Dalla metafisica all’irrazionalismo di Roberta Rosini Laboratorio Montessori marzo 2011 1. La concezione eteronoma La teorizzazione teologico-metafisica e positiva e la critica del razionalismo La più antica e diffusa teoria filosofica, che caratterizza principalmente la prima fase della storia della filosofia, è la concezione eteronoma. Questa concezione consiste nella teorizzazione dell’esistenza di un’entità e autorità esterna e superiore all’uomo. Secondo questa interpretazione vi è un’indipendenza, un’eterogeneità, una scissione, una separazione tra questo elemento esterno e superiore all’uomo e l’elemento terreno, umano e finito; si stabilisce così un dualismo filosofico, una distinzione e demarcazione netta tra trascendente e terreno, infinito e finito, sovrannaturale e umano, Dio e natura. Secondo questo modello si definiscono quindi due sfere e realtà distinte proprio dal punto di vista ontologico e contrapposte tra loro; si istituisce infatti una dicotomia, una contrapposizione antitetica appunto tra sovrannaturale e naturale, trascendente e terreno, Dio e uomo, superiore e inferiore. La distinzione tra questi due elementi si configura dunque come una vera e propria opposizione, antagonismo, conflitto ed antitesi, in cui la positività, la priorità di valore è assegnata appunto all’Entità suprema e superiore. Infatti il Principio che questa filosofia pone a fondamento della realtà, il Principio primordiale, il fondamento generatore e costitutivo della realtà, la Vita, la Verità, l’Archetipo, corrispondente in qualche modo all’αρχη dei filosofi presocratici, viene rintracciato in questo Essere Supremo, esterno e superiore alla natura e all’uomo. Si teorizza dunque l’esaltazione, il privilegio e la superiorità di tale elemento eteronomo, sovrannaturale e trascendente, contrapposto a quello naturale e umano, considerato inferiore e negativo. Questa spiegazione eteronoma sostiene dunque il ruolo centrale e prioritario, la centralità e la supremazia di questo Ente superiore all’uomo, posto in antitesi rispetto alla natura umana, che si configura invece come il luogo del male e dell’immoralità. Si ha così, in questa concezione eteronoma, la conseguente negazione, rifiuto e repressione dell’elemento naturale e terreno – appunto in quanto risulta negativo e malvagio – da parte di quello ritenuto positivo e superiore. Tale repressione si configura come una vera e propria sopraffazione, prevaricazione, oppressione, sottomissione, dominio e annichilimento dell’Altro, ovvero appunto dell’elemento naturale e umano. All’interno di questa interpretazione eteronoma si possono distinguere due differenti concezioni. La più antica e diffusa è la concezione metafisico-religiosa, secondo cui l’entità e l’autorità di cui si teorizza l’esistenza si configura come un’Entità e un’autorità sovrannaturale e trascendente. Si tratta infatti di una concezione teologica che asserisce appunto l’esistenza di un Ente, un Essere Supremo, di natura sovrannaturale e divina, che si colloca in un orizzonte, in una realtà metafisica e trascendente. Questa concezione dunque sostiene l’esistenza di un Entità, un Essere di tipo metafisico-religioso e consiste appunto in una teorizzazione teologico-metafisica. L’altra concezione eteronoma è la concezione positiva. Questa concezione, rifiutata e negata la possibilità di riconoscere un’autorità metafisica e divina, teorizza un’autorità terrena e positiva. Si tratta dunque di una concezione che rende conto dell’autorità superiore all’uomo in termini mondanizzati, ma che fa riferimento sempre ad una autorità, che quindi, anche se terrena e umana, proprio in quanto autorità si configura sempre come distinta, esterna e superiore rispetto al soggetto, all’essere umano individuale. 