mai tale da offuscare la
gioia dell'animo; se è acuto, passa presto; se è acutissimo, conduce presto alla
morte, la quale non è che assoluta insensibilità. E i mali dell'anima? Essi sono
prodotti dalle opinioni fallaci e dagli errori della mente, contro i quali c'è la
filosofia e la saggezza.
4) La felicità è facilmente raggiungibile e consiste nel piacere. Ma che cosa
intende Epicuro per piacere? Per rispondere dobbiamo anzitutto dire che si
assiste qui ad un clamoroso rovesciamento di valori e di fini: a differenza di
Platonismo, Aristotelismo e anche Stoicismo, il piacere viene considerato da
Epicuro come il principio e il fine della vita felice. Direi di più: il piacere è il
bene primo, connaturato con noi stessi. L'uomo quindi è felice secondo natura,
a meno che non gli manchi qualcosa. Infatti il piacere è la felice sensazione di
pienezza che l'uomo prova naturalmente se non lo limitano dei piaceri
insoddisfatti. Tutto ciò che dobbiamo fare è mantenerci nel piacere, eliminando
le cause che disperdono la pienezza del nostro essere. L'infelicità degli uomini
deriva dal fatto che essi temono le cose che non devono essere temute e
desiderano le cose che non è necessario desiderare e che sfuggono loro. Sono
dunque privati dell'unico piacere autentico, che è il piacere di essere. Anziché
rappresentarci i mali in anticipo per prepararci a subirli, dobbiamo, al contrario,
staccare la nostra mente dalla visione delle cose dolorose e fissare lo sguardo
sui piaceri. Occorre far rivivere il ricordo dei piaceri passati e godere dei piaceri
del presente, riconoscendo quanto siano grandi e piacevoli tali piaceri del
presente. Non tanto quindi vigilanza, quanto scelta deliberata, sempre
rinnovata, della distensione e della serenità, ed una gratitudine profonda verso
la natura e la vita che ci offrono incessantemente, se sappiamo trovarli, il
piacere e la gioia ("Sia reso grazie alla beata natura che fece le cose necessarie
facilmente procacciabili, quelle difficilmente procacciabili non necessarie").
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Vivere nel momento presente è, ancora una volta, un invito alla distensione e
alla serenità: la preoccupazione rivolta al futuro, che ci lacera, ci nasconde il
valore incomparabile del semplice fatto di esistere. Inoltre, per gli Epicurei,
proprio il piacere è una sorta di "esercizio spirituale": piacere intellettuale della
contemplazione della natura, pensiero del piacere passato e presente, piacere
infine dell'amicizia. Nell'esaltare l'amicizia, Epicuro assume a volte dei toni di
pura poesia. Vi è per lui nella amicizia (philia) una serenità più profonda,
superiore anche a quella dell'amore (eros), perché più facilmente si può
conservare libera da sentimenti che procurano dolore come la gelosia o il
dolore del distacco o la paura di non essere riamati. L'atteggiamento di Epicuro
verso gli altri uomini è riassumibile nella sua massima: "E' non solo più bello
ma anche più piacevole fare il bene anziché riceverlo". In questa massima, il
piacere assurge a fondamento e a giustificazione della solidarietà fra tutti gli
uomini. E infatti Diogene Laerzio ci testimonia l'affetto di Epicuro per i genitori,
la sua fedeltà agli amici, il suo senso di solidarietà umana (cfr. Vite dei filosofi,
X, 9).
Noi compiamo tutte le nostre azioni - dice Epicuro - al fine di non soffrire e di
non avere l'animo turbato. Se ci troviamo già in questa condizione, non
desideriamo nulla, perché nulla ci manca. E' questo l'obiettivo da raggiungere,
è in questo che consiste la felicità o il piacere, e cioè appunto nella aponia
(assenza di dolore fisico) e nella atarassia (assenza di dolore spirituale). E' qui
il "segreto" della felicità degli dèi ed è questo il motivo per cui noi dobbiamo
imitarli, anche se essi non si curano di noi. In altre parole, la felicità consiste
nel piacere stabile, che è assenza di dolore, e non nel piacere in movimento,
che sono i momenti di gioia, di allegria, e simili. Se è così, la pienezza del
piacere si attinge nella caduta del desiderio. Non per nulla, per Epicuro, solo i
desideri naturali e necessari vanno appagabili (quelli legati alla salute, alla vita,
al piacere), mentre gli altri vanno limitati o abbandonati. Da questo punto di
vista, è più felice un vecchio che un giovane. Dice infatti Epicuro: "Non il
giovane è felice, ma il vecchio che ha vissuto una vita bella; poiché il giovane
nel fiore dell'età è mutevole ludibrio della sorte; il vecchio invece giunse a
vecchiezza come a tranquillo porto e di tutti i beni che prima aveva con dubbio
sperato ora ha sicuro possesso nella tranquilla gioia del ricordo".
