Dalla metafisica all`irrazionalismo

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Dalla metafisica all’irrazionalismo
di Roberta Rosini
Laboratorio Montessori
marzo 2011
1. La concezione eteronoma
La teorizzazione teologico-metafisica e positiva e la critica del
razionalismo
La più antica e diffusa teoria filosofica, che caratterizza principalmente la prima fase
della storia della filosofia, è la concezione eteronoma. Questa concezione consiste nella
teorizzazione dell’esistenza di un’entità e autorità esterna e superiore all’uomo. Secondo
questa interpretazione vi è un’indipendenza, un’eterogeneità, una scissione, una separazione
tra questo elemento esterno e superiore all’uomo e l’elemento terreno, umano e finito; si
stabilisce così un dualismo filosofico, una distinzione e demarcazione netta tra trascendente
e terreno, infinito e finito, sovrannaturale e umano, Dio e natura. Secondo questo modello si
definiscono quindi due sfere e realtà distinte proprio dal punto di vista ontologico e
contrapposte tra loro; si istituisce infatti una dicotomia, una contrapposizione antitetica
appunto tra sovrannaturale e naturale, trascendente e terreno, Dio e uomo, superiore e
inferiore. La distinzione tra questi due elementi si configura dunque come una vera e propria
opposizione, antagonismo, conflitto ed antitesi, in cui la positività, la priorità di valore è
assegnata appunto all’Entità suprema e superiore. Infatti il Principio che questa filosofia
pone a fondamento della realtà, il Principio primordiale, il fondamento generatore e
costitutivo della realtà, la Vita, la Verità, l’Archetipo, corrispondente in qualche modo
all’αρχη dei filosofi presocratici, viene rintracciato in questo Essere Supremo, esterno e
superiore alla natura e all’uomo. Si teorizza dunque l’esaltazione, il privilegio e la
superiorità di tale elemento eteronomo, sovrannaturale e trascendente, contrapposto a quello
naturale e umano, considerato inferiore e negativo. Questa spiegazione eteronoma sostiene
dunque il ruolo centrale e prioritario, la centralità e la supremazia di questo Ente superiore
all’uomo, posto in antitesi rispetto alla natura umana, che si configura invece come il luogo
del male e dell’immoralità. Si ha così, in questa concezione eteronoma, la conseguente
negazione, rifiuto e repressione dell’elemento naturale e terreno – appunto in quanto risulta
negativo e malvagio – da parte di quello ritenuto positivo e superiore. Tale repressione si
configura come una vera e propria sopraffazione, prevaricazione, oppressione,
sottomissione, dominio e annichilimento dell’Altro, ovvero appunto dell’elemento naturale
e umano.
All’interno di questa interpretazione eteronoma si possono distinguere due differenti
concezioni. La più antica e diffusa è la concezione metafisico-religiosa, secondo cui l’entità
e l’autorità di cui si teorizza l’esistenza si configura come un’Entità e un’autorità
sovrannaturale e trascendente. Si tratta infatti di una concezione teologica che asserisce
appunto l’esistenza di un Ente, un Essere Supremo, di natura sovrannaturale e divina, che si
colloca in un orizzonte, in una realtà metafisica e trascendente. Questa concezione dunque
sostiene l’esistenza di un Entità, un Essere di tipo metafisico-religioso e consiste appunto in
una teorizzazione teologico-metafisica.
L’altra concezione eteronoma è la concezione positiva. Questa concezione, rifiutata e
negata la possibilità di riconoscere un’autorità metafisica e divina, teorizza un’autorità
terrena e positiva. Si tratta dunque di una concezione che rende conto dell’autorità superiore
all’uomo in termini mondanizzati, ma che fa riferimento sempre ad una autorità, che quindi,
anche se terrena e umana, proprio in quanto autorità si configura sempre come distinta,
esterna e superiore rispetto al soggetto, all’essere umano individuale.
1.1 La concezione metafisico-religiosa
La più antica e diffusa teoria filosofica, caratterizzante la prima fase della storia della
filosofia, è la concezione metafisico-religiosa. Questa concezione teorizza l’esistenza di una
realtà o un Essere supremo, sovrannaturale e trascendente. Questa teoria filosofica, che
fornisce appunto una spiegazione metafisica ricorrendo ad una realtà divina e trascendente,
può essere denominata “soprannaturalismo”.
La forma più antica in cui il soprannaturalismo si è realizzato nella storia della filosofia è
rappresentata da quello che può essere designato come “soprannaturalismo metafisico”, per
distinguerlo da quello a sfondo religioso – che sorgerà più tardi. La prima teorizzazione
filosofica di questa spiegazione metafisica si ha in Platone (427-347 a.C.). Questi infatti con
la sua concezione filosofica nota come “dottrina delle Idee” teorizza l’esistenza appunto
delle “Idee”, ovvero di “Sostanze”, “Essenze” o “Forme” reali delle cose, archetipi o
modelli delle cose, in un “mondo iperuranio”, che si configura come una realtà metafisica e
trascendente. Il termine filosofico usato da Platone per indicare questo concetto di
“Essenza”, “Sostanza”, “Realtà Ultima” o “Sostrato” delle cose è ousia (ουσια). Secondo il
filosofo questo mondo di “Essenze”, ingenerate, immutabili ed eterne, costituisce la vera
realtà, della quale la realtà sensibile è solo una copia, un riflesso pallido e un’immagine
sbiadita. Si ha così in Platone la teorizzazione di una realtà che oltrepassa e trascende
l’orizzonte e l’esperienza umana, di un mondo supremo e assoluto di natura ontologicometafisica.
Questa tradizione inaugurata da Platone, che caratterizza – come abbiamo detto – la
prima fase della storia della filosofia e che si presenta come la più diffusa nel mondo antico,
viene ripresa, con trasformazioni più o meno profonde, dalle concezioni religiose. Si parla a
questo proposito di “soprannaturalismo religioso”: la realtà e il mondo trascendente e
metafisico teorizzato da Platone viene cioè tradotto, mantenendo l’apparato concettuale del
soprannaturalismo metafisico, nel Dio delle concezioni teologico-religiose. Questa teoria
filosofica dunque rintraccia e individua l’esistenza di un’Entità o Essere Supremo. Con
questa autorità superiore si intende qualunque Entità suprema e trascendente: si tratti del
Dio di una delle religioni positive, o piuttosto dell’Autore della Natura della religione
naturale, o ancora di qualcuna delle divinità minori delle religioni politeistiche. Secondo
questa interpretazione il pensiero filosofico è fortemente dipendente dalle credenze
religiose, la filosofia è strettamente connessa con la religione. Non si ha cioè
un’indipendenza, una distinzione e una separazione tra queste due sfere e ambiti, ma al
contrario un’identificazione e una coincidenza tra filosofia e religione, ovvero una riduzione
della filosofia alla religione. Così la validità di questa teoria filosofica, che si configura
dunque come una concezione teologico-religiosa, il cui nucleo teoretico consiste appunto
nella teorizzazione di un’Entità o Essere divino e trascendente, dipende allora fortemente
dalla disponibilità di prove dell’esistenza di questa autorità divina presupposta. Questa
concezione infatti presuppone e dipende dall’esistenza di Dio e dunque andrà incontro a
insormontabili difficoltà, nel momento in cui entra in crisi questa credenza nell’esistenza di
un Essere che trascende la natura.
Nella modernità questa teoria teologico-religiosa, che asserisce l’esistenza di un’Entità
sovrannaturale e divina, viene accolta e sviluppata dagli esponenti del “giusnaturalismo
provvidenzialistico” del XVII secolo. In particolare può essere considerata emblematica a
questo proposito la posizione del filosofo inglese John Locke (1632-1704), che troviamo
espressa specificamente nei suoi Saggi sulla legge naturale (1660-64), ma anche nel Saggio
sull’intelletto umano (1690) e negli scritti pubblicati dopo il 1690. In Locke si ha il
superamento della metafisica innatistica, inaugurata appunto da Platone e poi ripresa e fatta
propria, con trasformazioni più o meno profonde, dal pensiero medioevale e cartesiano.
Locke tenta di conciliare la teoria teologico-religiosa, che afferma l’esistenza di un Dio, un
Essere supremo, con una spiegazione razionalistica ed empiristica. Egli teorizza infatti una
concezione filosofica che asserisce l’esistenza di un Dio, un Ente superiore e supremo che si
configura come unico, creatore, reggitore e garante dell’universo e dell’ordine naturale. Dio
ha infatti creato l’universo e la natura e ha imposto e instillato nell’uomo l’intelletto, la
ragione naturale, che si configura come innata e universale, nel senso di unitaria, comune a
tutti gli uomini. La concezione lockeana assegna la positività, la priorità di valore a Dio,
Essere Supremo, unico e creatore della natura – da una parte – e alla razionalità, alla natura
umana – dall’altra. Così questa concezione, asserendo l’esistenza e la supremazia di Dio
quale Ente superiore, fonda la validità, garantisce e spiega l’assolutezza, l’universalità e
l’eternità di questo elemento supremo. E allo stesso tempo questa concezione afferma il
ruolo centrale e l’esaltazione della ragione e della natura umana, in quanto tutti possono
attraverso l’esperienza risalire alla necessità di ammettere l’esistenza di un Dio creatore e
legislatore dell’umanità. Questa interpretazione filosofica infatti fonda il valore positivo e la
validità dell’elemento razionale facendola derivare dalla conoscenza che, appunto attraverso
la ragione, tutti gli esseri umani possono raggiungere dell’Essere o elemento divino – senza
dover così presupporre la conoscenza di tale elemento come innata. Si ha dunque in Locke
la concezione di una ragione naturale di origine divina: la razionalità umana si configura
come creata da Dio – la cui esistenza può essere dimostrata attraverso un processo di
conoscenza razionale da parte dell’uomo – e risulta costitutiva della natura umana stessa.
Questi scrive infatti: “A me sembra […] che alcune condizioni fondamentali delle cose
siano immutabili e che […] abbiano origine dalla necessità, e non possono essere
diversamente da come sono, non perché la natura o (per meglio dire) Dio non ha potuto fare
l’uomo diversamente da come è fatto, bensì perché una volta fatto in questo modo, guidato
dalla ragione e dalle sue altre facoltà, nato per questa condizione di vita, seguono
necessariamente dalla sua costituzione originaria […], non possono essere diversi da come
sono”1. Locke in questo modo concilia e congiunge due strategie che sono radicalmente
differenti: la concezione teologico-religiosa il cui fondamento essenziale e precipuo è di
1
J. Locke, Saggi sulla legge naturale, p. 69.
carattere divino e metafisico e quella secondo cui il principio fondamentale, centrale e
prioritario consiste invece in un elemento necessario e intrinseco incorporato nella natura
umana.
1.2 La concezione positiva
L’altra concezione eteronoma è la concezione positiva. Questa teoria filosofica
rappresenta un superamento della concezione metafisico-religiosa. Essa rifiuta e nega infatti
la possibilità di riconoscere un’autorità metafisica e divina; in questa concezione si ha la
negazione e la confutazione dell’esistenza di un’Entità trascendente e sovrannaturale. Il
fondamento peculiare su cui si basa questa interpretazione filosofica viene allora rintracciato
in un’autorità non più di natura metafisica e divina, ma solo terrena e positiva. Questa teoria
rende conto dell’autorità superiore all’uomo in termini mondanizzati: l’autorità si configura
infatti come umana, terrena e statuale. Questa concezione dunque traduce l’Ente Supremo
della concezione metafisico-religiosa in un’autorità solo mondana e terrena. Si tratta quindi
di una strategia di traduzione della concezione dell’Essere trascendente e metafisico nella
teoria che rinvia ad un’autorità statuale: pur confutando la natura metafisica e divina del
principio peculiare della concezione metafisico-religiosa, questa teoria mantiene tuttavia
l’apparato concettuale della concezione religiosa. Si fa infatti riferimento sempre ad una
autorità, che quindi, anche se solamente terrena e umana, proprio in quanto autorità si
configura sempre come distinta, esterna e superiore rispetto al soggetto, all’essere umano
individuale. Questa concezione, che si fonda su
un’autorità terrena come principio
essenziale e fondamentale, si ritrova già nel XVII secolo in Thomas Hobbes (1588-1679)
che, rifiutata appunto la possibilità di far derivare la validità di una concezione filosofica da
un’autorità sovrannaturale e divina, cercò di fondarla facendola discendere da un
Leviatano2. Tale concezione è caratteristica poi di autori come John Austin (1790-1859) 3 e,
nel XX secolo, degli esponenti del “positivismo giuridico”, come Hans Kelsen (1881-1973).
In tutti questi pensatori il fondamento essenziale e primario su cui la loro concezione
positiva si basa è dunque costituito da un’autorità terrena, umana, statuale e positiva, ovvero
dal potere “autorizzato”.
2. Il razionalismo
La confutazione della concezione metafisico-religiosa, la teorizzazione
razionalistica e la critica del sentimentalismo e dell’irrazionalismo
La concezione eteronoma – che è stata esaminata nella sezione precedente (ovvero nella
sez. 1, La concezione eteronoma) – rintracciava il principio e il fondamento essenziale e
costitutivo della realtà in un’entità e autorità esterna e superiore all’uomo. Secondo questa
spiegazione si aveva – come abbiamo visto –un’indipendenza, un’eterogeneità, una
separazione tra questo elemento esterno e superiore all’uomo e l’elemento terreno, umano e
finito; si stabiliva così una distinzione e una demarcazione netta tra trascendente e terreno,
sovrannaturale e umano, Dio e natura. Questa distinzione si configurava come una vera e
propria opposizione, antagonismo ed antitesi, in cui la positività, la priorità di valore era
assegnata appunto all’Entità suprema e superiore. Si teorizzava dunque l’esaltazione, il
privilegio e la superiorità di tale elemento eteronomo contrapposto a quello naturale e
umano, considerato inferiore e negativo. Si aveva così la conseguente negazione e
La concezione filosofica di Hobbes è in realtà molto complessa e l’interpretazione di essa
controversa. Solo alcuni studiosi infatti ritengono che la concezione hobbesiana possa essere
ricondotta ad un’autorità positiva riconosciuta; secondo questa interpretazione di Hobbes, il filosofo
può essere considerato come un anticipatore di temi sviluppati poi dal “positivismo giuridico”. La
posizione hobbesiana è appunto molto complessa in quanto, oltre all’interpretazione di Hobbes
secondo cui il filosofo pone al centro della sua concezione un’autorità positiva, altri studiosi
propongono anche un’interpretazione che ricava il cardine speculativo e filosofico hobbesiano da un
modello razionalistico e contrattualistico.
3
Non si considera qui invece, diversamente da quanto sostengono altri studiosi (come ad esempio
M.A. Cattaneo), un sostenitore di questa concezione positiva il filosofo Jeremy Bentham (17481832).
2
repressione dell’elemento naturale e terreno – appunto in quanto risultava negativo e
malvagio – da parte di quello ritenuto positivo e superiore; tale repressione si configurava
come un vero e proprio annichilimento dell’Altro, ovvero appunto dell’elemento naturale e
umano.