1.1 La concezione metafisico-religiosa La più antica e diffusa teoria filosofica, caratterizzante la prima fase della storia della filosofia, è la concezione metafisico-religiosa. Questa concezione teorizza l’esistenza di una realtà o un Essere supremo, sovrannaturale e trascendente. Questa teoria filosofica, che fornisce appunto una spiegazione metafisica ricorrendo ad una realtà divina e trascendente, può essere denominata “soprannaturalismo”. La forma più antica in cui il soprannaturalismo si è realizzato nella storia della filosofia è rappresentata da quello che può essere designato come “soprannaturalismo metafisico”, per distinguerlo da quello a sfondo religioso – che sorgerà più tardi. La prima teorizzazione filosofica di questa spiegazione metafisica si ha in Platone (427-347 a.C.). Questi infatti con la sua concezione filosofica nota come “dottrina delle Idee” teorizza l’esistenza appunto delle “Idee”, ovvero di “Sostanze”, “Essenze” o “Forme” reali delle cose, archetipi o modelli delle cose, in un “mondo iperuranio”, che si configura come una realtà metafisica e trascendente. Il termine filosofico usato da Platone per indicare questo concetto di “Essenza”, “Sostanza”, “Realtà Ultima” o “Sostrato” delle cose è ousia (ουσια). Secondo il filosofo questo mondo di “Essenze”, ingenerate, immutabili ed eterne, costituisce la vera realtà, della quale la realtà sensibile è solo una copia, un riflesso pallido e un’immagine sbiadita. Si ha così in Platone la teorizzazione di una realtà che oltrepassa e trascende l’orizzonte e l’esperienza umana, di un mondo supremo e assoluto di natura ontologicometafisica. Questa tradizione inaugurata da Platone, che caratterizza – come abbiamo detto – la prima fase della storia della filosofia e che si presenta come la più diffusa nel mondo antico, viene ripresa, con trasformazioni più o meno profonde, dalle concezioni religiose. Si parla a questo proposito di “soprannaturalismo religioso”: la realtà e il mondo trascendente e metafisico teorizzato da Platone viene cioè tradotto, mantenendo l’apparato concettuale del soprannaturalismo metafisico, nel Dio delle concezioni teologico-religiose. Questa teoria filosofica dunque rintraccia e individua l’esistenza di un’Entità o Essere Supremo. Con questa autorità superiore si intende qualunque Entità suprema e trascendente: si tratti del Dio di una delle religioni positive, o piuttosto dell’Autore della Natura della religione naturale, o ancora di qualcuna delle divinità minori delle religioni politeistiche. Secondo questa interpretazione il pensiero filosofico è fortemente dipendente dalle credenze religiose, la filosofia è strettamente connessa con la religione. Non si ha cioè un’indipendenza, una distinzione e una separazione tra queste due sfere e ambiti, ma al contrario un’identificazione e una coincidenza tra filosofia e religione, ovvero una riduzione della filosofia alla religione. Così la validità di questa teoria filosofica, che si configura dunque come una concezione teologico-religiosa, il cui nucleo teoretico consiste appunto nella teorizzazione di un’Entità o Essere divino e trascendente, dipende allora fortemente dalla disponibilità di prove dell’esistenza di questa autorità divina presupposta. Questa concezione infatti presuppone e dipende dall’esistenza di Dio e dunque andrà incontro a insormontabili difficoltà, nel momento in cui entra in crisi questa credenza nell’esistenza di un Essere che trascende la natura. Nella modernità questa teoria teologico-religiosa, che asserisce l’esistenza di un’Entità sovrannaturale e divina, viene accolta e sviluppata dagli esponenti del “giusnaturalismo provvidenzialistico” del XVII secolo. In particolare può essere considerata emblematica a questo proposito la posizione del filosofo inglese John Locke (1632-1704), che troviamo espressa specificamente nei suoi Saggi sulla legge naturale (1660-64), ma anche nel Saggio sull’intelletto umano (1690) e negli scritti pubblicati dopo il 1690. In Locke si ha il superamento della metafisica innatistica, inaugurata appunto da Platone e poi ripresa e fatta propria, con trasformazioni più o meno profonde, dal pensiero medioevale e cartesiano. Locke tenta di conciliare la teoria teologico-religiosa, che afferma l’esistenza di un Dio, un Essere supremo, con una spiegazione razionalistica ed empiristica. Egli teorizza infatti una concezione filosofica che asserisce l’esistenza di un Dio, un Ente superiore e supremo che si configura come unico, creatore, reggitore e garante dell’universo e dell’ordine naturale. Dio ha infatti creato l’universo e la natura e ha imposto e instillato nell’uomo l’intelletto, la ragione naturale, che si configura come innata e universale, nel