Il piacere - in quanto sensazione interiore - deve essere posto come norma
delle nostre affezioni. Il principio è il seguente: ogni piacere è di per sé un
bene, ma non è detto che le sue conseguenze nel tempo siano vantaggiose per
noi. Viceversa, ogni dolore è un male, ma non è detto che da un male non
possa derivare un bene per noi. Quindi il piacere diventa la norma su cui
giudicare le nostre azioni perché ci suggerisce cosa scegliere, spingendoci
verso ciò che nel tempo ci è più favorevole. Solamente un accorto calcolo dei
piaceri può far sì che l'uomo basti a se stesso e non diventi schiavo né dei
desideri né delle preoccupazioni, rinunciando ai piaceri da cui deriva un dolore
maggiore (per fare un esempio attuale si pensi alle droghe o al fumo o al bere)
e sopportare i dolori da cui potrà derivare un piacere maggiore. Insomma, per
Epicuro il piacere è il bene completo e perfetto quando sia inteso come non
aver dolore nel corpo né turbamento nell'animo. Per questo egli fa un elogio
della phronesis (=saggezza, prudenza), considerata il fondamento di tutte le
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virtù. Essa ci abitua a contenere i desideri, a valutare con cura le conseguenze
delle nostre scelte, prevedendo un ampio margine di sicurezza, per evitare che
da un bene abbia a derivarne un male. Dice infatti Epicuro: "Per ognuno dei
desideri va posta questa domanda: che cosa mi accadrà se si realizza il mio
desiderio, e che cosa, se non si realizza?". In conclusione, la vita sarà felice se
saprà essere vissuta con saggezza, semplicità e giustizia. "Non ci può essere
vita felice se non è anche saggia, bella e giusta; e non vi è vita saggia, bella e
giusta che non sia anche felice. Le virtù sono infatti connaturate ad una vita
felice, è questa è inseparabile dalle virtù".
Agli uomini del suo tempo, Epicuro ricordava che il vero bene è sempre e
soltanto in noi. Il vero bene è la vita, e a mantenere la vita basta pochissimo, e
quel poco è a disposizione di tutti, di ogni singolo uomo.
GLI STOICI
Sommario: il Logos; il cosmo; la morale e l'apatia; il destino e la libertà; la
logica
Per Platone e Aristotele, come si ricorderà, la felicità piena si realizza nella vita
contemplativa; l'esercizio stesso della filosofia come theoria, realizzando
quanto di più elevato vi è nella natura dell'uomo, coincide con la beatitudine.
Per gli Stoici (ed Epicuro) invece la filosofia è un mezzo e non un fine; la
conoscenza della totalità offre al saggio la base teorica su cui fondare le
proprie scelte, ma non rappresenta di per sé la realizzazione della vita felice.
Questa destinazione eminentemente pratica non dà luogo tuttavia ad una
semplice precettistica: al contrario Stoici (ed Epicurei) sono comunque
impegnati nella elaborazione di una gnoseologia (=teoria della conoscenza) e
una filosofia della natura capaci di offrire un saldo fondamento all'etica. Ecco
perché si può parlare di un vero e proprio 'sistema' di filosofia anche per loro,
in cui le varie parti (tradizionalmente la ripartizione è logica, fisica ed etica)
sono collegate tra loro.
La scuola stoica fu fondata da ZENONE DI CIZIO ad Atene verso il 300 a.C. Lo
Stoicismo si sviluppò lungo un arco di parecchi secoli (uno degli ultimi
rappresentanti si può forse considerare l'imperatore romano MARCO AURELIO,
morto nel 180 d.C.) nel corso dei quali, a differenza dell'Epicureismo, conobbe
sensibili modificazioni dottrinali. Noi ci riferiremo soprattutto alle dottrine dello
Stoicismo più antico, quello denominato appunto "antica Stoà".
L'affermazione centrale di tutta la filosofia stoica è: vivi conforme al Logos.
Ma che cos'è il Logos? Con tale termine gli Stoici non intendevano solo la
'ragione' o il 'ragionamento corretto', ma anche e soprattutto una legge
universale che governa tutte le cose, dunque anche il principio immanente
(=interno) della realtà e ciò che dà origine all'universo stesso. Il Logos è
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dunque un principio 'divino' che pervade tutto l'universo. E se ogni cosa
è pervasa dal Logos o, meglio dallo spirito divino (pneuma) allora tutti gli
eventi, tutte le cose che accadono sono legate tra di loro, ogni cosa ha la sua
funzione ed il suo scopo, ogni cosa ha un senso. In breve, non esiste il caso
per gli Stoici ma tutto è determinato, anche le cose che l'uomo rifiuta. Crisippo
ad es. diceva che i denti velenosi dei serpenti sono utili perché i veleni si
possono impiegare come farmaci, i topi ci rendono vigili, le cimici impediscono
di concederci facilmente al sonno; persino i terremoti e le catastrofi sono utili
perché sono castigo e purificazione!