La teoria del “naturalismo” o “razionalismo” rappresenta un superamento della
concezione eteronoma. Anche secondo questo modello infatti – come nella spiegazione
eteronoma – si definiscono due sfere e realtà indipendenti, separate e distinte proprio dal
punto di vista ontologico, quali appunto l’elemento esterno e superiore all’uomo e
l’elemento terreno, umano e finito. Si stabilisce così un dualismo filosofico che si configura
anche qui come un antagonismo, una dicotomia e una contrapposizione antitetica tra
elementi distinti e opposti tra loro, ovvero appunto tra sovrannaturale e naturale,
trascendente e terreno, Dio e uomo. Ma nella teoria naturalistica o razionalistica vi è un
ribaltamento e un rovesciamento di questa dicotomia, teorizzata dalla concezione
eteronoma. Infatti la positività, la priorità di valore viene assegnata, nella concezione
naturalistica e razionalistica, non più all’elemento trascendente, esterno e superiore rispetto
alla natura e all’uomo, ma al contrario proprio all’elemento terreno, umano, naturale e
finito. Si teorizza allora l’esaltazione, la superiorità e il ruolo centrale e prioritario della
natura, finita e immanente, e dell’essere umano, individuale ed autonomo. Si giunge così al
riconoscimento e all’affermazione dell’individualismo e dell’autonomia personale, ovvero
al riconoscimento dell’importanza e della centralità degli esseri umani e dei soggetti
individuali, distinti e indipendenti da una qualche autorità esterna e superiore, sia
metafisico-religiosa che positiva e statuale. In particolare l’essere umano viene in questa
concezione – che come vedremo verrà a sua volta confutata e superata dal cosiddetto
“sentimentalismo” (trattato nella sez. 3) – caratterizzato in termini razionalistici. L’elemento
che si distingue e si contrappone a questa entità e autorità suprema, superiore ed esterna è
infatti l’essere umano, l’uomo, che in quanto tale si configura come essere razionale. La
centralità, il privilegio e la supremazia è dunque assegnata alla natura o ragione umana,
ovvero alla facoltà o capacità peculiare dell’uomo di costruire idee e compiere operazioni,
ragionamenti, riflessioni e giudizi su di esse. La ragione o razionalità umana rifiuta e nega
dunque la possibilità di riconoscere un’autorità, sia essa metafisica e divina o positiva e
statuale. Si possono definire infatti naturalistici tutti quegli approcci che rinunciano a
ricorrere a entità soprannaturali o comunque trascendenti il mondo dell’esperienza umana e
introducono una prospettiva secondo la quale la realtà va compresa e fondata in termini
mondani e cioè guardando all’essere umano come essere di questo mondo, come parte della
natura stessa. In questa concezione si ha infatti il rifiuto, la negazione e la confutazione di
qualunque entità e autorità esterna, superiore e trascendente rispetto alla realtà e
all’orizzonte naturale e umano e l’affermazione di un’interpretazione secondo cui la realtà
va fondata appunto in termini naturali, terreni, finiti e umani.
La concezione eteronoma dunque presenta delle difficoltà interne e risulta per questo
erronea e inadeguata. E’ stata infatti criticata, rifiutata e confutata da parte dei sostenitori del
naturalismo o razionalismo, proprio per cercare di rendere conto della realtà
indipendentemente da una qualche autorità esterna alla persona umana. Esaminiamo qui di
seguito brevemente allora le critiche e le obiezioni che sono state mosse alla concezione
eteronoma. Per quanto riguarda la strategia che identifica il principio posto a fondamento
della realtà in un’Entità divina – già negata e rifiutata in realtà dalla teoria filosofica di
un’autorità solo terrena e positiva (cfr. § 1.2) – si riscontrano delle incoerenze e difficoltà
interne, proprio a proposito della connessione – esaminata nel § 1.1 – tra la filosofia e la
religione; tali incongruenze e contraddizioni costituiscono il presupposto teorico per la
confutazione della teoria metafisica e divina. Si rifiuta e si nega infatti la possibilità di
ricondurre il principio costitutivo della realtà a un Essere sovrannaturale e trascendente,
distinto – come abbiamo detto sopra – dal soggetto individuale ed autonomo, e più
radicalmente si nega l’esistenza stessa di tale Essere divino. Si confuta quindi la concezione
metafisico-religiosa che definisce il fondamento essenziale e primario della realtà rinviando
a un Essere Supremo, o comunque a realtà che oltrepassano l’orizzonte umano e che risolve
il problema della spiegazione della realtà in un senso sostanziale e ontologico, spingendosi
al di fuori della natura e delle ragioni umane. Si rifiuta quindi un’identificazione, propria
invece di questa teoria, tra filosofia e religione, tra spiegazione filosofica e metafisica, e si
asserisce l’indipendenza e la separazione tra queste due sfere e ambiti distinti tra loro.
Risulta infatti erronea la tesi, assunta dalle concezioni teologico-religiose, dell’esistenza di
una vita ultraterrena dopo la morte. Per quanto riguarda poi la critica della teoria di
un’autorità positiva, F. Snare4 mostra che concepire come fondamento una qualche autorità
positiva, non permettere di distinguere tra posizioni in realtà differenti tra loro: vi è la
posizione di chi accetta la forza coercitiva che l’autorità è in grado di utilizzare in quanto
4
Cfr. F. Snare, The Nature of Moral Thinking, pp. 13-30.
riconosce legittima l’autorità e la posizione di chi riconosce il valore del soggetto,
dell’individuo indipendentemente da una qualche autorità. Risulta dunque erronea e
inadeguata qualunque concezione che riconduce il principio fondamentale e costitutivo della
realtà ad un’autorità, non rendendo conto dell’autonomia personale. La teoria che teorizza la
centralità e la priorità un’autorità statuale, così come un’autorità divina, viene dunque
confutata e rifiutata. Va a questo proposito ricordata l’efficace batteria di critiche al
riduzionismo del positivismo giuridico elaborata da R. Dworkin (I diritti presi sul serio,
1977). Nella concezione positiva non viene spiegata la genesi del governo legittimo. Non ci
si riferisce infatti, in questa teoria, a una genesi che cerchi le ragioni della validità di un
certo governo, ma solo a una genesi di ordine storico-fattuale: secondo questa concezione
basta accertare il fatto storico se questo governo esiste o meno, e se sia legittimo o no. In
conclusione dunque la concezione eteronoma risulta erronea e inadeguata in quanto,
riconducendo il principio posto a fondamento della realtà ad un’autorità – sia essa
trascendente e metafisica o terrena e positiva – non rende conto dell’autonomia personale,
che risulta invece peculiare della vita comune degli esseri umani in quanto soggetti
individuali indipendenti da qualsivoglia autorità.
Confutata dunque questa interpretazione eteronoma, che rinvia il fondamento primario e
costitutivo della realtà ad un ente o autorità esterna e superiore rispetto alla natura e
all’uomo, si afferma – come abbiamo spiegato prima – la teoria del naturalismo o
razionalismo, che teorizza invece l’esaltazione, la superiorità e il ruolo centrale e prioritario
proprio della natura, finita e immanente, e dell’essere umano, individuale ed autonomo,
caratterizzato come essere razionale. All’interno di questa concezione, che ricava il
principio essenziale della realtà da ciò che è interno all’universo della vita umana, si
possono distinguere differenti teorie naturalistiche o razionalistiche. Un primo gruppo di
teorie è costituito da quelle concezioni che fanno riferimento a tratti generali della natura o
della ragione umana e che quindi forniscono una spiegazione di essa in termini metafisici e
ontologici. Si teorizza in queste concezioni infatti un concetto di Natura o Ragione di tipo
ontologico-metafisico. Appartengono a questo primo gruppo di teorie, che si possono
appunto definire riduzionistiche, quella aristotelica, ripresa poi dalle filosofie tomistiche e
neo-tomistiche, e quella del giusnaturalismo razionalistico del XVII secolo. Il secondo
gruppo di concezioni radica il principio posto al loro fondamento in tratti specifici della
natura o ragione umana, depurata da ogni connotazione metafisica e sostanziale. Si tratta
della teoria filosofica di Kant, il cui principio precipuo è ricondotto alla ragione umana,
collocata al di fuori di un orizzonte ontologico ed essenzialistico5.
All’interno di questa concezione del naturalismo o razionalismo filosofico inoltre si
istituisce un altro dualismo filosofico, analogo a quello che abbiamo esposto all’inizio di
questo paragrafo (§ 2) tra l’entità o autorità esterna e superiore all’uomo e l’uomo inteso
come essere razionale. Si ha infatti una distinzione, indipendenza e separazione tra due
elementi differenti ed eterogenei quali appunto la ragione, la razionalità e i sentimenti, le
passioni, le emozioni. Si stabilisce dunque un dualismo e una demarcazione netta tra
pensare e sentire e quindi tra ragionamento, riflessione, giudizio e sensazioni, percezioni,
passioni, emozioni. Secondo questo modello si definiscono allora due sfere distinte che si
configurano come contrapposte tra loro: si ha infatti un antagonismo, un conflitto e una
contrapposizione antitetica tra ragione e sentimento, mente e corpo, ideale e materiale. La
concezione razionalistica infatti teorizza la sostanzialità dell’anima, dell’Io, dell’identità
personale, del Sé – caratterizzato in termini di Ragione. Si asserisce la consistenza, la
compattezza, l’unità, la coerenza e l’ininterrotto permanere della Coscienza di Sé, dell’Io –
che si configura come chiuso in sé stesso, resta confinato in sé stesso – e dunque il
fondamento stabile del Sé. Si teorizza dunque l’individualità dell’Io e la sua separatezza
appunto dalla sfera passionale ed istintiva dell’uomo, che rappresenta allora l’Alterità,
l’Altro dal Sé, il Diverso. In questa separazione e dicotomia la priorità di valore è assegnata
alla razionalità, di cui si afferma appunto l’esaltazione, il ruolo e la posizione di superiorità,
supremazia e privilegio. Mentre l’elemento inferiore e negativo è rappresentato allora dalla
corporeità, dall’insieme di sentimenti, passioni, emozioni, desideri, pulsioni, impulsi e
istinti. Questa sfera passionale e istintuale è propria dell’animalità e proprio in quanto tale è
contrapposta appunto alla razionalità caratteristica dell’uomo, rispetto a cui rappresenta
appunto l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso. Tale lato passionale ed istintivo si configura
In questo secondo gruppo andrebbe annoverato anche il sentimentalismo, ma in questo lavoro lo si
è voluto collocare in una sezione successiva a sé stante, proprio per porre in evidenza la distanza e
la contrapposizione (di cui si parla già alla fine di questo stesso paragrafo – § 2) di questa
concezione filosofica con quella del razionalismo, che risulta analoga a quella tra sovrannaturalismo
e razionalismo. Si ritiene infatti che la confutazione e il superamento del razionalismo da parte del
sentimentalismo abbiano la stessa portata e valenza dal punto di vista filosofico e concettuale della
confutazione e del superamento attuati dal razionalismo nei confronti della concezione metafisica.
Inoltre il naturalismo metafisico di Aristotele viene qui annoverato specificamente
all’interno del razionalismo, in quanto (come vedremo dopo nel § 2.1) la natura umana si
caratterizza, in Aristotele, appunto in termini di ragione.
5
come il lato oscuro dell’uomo, il luogo dell’Immoralità, del Male e del Diavolo in quanto
personificazione del Male. Si ha così la conseguente condanna, rifiuto, negazione e
repressione dell’emotività, passionalità e istintività – appunto in quanto risulta l’elemento
negativo e malvagio – da parte della ragione; tale repressione consiste in un vero e proprio
dominio, oppressione, sottomissione, prevaricazione, sopraffazione e annichilimento
dell’Altro, del Diverso, ovvero appunto di questa sfera sentimentale, passionale e istintuale.
2.1 Il naturalismo ontologico-metafisico
In Aristotele (384-322 a.C.) si trova formulata la concezione del “naturalismo
ontologico-metafisico”6. Aristotele critica la concezione idealistico-metafisica di Platone,
(cfr. § 1.1) in cui l’Archetipo, il Principio essenziale posto a fondamento della realtà si
configurava come trascendente e sovrannaturale rispetto alla natura e all’uomo. Aristotele
critica allora la dottrina platonica, secondo cui le Idee, le Sostanze, le Essenze delle cose si
collocavano appunto in una realtà superiore e separata dalla natura: secondo Aristotele le
Idee o Forme di cui parla Platone esistono, ma non costituiscono una realtà separata, né
separabile, dalle cose reali di cui sono forma. Infatti Aristotele ritiene, in polemica con
Platone, che se le Essenze o Idee fossero una realtà esistente separatamente (appunto in
quanto Essenze e Idee), risulterebbe impossibile per l’uomo acquisire e conoscere tali
Essenze.
Aristotele attua allora una “naturalizzazione” delle Idee platoniche. Esse infatti vengono
ricondotte alle “Sostanze”, “Forme” o“Essenze”, che non si collocano più in una realtà e in
un orizzonte trascendente e sovrannaturale, ma sono principi, paradigmi, strutture
immanenti delle cose, che risiedono nelle cose stesse, nella natura. In particolare, la
“Sostanza”, “Forma”, “Natura” o “Essenza” (ουσια) dell’uomo consiste nella Ragione,
nell’attività razionale o intellettiva dell’essere umano. L’attività razionale o intellettiva si
configura infatti come la “funzione” (εργον) peculiare dell’uomo. Essa è incardinata in una
Il naturalismo ontologico-metafisico di Aristotele viene qui annoverato (come abbiamo già
anticipato nella nota 5) specificamente all’interno del razionalismo, in quanto (come vedremo in
questo paragrafo – § 2.1) la natura umana si caratterizza, in Aristotele, appunto in termini di
ragione.
6
struttura gerarchica che riguarda l’intero universo e che vede al livello più basso le piante,
caratterizzate dalla “funzione vegetativa”, seguite poi dagli animali, la cui “funzione”
peculiare è quella “sensitiva”, fino a porre al livello superiore appunto l’uomo in quanto
essere razionale, caratterizzato cioè dalla sua peculiare ed esclusiva “funzione intellettiva” 7.
Per Aristotele dunque l’uomo deve esercitare in modo eccellente la sua propria e precipua
funzione, ovvero deve esercitare al meglio ciò che lo distingue dagli altri esseri. E, secondo
Aristotele, ciò che specifica l’uomo non può essere la dimensione vegetativa, che è comune
anche alle piante, né la dimensione sensitiva, che è comune agli animali; ciò che è proprio
dell’uomo è un certo tipo di attività della parte razionale dell’anima. Inoltre questa Ragione,
quale Essenza della natura umana, partecipa, secondo il filosofo, della struttura ontologica
dell’Essere in generale. La definizione della natura umana consiste dunque nella
teorizzazione della natura essenziale e sostanziale dell’uomo. La Natura o Ragione umana
viene concepita infatti in Aristotele in termini sostanziali ed ontologici, e si colloca quindi
all’interno di un quadro e un orizzonte ontologico-metafisico.
Inoltre in Aristotele si ritrova, oltre a questa caratterizzazione ontologica e metafisica
della realtà, anche una concezione teleologica o finalistica, secondo cui la natura ha stabilito
per ogni cosa e per l’uomo un “fine” (τελος). Ogni cosa infatti tende al raggiungimento del
fine cui essa stessa è per sua natura orientata; il processo del divenire delle cose viene da
Aristotele interpretato teleologicamente, ovvero come finalizzato alla realizzazione di una
forma potenzialmente contenuta già nello stadio iniziale della cosa. Si tratta appunto della
“Forma” o “Essenza” – trattata sopra – di quella data cosa, ovvero appunto della sua
peculiare “funzione”, che viene quindi a coincidere con il “fine” o “causa finale” della cosa
stessa. Scrive infatti Aristotele, riguardo proprio questa sua interpretazione finalistica del
concetto di natura: “La natura è il fine: per esempio quel che ogni cosa è quando ha
compiuto il suo sviluppo, noi lo diciamo la sua natura, sia d’un uomo, d’un cavallo, d’una
casa”8. Nello specifico l’Essenza dell’uomo è rappresentata – come abbiamo visto – dalla
La “funzione vegetativa” consiste nella funzione nutritiva e in quella riproduttiva, che sono le due
funzioni biologiche per antonomasia; la “funzione sensitiva” comprende la sensibilità e il
movimento e infine la “funzione intellettiva” è appunto l’attività razionale propria dell’uomo. In
realtà l’essere umano non è “platonicamente” separato dagli altri due livelli, ma si ritrovano
nell’uomo anche le due funzioni inferiori (ovvero quella sensitiva e quella vegetativa). Le funzioni
più elevate infatti compiono anche le funzioni inferiori: così, ad esempio, nell’uomo l’anima
intellettiva compie anche le funzioni che negli animali sono compiute dall’anima sensitiva e nelle
piante da quella vegetativa.
8
Aristotele, Politica, I, 2, 1252b 32-34, p. 6.
7
Ragione e dunque il fine degli esseri umani consiste proprio nella realizzazione della loro
Natura e Essenza, ovvero appunto della loro natura razionale. Così l’uomo tende alla
realizzazione del fine a lui più proprio, ovvero nell’esercizio della sua peculiare funzione o
attività intellettiva e razionale. E’ centrale in Aristotele, oltre a questa nozione di “fine” o
“causa finale” anche quella di “eudaimonia” (ευδαιμονια). Nella concezione aristotelica
infatti ogni essere tende alla realizzazione della sua felicità, della sua eudaimonia, ovvero
alla realizzazione della sua Essenza o Forma. Così l’uomo tende alla realizzazione della sua
eudaimonia, ovvero alla realizzazione della sua Natura o Essenza, che consiste appunto –
come abbiamo visto – nell’esercizio della sua peculiare funzione o attività intellettiva e
razionale.