senso di unitaria, comune a tutti gli uomini. La concezione lockeana assegna la positività, la priorità di valore a Dio, Essere Supremo, unico e creatore della natura – da una parte – e alla razionalità, alla natura umana – dall’altra. Così questa concezione, asserendo l’esistenza e la supremazia di Dio quale Ente superiore, fonda la validità, garantisce e spiega l’assolutezza, l’universalità e l’eternità di questo elemento supremo. E allo stesso tempo questa concezione afferma il ruolo centrale e l’esaltazione della ragione e della natura umana, in quanto tutti possono attraverso l’esperienza risalire alla necessità di ammettere l’esistenza di un Dio creatore e legislatore dell’umanità. Questa interpretazione filosofica infatti fonda il valore positivo e la validità dell’elemento razionale facendola derivare dalla conoscenza che, appunto attraverso la ragione, tutti gli esseri umani possono raggiungere dell’Essere o elemento divino – senza dover così presupporre la conoscenza di tale elemento come innata. Si ha dunque in Locke la concezione di una ragione naturale di origine divina: la razionalità umana si configura come creata da Dio – la cui esistenza può essere dimostrata attraverso un processo di conoscenza razionale da parte dell’uomo – e risulta costitutiva della natura umana stessa. Questi scrive infatti: “A me sembra […] che alcune condizioni fondamentali delle cose siano immutabili e che […] abbiano origine dalla necessità, e non possono essere diversamente da come sono, non perché la natura o (per meglio dire) Dio non ha potuto fare l’uomo diversamente da come è fatto, bensì perché una volta fatto in questo modo, guidato dalla ragione e dalle sue altre facoltà, nato per questa condizione di vita, seguono necessariamente dalla sua costituzione originaria […], non possono essere diversi da come sono”1. Locke in questo modo concilia e congiunge due strategie che sono radicalmente differenti: la concezione teologico-religiosa il cui fondamento essenziale e precipuo è di 1 J. Locke, Saggi sulla legge naturale, p. 69. carattere divino e metafisico e quella secondo cui il principio fondamentale, centrale e prioritario consiste invece in un elemento necessario e intrinseco incorporato nella natura umana. 1.2 La concezione positiva L’altra concezione eteronoma è la concezione positiva. Questa teoria filosofica rappresenta un superamento della concezione metafisico-religiosa. Essa rifiuta e nega infatti la possibilità di riconoscere un’autorità metafisica e divina; in questa concezione si ha la negazione e la confutazione dell’esistenza di un’Entità trascendente e sovrannaturale. Il fondamento peculiare su cui si basa questa interpretazione filosofica viene allora rintracciato in un’autorità non più di natura metafisica e divina, ma solo terrena e positiva. Questa teoria rende conto dell’autorità superiore all’uomo in termini mondanizzati: l’autorità si configura infatti come umana, terrena e statuale. Questa concezione dunque traduce l’Ente Supremo della concezione metafisico-religiosa in un’autorità solo mondana e terrena. Si tratta quindi di una strategia di traduzione della concezione dell’Essere trascendente e metafisico nella teoria che rinvia ad un’autorità statuale: pur confutando la natura metafisica e divina del principio peculiare della concezione metafisico-religiosa, questa teoria mantiene tuttavia l’apparato concettuale della concezione religiosa. Si fa infatti riferimento sempre ad una autorità, che quindi, anche se solamente terrena e umana, proprio in quanto autorità si configura sempre come distinta, esterna e superiore rispetto al soggetto, all’essere umano individuale. Questa concezione, che si fonda su un’autorità terrena come principio essenziale e fondamentale, si ritrova già nel XVII secolo in Thomas Hobbes (1588-1679) che, rifiutata appunto la possibilità di far derivare la validità di una concezione filosofica da un’autorità sovrannaturale e divina, cercò di fondarla facendola discendere da un Leviatano2. Tale concezione è caratteristica poi di autori come John Austin (1790-1859) 3 e, nel XX secolo, degli esponenti del “positivismo giuridico”, come Hans Kelsen (1881-1973). In tutti questi pensatori il fondamento essenziale e primario su cui la loro concezione positiva si basa è dunque costituito da un’autorità terrena, umana, statuale e positiva, ovvero dal potere “autorizzato”. 