L'universo è visto dagli Stoici come un cosmo ordinato (visto che il
principio divino è il Logos, 'ragione' e quindi ordine), eterno, le cui vicende si
susseguono durante dei periodi in cui si alternano nascita e morte, ordine e
distruzione. In altre parole, l'eternità del mondo include in sé l'alternarsi dei
periodi cosmici e si svolge secondo un ciclo che si ripete (eterno ritorno). Alla
distruzione del mondo, in seguito ad una conflagrazione (ecpirosi), seguirà una
rinascita (palingenesi) del medesimo; il terribile - ai nostri occhi - è che tutto
rinascerà esattamente come prima (apocatastasi)! Vi sarà una rigenerazione
del mondo in modo che ciascun uomo rinascerà e sarà quale era nella vita
precedente, fin nei minimi particolari e avvenimenti!
Da questo punto di vista, se cioè tutto avviene per necessità (che riguarda
passato, presente e futuro), non sembra aprirsi alcuno spazio per la libertà
umana, nessuna autentica possibilità di scelta, di cambiamento, di novità e
dunque la stessa vita morale non avrebbe senso, ogni agire sarebbe
equivalente a tutti gli altri e cadrebbe la possibilità stessa della valutazione e
del giudizio morale.
L'aporia (=difficoltà) viene risolta dagli Stoici in diversi modi, più o meno
convincenti. E' vero che ognuno ha un carattere suo proprio - un destino configurato dalla natura e dall'ambiente. Ognuno è dunque destinato ad agire
in un certo modo. Ma se non si può decidere quello che si è e quello che si fa,
tuttavia, si è di fatto buoni o cattivi, cioè si agisce secondo virtù o secondo
passione; allora è questo che può essere valutato moralmente. Sarà utile e
buono in massimo grado ciò che consente all'uomo di realizzare la sua natura e
ne permette lo sviluppo; sarà male ciò che è di ostacolo a questo, e sarà
indifferente ciò che non porta né vantaggio né danno morale.
Dal momento che il bene consiste nella realizzazione della natura propria
dell'uomo (che è quella di essere 'animal rationale'), da dove verrà allora il
male? La risposta stoica è: il male è una perversione del logos. Quando il
pathos, la passione, prevale sul logos, viene dato l'assenso a rappresentazioni
false di ciò che è buono ed utile (=essere travolti dalle passioni, diremmo noi).
Dunque la passione è la stessa ragione quando è perversa e intemperante,
nata da un giudizio errato che ha preso forza e vigore.
Ora, se il logos degenera in passione, non c'è nessuna forza che la possa
contrastare, sicché essa produce un totale asservimento della persona. Ogni
passione è violenta e coercitiva, ed è una sorta di 'follia', per cui "l'anima di
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tutti coloro che non sono saggi è malata" in quanto appunto affetta dalla
passione. Ma ciò porta a ritenere che tutti gli uomini o quasi non sono affatto
sani bensì in preda alle passioni. Il saggio, in altre parole, è un individuo
rarissimo e forse non esiste neppure. Si pensi che gli Stoici stessi (Zenone,
Cleante, Crisippo), non si consideravano affatto 'saggi'! Ma allora, se il saggio
in pratica non esiste, se il 'malato', l'uomo 'in preda alla passione' è la
condizione comune di tutti gli uomini, come poter guarire?
Per gli Stoici non si tratta tanto di limitare o dominare tale 'malattia', quanto
piuttosto di estirparla, eliminarla, farla scomparire definitivamente. L'ideale
degli Stoici è appunto l'apatia, cioè l'impassibilità, l'eliminazione delle
passioni. Se infatti la passione è una sorta di 'malattia totale', la guarigione
da tale malattia, ammesso che sia possibile, dovrebbe segnarne la altrettanto
radicale scomparsa. In altre parole, per gli Stoici non vi può essere nulla di
mezzo tra sanità o malattia, tra virtù e vizio (o sei sano o sei malato, o sei
virtuoso oppure no); non vi è spazio per stati intermedi, zone grigie. Si pensi,
a questo riguardo, alla loro rigidissima concezione del dovere: esso è un atto
perfetto, non è suscettibile di aumento o diminuzione ma deve essere
perfettamente compiuto; altrimenti... non hai fatto il tuo dovere, non puoi
essere virtuoso a metà (hai fatto bene qualcosa o ... l'hai fatta male, semplice
no?).