La concezione ontologica e teleologica di Aristotele viene ripresa poi da Tommaso
d’Aquino (1221-1274); la teoria aristotelica si ritrova dunque, con cambiamenti più o meno
profondi, nel tomismo e nel neo-tomismo. Nella tradizione cristiana infatti non è necessario
percorrere la strada che rintraccia esclusivamente in Dio quale Essere Supremo e superiore
il fondamento della realtà; si può infatti percorrere anche la strategia che vede la natura
umana come di per se stessa fornita di quei caratteri propri del principio essenziale e
prioritario della realtà. L’Autore della Natura, con la sua bontà e provvidenza, ha creato la
natura umana in modo tale da fornirla intrinsecamente di quel particolare télos che le
permette di realizzare la felicità e i risultati migliori per gli uomini.
La teoria filosofica aristotelica – ripresa, con trasformazioni più o meno profonde, dalle
filosofie tomistiche e neo-tomistiche – fornisce dunque una spiegazione e una
caratterizzazione ontologica e metafisica della realtà. Il Principio che questa concezione
filosofica pone a fondamento della realtà infatti viene ricondotto alla natura essenziale e
sostanziale dell’uomo, ovvero al concetto di Ragione umana ontologicamente connotato.
2.2 Il razionalismo ontologico-metafisico
Un’altra concezione filosofica è quella che riconduce il Principio fondamentale ed
essenziale della realtà non tanto alla natura umana genericamente intesa 9, quanto alla
Ragione umana, quale caratteristica precipua e peculiare dell’uomo. La concezione del
“razionalismo ontologico-metafisico” radica questa facoltà razionale in un quadro unitario
ontologizzante ed essenzialistico. Questa teoria filosofica è infatti caratterizzata da una
spiegazione della razionalità umana in termini metafisici e ontologici. All’interno di questa
impostazione ontologica e realistica si possono distinguere diverse linee di pensiero.
Una derivazione del Fondamento prioritario ed essenziale della realtà dall’attività della
ragione si ritrova ad esempio nel “giusnaturalismo razionalistico” del XVII secolo, i cui
esponenti principali sono Ugo Grozio (1583-1645), Samuel Pufendorf (1632-1694), T.
Hobbes e J. Locke. Questa dottrina filosofico-giuridica sostiene l’esistenza di norme di
diritto naturali – ovvero appunto razionali – anteriori a ogni norma giuridica positiva. Si
teorizza infatti l’esistenza di una “legge naturale”: essa si configura come un insieme di
diritti naturali, inalienabili e universali, che appartengono all’essere umano proprio in
quanto essere razionale. Grozio nel De Iure Belli ac Pacis (1625) parla infatti della “retta
ragione”, che coglie la “natura delle cose” e che costituisce appunto la fonte da cui deriva la
legge naturale10. Il concetto di Ragione si presenta, in questa concezione, come
ontologicamente connotato: la razionalità umana si configura infatti come una facoltà
ontologicamente garantita, ovvero di natura ontologica e metafisica. Questo concetto di
Ragione, ontologicamente connotato, dunque è alla base del tentativo portato avanti dagli
esponenti del giusnaturalismo – che appunto si presenta come un vero e proprio
giusrazionalismo – di edificare la filosofia come “scienza razionale dimostrativa”.
Lo stesso tentativo di fare della filosofia una scienza razionale dimostrativa si ritrova in
vari pensatori, in altri aspetti differenti tra loro. Questo progetto di dare vita a una filosofia
dimostrata è proprio infatti dei giusnaturalisti – che abbiamo trattato sopra – quali Grozio,
Pufendorf, Hobbes e Locke, e anche di altri pensatori come Baruch Spinoza (1632-77) e
Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716). Spinoza infatti, in un passo in cui emerge
particolarmente proprio la centralità della ragione, scrive: “Gli uomini, dunque, in quanto
Si tratta della concezione del “naturalismo ontologico-metafisico” (trattata nel § 2.1), che
riconduce il Fondamento della realtà appunto alla natura umana genericamente intesa. La natura
umana viene poi caratterizzata, da questa concezione, in termini di ragione (per questo motivo il
naturalismo ontologico-metafisico viene in questa tesina annoverato all’interno del razionalismo –
vedi note 5 e 6).
10
Cfr. U. Grozio, De Iure Belli ac Pacis.
9
vivono secondo la guida della ragione, in tanto soltanto fanno necessariamente quelle cose
che sono necessarie per la natura umana e, conseguentemente, per ogni uomo, e cioè quelle
cose che concordano con la natura di ogni uomo; e perciò gli uomini anche tra di loro, in
quanto vivono secondo la guida della ragione, concordano sempre necessariamente” 11.
Un’altra linea lungo la quale è stata percorsa la strategia razionalistica e un altro
tentativo di presentare la filosofia come una scienza razionale dimostrativa è rappresentato
dai “razionalisti realisti” del XVII secolo, quali Samuel Clarke (1675-1729) e William
Wollaston (1659-1724). Si tratta di un razionalismo caratterizzato da una spiegazione
realistica: esso dà infatti una portata realistica alle conclusioni filosofiche scoperte mediante
la ragione. La ragione opera accertando se vi è accordo tra le idee e la realtà, coglie il
collegamento veritativo tra le idee e i fatti. Secondo questa concezione dunque la Verità è
riconoscibile individuando quali sono le relazioni adeguate alle cose in se stesse e dunque è
ricondotta a una relazione di adeguatezza tra le idee e le cose. Si sostiene quindi che la
Verità si trova in una qualche relazione tra le cose e che la ragione sia la facoltà che
permette di scoprire questa Verità. Si tratta infatti di una concezione “realistica” 12 e
oggettivistica, che teorizza appunto l’esistenza di fatti e verità nel mondo del tutto
indipendenti da noi. Il “realismo” si accompagna, dal punto di vista conoscitivo e
gnoseologico, alla concezione del “cognitivismo”
13
, secondo cui i giudizi descrivono
appunto fatti e proprietà del mondo e sono quindi “veri” o “falsi” (il linguaggio viene cioè
considerato come un linguaggio descrittivo). E’ propria allora di questo modello la
teorizzazione dell’esistenza di una qualche intuizione o facoltà che permetta di scoprire e
conoscere in modo assoluto e compiuto delle specifiche proprietà del mondo. Secondo i
razionalisti realisti la facoltà che permette di scoprire questi fatti o verità è appunto la
ragione umana. L’assunzione, propria di questa concezione, che vi sia una Verità oggettiva
ed esterna all’uomo che consiste in una qualche relazione tra le cose sarà fortemente
criticata dal pensiero successivo. L’altra assunzione presupposta dai razionalisti realisti,
B. Spinoza, Etica. Dimostrata con metodo geometrico, p. 254.
Questa concezione del realismo è propria, naturalmente, di tutte le teorie filosofiche finora
trattate, ovvero della concezione eteronoma (sia nella forma religiosa che in quella statuale), del
naturalismo ontologico-metafisico e appunto del razionalismo ontologico-metafisico.
13
Questa concezione gnoseologica ed epistemologica del cognitivismo, accompagnandosi (come
abbiamo detto in questo paragrafo) alla concezione del realismo, è propria di tutte le teorie
filosofiche in cui si ritrova appunto una concezione realistica, e dunque in tutte quelle finora trattate
(vedi nota 12): la concezione eteronoma (sia nella forma religiosa che in quella statuale), il
naturalismo ontologico-metafisico e appunto il razionalismo ontologico-metafisico.
11
12
propria anche (come abbiamo visto nel paragrafo precedente, ovvero nel § 2.1) del
naturalismo ontologico-metafisico, è che esista la grande “catena dell’essere”, secondo cui
gli esseri sono ordinati secondo una struttura gerarchico-piramidale che riguarda l’intero
universo. In questa scala gerarchica il livello più basso è occupato dalle piante, seguite poi
dagli animali, fino ad arrivare al livello superiore in cui si colloca l’uomo appunto in quanto
essere razionale. Questa teoria che sostiene l’esistenza della catena dell’essere istituisce
distinzioni ontologiche, eterne e necessarie tra gli esseri e si configura come una concezione
antropocentrica. Anche questa tesi della gerarchia tra gli esseri, propria dunque di un
modello antropocentrico quale appunto il razionalismo, verrà rifiutata e confutata dal
pensiero successivo.
2.3 Il razionalismo dell’autonomia
Un’altra concezione filosofica che spiega il Principio fondamentale e prioritario della
realtà rinviandolo alla ragione umana, che cioè riconduce la spiegazione della realtà ai
verdetti della ragione, è quella del “razionalismo dell’autonomia”, teorizzata da Immanuel
Kant (1724-1804). Questa teoria filosofica radica il Fondamento della realtà non più in tratti
generali della natura o della ragione umana 14, ma specificamente nella ragione umana
collocata al di fuori di un orizzonte ontologico ed essenzialistico. In Kant infatti si ha a che
fare non più con la struttura essenziale del mondo, quanto piuttosto con la razionalità pratica
umana. Il concetto di ragione umana proprio di questa concezione è depurato da ogni
connotazione metafisica, ontologica o sostanziale; questa forma di razionalismo si colloca
così al di fuori di un quadro unitario, metafisico, essenzialistico o dimostrativo. La ragione
in Kant si configura allora come una sfera autonoma rispetto alla dimensione della fede
religiosa: il filosofo infatti denuncia come ‘spurio’ ed eteronomo il principio della realtà
fondato attraverso questa via. Si giunge dunque con Kant al riconoscimento e alla
salvaguardia dell’autonomia della ragione dalla religione.
Il Fondamento della realtà veniva ricondotto a tratti generali della natura o ragione umana
rispettivamente nella concezione del “naturalismo ontologico-metafisico” (§ 2.1) e nella concezione
del “razionalismo ontologico-metafisico” (§ 2.2).
14
Ma nella concezione kantiana l’autonomia, pur essendo rivendicata e riconosciuta
rispetto al piano religioso, non trova un’attuazione e una realizzazione completa. Secondo
Kant la ragion pratica, attraverso la rappresentazione della legge morale, costituisce il
movente della volontà. Questa legge morale si configura come generale, universale,
formale, oggettiva, “a priori”. In particolare il principio pratico che guida l’agire umano è l’
“imperativo categorico”, formulato appunto dalla razionalità pratica umana. Esso prescrive
di agire soltanto secondo quella massima15 che si può volere che diventi anche una legge
universale e si caratterizza quindi come un principio che vale indistintamente per ogni
essere morale, come un principio oggettivo, universale, a priori. Secondo la concezione
kantiana dunque tale principio ha un carattere e una natura universale, oggettiva, generale,
formale, a priori e la volontà dell’uomo si caratterizza come una volontà umana generale. Il
Fondamento della filosofia di Kant si colloca allora in una dimensione “trascendentale”: il
soggetto si configura infatti come un Soggetto sovraindividuale astorico, la cui peculiare
razionalità si caratterizza appunto come trascendentale, universale e assoluta. Questa teoria
filosofica, come anche le teorie precedenti, si presenta allora come una concezione
riduzionistica. L’autonomia infatti in Kant – come abbiamo accennato sopra – pur essendo
rivendicata e riconosciuta rispetto al piano religioso, non trova un’attuazione e una
realizzazione completa. La ragione viene ridotta a una struttura di pensiero del tutto
formale; non si spiega allora come la razionalità umana, intesa così “formalisticamente”,
possa proporsi concretamente, effettivamente, come motivo di determinazione ovvero come
movente della volontà. Questa concezione della razionalità come trascendentale, universale,
formale, assoluta, sovraindividuale e astorica non rende conto dell’autonomia individuale
del soggetto finito e mortale, ovvero dei singoli esseri umani finiti, determinati, storici e
individuali. Emerge dunque che in questa concezione del razionalismo dell’autonomia,
caratterizzata appunto dall’uso di una nozione come quella di “trascendentale”, persistono e
permangono tendenze e assunzioni ontologizzanti, essenzialistiche, sostanziali e
metafisiche16.
Questa concezione razionalistica è caratterizzata dalla negazione della riconducibilità del
principio fondamentale e primario della realtà e della natura umana a sentimenti, emozioni
ed istinti degli uomini. Si istituisce infatti (come si è spiegato a proposito del razionalismo
La “massima” è un principio pratico di valore puramente soggettivo, ovvero valido solamente ed
esclusivamente per l’individuo che la fa propria.
16
La razionalità kantiana può infatti essere designata come una “ragione metafisica”.
15
in generale – vedi § 2) un dualismo filosofico, una separazione e una dicotomia tra due
elementi distinti e contrapposti tra loro quali appunto la razionalità e i sentimenti, le
passioni, le emozioni, gli istinti e gli impulsi. In questa contrapposizione antitetica la
priorità di valore è assegnata alla ragione, di cui si teorizza appunto l’esaltazione, la
posizione di superiorità, supremazia e privilegio. L’elemento inferiore e negativo è
rappresentato dalla sfera passionale e istintuale propria dell’animalità, che proprio in quanto
tale è contrapposta appunto alla razionalità peculiare dell’uomo, rispetto a cui rappresenta
l’Alterità, l’Altro, il Diverso. Si teorizza così la condanna, la negazione, il rifiuto e la
repressione dell’emotività, della passionalità e dell’istintività – appunto in quanto risulta
l’elemento negativo – da parte della ragione. Il razionalismo, e in particolare quello
kantiano, individua dunque il fondamento della realtà e della natura umana nella ragione in
quanto parte migliore, più alta e superiore della natura umana. Mentre rifiuta di assumere
sentimenti, passioni o emozioni – che si configurano come particolari, parziali, individuali,
soggettivi ed egoistici – come criterio di spiegazione della realtà e dell’uomo, proprio per
poter garantire l’universalità, l’imparzialità e l’assolutezza di tale principio cardine della
realtà. Così secondo Kant i sentimenti, le passioni e i desideri non devono costituire il
movente delle azioni umane, ma è la ragione che deve muovere e spingere all’agire. La
volontà umana infatti può essere mossa sia dai desideri e dalle passioni che dalla razionalità.
Ma perché l’agire umano sia un agire morale, la volontà non deve essere soggetta al
dominio delle passioni, ma deve seguire i dettami della ragione. E, secondo Kant, si deve
agire secondo ragione e non spinti da desideri e pulsioni perché siamo esseri liberi: Kant
infatti stabilisce, sul piano metafisico, che la libertà è ratio essendi della moralità17. Secondo
questa concezione “libertarista” la moralità non può essere spiegata in base alla necessità
causale (come invece volevano i sostenitori del “determinismo”): si nega cioè che i motivi
che determinano causalmente l’azione – ovvero i desideri e le passioni – possano valere
come moventi dell’agire. Così la ragione è l’unica via che consente la libertà: infatti
l’operare della ragione garantisce la libertà in quanto la volontà, agendo secondo ragioni,
non è necessitata da fattori esterni, ovvero appunto da sentimenti, le pulsioni e i desideri.
Dunque nella concezione kantiana per spiegare il principio fondamentale della realtà e della
natura umana non si ricorre a emozioni, desideri o passioni, ma esso è ricondotto
esclusivamente alla ragione. Scrive infatti Kant: “La regola pratica è sempre un prodotto
17
Cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica, p. 95 nota.
della ragione, perché prescrive l’azione come mezzo rispetto all’effetto che costituisce il
fine. Ma in un essere per il quale il motivo determinante della volontà non è esclusivamente
la ragione, questa regola è un imperativo, cioè una regola caratterizzata da un dover essere
esprimente la necessità oggettiva dell’azione; questa regola sta a significare che, se la
ragione determinasse interamente la volontà, l’azione avrebbe luogo infallibilmente secondo
questa regola. […] Le leggi debbono determinare sufficientemente la volontà in quanto
volontà, prima ancora che io mi chieda se ho la capacità richiesta per produrre l’effetto
desiderato o ciò che occorre per produrlo. Perciò esse debbono essere categoriche: in caso
diverso non sono leggi, facendo loro difetto la necessità che, in quanto pratica, deve risultare
indipendente da ogni condizione patologica, perciò da ogni condizione connessa
incidentalmente alla volontà. […] Affinché la ragione possa dar leggi, occorre che essa
abbia bisogno di presupporre solo se stessa; infatti la regola è oggettiva e fornita di valore
universale solo quando vale a prescindere dalle condizioni accidentali e soggettive che
distinguono un essere razionale da un altro. Se poi si trova che questa regola è praticamente
giusta, si tratterà di una legge, perché è un imperativo categorico. Dunque le leggi pratiche
non fanno riferimento che alla volontà, indipendentemente da ciò che è effettuato mediante
la sua causalità; e si può far astrazione dalla causalità (perché appartenente al mondo
sensibile) per averle nella loro purezza” 18. Questa concezione razionalistica kantiana, che
nega i desideri individuali e le pulsioni emotive, va incontro a delle difficoltà. Essa infatti,
asserendo che la vera natura dell’uomo si realizza quando l’individuo si distacca dai propri
desideri ed emozioni, sostiene un “paradosso”: vuole fornire una teoria delle ragioni per gli
individui, ma le concepisce come richieste di una ragione metafisica che è di per sé
indifferente a ciò che i singoli individui trovano ragione di fare nelle loro condizioni
ordinarie (imperfette, nel linguaggio kantiano). Il razionalismo infatti crea una divisione e
una scissione – analoga a quella che si ritrova nelle concezioni metafisiche – tra il contesto
ordinario e il contesto perfetto, il mondo sovrasensibile perfetto ovvero tra l’io che ha
desideri e pulsioni e l’io in quanto soggetto della riflessione razionale. Il razionalismo
dunque teorizza un’astrazione e un’ immunizzazione dalla molteplicità dei sentimenti,
passioni, emozioni e desideri che governano l’io; ma questa astrazione e immunizzazione
18
I. Kant, Scritti morali, pp. 154-155.
dalla sfera sentimentale e passionale risulta poco plausibile (come sostiene il
sentimentalismo, trattato nella prossima sezione – sez. 3)19.