2. Il razionalismo La confutazione della concezione metafisico-religiosa, la teorizzazione razionalistica e la critica del sentimentalismo e dell’irrazionalismo La concezione eteronoma – che è stata esaminata nella sezione precedente (ovvero nella sez. 1, La concezione eteronoma) – rintracciava il principio e il fondamento essenziale e costitutivo della realtà in un’entità e autorità esterna e superiore all’uomo. Secondo questa spiegazione si aveva – come abbiamo visto –un’indipendenza, un’eterogeneità, una separazione tra questo elemento esterno e superiore all’uomo e l’elemento terreno, umano e finito; si stabiliva così una distinzione e una demarcazione netta tra trascendente e terreno, sovrannaturale e umano, Dio e natura. Questa distinzione si configurava come una vera e propria opposizione, antagonismo ed antitesi, in cui la positività, la priorità di valore era assegnata appunto all’Entità suprema e superiore. Si teorizzava dunque l’esaltazione, il privilegio e la superiorità di tale elemento eteronomo contrapposto a quello naturale e umano, considerato inferiore e negativo. Si aveva così la conseguente negazione e La concezione filosofica di Hobbes è in realtà molto complessa e l’interpretazione di essa controversa. Solo alcuni studiosi infatti ritengono che la concezione hobbesiana possa essere ricondotta ad un’autorità positiva riconosciuta; secondo questa interpretazione di Hobbes, il filosofo può essere considerato come un anticipatore di temi sviluppati poi dal “positivismo giuridico”. La posizione hobbesiana è appunto molto complessa in quanto, oltre all’interpretazione di Hobbes secondo cui il filosofo pone al centro della sua concezione un’autorità positiva, altri studiosi propongono anche un’interpretazione che ricava il cardine speculativo e filosofico hobbesiano da un modello razionalistico e contrattualistico. 3 Non si considera qui invece, diversamente da quanto sostengono altri studiosi (come ad esempio M.A. Cattaneo), un sostenitore di questa concezione positiva il filosofo Jeremy Bentham (17481832). 2 repressione dell’elemento naturale e terreno – appunto in quanto risultava negativo e malvagio – da parte di quello ritenuto positivo e superiore; tale repressione si configurava come un vero e proprio annichilimento dell’Altro, ovvero appunto dell’elemento naturale e umano. La teoria del “naturalismo” o “razionalismo” rappresenta un superamento della concezione eteronoma. Anche secondo questo modello infatti – come nella spiegazione eteronoma – si definiscono due sfere e realtà indipendenti, separate e distinte proprio dal punto di vista ontologico, quali appunto l’elemento esterno e superiore all’uomo e l’elemento terreno, umano e finito. Si stabilisce così un dualismo filosofico che si configura anche qui come un antagonismo, una dicotomia e una contrapposizione antitetica tra elementi distinti e opposti tra loro, ovvero appunto tra sovrannaturale e naturale, trascendente e terreno, Dio e uomo. Ma nella teoria naturalistica o razionalistica vi è un ribaltamento e un rovesciamento di questa dicotomia, teorizzata dalla concezione eteronoma. Infatti la positività, la priorità di valore viene assegnata, nella concezione naturalistica e razionalistica, non più all’elemento trascendente, esterno e superiore rispetto alla natura e all’uomo, ma al contrario proprio all’elemento terreno, umano, naturale e finito. Si teorizza allora l’esaltazione, la superiorità e il ruolo centrale e prioritario della natura, finita e immanente, e dell’essere umano, individuale ed autonomo. Si giunge così al riconoscimento e all’affermazione dell’individualismo e dell’autonomia personale, ovvero al riconoscimento dell’importanza e della centralità degli esseri umani e dei soggetti individuali, distinti e indipendenti da una qualche autorità esterna e superiore, sia metafisico-religiosa che positiva e statuale. In particolare l’essere umano viene in questa concezione – che come vedremo verrà a sua volta confutata e superata dal cosiddetto “sentimentalismo” (trattato nella sez. 3) – caratterizzato in termini razionalistici. L’elemento