Insomma, solo l'ipotetico è privo di passioni, è impassibile, ed è sano, del tutto
esente dalle malattie dell'anima. Concretamente, però, solo in ben pochi
uomini vi potrebbe essere la totale e immediata conversione dalla schiavitù alla
liberazione, dalla 'follia' alla saggezza. tale cambiamento è attuabile in un
unico modo: è la conoscenza, la meditazione preventiva che permette di
capire, prima che la passione possa stabilire il suo dominio sull'uomo, che ad
es. il piacere non è il bene assoluto, che il dolore non è il male ecc. In questo
modo, secondo gli Stoici, l'anima si rafforza e può raggiungere la pressione
violenta che proviene dalle rappresentazioni e dalle opinioni. La virtù è dunque,
prima di tutto, sapere e conoscenza (phronesis). Essa è certo conoscenza del
bene e del male, ma è tale perché è anche la conoscenza teorica della natura,
del mondo dell'universo, da cui deriva la norma morale. Ecco allora cosa
significa quel "vivi conforme al Logos" che citavamo all'inizio, Vorrà allora dire:
vivi conforme alla natura, al mondo, all'universo.
In altre parole, vivi conforme alle regole iscritte nella 'razionalità' della
natura e troverai la felicità. A questo punto, se si può parlare di libertà per
gli Stoici, essa si identifica col riconoscimento e la accettazione dell'ordine
universale, del Logos, che governa il cosmo. In altri termini la libertà è la
razionale accettazione (io scelgo di aderire...) del logos, è il rendersi conto del
proprio inserimento nell'ordine naturale ed eterno delle cose, che è destino
(eimarmene) e anche provvidenza (prònoia). si noti che il modello di vita
proposto dagli stoici, nonostante sia molto arduo e forse inaccessibile ai più,
avrà comunque una grande capacità di attrazione nel mondo ellenistico ed in
quello romano soprattutto per due motivi. In primo luogo, il cosmopolitismo:
l'uomo era visto come parte del cosmo, come parte di una comunità universale
che si impone al di là delle barriere etniche, sociali e politiche; il messaggio
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stoico (come quello epicureo) tende infatti a proporsi come universale,
accordandosi profondamente con le esigenze del suo tempo, in cui il mondo
dilata i propri confini e intreccia popoli, città, tradizioni. Un secondo elemento è
dato dal fatto che la filosofia stoica istituisce la dimensione privata come
ambito della vita pratica e morale. In altri termini, il tema della 'felicità' è ora
collocato nel campo di possibilità del singolo individuo. La felicità è adesso
autarchia, la completa autosufficienza del saggio, poiché essa non dipende
dalle circostanze esterne e dunque il saggio è felice perché ha in sé tutto
quanto gli occorre per vivere virtuosamente. Ciò comunque non vuol dire
rifiutare gli altri o la vita in comune. Al contrario, il saggio stoico, a differenza
di quello epicureo (un precetto di Epicuro era "vivi nascosto"), non vieta
l'impegno politico e prescrive all'uomo comune il rispetto dei doveri che gli
vengono indicati dalle leggi.
Per concludere accenno brevemente alla concezione della logica per gli Stoici.
Anzitutto sono proprio loro che diedero il nome di logica... alla logica, cioè alla
dottrina che studia i vari tipi di ragionamento (Aristotele ricordate? la chiamava
analitica). Inoltre furono loro i primi a scoprire che una qualsiasi proposizione è
composta da tre elementi: significante, significato e la cosa esistente. Il
significante è il suono della parola, il significato è l'oggetto mentale, il
contenuto del pensiero quando io dico una parola, ad es. "cavallo". Il
significato sarà allora sempre identico a se stesso, mentre il significante può
cambiare: infatti io posso riferirmi ad un 'cavallo' e dirlo in diverse lingue o
significati.
In ultimo gli Stoici sono anche famosi per molti paradossi logici, cioè storielle
che non hanno una soluzione. Molti di questi sono anche di epoche precedenti,
ma gli Stoici li riportarono in auge. Vi è per es. il paradosso del mentitore:
"Menti, quando affermi di mentire?" (detto altrimenti: "Se dici che menti e in
ciò dici il vero, menti o dici la verità?"). Vi è poi una storiella che dice: un tale
arriva davanti ad un palazzo. Vi sono due porte e accanto ad esse vi sono due
guardiani. Uno dei due dice sempre la verità mentre l'altro dice sempre il falso.
Il tale può fare una sola domanda ad uno dei due per sapere qual è la porta
giusta per entrare. Quale domanda deve fare al guardiano? Provate a
rispondere, altrimenti... leggete qui sotto .
Soluzione: La domanda può essere formulata nei seguenti termini : "Se io
chiedessi all’altro qual è la porta giusta, che cosa mi risponderebbe?". Essi
indicherebbero comunque la porta sbagliata e dunque si dovrà scegliere l’altra
porta, rispetto a quella che viene indicata.
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