3. Il sentimentalismo e l’irrazionalismo
La confutazione del razionalismo e la teorizzazione sentimentalistica e
irrazionalistica
3.1
Il sentimentalismo
Il razionalismo – esaminato nella sezione precedente (sez. 2) – rintracciava il
Fondamento essenziale e costitutivo della realtà nella razionalità umana. Secondo questa
spiegazione si aveva – come abbiamo visto – un’indipendenza, un’eterogeneità, una
separazione tra questo elemento razionale e la sfera sentimentale, emotiva e istintuale. Si
stabiliva così un dualismo filosofico, una distinzione, una demarcazione netta tra pensare e
sentire e dunque tra ragionamento, riflessione, giudizio e passioni, emozioni, desideri e
istinti. La concezione razionalistica infatti teorizzava la sostanzialità dell’anima, dell’Io,
dell’identità personale, del Sé – caratterizzato in termini di Ragione. Si asseriva la
consistenza, la compattezza, l’unità, la coerenza e l’ininterrotto permanere della Coscienza
di Sé, dell’Io – che si configurava come chiuso in sé stesso, restava confinato in sé stesso –
e dunque il fondamento stabile del Sé. Si teorizzava dunque l’individualità dell’Io e la sua
separatezza appunto dalla sfera passionale ed istintiva dell’uomo, che rappresentava allora
l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso. Questa distinzione si configurava come una vera e
propria opposizione, antagonismo ed antitesi, in cui la positività, la priorità di valore era
La concezione kantiana ha avuto grande fortuna nel XX secolo. Viene infatti ripresa da pensatori,
differenti tra loro, quali John Rawls, Hilary Putnam, Karl Otto Apel, Thomas Nagel. Questi cercano
di depurarla dalle assunzioni e tendenze ontologico-metafisiche in essa presenti, elaborando così
posizioni filosofiche non molto lontane da quelle degli esponenti del “prescrittivismo non
cognitivistico” (è importante ricordare a questo proposito la confluenza di un’eredità kantiana
esplicitamente denunciata nella posizione non-cognitivista di Richard Mervyn Hare).
19
assegnata appunto alla ragione; si asseriva dunque l’esaltazione, il privilegio e la superiorità
di tale elemento razionale contrapposto a quello sentimentale, passionale e istintivo
considerato inferiore e negativo. Infatti la corporeità, l’insieme di sentimenti, passioni,
emozioni, desideri, pulsioni, impulsi e istinti costituiva – secondo questa concezione
filosofica – una sfera propria dell’animalità e proprio in quanto tale veniva contrapposta
appunto alla razionalità caratteristica dell’uomo, rispetto a cui rappresentava appunto
l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso. Tale lato passionale ed istintivo si configurava come il
lato oscuro dell’uomo, il luogo dell’Immoralità, del Male e del Diavolo in quanto
personificazione del Male. Si aveva così la conseguente negazione e repressione
dell’elemento passionale e istintuale – appunto in quanto risultava negativo e malvagio – da
parte di quello positivo e superiore, ovvero la razionalità umana; tale repressione si
configurava come un vero e proprio dominio, oppressione, sottomissione, prevaricazione,
sopraffazione e annichilimento dell’Altro, del Diverso ovvero appunto della sfera
sentimentale, emotiva e istintiva dell’uomo.
La teoria filosofica del “sentimentalismo” rappresenta un superamento delle concezioni
razionalistiche. Anche secondo questo modello infatti – come nel razionalismo – si
definiscono due sfere e realtà indipendenti, ontologicamente separate e distinte, quali
appunto l’elemento razionale e l’elemento sentimentale, passionale, istintivo. Si stabilisce
così un dualismo filosofico che si configura anche qui come un antagonismo, una dicotomia
e una contrapposizione antitetica tra elementi distinti e opposti tra loro, ovvero appunto tra
ragione e sentimento, mente e corpo, pensare e sentire, ideale e materiale. Ma nel
sentimentalismo vi è un ribaltamento e un rovesciamento di questa dicotomia, teorizzata
dalla concezione razionalistica. Infatti la positività, la priorità di valore viene assegnata, nel
sentimentalismo, non più all’elemento razionale, ma al contrario proprio all’elemento
sentimentale, emotivo ed impulsivo. Si teorizza allora l’esaltazione, la superiorità e il ruolo
centrale e prioritario del lato passionale, dell’insieme di sentimenti, passioni, emozioni,
desideri, pulsioni, impulsi e istinti. In questa teoria filosofica infatti si ha la negazione della
sostanzialità dell’anima, dell’Io, dell’identità personale, del Sé – che si configurava appunto
come chiuso in sé stesso, restava confinato in sé stesso. L’individualità del Sé e la sua
separatezza dagli istinti ed emozioni – che rappresentano appunto l’Alterità, l’Altro dal Sé,
il Diverso – è, secondo questa concezione, un’illusione, un’invenzione, una costruzione e
una creazione dei sistemi metafisico-religiosi e di quelli razionalistici. La consistenza, la
compattezza, l’unità, la coerenza e l’ininterrotto permanere della Coscienza di Sé, e dunque
il fondamento stabile dell’Io, viene quindi a dissolversi, viene meno, viene minato, oscurato
e negato. Infatti l’Alterità, l’Altro – dove per ‘Altro’ si intende sia l’Altro che ci è di fronte,
sia, soprattutto, l’Altro che è in noi ovvero appunto l’insieme delle nostre passioni, pulsioni,
istinti e desideri20 – non resta confinato, ma tende a invaderci: il nostro Sé è intessuto di
Altro, è permeato dall’Altro. Questo modello filosofico rifiuta dunque la concezione
razionalistica secondo cui l’Altro è un’entità esterna e differente dal Sé e teorizza
l’introiezone dell’Altro, la concezione ‘dividuale’ della soggettività. Il sentimentalismo
rifiuta e nega quindi la possibilità di riconoscere la ragione quale Principio primario e
fondamentale della realtà e della natura umana. In questa concezione si ha infatti il rifiuto, la
negazione e la confutazione della tesi secondo cui il Fondamento centrale ed essenziale
della realtà e della natura umana vada ricercato nella ragione e l’affermazione di
un’interpretazione secondo cui tale Fondamento va rintracciato nel sentimento.
La filosofia tradizionale ha sempre considerato la ragione come la parte superiore,
migliore e più alta dell’uomo, quasi una parte eterna e di origine divina, mentre le passioni e
gli istinti come sinonimo di cecità, incostanza e falsità. Scrive infatti David Hume (17111776), uno degli esponenti del sentimentalismo del Settecento: “Non c’è nulla in filosofia, e
anche nella vita quotidiana, che parlare del conflitto tra passione e ragione per dare la palma
alla ragione […]. Si sostiene che ogni creatura razionale ha l’obbligo di regolare la proprie
azioni secondo i dettami della ragione: e che nel caso in cui ci sia qualche altro motivo che
pretenda di determinare la sua condotta, deve opporsi a esso finché non sia completamente
domato o almeno conciliato con quel principio superiore. La maggior parte della filosofia,
antica e moderna, sembra fondarsi su questo modo di pensare; e non c’è nulla che offra
maggior spazio sia alle disquisizioni metafisiche, come alle declamazioni popolari, quanto
questa presunta superiorità della ragione sulla passione” 21. Ma il sentimentalismo toglie alla
ragione questa posizione di privilegio e superiorità, abbandona e confuta la tesi secondo cui
il Principio essenziale e fondamentale della realtà e della natura umana consiste nella facoltà
della ragione22. Infatti, mentre il razionalismo non tiene conto della vita sentimentale e
Infatti il tema del rapporto con l’Altro viene a configurarsi come caratteristico della nostra stessa
interiorità, le problematiche dell’intersoggettività si ritrovano dentro di noi, all’interno del nostro
stesso Sé.
21
D. Hume, Trattato sulla natura umana, pp. 433-434.
22
Con la negazione della ragione quale Fondamento essenziale costitutivo della realtà e della natura
umana si rifiuta anche la strategia kantiana di rintracciare tale Fondamento nella peculiare
20
passionale, il sentimentalismo ritiene che non sia possibile spiegare e rendere conto della
natura umana prescindendo dai sentimenti e dai desideri.
Per quanto riguarda la motivazione infatti, il sentimentalismo empiristico spiega la
natura dei motivi che spingono all’agire ricorrendo a sentimenti e passioni. D. Hume, uno
degli esponenti del sentimentalismo del Settecento, indaga su quali tipi di operazioni
mentali abbiano la capacità di influenzare la volontà, di muovere e spingere all’agire e
individua due differenti operazioni presenti nell’uomo: la ragione e le passioni. “La ragione
serve a scoprire la verità o l’errore”, che “consistono in un accordo o in un disaccordo o con
le reali relazioni delle idee, o con l’esistenza e i dati di fatto reali”23. La ragione dunque
opera accertando se vi è accordo tra la connessione delle idee e la realtà; ma il movente
delle azioni deve avere natura pratica, per poter appunto spingere all’agire. Così la ragione,
che invece opera accertando la verità o la falsità, non può avere influenza sulla volontà, non
può essere il movente delle azioni umane. La ragione risulta dunque una facoltà
“contemplativa” ovvero “inattiva”, “impotente” e “inerte” 24. Mentre la passione si configura
come “un’esistenza originaria, o, se preferite, una modificazione originaria, e non contiene
nessuna qualità rappresentativa che ne faccia una copia di una qualunque altra esistenza o
modificazione”25. Le passioni e gli impulsi cioè, al contrario della ragione, sono dei fatti o
realtà originarie, non hanno carattere rappresentativo, non sono né veri né falsi 26; e sono
questi pertanto che hanno una natura attiva e che costituiscono il movente delle azioni. Così
il sentimentalismo empiristico critica la tesi secondo cui il “movente di un’azione possa
essere la considerazione che noi facciamo di quell’azione”; infatti “le azioni umane si
spiegano non facendo ricorso a regole, a principi astratti, a valutazioni o considerazioni, che
sono tutte cose che intervengono dopo l’azione, quando essa è già stata prodotta; bisogna far
ricorso invece a moventi naturali, a concreti bisogni ed interessi e passioni piantate nella
natura dell’uomo; essi sono dei principi attivi, degli impulsi, delle energie originarie” 27.
razionalità pratica (nel sentimentalismo empiristico inglese, che nasce e si sviluppa nella prima
metà del Settecento, si ritrova dunque, oltre al rifiuto e alla confutazione del razionalismo
precedente, anche una critica ante litteram del razionalismo kantiano).
23
D. Hume, Trattato sulla natura umana, p. 484.
24
M. Dal Pra, Hume e la scienza della natura umana, pp. 245, 247.
25
D. Hume, Trattato sulla natura umana, p. 436.
26
In un linguaggio filosofico contemporaneo, possiamo dire che le passioni e gli impulsi sono stati
desiderativi, e dunque, in quanto tali, non consistono in una forma di credenza, ovvero di
rappresentazione delle cose.
27
M. Dal Pra, Hume e la scienza della natura umana, pp. 246-247.
L’elemento prioritario della realtà e della natura umana dunque, secondo la concezione del
sentimentalismo empiristico, non consiste nell’attività della ragione, ma nell’operare delle
passioni: Hume asserisce infatti che “la ragione non può mai contrapporsi alla passione nella
guida della volontà”28 e conclude con la celeberrima affermazione che “la ragione è, e deve
solo essere, schiava delle passioni”29.
Secondo il sentimentalismo empiristico dunque la natura dell’uomo è caratterizzata da
un insieme di sentimenti, passioni, desideri ed istinti. Questa teoria critica dunque la tesi
razionalista secondo cui per spiegare la realtà e la natura umana bisogna ricorrere alla
ragione. La ragione infatti – come abbiamo visto sopra – si configura come una facoltà che
coglie una serie di relazioni tra idee o fatti. Ma la moralità, il Bene non consiste in nessun
dato di fatto o in nessuna relazione tra le cose che si possa scoprire con la ragione o
l’intelletto. Per spiegare e dimostrare questa tesi Hume fa gli esempi del parricidio e
dell’omicidio premeditato: “Quindi, per sottoporre tutta la questione a tale prova, scegliamo
un oggetto inanimato, come una quercia o un olmo; supponiamo che con la caduta dei suoi
semi esso faccia germogliare ai suoi piedi un alberello che, crescendo progressivamente,
alla fine sorpassi e distrugga l’albero genitore; mi domando: in questo caso risulterebbe
mancante una qualche relazione, rintracciabile invece nel parricidio o nell’ingratitudine?
L’uno non è forse la causa dell’esistenza dell’altro? E il secondo non è forse la causa della
distruzione del primo, allo stesso modo di quando un figlio uccide suo padre? Non basta
replicare che manca una scelta o una volontà. Infatti nel caso del parricidio la volontà non
genera delle relazioni differenti, ma rappresenta solo la causa da cui procede l’azione, e di
conseguenza la volontà produce le stesse relazioni che, per la quercia o per l’olmo, sorgono
da altri principi. Sono la volontà o la scelta che determinano un uomo a uccidere suo padre,
e sono le leggi della materia e del moto che determinano un alberello a distruggere la
quercia da cui è nato. Quindi le medesime relazioni hanno qui cause differenti, ma pur
tuttavia le relazioni sono sempre le stesse: e poiché la loro scoperta in entrambi i casi non si
accompagna con una nozione di immoralità, ne deriva che questa nozione non nasce da tale
scoperta”30. E ancora: “Prendiamo un’azione ritenuta viziosa, ad esempio un omicidio
premeditato; esaminiamola da tutti i punti di vista e vediamo se riusciamo a scoprire il dato
di fatto, o esistenza reale, che chiamiamo vizio. In qualsiasi maniera la prendiate troverete
D. Hume, Trattato sulla natura umana, p. 434.
Ivi, p. 436.
30
Ivi, p. 494.
28
29
solo certe passioni, motivi, volizioni e pensieri; non vi sono altri dati di fatto. Il vizio
sfuggirà completamente fino a quando considerate l’oggetto. Non potrete mai scoprirlo fino
a che non volgerete la vostra riflessione al vostro cuore in cui troverete che è sorto un
sentimento di disapprovazione nei confronti di questa azione. Ecco allora un dato di fatto,
ma oggetto di sentimento e non della ragione. Esso si trova in voi, non nell’oggetto. Così,
quando dichiarate viziosa un’azione o un carattere, non intendete dire niente altro che, data
la costituzione della vostra natura, voi provate un senso o un sentimento di biasimo nel
contemplarli. Il vizio e la virtù possono, perciò, essere paragonati ai suoni, ai colori, al caldo
e al freddo che, secondo la filosofia moderna, non sono qualità degli oggetti, ma percezioni
della mente”31. Dunque la morale non consiste né in un dato di fatto né in una relazione tra
le cose che possa essere colta dalla ragione. Il sentimentalismo empiristico nega dunque la
tesi che rintraccia il principio costitutivo della realtà e della natura umana nella ragione e
riconduce tale principio al sentimento: “la morale, perciò, è più propriamente oggetto di
sentimento che di giudizio”32.