che si distingue e si contrappone a questa entità e autorità suprema, superiore ed esterna è infatti l’essere umano, l’uomo, che in quanto tale si configura come essere razionale. La centralità, il privilegio e la supremazia è dunque assegnata alla natura o ragione umana, ovvero alla facoltà o capacità peculiare dell’uomo di costruire idee e compiere operazioni, ragionamenti, riflessioni e giudizi su di esse. La ragione o razionalità umana rifiuta e nega dunque la possibilità di riconoscere un’autorità, sia essa metafisica e divina o positiva e statuale. Si possono definire infatti naturalistici tutti quegli approcci che rinunciano a ricorrere a entità soprannaturali o comunque trascendenti il mondo dell’esperienza umana e introducono una prospettiva secondo la quale la realtà va compresa e fondata in termini mondani e cioè guardando all’essere umano come essere di questo mondo, come parte della natura stessa. In questa concezione si ha infatti il rifiuto, la negazione e la confutazione di qualunque entità e autorità esterna, superiore e trascendente rispetto alla realtà e all’orizzonte naturale e umano e l’affermazione di un’interpretazione secondo cui la realtà va fondata appunto in termini naturali, terreni, finiti e umani. La concezione eteronoma dunque presenta delle difficoltà interne e risulta per questo erronea e inadeguata. E’ stata infatti criticata, rifiutata e confutata da parte dei sostenitori del naturalismo o razionalismo, proprio per cercare di rendere conto della realtà indipendentemente da una qualche autorità esterna alla persona umana. Esaminiamo qui di seguito brevemente allora le critiche e le obiezioni che sono state mosse alla concezione eteronoma. Per quanto riguarda la strategia che identifica il principio posto a fondamento della realtà in un’Entità divina – già negata e rifiutata in realtà dalla teoria filosofica di un’autorità solo terrena e positiva (cfr. § 1.2) – si riscontrano delle incoerenze e difficoltà interne, proprio a proposito della connessione – esaminata nel § 1.1 – tra la filosofia e la religione; tali incongruenze e contraddizioni costituiscono il presupposto teorico per la confutazione della teoria metafisica e divina. Si rifiuta e si nega infatti la possibilità di ricondurre il principio costitutivo della realtà a un Essere sovrannaturale e trascendente, distinto – come abbiamo detto sopra – dal soggetto individuale ed autonomo, e più radicalmente si nega l’esistenza stessa di tale Essere divino. Si confuta quindi la concezione metafisico-religiosa che definisce il fondamento essenziale e primario della realtà rinviando a un Essere Supremo, o comunque a realtà che oltrepassano l’orizzonte umano e che risolve il problema della spiegazione della realtà in un senso sostanziale e ontologico, spingendosi al di fuori della natura e delle ragioni umane. Si rifiuta quindi un’identificazione, propria invece di questa teoria, tra filosofia e religione, tra spiegazione filosofica e metafisica, e si asserisce l’indipendenza e la separazione tra queste due sfere e ambiti distinti tra loro. Risulta infatti erronea la tesi, assunta dalle concezioni teologico-religiose, dell’esistenza di una vita ultraterrena dopo la morte. Per quanto riguarda poi la critica della teoria di un’autorità positiva, F. Snare4 mostra che concepire come fondamento una qualche autorità positiva, non permettere di distinguere tra posizioni in realtà differenti tra loro: vi è la posizione di chi accetta la forza coercitiva che l’autorità è in grado di utilizzare in quanto 4 Cfr. F. Snare, The Nature of Moral Thinking, pp. 13-30. riconosce legittima l’autorità e la posizione di chi riconosce il valore del soggetto, dell’individuo indipendentemente da una qualche autorità. Risulta dunque erronea e inadeguata qualunque concezione che riconduce il principio fondamentale e costitutivo della realtà ad un’autorità, non rendendo conto dell’autonomia personale. La teoria che teorizza la centralità e la priorità un’autorità statuale, così come un’autorità divina, viene dunque confutata e rifiutata. Va a questo proposito ricordata l’efficace batteria di critiche al riduzionismo del positivismo giuridico elaborata da R. Dworkin (I diritti presi sul serio, 