All’interno del sentimentalismo empiristico, che rintraccia appunto il fondamento della
realtà e della natura dell’uomo non più nella ragione ma nel sentimento, si possono
distinguere diverse posizioni, anche molto lontane tra loro. L’iniziatore di questo filone
sentimentalistico del Settecento è Anthony Ashley Cooper Shaftesbury (1671-1713). Questi
asserisce, attraverso una ricognizione empirica degli esseri umani, il ruolo centrale delle
passioni nella natura dell’uomo e, in particolare, l’esistenza nella natura umana di un
“senso” o “sentimento morale”: esso si configura come un sentimento, istinto o senso
originario, immediato e diretto, comune a tutti gli uomini, di ciò che è bene o giusto. Un
elemento peculiare del sentimentalismo di Shaftesbury consiste nel fatto che questo
sentimento si accompagna con il peculiare piacere che ciascuna creatura umana prova
quando si sente con le sue azioni in piena armonia con il tutto: ovvero sente che le sue
azioni affermano la superiorità dell’interesse del mondo in generale rispetto all’interesse
particolare. Il sentimentalismo di Shaftesbury si colloca infatti all’interno della peculiare
filosofia di questo pensatore che si caratterizza come un “naturalismo panteistico” o
“deistico”.
31
32
Ivi, pp. 495-496.
Ivi, p. 497.
Una presentazione e un’analisi più approfondita delle passioni umane e, in particolare,
del senso morale viene realizzata da Francis Hutcheson (1694-1746), che appunto può
essere considerato come il primo pensatore che ha effettivamente presentato una teoria
sentimentalistica. Questi teorizza infatti l’esistenza di uno specifico e peculiare senso
morale distinto dalla ragione e dagli altri sensi. Scrive Hutcheson: “Come l’Autore della
Natura ci ha determinato a ricevere, mediante i nostri sensi esterni, idee piacevoli o
sgradevoli degli oggetti a seconda che essi siano utili o dannosi per i nostri corpi, e a
ricevere dagli oggetti uniformi i piaceri della bellezza e dell’armonia […] analogamente egli
ci ha dato un senso morale per dirigere le nostre azioni e trasmetterci il più nobile dei
piaceri. Proprio a ragione di questo senso morale mentre noi stiamo tendendo
esclusivamente al bene altrui, in modo del tutto inconsapevole stiamo anche promuovendo il
nostro più grande bene privato. […] Noi non dobbiamo immaginare che questo senso
morale presupponga delle idee, conoscenze o proposizioni pratiche innate più di quanto
accada con gli altri sensi. Con esso noi ci riferiamo solo a una determinazione delle nostre
menti a ricevere le idee semplici dell’approvazione o condanna dalle azioni osservate,
antecedentemente al formarsi di una qualsiasi opinione relativa al vantaggio o alla perdita
che ricaveremo da tali azioni; così come noi proviamo piacere in presenza di una forma
regolare o di una composizione armoniosa senza avere nessuna conoscenza di ordine
matematico, o percepire un qualche vantaggio in quella forma o composizione differente da
quello stesso piacere immediato che ne traiamo” 33. Hutcheson dunque individua il
fondamento costitutivo della natura umana nel lato passionale dell’uomo e, in particolare,
nel senso morale, che si caratterizza come un organo o facoltà attraverso cui si esprime il
nostro senso del bene e del male. Questo senso morale teorizzato da Hutcheson si configura
come un senso aggiuntivo che fornisce una conoscenza reale, ed è dunque effettivamente
rappresentativo e valutabile in termini di verità o falsità dei dati con esso colti, non
diversamente dagli altri sensi. Il senso morale dunque, secondo questo filosofo, fonda
conclusioni etiche universali ed oggettive: esso infatti coglie delle proprietà e qualità etiche
naturali. Le idee di bene e male sono dunque, in Hutcheson, rappresentative della realtà
morale esterna e oggettiva. Inoltre nella filosofia di Hutcheson, la validità conoscitiva e
l’aggancio realistico di queste idee risultano garantiti da una legge naturale stabilita da Dio.
F. Hutcheson, An Inquiry Concerning The Original of our Ideas of Virtue or Moral Good, pp.
188-189.
33
La teoria filosofica di Hutcheson si configura allora come una forma di “realismo” e di
“cognitivismo”: il senso morale è infatti una peculiare facoltà che scopre e coglie delle
specifiche proprietà presenti nel mondo – ovvero le qualità etiche – che si caratterizzano
appunto come reali, oggettive e indipendenti dal soggetto che le percepisce. Si ritrova
dunque in Hutcheson una ricostruzione realistica, oggettivistica, ontologizzante e
cognitivistica34.
All’interno del filone sentimentalistico settecentesco vi sono poi autori che si distanziano
da questa concezione realistica e cognitivistica presente in Hutcheson, come Adam Smith
(1723-1790) e D. Hume. Hume riconosce la tesi, presente in Hutcheson, della centralità
della sfera passionale e sentimentale nella vita e nella natura dell’uomo e, in particolare,
dell’importanza di un sentimento o senso morale peculiare e specifico, piuttosto che a una
capacità razionale: “la morale”, scrive Hume, “è più propriamente oggetto di sentimento che
di giudizio”35. Ma Hume, partendo dal riconoscimento – in linea con la filosofia di
Hutcheson – del ruolo centrale del sentimento anziché della ragione, si distanzia poi
nettamente da questo pensatore. Hume rifiuta infatti l’idea, propria di Hutcheson, che il
senso morale fornisca una conoscenza reale ed oggettiva. Secondo Hume invece la moralità
è costituita da qualità soggettive: il bene e il male, la virtù e il vizio non sono conoscibili
come delle realtà oggettive, ma sono delle “qualità secondarie” 36. Il bene e il male così non
sono considerati come qualità oggettive e reali, ma appunto come qualità secondarie, ovvero
come un modo soggettivo di discriminare tra le azioni sulla base delle nostre reazioni
sentimentali. In Hume infatti il senso morale si configura come una qualità del tutto
soggettiva e non conoscitiva: esso consiste nel peculiare piacere, appunto soggettivo, che
proviamo di fronte a un’azione virtuosa. Scrive Hume: “Avere il senso della virtù non
significa altro che sentire una soddisfazione di tipo particolare nel contemplare una certa
qualità. Ed è proprio in questo sentire che risiede la nostra lode o la nostra ammirazione” 37.
Hume connette dunque il bene e il male con il piacere e il dolore: “l’impressione che sorge
Questa concezione intuizionistica presente in Hutcheson sarà ripresa nel XX secolo da autori
come Henry Sidgwick (1838-1900) e George Edward Moore (1873-1958). Questi teorizzano
un’intuizione del tutto speciale che è in grado di cogliere le proprietà etiche non-naturali, distinte
dalle qualità naturali ordinarie. Gli intuizionisti contemporanei dunque depurano l’etica da quelle
componenti gnoseologiche presenti nella teoria di Hutcheson.
35
D. Hume, Trattato sulla natura umana, p. 497.
36
Si veda a questo proposito il passo humeano dell’omicidio premeditato riportato prima, a
proposito della confutazione delle concezioni razionalistiche.
37
D. Hume, Trattato sulla natura umana, p. 498.
34
dalla virtù è gradevole e […] quella che deriva dal vizio è sgradevole” 38. Per cui avere il
senso del bene significa sentire un piacere di natura particolare, e avere il senso del male un
dolore di natura particolare. Così la concezione humeana risulta in contrapposizione con
tutta la filosofia precedente. Hume infatti rifiuta e confuta la ricostruzione filosofica
realistica, oggettivistica, ontologizzante e cognitivistica, propria sia delle concezioni
razionalistiche che del sentimentalismo realistico e ontologico di Hutcheson, e propone una
ricostruzione filosofica non-realistica, non-cognitivistica e soggettivistica39.
3.2
L’irrazionalismo
Il razionalismo – esaminato nella sezione 2 – rintracciava il Fondamento essenziale e
costitutivo della realtà nella razionalità umana. Secondo questa spiegazione si aveva – come
abbiamo visto – un’indipendenza, un’eterogeneità, una separazione tra questo elemento
razionale e la sfera irrazionale, sentimentale, emotiva e istintuale. Si stabiliva così un
dualismo filosofico, una distinzione, una demarcazione netta tra pensare e sentire e dunque
tra ragionamento, riflessione, giudizio e passioni, emozioni, desideri e istinti. La concezione
razionalistica infatti teorizzava la sostanzialità dell’anima, dell’Io, dell’identità personale,
del Sé – caratterizzato in termini di Ragione. Si asseriva la consistenza, la compattezza,
l’unità, la coerenza e l’ininterrotto permanere della Coscienza di Sé, dell’Io – che si
configurava come chiuso in sé stesso, restava confinato in sé stesso – e dunque il
fondamento stabile del Sé. Si teorizzava dunque l’individualità dell’Io e la sua separatezza
appunto dalla sfera irrazionale, passionale ed istintiva dell’uomo, che rappresentava allora
l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso. Questa distinzione si configurava come una vera e
propria opposizione, antagonismo ed antitesi, in cui la positività, la priorità di valore era
assegnata appunto alla ragione; si asseriva dunque l’esaltazione, il privilegio e la superiorità
di tale elemento razionale contrapposto a quello irrazionale, sentimentale, passionale e
Ivi, p. 497.
Questa impostazione che riconosce un ruolo centrale alla sensibilità con il rifiuto della supremazia
della mera attività razionale conoscitiva è stata ripresa nel XX secolo da autori come David
Wiggins e John McDowell. Questi abbandonano le pretese fondazionali proprie sia della teoria del
‘senso morale’ settecentesca come dell’intuizionismo di questo secolo per muovere verso intenti
meramente esplicativi.
38
39
istintivo considerato inferiore e negativo. Infatti l’irrazionalità, la corporeità, l’insieme di
sentimenti, passioni, emozioni, desideri, pulsioni, impulsi e istinti costituiva – secondo
questa concezione filosofica – una sfera propria dell’animalità e proprio in quanto tale
veniva contrapposta appunto alla razionalità caratteristica dell’uomo, rispetto a cui
rappresentava appunto l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso. Tale lato irrazionale, passionale
ed istintivo si configurava come il lato oscuro dell’uomo, il luogo dell’Immoralità, del Male
e del Diavolo in quanto personificazione del Male. Si aveva così la conseguente negazione e
repressione dell’elemento irrazionale, passionale e istintuale – appunto in quanto risultava
negativo e malvagio – da parte di quello positivo e superiore, ovvero la razionalità umana;
tale repressione si configurava come un vero e proprio dominio, oppressione, sottomissione,
prevaricazione, sopraffazione e annichilimento dell’Altro, del Diverso ovvero appunto della
sfera irrazionale, sentimentale, emotiva e istintiva dell’uomo.
La teoria filosofica dell’ “irrazionalismo” rappresenta un superamento delle concezioni
razionalistiche. Anche secondo questo modello infatti – come nel razionalismo – si
definiscono due sfere e realtà indipendenti, ontologicamente separate e distinte, quali
appunto l’elemento razionale e l’elemento irrazionale, sentimentale, passionale, istintivo. Si
stabilisce così un dualismo filosofico che si configura anche qui come un antagonismo, una
dicotomia e una contrapposizione antitetica tra elementi distinti e opposti tra loro, ovvero
appunto tra razionale e irrazionale, ragione e sentimento, mente e corpo, pensare e sentire,
ideale e materiale. Ma nell’irrazionalismo vi è un ribaltamento e un rovesciamento di questa
dicotomia, teorizzata dalla concezione razionalistica. Infatti la positività, la priorità di
valore viene assegnata, nelle concezioni irrazionalistiche, non più all’elemento razionale,
ma al contrario proprio all’elemento irrazionale ovvero sentimentale, emotivo ed impulsivo.
Si teorizza allora l’esaltazione, la superiorità e il ruolo centrale e prioritario del lato
irrazionale e passionale, dell’insieme di sentimenti, passioni, emozioni, desideri, pulsioni,
impulsi e istinti. In questa teoria filosofica infatti si ha la negazione della sostanzialità
dell’anima, dell’Io, dell’identità personale, del Sé – che si configurava appunto come chiuso
in sé stesso, restava confinato in sé stesso. L’individualità del Sé e la sua separatezza dagli
istinti ed emozioni – che rappresentano appunto l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso – è,
secondo questa concezione, un’illusione, un’invenzione, una costruzione e una creazione dei
sistemi metafisico-religiosi e di quelli razionalistici. La consistenza, la compattezza, l’unità,
la coerenza e l’ininterrotto permanere della Coscienza di Sé, e dunque il fondamento stabile
dell’Io, viene quindi a dissolversi, viene meno, viene minato, oscurato e negato. Infatti
l’Alterità, l’Altro – dove per ‘Altro’ si intende sia l’Altro che ci è di fronte, sia, soprattutto,
l’Altro che è in noi ovvero appunto l’insieme delle nostre passioni, pulsioni, istinti e
desideri40 – non resta confinato, ma tende a invaderci: il nostro Sé è intessuto di Altro, è
permeato dall’Altro. Questo modello filosofico rifiuta dunque la concezione razionalistica
secondo cui l’Altro è un’entità esterna e differente dal Sé e teorizza l’introiezone dell’Altro,
la concezione ‘dividuale’ della soggettività. L’irrazionalismo rifiuta e nega quindi la
possibilità di riconoscere la ragione quale Principio primario e fondamentale della realtà e
della natura umana. In questa concezione si ha infatti il rifiuto, la negazione e la
confutazione della tesi secondo cui il Fondamento centrale ed essenziale della realtà e della
natura umana vada ricercato nella ragione e l’affermazione di un’interpretazione secondo
cui tale Fondamento va rintracciato nel lato irrazionale dell’animo umano. La filosofia
tradizionale ha sempre considerato la ragione come la parte superiore, migliore e più alta
dell’uomo, quasi una parte eterna e di origine divina, mentre il lato irrazionale dell’uomo,
ovvero le passioni e gli istinti, come sinonimo di cecità, incostanza e falsità. Ma la
concezione irrazionalistica toglie alla ragione questa posizione di privilegio e superiorità,
abbandona e confuta la tesi secondo cui il Principio essenziale e fondamentale della realtà e
della natura umana consiste nella facoltà della ragione. Infatti, mentre il razionalismo non
tiene conto dell’aspetto irrazionale e oscuro dell’uomo, ossia della vita sentimentale e
passionale, l’irrazionalismo ritiene che non sia possibile spiegare e rendere conto della
natura umana prescindendo dal lato irrazionale dell’animo umano.
3.2.1 Il Dionisiaco di Nietzsche
La filosofia d Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) occupa un posto centrale nel
processo filosofico di critica e “demitizzazione” dell’ideologia metafisica e razionalistica e
nel “disincantamento” del mondo. Nietzsche attua infatti la distruzione dei miti, delle
credenze e delle certezze metafisiche, religiose e razionalistiche – proprie della tradizione
Infatti il tema del rapporto con l’Altro viene a configurarsi come caratteristico della nostra stessa
interiorità, le problematiche dell’intersoggettività si ritrovano dentro di noi, all’interno del nostro
stesso Sé.
40
platonico-cristiana – che non sono altro, secondo il filosofo, che invenzioni, costruzioni e
creazioni appunto costruite dagli uomini, nel tentativo di sublimare e trasfigurare il caos
della vita. Infatti Nietzsche in Ecce homo (1888) si descrive come “il primo uomo decente”
dopo la “falsità che dura millenni”: “Conosco la mia sorte. Sarà legato al mio nome il
ricordo di qualcosa di enorme – una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda
collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto,
preteso, consacrato. Io non sono un uomo, sono una dinamite”. E ancora, in Umano, troppo
umano (1878), scrive: “I miei scritti sono stati chiamati una scuola di sospetto e ancor più di
disprezzo, per fortuna però anche di coraggio, anzi di temerarietà. E in realtà io stesso non
credo che alcuno abbia mai scrutato il mondo con un sospetto ugualmente profondo”. Ma il
pensiero filosofico di Nietzsche non si esaurisce nella demolizione polemica e nella critica
dei sistemi razionalistico-metafisici che dominano la tradizione e la cultura occidentale, al
contrario il filosofo si fa “lieto messaggero” di una nuova Verità. Scrive infatti in Ecce
homo: “Io vengo a contraddire, come mai si è contraddetto, e nondimeno sono l’opposto di
uno spirito negatore. Io sono un lieto messaggero, quale mai si è visto, conosco compiti di
un’altezza tale che finora è mancato il concetto per definirli; solo a partire da me ci sono
nuove speranze”. In linea con il suo pensiero caratterizzato appunto dalla radicale critica dei
sistemi metafisico-religiosi e razionalistici, il linguaggio filosofico di questo pensatore si
configura come anti-sistematico, ovvero lontano dalle costruzioni sistematiche e razionali
ben definite e concluse, proprie delle concezioni che egli confuta. Dal punto di vista
stilistico infatti il discorso filosofico di Nietzsche ha un carattere aforistico, anti-sistematico,
cifrato e profetico: è caratterizzato dall’uso di allusioni, metafore, aforismi e profezie e
presenta una molteplicità e pluralità di significati non univoci.