1977). Nella concezione positiva non viene spiegata la genesi del governo legittimo. Non ci si riferisce infatti, in questa teoria, a una genesi che cerchi le ragioni della validità di un certo governo, ma solo a una genesi di ordine storico-fattuale: secondo questa concezione basta accertare il fatto storico se questo governo esiste o meno, e se sia legittimo o no. In conclusione dunque la concezione eteronoma risulta erronea e inadeguata in quanto, riconducendo il principio posto a fondamento della realtà ad un’autorità – sia essa trascendente e metafisica o terrena e positiva – non rende conto dell’autonomia personale, che risulta invece peculiare della vita comune degli esseri umani in quanto soggetti individuali indipendenti da qualsivoglia autorità. Confutata dunque questa interpretazione eteronoma, che rinvia il fondamento primario e costitutivo della realtà ad un ente o autorità esterna e superiore rispetto alla natura e all’uomo, si afferma – come abbiamo spiegato prima – la teoria del naturalismo o razionalismo, che teorizza invece l’esaltazione, la superiorità e il ruolo centrale e prioritario proprio della natura, finita e immanente, e dell’essere umano, individuale ed autonomo, caratterizzato come essere razionale. All’interno di questa concezione, che ricava il principio essenziale della realtà da ciò che è interno all’universo della vita umana, si possono distinguere differenti teorie naturalistiche o razionalistiche. Un primo gruppo di teorie è costituito da quelle concezioni che fanno riferimento a tratti generali della natura o della ragione umana e che quindi forniscono una spiegazione di essa in termini metafisici e ontologici. Si teorizza in queste concezioni infatti un concetto di Natura o Ragione di tipo ontologico-metafisico. Appartengono a questo primo gruppo di teorie, che si possono appunto definire riduzionistiche, quella aristotelica, ripresa poi dalle filosofie tomistiche e neo-tomistiche, e quella del giusnaturalismo razionalistico del XVII secolo. Il secondo gruppo di concezioni radica il principio posto al loro fondamento in tratti specifici della natura o ragione umana, depurata da ogni connotazione metafisica e sostanziale. Si tratta della teoria filosofica di Kant, il cui principio precipuo è ricondotto alla ragione umana, collocata al di fuori di un orizzonte ontologico ed essenzialistico5. All’interno di questa concezione del naturalismo o razionalismo filosofico inoltre si istituisce un altro dualismo filosofico, analogo a quello che abbiamo esposto all’inizio di questo paragrafo (§ 2) tra l’entità o autorità esterna e superiore all’uomo e l’uomo inteso come essere razionale. Si ha infatti una distinzione, indipendenza e separazione tra due elementi differenti ed eterogenei quali appunto la ragione, la razionalità e i sentimenti, le passioni, le emozioni. Si stabilisce dunque un dualismo e una demarcazione netta tra pensare e sentire e quindi tra ragionamento, riflessione, giudizio e sensazioni, percezioni, passioni, emozioni. Secondo questo modello si definiscono allora due sfere distinte che si configurano come contrapposte tra loro: si ha infatti un antagonismo, un conflitto e una contrapposizione antitetica tra ragione e sentimento, mente e corpo, ideale e materiale. La concezione razionalistica infatti teorizza la sostanzialità dell’anima, dell’Io, dell’identità personale, del Sé – caratterizzato in termini di Ragione. Si asserisce la consistenza, la compattezza, l’unità, la coerenza e l’ininterrotto permanere della Coscienza di Sé, dell’Io – che si configura come chiuso in sé stesso, resta confinato in sé stesso – e dunque il fondamento stabile del Sé. Si teorizza dunque l’individualità dell’Io e la sua separatezza appunto dalla sfera passionale ed istintiva dell’uomo, che rappresenta allora l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso. In questa separazione e dicotomia la priorità di valore è assegnata alla razionalità, di cui si afferma appunto l’esaltazione, il ruolo e la posizione di superiorità, supremazia e privilegio. Mentre l’elemento inferiore e negativo è rappresentato allora dalla corporeità, dall’insieme di sentimenti, passioni, emozioni, desideri, pulsioni, impulsi e istinti. Questa sfera passionale