Nietzsche nella sua prima grande opera, La nascita della tragedia (1872), propone una
nuova visione del mondo greco, che costituisce un ribaltamento e un rovesciamento della
visione del mondo greco che ha dominato la cultura europea dal Rinascimento al
Romanticismo. La civiltà greca a cui Nietzsche si riferisce non è infatti quella della filosofia
socratico-platonico-aristotelica e della tragedia di Euripide – che rappresenta la fase
decadente del pensiero e della cultura greca, ma la civiltà greca dei presocratici e della
grande tragedia di Eschilo e Sofocle. Rifacendosi al mondo greco, Nietzsche individua due
principi cosmici opposti e antitetici, ma al tempo stesso inscindibili, entrambi necessari e
presenti, coessenziali, generatori della realtà e caratterizzanti la realtà e l’interiorità
dell’uomo. Questi due elementi contrapposti, che la filosofia nietzscheana – rifacendosi
appunto alla mitologia greca – pone a fondamento della realtà, sono individuati in Apollo, il
dio dell’equilibrio, della misura e dell’ordine, della melodia e del canto armonico e in
Dioniso, il dio dell’ebbrezza, della danza e dell’estasi. Così l’Apollineo rappresenta la
razionalità e il controllo della ragione sulle passioni, ovvero l’ordine e la forma, la stasi, il
finito, la luce, la serenità, il sogno, contrapposto al Dionisiaco che rappresenta invece
l’universo delle passioni, sentimenti, istinti, impulsi, emozioni, desideri e volizioni ovvero
la Vita, la forza vitale, il caos, il divenire, l’infinito, l’oscurità, l’inquietudine, l’ebbrezza.
Queste coppie di opposti, questi due principi antitetici e contrapposti tra loro formano una
sintesi e un binomio inscindibile, sono coesistenti e coessenziali, si configurano entrambi
come necessari e costitutivi della realtà e della vita e dell’esistenza dell’uomo. Nella
filosofia nietzscheana dunque – cfr. il § 3 dell’introduzione: Il sentimentalismo – si
definiscono due sfere e realtà indipendenti, ontologicamente separate e distinte, quali
appunto l’elemento razionale e l’elemento sentimentale, passionale, istintivo. Si stabilisce
cioè un dualismo filosofico che si configura come un antagonismo, una dicotomia e una
contrapposizione antitetica tra elementi distinti e opposti tra loro, ovvero appunto tra
ragione e sentimento, mente e corpo, pensare e sentire, ideale e materiale. In questa
concezione vi è un ribaltamento e un rovesciamento della dicotomia teorizzata dalle
concezioni razionalistiche. Infatti la positività, la priorità di valore viene assegnata non più
all’elemento razionale, ma al contrario proprio all’elemento sentimentale, emotivo ed
impulsivo. Si teorizza allora l’esaltazione, la superiorità e il ruolo centrale e prioritario nella
vita e nell’esistenza dell’uomo proprio dell’elemento dionisiaco, ovvero del lato passionale,
dell’insieme di sentimenti, passioni, emozioni, desideri, pulsioni, impulsi e istinti.
L’Apollineo infatti non è altro che un’invenzione, una costruzione, una creazione, una
credenza, una falsità e una menzogna costruita dagli uomini, che nasce dal tentativo di
sublimare e trasfigurare il caos nella forma, l’orribile e l’assurdo in un mondo definibile e
armonico, il senso oscuro delle cose e il lato notturno dell’animo umano in forme luminose
ed equilibrate. Nella filosofia nietzscheana si ha allora la negazione della sostanzialità
dell’anima, dell’Io, dell’identità personale, teorizzata dalle concezioni metafisiche e
razionalistiche – secondo le quali il Sé si configurava appunto come chiuso in sé stesso,
restava confinato in sé stesso. L’individualità del Sé e la sua separatezza dagli istinti ed
emozioni – ovvero dal Dionisiaco che rappresenta appunto l’Alterità, l’Altro dal Sé, il
Diverso – è, secondo questa concezione, un’illusione, un’invenzione e una creazione dei
sistemi metafisico-religiosi e di quelli razionalistici. La consistenza, la compattezza, l’unità,
la coerenza e l’ininterrotto permanere della Coscienza di Sé, e dunque il fondamento stabile
dell’Io, viene quindi, in Nietzcshe, a dissolversi, viene meno, viene minato, oscurato e
negato. Infatti l’Alterità, l’Altro – ovvero il Dionisiaco – non resta confinato, ma tende a
invaderci: il nostro Sé è intessuto di Altro, è permeato dall’Altro. Questo modello filosofico
rifiuta dunque la concezione razionalistica secondo cui l’Altro è un’entità esterna e
differente dal Sé e teorizza l’introiezone dell’Altro, la concezione ‘dividuale’ della
soggettività. Questa teoria rifiuta e nega quindi la possibilità di riconoscere la ragione quale
Principio primario e fondamentale della realtà e della natura umana. In questa concezione si
ha infatti il rifiuto, la negazione e la confutazione della tesi secondo cui il Fondamento
centrale ed essenziale della realtà e della natura umana vada ricercato nella ragione e
l’affermazione di un’interpretazione secondo cui tale Fondamento va rintracciato nel lato
passionale e istintuale dell’uomo.
Questo ruolo centrale del Dionisiaco viene minato e negato dalla concezione
razionalistica e intellettualistica di Socrate, propria anche della tragedia di Euripide,
caratterizzata dal prevalere dell’Apollineo, che domina e trionfa sul Dionisiaco. Con il
trionfo del razionalismo socratico si ha infatti il trionfo dell’Apollineo, che si configura
come una trasposizione mitico-ideale, una sublimazione e una trasfigurazione della caducità
e della tragicità della vita e dell’esistenza, che l’uomo vuole esorcizzare, in un mondo
definito e armonico. Con la filosofia socratica ha così inizio, secondo Nietzsche, l’età di
“decadenza”, che giunge al suo apice con il cristianesimo. Mentre l’affermazione del
dionisiaco e del tragico è una rivendicazione della vita, il cristianesimo mortifica e
condanna la vita. Infatti la ricerca dell’al di là, di un mondo che sta “dietro” e “oltre” il
mondo è espressione di un disgusto nichilistico per la vita – dove per nichilismo si intende
appunto il dire di no alla vita. E’ ben evidente allora nel cristianesimo l’acquisizione e
l’utilizzazione del platonismo. Il platonismo infatti aveva affermato la necessità di
distinguere e separare un mondo trascendente e metafisico – quello delle idee immutabili ed
eterne – che si configura come il mondo “vero”, dal mondo sensibile e transeunte, che è
invece il mondo “apparente”; e aveva adottato il mondo “vero” come criterio di quello
“apparente”, che veniva così screditato e rifiutato. La “malattia”, la “decadenza” e il rifiuto
della vita domina, secondo Nietzsche, la cultura occidentale, caratterizzata appunto dal
rifiuto di ciò che è terreno a favore di un mondo ultraterreno e trascendente, dall’uccisione
delle profondità e degli abissi istintuali e tragico-dionisiaci della vita a favore del pallido
ideale della ragione.
Nietzsche critica la razionalità socratica, che domina la cultura europea, e asserisce, nel
primo aforisma di Umano troppo umano, che “i colori più magnifici” derivano dal lato
basso, materiale e spregiato dell’animo umano, cioè gli impulsi, le passioni, i desideri e gli
istinti. Questo lato oscuro dell’uomo costituisce una verità-base, una verità elementare a cui
devono essere riportate le “menzogne” dell’ideologia e i prodotti spirituali della
sublimazione, per demistificarli. Nella filosofia nietzscheana infatti prevale il Dionisiaco in
quanto “affermazione della vita totale, non rinnegata né frantumata”. Dioniso è infatti
esaltazione entusiastica del mondo e della caoticità dell’esistenza, è la volontà orgiastica
della vita nella totalità della sua potenza. Dioniso è il dio dell’ebbrezza, della gioia, della
danza sfrenata, dell’energia vitale e dell’irrazionalità; è il dio che bandisce ogni rinuncia alla
vita.
Infatti i cosiddetti valori e
virtù della tradizione platonico-cristiana, fondati sulla
rinuncia, sull’abbandono e sulla diminuzione della vita, che tendono a mortificare, a
reprimere, a spezzare e a impoverire la vita e la forza vitale, secondo Nietzsche non sono
veri valori. Questo pensatore critica aspramente dunque la morale tradizionale, ovvero
quella cristiana, costituita da valori trascendenti fondati sulla razionalità, in quanto
costituisce la tipica forma di morale attraverso cui l’uomo è giunto a porsi contro la vita
stessa. Invece, per Nietzsche, sono virtù le passioni, che, al contrario della ragione, dicono
sì alla vita e al mondo: costituisce valore “tutto ciò che è ricco e vuol dare, e vuol gratificare
la vita, dorarla, eternizzarla e divinizzarla […] tutto ciò che approva, afferma ed agisce per
affermazione”. Questo primato del lato passionale dell’uomo contrapposto ad un mondo di
forme composte, armoniose e ideali emerge nel celebre aforisma di Nietzsche contenuto in
Ecce homo: “dove voi vedete le cose ideali, io vedo cose umane, ahi troppo umane”.
In una prima fase della storia dell’umanità, soprattutto nel mondo classico, la morale si
basa sui valori vitali – quali la forza, la salute, la fierezza, la gioia (la morale dei signori) –
mentre in una seconda fase, che giunge al suo apice con il cristianesimo, essa è costituita da
valori anti-vitali – quali l’abnegazione, il sacrificio di sé, ecc. (la morale degli schiavi).
Originariamente la morale dei signori comprende anche quella dei sacerdoti. Mentre il
cavaliere persegue le virtù del “corpo”, il sacerdote tende alle virtù dello “spirito”. Ma la
casta dei sacerdoti prova “risentimento” verso i guerrieri, cioè invidia e desiderio di rivalsa
nei loro confronti. Così viene elaborata dai sacerdoti una tavola dei valori antitetica e
contrapposta a quella dei guerrieri: al corpo viene anteposto lo spirito, all’orgoglio l’umiltà,
alla sessualità la castità. Con la vittoria dalla morale degli schiavi predomina una maniera
anti-vitale di rapportarsi alla vita, che costituisce appunto la “decadenza” e la “malattia”
della civiltà occidentale. Questo “rovesciamento” dei valori e quindi il predominio della
morale anti-vitale storicamente è rappresentato dall’ebraismo – secondo Nietzsche gli ebrei
sono il “popolo sacerdotale” per antonomasia – e dal cristianesimo. Il cristianesimo
rappresenta, secondo Nietzsche, il risentimento dell’uomo verso la vita, “la più sotterranea
congiura che sia mai esistita contro salute, bellezza […] contro la vita stessa”. Esso infatti
introducendo la nozione di “peccato” ha inibito gli impulsi naturali e primari dell’esistenza,
quali la gioia e il piacere, e ha prodotto un uomo risentito, malato, represso, auto-tormentato
e perseguitato dai sensi di colpa (infatti “tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno si
rivolgono all’interno”).
Nietzsche attua allora una radicale critica della morale tradizionale, ovvero quella della
tradizione platonico-cristiana, in favore di una risoluta ed entusiastica esaltazione del mondo
umano, terreno e corporeo. Nel prologo di Così parlò Zarathustra (1883-85) scrive infatti:
“Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di
sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio. Dispregiatori della
vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la terra: possano
scomparire!”. Così Nietzsche attua un ribaltamento, un’inversione o trasmutazione dei
valori: “La verità è tremenda: perché fino a oggi si chiamava verità la menzogna.
Trasvalutazione di tutti i valori: questa è la mia formula per l’atto con cui l’umanità prende
la decisione suprema su se stessa, un atto che in me è diventato carne e genio” (Ecce homo).
Nietzsche stesso si definisce “immoralista”: ma con questo il filosofo non intende riferirsi
all’abolizione di ogni valore. Infatti in Nietzsche la critica ai valori anti-vitali si accompagna
alla proposta di una nuova tavola di valori, antitetici e contrapposti ad essi. Si tratta dunque
di una trasformazione, rovesciamento e ribaltamento dei valori che consiste nella critica dei
valori tradizionali fondati sulla rinuncia e sull’abbandono della vita, in favore
dell’accettazione libera e gioiosa e dell’esaltazione della vita nella sua potenza primitiva. I
valori affermati da Nietzsche sono valori vitali, sono di carattere mondano e a misura
d’uomo. L’anima infatti, che si configura come l’essenza ultra-mondana e sovrannaturale
dell’uomo, secondo questo pensatore è insussistente, non esiste. L’uomo è, al contrario, una
creatura interamente terrestre e corporea, è sostanzialmente corpo: “io sono corpo tutt’intero
e nient’altro, dice Zarathustra; l’anima è soltanto una parola che indica una particella del
corpo”. Così “la Terra e il corpo dell’uomo si trasfigurano: la Terra cessa di essere il deserto
in cui l’uomo è in esilio e diventa la sua dimora gioiosa; il corpo cessa di essere prigione o
tomba dell’anima e diviene il concreto modo di essere dell’uomo nel mondo”41. La filosofia
di Nietzsche è dunque caratterizzata dalla rivendicazione della natura terrestre e corporea
dell’uomo e dall’accettazione ed esaltazione del Dionisiaco in quanto potenza primitiva
della vita.
Uno dei temi centrali e fondamentali della filosofia di Nietzsche è quello della “morte di
Dio”. In Nietzsche con il concetto di Dio si intende, in senso generale, ogni prospettiva
oltre-mondana e ultraterrena, e quindi anti-vitale – propria di tutte le metafisiche e le
religioni – che pone il senso dell’essere fuori o al di là dell’essere, in una realtà metafisica e
trascendente, separando e contrapponendo questo mondo ad un altro mondo, ritenuto
l’unico “vero” e “perfetto”. Dio dunque è, in Nietzsche, il simbolo e la personificazione
delle certezze e delle “credenze metafisiche e religiose elaborate attraverso i millenni per
dare un ‘senso’ e un ordine ‘rassicurante’ alla vita” 42. Le concezioni metafisiche e religiose
hanno introdotto la distinzione e la contrapposizione tra anima e corpo, tra spirito e carne,
tra vita celeste e vita terrena, tra Dio e uomo. E Dio e l’ultra-mondano rappresentano una
fuga dalla vita e da questo mondo: “in Dio è dichiarata inimicizia alla vita, alla natura, alla
volontà di vivere! Dio, la formula di ogni calunnia dell’ ‘aldiqua’, di ogni menzogna dell’
‘aldilà’ (L’Anticristo, 1888). Infatti, secondo Nietzsche, l’idea di un cosmo ordinato,
razionale, armonico, retto da un Dio provvidente – su cui le metafisiche e le religioni si
fondano – è una costruzione dell’uomo per poter sopportare ed esorcizzare la realtà, che si
configura come caotica, contraddittoria, disarmonica, “danza sui piedi del caso”: “il
carattere complessivo del mondo è il caos per tutta l’eternità, non nel senso di un difetto di
necessità, ma di un difetto di ordine, di articolazione, forma, bellezza, sapienza e di tutto
quanto sia espressione delle nostre estetiche nature umane” (La gaia scienza, 1882).
Ma ora le metafisiche e le religioni si sono finalmente rivelate allo sguardo disincantato
del filosofo moderno come “prospettive consolatorie, decorazioni della realtà e bugie di
41
42
N. Abbagnano, G. Fornero, Fare filosofia, autori, vol. III, p. 120.
Ivi, p. 123.
sopravvivenza”43. Scrive infatti Nietzsche: “C’è un solo mondo, ed è falso, crudele,
contraddittorio, corruttore, senza senso […]. Un mondo così fatto è il vero mondo […]. Noi
abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa ‘verità’, cioè per vivere […]. La
metafisica, la morale, la religione, la scienza […] vengono prese in considerazione solo
come diverse forme di menzogna: col loro sussidio si crede nella vita” (Frammenti
postumi). Così Dio si configura, secondo Nietzsche, come la più antica delle bugie e degli
inganni, come “la nostra più lunga menzogna”, escogitata e costruita dall’uomo per
sopportare il volto caotico e dionisiaco dell’esistenza. La credenza in Dio dunque non è altro
che l’espressione della paura e del terrore dell’uomo di fonte alla verità dell’essere. La
celebre tesi nietzscheana della “morte di Dio”, dichiarando irreale, falsa e decadente la
realtà ideale e trascendente teorizzata dalle metafisiche e dalle religioni, segna il crollo
dell’impalcatura di credenze e di certezze su cui gli uomini hanno basato la loro vita per
millenni. L’annuncio che “Dio è morto” (Gott ist tot!), viene da questo pensatore
“drammatizzata” nel famoso racconto dell’ “uomo folle”, contenuto ne La gaia scienza.