e istintuale è propria dell’animalità e proprio in quanto tale è contrapposta appunto alla razionalità caratteristica dell’uomo, rispetto a cui rappresenta appunto l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso. Tale lato passionale ed istintivo si configura In questo secondo gruppo andrebbe annoverato anche il sentimentalismo, ma in questo lavoro lo si è voluto collocare in una sezione successiva a sé stante, proprio per porre in evidenza la distanza e la contrapposizione (di cui si parla già alla fine di questo stesso paragrafo – § 2) di questa concezione filosofica con quella del razionalismo, che risulta analoga a quella tra sovrannaturalismo e razionalismo. Si ritiene infatti che la confutazione e il superamento del razionalismo da parte del sentimentalismo abbiano la stessa portata e valenza dal punto di vista filosofico e concettuale della confutazione e del superamento attuati dal razionalismo nei confronti della concezione metafisica. Inoltre il naturalismo metafisico di Aristotele viene qui annoverato specificamente all’interno del razionalismo, in quanto (come vedremo dopo nel § 2.1) la natura umana si caratterizza, in Aristotele, appunto in termini di ragione. 5 come il lato oscuro dell’uomo, il luogo dell’Immoralità, del Male e del Diavolo in quanto personificazione del Male. Si ha così la conseguente condanna, rifiuto, negazione e repressione dell’emotività, passionalità e istintività – appunto in quanto risulta l’elemento negativo e malvagio – da parte della ragione; tale repressione consiste in un vero e proprio dominio, oppressione, sottomissione, prevaricazione, sopraffazione e annichilimento dell’Altro, del Diverso, ovvero appunto di questa sfera sentimentale, passionale e istintuale. 2.1 Il naturalismo ontologico-metafisico In Aristotele (384-322 a.C.) si trova formulata la concezione del “naturalismo ontologico-metafisico”6. Aristotele critica la concezione idealistico-metafisica di Platone, (cfr. § 1.1) in cui l’Archetipo, il Principio essenziale posto a fondamento della realtà si configurava come trascendente e sovrannaturale rispetto alla natura e all’uomo. Aristotele critica allora la dottrina platonica, secondo cui le Idee, le Sostanze, le Essenze delle cose si collocavano appunto in una realtà superiore e separata dalla natura: secondo Aristotele le Idee o Forme di cui parla Platone esistono, ma non costituiscono una realtà separata, né separabile, dalle cose reali di cui sono forma. Infatti Aristotele ritiene, in polemica con Platone, che se le Essenze o Idee fossero una realtà esistente separatamente (appunto in quanto Essenze e Idee), risulterebbe impossibile per l’uomo acquisire e conoscere tali Essenze. Aristotele attua allora una “naturalizzazione” delle Idee platoniche. Esse infatti vengono ricondotte alle “Sostanze”, “Forme” o“Essenze”, che non si collocano più in una realtà e in un orizzonte trascendente e sovrannaturale, ma sono principi, paradigmi, strutture immanenti delle cose, che risiedono nelle cose stesse, nella natura. In particolare, la “Sostanza”, “Forma”, “Natura” o “Essenza” (ουσια) dell’uomo consiste nella Ragione, nell’attività razionale o intellettiva dell’essere umano. L’attività razionale o intellettiva si configura infatti come la “funzione” (εργον) peculiare dell’uomo. Essa è incardinata in una Il naturalismo ontologico-metafisico di Aristotele viene qui annoverato (come abbiamo già anticipato nella nota 5) specificamente all’interno del razionalismo, in quanto (come vedremo in questo paragrafo – § 2.1) la natura umana si caratterizza, in Aristotele, appunto in termini di ragione. 