L’ateismo risulta dunque, per Nietzsche, “qualcosa di dato, di palpabile, d’indiscutibile” (La
gaia scienza). L’ateismo di Nietzsche si configura come un ateismo radicale: questo
pensatore non si limita a contestare e criticare Dio, ma estende la sua critica a tutti i
surrogati di Dio. Infatti gli uomini, per esorcizzare la loro paura di fronte all’essenza caotica
della vita, hanno sempre bisogno di creare una realtà o un essere mitico-ideale, equilibrato e
armonico: così “abbattute le antiche divinità, tendono inevitabilmente a crearne altre” 44.
Così, in Così parlò Zarathustra, Nietzsche racconta di uomini che adorano un asino: l’uomo
ha ancora bisogno di Dio, ha bisogno di riempire il vuoto lasciato dalle strutture e credenze
metafisiche e religiose che sono crollate, con qualsiasi cosa, anche la più assurda come un
asino, simbolo di ogni sostituto o surrogato idolatrico di Dio 45. Nietzsche allora, abbattute e
confutate tutte le concezioni metafisiche o religiose, teorizza l’essenza caotica, non
provvidenziale, a-razionale e quindi a-tea del mondo, che si configura appunto come un
“mondo sdivinizzato”.
Ibidem.
Ivi, p. 126.
45
L’ “asino” “allude probabilmente alle varie forme dell’ateismo ‘positivo’ dell’Ottocento, nelle
quali Dio si trova ‘rimpiazzato’ da altrettanti supplenti (lo stato, l’Umanità, la scienza, il socialismo,
ecc.)” (Ibidem).
43
44
Il profondo smarrimento esistenziale prodotto dal tramonto dell’idea di Dio è la
condizione necessaria per la nascita del superuomo: “la morte di Dio segna, per Nietzsche,
l’atto di nascita del superuomo” 46. Infatti solo coscienti dell’illusorietà delle credenze
metafisiche si può prendere atto della caoticità a-razionale della realtà e dunque varcare
l’abisso che divide l’uomo dall’oltre-uomo. Solo se Dio non esiste, l’universo è caos
dionisiaco e il superuomo può nascere; solo sul presupposto di un mondo “sdivinizzato” e ateo, il mondo dionisiaco e irrazionale e il superuomo nietzscheano possono esistere.
Zarathustra esclama infatti: “Morti son tutti gli dei: ora vogliamo che il superuomo viva”.
“Pertanto, il superuomo ha dietro di sé, come condizione necessaria del suo stesso essere, la
morte di Dio […], ma ha davanti a sé il ‘mare aperto’ delle possibilità scaturenti da una
libera progettazione della propria esistenza al di là di ogni struttura metafisica data” 47.
L’uomo infatti con la morte di Dio – personificazione degli ideali e delle certezze del tutto
umane e terrene, che l’uomo proietta al di fuori di sé in una realtà superiore e trascendente –
è finalmente libero da ogni condizionamento, è appunto un “mare aperto”. Scrive Nietzsche:
“Noi filosofi e ‘spiriti liberi’ alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci sentiamo come
illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di
meraviglia, di presentimento, d’attesa, finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero,
anche ammettendo che non è sereno, finalmente possiamo di nuovo scioglier le vele alle
nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo, ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di
nuovo permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è ancora
mai stato un mare così ‘aperto’”(La gaia scienza).
Dunque la filosofia nietzscheana del “sospetto” – cioè caratterizzata dalla demolizione e
confutazione della tradizione occidentale – consiste non solo nella critica della concezione
teologica ovvero del sistema filosofico proprio di questa cultura – appunto il modello
razionalistico-metafisico – ma anche nella contestazione della concezione antropologica che
questa civiltà propone ovvero del tipo di uomo da essa prodotto: “l’individuo anti-vitale e
sottomesso ad autorità costituite”48. Nietzsche infatti propone e delinea un nuovo modello di
uomo: il “superuomo” o l’ “oltre-uomo” (Ubermensch)49. Il superuomo o l’oltre-uomo è un
Ivi, p. 125.
Ibidem.
48
Ivi, p. 115.
49
Il termine tedesco Ubermensch può essere tradotto anche con “oltre-uomo” per sottolineare una
caratteristica peculiare del superuomo, ovvero quella di essere un modello o modo di essere di un
possibile uomo o umanità futura. Si sottolinea e si evidenzia così la diversità tra il superuomo, che
46
47
concetto centrale in cui si risolvono i vari temi della filosofia di Nietzsche: il superuomo è
infatti colui che, preso atto della “morte di Dio” e rifiutata la morale tradizionale, attua una
trasvalutazione dei valori ed accetta la realtà e la vita al di là delle illusioni metafisiche nel
suo carattere caotico e dionisiaco. La nozione filosofica di superuomo sta dunque a
significare ed esprimere il progetto nietzscheano di un nuovo modo d’essere dell’uomo o
dell’umanità. Il superuomo inoltre si pone come “volontà di potenza” – altro concettochiave della filosofia di Nietzsche – che è appunto il modo di essere proprio del superuomo.
La volontà di potenza è “la scoperta e la messa in atto delle infinite potenzialità ancora
insite nella vita dell’uomo e rimaste per secoli mortificate e trascurate in ossequio a valori
puramente negativi”50. E’ proprio perché nell’universo non c’è nessun Essere a cui ci si
debba subordinare, che l’uomo può finalmente sviluppare appieno queste sue infinite e
incommensurabili potenzialità. La volontà di potenza si configura come libertà creatrice,
propria del superuomo: questi si erge al di sopra del caos della realtà ed impone ad essa i
propri significati e valori, così da “ri-creare l’essere a misura della propria oltre-umanità”51.
Scrive infatti Nietzsche: “per conservarsi, l’uomo fu il primo a porre dei valori nelle cose –
per primo egli creò un senso alle cose, un senso umano. Perciò si chiama uomo, cioè: colui
che valuta”. E ancora: “Ogni così fu è un frammento, un enigma, una casualità orrida – fin
quando la volontà che crea non dica anche: ma così volli che fosse! Finché la volontà che
crea non dica: ma io così voglio! Così vorrò!” (Così parlò Zarathustra). La volontà di
potenza ri-creando il mondo, reinvesta incessantemente e costantemente anche se stessa e
dunque consiste nel “continuo superamento che la vita fa di se stessa” 52: “E la vita stessa mi
ha confidato questo segreto. Vedi, – disse, – io sono il continuo, necessario superamento di
me stessa”, “mille sentieri vi sono non ancora percorsi; mille salvezze e isole nascoste della
vita. Inesaurito e non scoperto è ancora sempre l’uomo e la terra dell’uomo”. Anche nei
concetti filosofici nietzscheani di superuomo e di volontà di potenza dunque, come è stato
per tutte le nozioni e temi della filosofia di Nietzsche, emerge la radicale provocazione,
accusa, contestazione e critica della concezione metafisico-razionalistica della civiltà e della
cultura occidentale e l’affermazione e l’esaltazione entusiastica del carattere caotico e
dionisiaco della vita.
si staglia sull’orizzonte del futuro, e l’uomo del presente.
50
F. Adorno, T. Gregory, V. Verra, Manuale di storia della filosofia, vol. III, p. 129.
51
N. Abbagnano, G. Fornero, Fare filosofia, autori, vol. III, p. 130.
52
Ibidem.
3.2.2 L’Inconscio e l’Es di Freud
Sigmund Freud (1856-1939) è il padre fondatore della psicoanalisi, a proposito della
quale si può parlare di una vera e propria “rivoluzione psicoanalitica” 53. Essa assume un
ruolo fondamentale anche dal punto di vista filosofico: “la scoperta dell’inconscio, con tutto
il suo mondo caotico e disordinato di pulsioni istintuali, esito decisivo della ricerca
freudiana, ha avuto altresì la funzione di mettere in crisi ancora una volta (dopo Nietzsche)
la verità della coscienza”54. Così Freud viene considerato, insieme a Marx e a Nietzsche
appunto, uno dei “maestri del sospetto”: egli, proprio come aveva fatto Nietzsche, diffonde
il “sospetto” circa la coscienza, intesa come il lato razionale dell’uomo, e la religione. Nella
tradizione filosofica occidentale prima di Freud la “psiche” veniva identificata con l’
“anima” ovvero la “ragione”, la “coscienza”. La scienza moderna positivista poi, spiega A.
Koyrè, aveva eretto il suo grande edificio “sostituendo al nostro mondo della qualità e delle
percezioni sensibili, il mondo che è teatro della nostra vita, delle nostre passioni e della
nostra morte, un altro mondo, il mondo della quantità”. Aveva cioè “escluso e rimosso […]
il soggetto con lo spessore delle sue istanze, dei suoi bisogni, del suo desiderio […] in
favore dell’oggettività dei fatti”55. Contro la cultura occidentale e il positivismo si era già
mosso Nietzsche, asserendo il valore del corpo e del lato passionale dell’uomo. La
psicoanalisi nasce dunque nel clima della crisi e del disfacimento delle teorie filosofiche
tradizionali e positivistiche. Freud infatti si rifà a Nietzsche: “spero di trovare in lui
[Nietzsche appunto] le parole per tutto quanto resta muto in me” 56. La nascita della
psicoanalisi infatti è segnata dalla scoperta dell’inconscio, inteso come l’insieme delle forze
psichiche operanti al di là della sfera di consapevolezza del soggetto (la psicoanalisi viene
anche definita come “psicologia abissale” o “del profondo”). Contro la concezione della
“psiche” come “ragione” o “coscienza” – propria appunto della filosofia occidentale a
53
54
55
56
N. Abbagnano, G. Fornero, Fare filosofia, temi, vol. III, p. 71.
Ibidem.
Le Garzatine, Filosofia, p. 409.
S. Freud, Lettera a Fliess, 1.2.1900.
partire da Socrate e del positivismo – Freud “afferma invece che la maggior parte della vita
mentale si svolge fuori dalla coscienza e che l’inconscio non costituisce il limite inferiore
del conscio, ma la realtà abissale primaria di cui il conscio (simile alla punta di un iceberg)
è solo la manifestazione visibile. Tant’è vero che l’inconscio viene eletto, dalla psicoanalisi,
a punto di vista privilegiato da cui osservare l’uomo”57.
Freud allora rifiuta e nega la concezione intellettualistica dell’Io come unità semplice
riportabile all’unico centro unificatore che è l’Io cosciente, ed elabora, riguardo
all’articolazione della vita psichica, una prima topica psicologica (studio dei topoi o luoghi
della psiche), esposta nel VII capitolo dell’Interpretazione dei sogni (1900). Nella
scomposizione psicoanalitica della personalità della prima topica Freud distingue tre
metaforici “luoghi” psichici: il conscio, il preconscio e l’inconscio. Il conscio è appunto la
coscienza, la razionalità. Il preconscio comprende l’insieme dei ricordi, che sono solo
momentaneamente inconsci: essi sono infatti accessibili alla coscienza ovvero possono
divenire consci. L’inconscio, che è la parte più profonda della psiche, è l’insieme delle
pulsioni, degli istinti, degli impulsi, dei desideri, delle passioni ovvero il lato cieco e
irrazionale dell’animo umano. Queste forze psichiche inconsce operano al di là della sfera di
consapevolezza del soggetto: questa zona cioè è del tutto separata dalla coscienza in quanto
comprende degli elementi che sono, al contrario di quelli contenuti nel preconscio,
stabilmente inconsci. Questi contenuti sono mantenuti tali (ovvero stabilmente inconsci)
dalla “rimozione”: sono cioè stati rimossi – l’inconscio freudiano infatti coincide con il
“rimosso” – ovvero è stato loro precluso l’accesso al preconscio e alla coscienza, e non
possono mai tornarvi direttamente. La rimozione è dunque uno “sbarramento selettivo tra
inconscio e preconscio-cosciente”, “una sorta di censura”, “un’esigenza di difesa” 58, che
serve a evitare il soddisfacimento di una pulsione.
A partire dal 1920 Freud definisce la pluralità del soggetto o scomposizione della
personalità nella seconda topica psicologica, in cui distingue tre istanze, livelli, zone o
luoghi psichici: l’Es, l’Io e il Super-io. L’Es (termine tedesco che indica il pronome
personale neutro alla terza persona singolare) “è la parte oscura, inaccessibile della nostra
personalità”59. Freud lo definisce come “un calderone di impulsi ribollenti”: è costituito
dalle pulsioni, dagli istinti, dagli impulsi, dai desideri, dalle passioni, è cioè il polo
N. Abbagnano, G. Fornero, Fare filosofia, temi, vol. III, p. 72.
F. Adorno, T. Gregory, V. Verra, Manuale di storia della filosofia, vol. III, p. 229.
59
S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, p. 479.
57
58
pulsionale della personalità, “la forza impersonale e caotica […] che costituisce la matrice
originaria della nostra psiche”60. Riguardo ad esso Freud scrive infatti che il “suo contenuto
è tutto quanto è ereditato, acquisito con la nascita, fissato costituzionalmente, prima di tutto
dunque gli istinti derivanti dall’organizzazione del corpo, i quali trovano qui una prima
espressione psichica a noi sconosciuta nelle sue forme” (Compendio di psicoanalisi, 1939).
L’Es “non conosce né giudizi di valore, né il bene e il male, né la moralità” 61, ma obbedisce
esclusivamente al principio del piacere; Freud spiega infatti che esso esprime “solo lo sforzo
di ottenere soddisfacimento per i bisogni pulsionali nell’osservanza del piacere” 62. Inoltre
l’Es esiste al di là di ogni collocazione spazio-temporale (la sfera in cui si collocano le
passioni – appunto l’Es – è cioè una sfera al di fuori dello spazio e del tempo) e ignora le
leggi della logica, incluso il principio di non-contraddizione (infatti “impulsi contraddittori
sussistono l’uno accanto all’altro, senza annullarsi a vicenda”). Vi è poi il Super-io: “come
precipitato del lungo periodo infantile, durante il quale l’uomo futuro vive in dipendenza dai
suoi genitori, si forma nell’Io una particolare istanza, nella quale si prolunga l’influenza dei
genitori, chiamata Super-io” (Compendio di psicoanalisi). Il Super-io è la coscienza morale
ovvero l’insieme delle norme, dei comandi, dei precetti, dei divieti e delle proibizioni che
vengono impartite all’uomo fin da bambino dai genitori (o da coloro che sostituiscono i
genitori come gli educatori, i modelli pubblici o la società) e che poi lo accompagnano
sempre. Scrive infatti Freud: “Il Super-io è il successore e il rappresentante dei genitori (ed
educatori) che avevano vegliato sulle azioni dell’individuo durante il suo primo periodo di
vita; quasi senza modificarle, esso perpetua le loro funzioni”. L’altra istanza o luogo
psichico di questa seconda tripartizione della psiche proposta da Freud è l’Io:
“originariamente, come strato corticale dotato degli organi per ricevere gli stimoli e delle
strutture per proteggersi dagli stimoli, si è stabilita un’organizzazione particolare, che da
quel momento ha fatto da mediatrice tra l’Es e il mondo esterno”. L’Io è la parte organizzata
della personalità, che si configura come una zona intermedia tra l’Es e il Super-io. Freud lo
definisce come il “servo di tre padroni” che sono l’Es, il Super-io e l’ambiente esterno: l’Io
infatti è l’istanza che deve cercare di equilibrare, soddisfare e conciliare le pressioni, le
esigenze e le pretese opposte e contrastanti dell’Es, del Super-io e della realtà esterna.
“Spinto così dall’Es, stretto dal Super-io, respinto dalla realtà, l’Io lotta per venire a capo
N. Abbagnano, G. Fornero, Fare filosofia, temi, vol. III, p. 73.
S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, p. 480.
62
Ibidem.
60
61
del suo compito economico di stabilire l’armonia tra le forze e gli impulsi che agiscono in
lui e su di lui; e noi comprendiamo perché tanto spesso non ci è possibile reprimere
l’esclamazione: la vita non è facile!” 63 Ma se l’Io non riesce nel suo compito – cioè non
riesce a conciliare queste forze in contrasto fra loro – e ad esempio il Super-io prevale
sull’Es dominando e reprimendo gli istinti, e quindi provoca la rimozione, si ha la
“nevrosi”: le pulsioni che non sono state soddisfatte si manifestano con sintomi nevrotici. Il
compito dell’individuo è allora, secondo Freud, quello di intraprendere un lungo e faticoso
lavoro per annettere all’Io i territori dell’Es, resistendo alle repressive istanze del Super-io:
ovvero un lungo e faticoso lavoro teso al “disvelamento” dei “tesori sepolti nell’interiorità e
nel profondo del soggetto”64. L’attacco che Freud conduce contro la filosofia precedente e la
scienza ottocentesca si configura allora come radicale. Infatti con Freud si ha l’accettazione
dell’inconscio, del lato passionale e istintuale dell’uomo: egli, esploratore delle profondità
psichiche, psicologo dell’istinto, riconosce l’importanza e il ruolo centrale della sfera
pulsionale dell’animo umano. Freud infatti ribadisce che l’essere umano non si esaurisce nel
lato razionale e nella coscienza, che non esiste una manifestazione “pura” del pensiero. Ma
scopre e asserisce che in ogni atto umano si iscrivono forze e spinte che si radicano nei
profondi abissi pulsionali dell’interiorità dell’uomo fino ad allora sconosciuti ed esalta tale
lato inconscio e notturno della vita. Così con Freud viene ribaltata la concezione del
conflitto tra le diverse istanze dell’animo umano (“la psiche è un campo di lotta fra tendenze
contrapposte tra loro”, Introduzione alla psicoanalisi, 1915-17) che la tradizione filosofica
precedente proponeva e completamente modificata la linea di demarcazione che separava,
sempre nel pensiero prefreudiano, il “normale” dall’ “anormale”, ciò che è “razionale” da
ciò che è “irrazionale”.
L’interpretazione dei sogni, opera fondamentale di Freud (“l’opera della mia vita”),
rappresenta “il primo atto di penetrazione” nei territori dell’inconscio, “territori che la
scienza […] aveva rimosso da sé come dominio della follia” 65. Freud ritiene che i fenomeni
onirici, di cui in quest’opera Freud scopre i meccanismi, costituiscano “la via regia che
porta alla conoscenza dell’inconscio nella vita psichica”. Essi infatti, secondo Freud, sono
Questa seconda topica psicologica si configura differente dalla prima, con cui non va confusa.
Infatti, mentre l’Es corrisponde all’inconscio della prima topica, l’Io e il Super-io non possono
essere identificati totalmente con il preconscio e il conscio.
64
Le Garzatine, Filosofia, p. 410.
65
Ivi, p. 409.
63
“l’appagamento (camuffato) di un desiderio (rimosso)”. Il medico viennese distingue,
all’interno dei sogni, un contenuto manifesto, ovvero la scena onirica, e un contenuto
latente, ovvero l’insieme delle tendenze passionali e pulsionali che danno luogo alla scena
onirica. I sogni dunque richiamano e rappresentano dei desideri, sono espressione e
manifestazione dell’inconscio o Es, ma non in forma diretta: si tratta infatti di desideri
inaccettabili dal soggetto, che sono quindi da questo repressi e censurati. “Il contenuto
manifesto dei sogni è” cioè “nient’altro che la forma elaborata e travestita – sotto effetto
della censura – in cui si presentano i desideri latenti. Ma se ogni sogno è la realizzazione di
un desiderio […], l’interpretazione psicoanalitica dei sogni consiste nel ripercorrere a
ritroso il processo di traslazione del contenuto latente in quello manifesto, al fine di cogliere
i messaggi segreti dell’Es”66. Così Freud elabora riguardo al sogno “un vero e proprio
modello di accesso all’inconscio […] che potrà essere esteso anche ad altre manifestazioni
psichiche”67. Nella Psicopatologia della vita quotidiana (1901) infatti Freud estende il
campo d’indagine: analizza ed esamina i microfenomeni della vita di tutti i giorni – quali i
lapsus, le dimenticanze, gli errori, gli incidenti banali, i comportamenti ossessivi, le fobie,
ecc. – che fino ad allora erano stati attribuiti al “caso” e relegati nel campo delle
“distrazioni”, e quindi, in quanto tali, considerati trascurabili. Freud ritiene invece –
“applicando […] il principio del determinismo psichico, secondo cui, nella nostra mente,
nulla avviene in modo fortuito, ma ogni evento è il prodotto necessario di determinate
cause”68 – che anche questi microfenomeni abbiano un significato. Anche essi sono infatti,
come i sogni, una manifestazione ed espressione dell’inconscio. Per quanto riguarda i
lapsus linguae si può fare l’esempio del giovane che dice di apprezzare la “spogliatezza” in
luogo della “spigliatezza” di un’attrice, o quello della bambina che, quando le si chiede di
scegliere tra cioccolata e giocattoli, risponde “cioccolattoli”, ecc.; riguardo poi contrattempi
e incidenti come le dimenticanze Freud ritiene che si dimenticano nomi o si smarriscono
oggetti, in quanto ad essi sono associati sentimenti inconsci dolorosi o spiacevoli. Freud fa
un discorso similare anche a proposito della nevrosi. Anche i sintomi nevrotici infatti sono
una manifestazione ed espressione dell’inconscio: essi rappresentano il tentativo delle
pulsioni, che sono state represse e rimosse, di emergere, di fare ingresso nel conscio.
Dunque secondo il medico viennese nei sogni e nelle forme di attività elencate sopra, in
N. Abbagnano, G. Fornero, Fare filosofia, temi, vol. III, p. 74.
Le Garzatine, Filosofia, p. 409.
68
N. Abbagnano, G. Fornero, Fare filosofia, temi, vol. III, p. 74.
66
67
quanto forme in cui si verifica un affievolimento del controllo della coscienza, emergono le
forze pulsionali inconsce che sono state, dalla coscienza, represse e rimosse; e proprio da
questa repressione e rimozione delle pulsioni inconsce scaturiscono le nevrosi. Così la
“psicologia del profondo” presuppone l’esistenza di una vita istintiva inconscia, le cui
manifestazioni, altrimenti inspiegabili, sono il risultato della repressione o rimozione
appunto di tali istinti e pulsioni. Freud sostiene dunque, contro la concezione razionalistica
tradizionale che afferma il primato della ragione o coscienza, che in ogni atto umano – nella
nevrosi, nel sogno, nel delirio, ecc. – si iscrivono forze e spinte che si radicano nel lato
pulsionale inconscio e notturno dell’interiorità dell’uomo.
Un altro aspetto fondamentale del pensiero di Freud, che è stato anche quello più
“rivoluzionario” e “scandaloso” per la borghesia perbenista dell’epoca, è costituito dalla
teoria freudiana della sessualità. Prima di questo pensatore la sessualità costituiva un tabù,
era cioè qualcosa di “scandaloso” e “sporco” che andava rifiutato e negato; essa infatti
veniva concepita e ammessa solo ai fini della procreazione. Secondo questa visione, spiega
Freud, la sessualità “dovrebbe mancare nell’infanzia, subentrare intorno all’epoca della
pubertà e in connessione con il suo processo di maturazione, esprimersi in fenomeni di
attrazione irresistibile esercitata da un sesso sull’altro; la sua meta dovrebbe essere l’unione
sessuale”. Ma se fosse così non si spiegherebbero “tutte le tendenze psicosessuali differenti
dal coito”69: non si spiegherebbero cioè la “sessualità infantile” (che tratteremo di seguito),
la “sublimazione” – ovvero il trasferimento e la deviazione di un impulso o carica sessuale
su oggetti o elementi non sessuali, come il lavoro, l’arte, la scienza, ecc. – e le
“perversioni”70 – ovvero ogni attività sessuale che “ha rinunciato al fine riproduttivo e
persegue il conseguimento del piacere come fine indipendente”. A Freud quindi va dato il
grande merito di aver ampliato il concetto di sessualità, non più circoscritta e limitata ai fini
riproduttivi. Freud infatti elabora il concetto di “libido”: l’energia o pulsione fondamentale
di natura sessuale che è alla base di tutte le nostre azioni. Lo psicologo dell’inconscio la
concepisce “alla stregua di un flusso migratorio localizzato di volta in volta, in
corrispondenza dello sviluppo fisico, su alcune parti del corpo, dette ‘zone erogene’ ” 71.
All’interno di questa originale, innovativa e rivoluzionaria teoria della sessualità
elaborata da Freud si colloca la dottrina della “sessualità infantile”. Nel pensiero
Ivi, p. 75.
Freud non dà a questo termine una connotazione valutativa, ma solo descrittiva.
71
N. Abbagnano, G. Fornero, Fare filosofia, temi, vol. III, p. 75.
69
70
prefreudiano la sessualità era considerata, proprio in quanto concepita esclusivamente a fini
riproduttivi, una prerogativa dell’età adulta e il bambino veniva concepito come una sorta di
“angioletto asessuato”. Freud demolisce e confuta questa visione della sessualità e del
bambino, con l’attribuzione anche all’infanzia di una forma di sessualità, non più concepita
dunque come circoscritta alla funzione riproduttiva e quindi all’età adulta. Egli infatti
definisce il bambino come “un essere perverso polimorfo” ovvero come “un individuo
capace di perseguire il piacere indipendentemente da scopi riproduttivi (donde la
‘perversione’) e mediante i più svariati organi corporei (donde il ‘polimorfismo’)” 72. Freud
sostiene che l’evoluzione della sessualità infantile – che consente di spiegare la presenza di
perversioni anche nella vita psichica dell’adulto – ovvero lo sviluppo psicosessuale del
soggetto avviene in tre fasi, ognuna delle quali è caratterizzata da una specifica zona
erogena peculiare. La prima fase è la “fase orale”, che va dai primi mesi di vita del bambino
ad un anno e mezzo circa, ha come zona erogena la bocca. In questa fase infatti la principale
attività del bambino, che è dunque anche quella che gli procura piacere, è il poppare (questo
rappresenta il più stretto contatto che il bambino può avere con la madre dopo l’esperienza
traumatica della nascita, in cui egli è stato separato dalla mamma e dal grembo materno,
idilliaco mondo prenatale in cui viveva in simbiosi con lei). La seconda fase, che va da un
anno e mezzo circa a tre anni, è la “fase anale”: la zona erogena peculiare di questa fase è
l’ano. In questo periodo di vita infatti le funzioni escrementizie sono quelle che procurano
piacere al bambino (“tant’è che, preso in braccio e accarezzato, egli tende a rispondere con
un libero sfogo delle funzioni corporali” 73). La terza fase dello sviluppo psicosessuale del
soggetto è la “fase genitale”, che ha inizio alla fine del terzo anno. Al suo interno vanno
distinte due sottofasi: la fase fallica e la fase genitale in senso stretto. La fase fallica viene
chiamata così: “a) perché la scoperta del pene costituisce oggetto di attrazione sia per il
bambino sia per la bambina, che soffrono entrambi di un ‘complesso di castrazione’ (il
primo perché vive sotto la minaccia di una possibile evirazione, la seconda perché si sente
di fatto evirata e prova ‘l’invidia del pene’); b) perché l’organo di eccitamento sessuale è il
pene o quel suo equivalente femminile che è la clitoride” 74. La fase fallica è seguita da un
periodo di latenza, che va dal quarto o sesto anno, ovvero dalla fine della sessualità
infantile, all’inizio della pubertà. Dopo questo periodo di latenza ha inizio la fase genitale in
Ibidem.
Ibidem.
74
Ivi, pp. 75-76.
72
73
senso stretto, durante la quale le pulsioni sessuali si organizzano nelle zone genitali.
All’interno della teoria della sessualità infantile si colloca la dottrina del “complesso di
Edipo”. Il complesso edipico prende il nome dal personaggio della mitologia greca, Edipo
appunto, che uccise suo padre e sposò sua madre. Tale complesso, che si sviluppa durante la
fase fallica, consiste in “un attaccamento ‘libidico’ verso il genitore di sesso opposto e in un
atteggiamento ambivalente (con componenti positive di affettuosità e tendenza
all’identificazione, e componenti negative di ostilità e di gelosia) verso il genitore di egual
sesso” (C. Musatti). Freud descrive così il complesso edipico: “Si vede facilmente che il
maschietto vuole avere la madre soltanto per sé, avverte come incomoda la presenza del
padre, si adira se questi si permette segni di tenerezza verso la madre e manifesta la sua
contentezza quando il padre parte per un viaggio o è assente. Spesso dà diretta espressione
verbale ai suoi sentimenti, promette alla madre che la sposerà. Si penserà che ciò è poca
cosa in confronto alle imprese di Edipo, ma di fatto è abbastanza, in germe è la stessa cosa
[…]. Quando il piccolo mostra la più scoperta curiosità sessuale per la madre, quando
pretende di dormirle accanto la notte, insiste per essere presente alla sua toeletta o
intraprendere addirittura tentativi di seduzione – come spesso la madre può constatare e
riferire ridendo – la natura erotica del legame con la madre è garantita contro ogni dubbio
[…]. Quanto alla femmina, esso [il complesso edipico] si configura in modo del tutto
analogo, con le necessarie varianti. L’attaccamento affettuoso al padre, la necessità di
eliminare la madre come superflua e di occuparne il posto, e una civetteria che mette già in
opera i mezzi della futura femminilità, contribuiscono a dare della bambinetta un quadro
incantevole, che ci fa dimenticare il lato serio e le possibili gravi conseguenze che giacciono
dietro questa situazione infantile. Non trascuriamo di aggiungere che spesso gli stessi
genitori esercitano un’influenza decisiva sul risveglio dell’atteggiamento edipico del
bambino, abbandonandosi anch’essi all’attrazione sessuale e, nel caso che vi sia più di un
figlio, anteponendo nel modo più evidente nel proprio affetto il padre la figlioletta e la
madre il figlio […]” (Introduzione alla psicoanalisi, lez. XXI).
Freud si occupa anche dell’importante tematica della religione, nelle opere Totem e tabù
(1913) e L’avvenire di un’illusione (1927). Secondo Freud la religione non è altro che una
falsità, un’invenzione, una creazione, una costruzione dell’uomo: essa infatti viene
ricondotta a un appagamento del desiderio infantile, persistente nell’individuo adulto, di
protezione dai pericoli della vita. Freud infatti ne L’avvenire di un’illusione scrive che le
“rappresentazioni religiose” sono “illusioni, appagamenti di desideri più antichi, più forti,
più pressanti dell’umanità; il segreto della loro forza è la forza di questi desideri”. La figura
di Dio, Padre ultraterreno ed onnipotente verso il quale si prova amore e venerazione e allo
stesso tempo timore e soggezione, si configura allora come “la proiezione dei rapporti
psichici ambivalenti [ossia di amore e di odio] con il padre terreno”75.
Infine Freud si esprime anche sul tema della civiltà, nella sua opera Il disagio della
civiltà (1929). La civiltà, secondo Freud, “implica un ‘costo’ in termini libidici e di
felicità”76: essa infatti, per poter essere tale, deve reprimere i desideri, le pulsioni e gli istinti
degli individui, e deviarli o “sublimarli” nel lavoro. Il prezzo della civiltà è così la nevrosi,
quale disturbo mentale dovuto appunto alla repressione e rimozione di desideri e pulsioni
non appagate e soddisfatte. Inoltre la società, che rappresenta la prosecuzione dell’opera
paterna, costituisce un Super-io sociale, ovvero un insieme di norme, precetti, proibizioni e
divieti: “Il Super-io della civiltà, come quello individuale, affaccia severe esigenze ideali, il
mancato conformarsi alle quali viene punito con l’angoscia morale” (Il disagio della
civiltà). Anche nelle tematiche della religione e della civiltà, come in tutti gli altri aspetti del
pensiero freudiano, emerge l’attacco radicale condotto da Freud contro la filosofia
razionalistica tradizionale che afferma il primato della ragione o coscienza, e l’importanza,
il ruolo centrale e primario che questo pensatore assegna alla vita istintiva inconscia ovvero
al lato pulsionale e notturno dell’interiorità dell’uomo.
75
76
Ivi, p. 76.
Ibidem.
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