6 struttura gerarchica che riguarda l’intero universo e che vede al livello più basso le piante, caratterizzate dalla “funzione vegetativa”, seguite poi dagli animali, la cui “funzione” peculiare è quella “sensitiva”, fino a porre al livello superiore appunto l’uomo in quanto essere razionale, caratterizzato cioè dalla sua peculiare ed esclusiva “funzione intellettiva” 7. Per Aristotele dunque l’uomo deve esercitare in modo eccellente la sua propria e precipua funzione, ovvero deve esercitare al meglio ciò che lo distingue dagli altri esseri. E, secondo Aristotele, ciò che specifica l’uomo non può essere la dimensione vegetativa, che è comune anche alle piante, né la dimensione sensitiva, che è comune agli animali; ciò che è proprio dell’uomo è un certo tipo di attività della parte razionale dell’anima. Inoltre questa Ragione, quale Essenza della natura umana, partecipa, secondo il filosofo, della struttura ontologica dell’Essere in generale. La definizione della natura umana consiste dunque nella teorizzazione della natura essenziale e sostanziale dell’uomo. La Natura o Ragione umana viene concepita infatti in Aristotele in termini sostanziali ed ontologici, e si colloca quindi all’interno di un quadro e un orizzonte ontologico-metafisico. Inoltre in Aristotele si ritrova, oltre a questa caratterizzazione ontologica e metafisica della realtà, anche una concezione teleologica o finalistica, secondo cui la natura ha stabilito per ogni cosa e per l’uomo un “fine” (τελος). Ogni cosa infatti tende al raggiungimento del fine cui essa stessa è per sua natura orientata; il processo del divenire delle cose viene da Aristotele interpretato teleologicamente, ovvero come finalizzato alla realizzazione di una forma potenzialmente contenuta già nello stadio iniziale della cosa. Si tratta appunto della “Forma” o “Essenza” – trattata sopra – di quella data cosa, ovvero appunto della sua peculiare “funzione”, che viene quindi a coincidere con il “fine” o “causa finale” della cosa stessa. Scrive infatti Aristotele, riguardo proprio questa sua interpretazione finalistica del concetto di natura: “La natura è il fine: per esempio quel che ogni cosa è quando ha compiuto il suo sviluppo, noi lo diciamo la sua natura, sia d’un uomo, d’un cavallo, d’una casa”8. Nello specifico l’Essenza dell’uomo è rappresentata – come abbiamo visto – dalla La “funzione vegetativa” consiste nella funzione nutritiva e in quella riproduttiva, che sono le due funzioni biologiche per antonomasia; la “funzione sensitiva” comprende la sensibilità e il movimento e infine la “funzione intellettiva” è appunto l’attività razionale propria dell’uomo. In realtà l’essere umano non è “platonicamente” separato dagli altri due livelli, ma si ritrovano nell’uomo anche le due funzioni inferiori (ovvero quella sensitiva e quella vegetativa). Le funzioni più elevate infatti compiono anche le funzioni inferiori: così, ad esempio, nell’uomo l’anima intellettiva compie anche le funzioni che negli animali sono compiute dall’anima sensitiva e nelle piante da quella vegetativa. 8 Aristotele, Politica, I, 2, 1252b 32-34, p. 6. 7 Ragione e dunque il fine degli esseri umani consiste proprio nella realizzazione della loro Natura e Essenza, ovvero appunto della loro natura razionale. Così l’uomo tende alla realizzazione del fine a lui più proprio, ovvero nell’esercizio della sua peculiare funzione o attività intellettiva e razionale. E’ centrale in Aristotele, oltre a questa nozione di “fine” o “causa finale” anche quella di “eudaimonia” (ευδαιμονια). Nella concezione aristotelica infatti ogni essere tende alla realizzazione della sua felicità, della sua eudaimonia, ovvero alla realizzazione della sua Essenza o Forma. Così l’uomo tende alla realizzazione della sua eudaimonia, ovvero alla realizzazione della sua Natura o Essenza, che consiste appunto – come abbiamo visto – nell’esercizio della sua peculiare funzione o attività intellettiva e razionale. La concezione ontologica e teleologica di Aristotele viene ripresa poi da Tommaso d’Aquino (1221-1274); la teoria aristotelica si ritrova dunque, con cambiamenti più o meno profondi, nel tomismo e nel neo-tomismo. Nella tradizione cristiana infatti non è necessario percorrere la strada che rintraccia esclusivamente in Dio quale Essere Supremo e superiore il fondamento della realtà; si può infatti percorrere anche la strategia che vede la natura umana come di per se stessa fornita di quei caratteri propri del principio essenziale e prioritario della realtà. L’Autore della Natura, con la sua bontà e provvidenza, ha creato la natura umana in modo tale da fornirla intrinsecamente di quel particolare télos che le permette di realizzare la felicità e i risultati migliori per gli uomini. La teoria filosofica aristotelica – ripresa, con trasformazioni più o meno profonde, dalle filosofie tomistiche e neo-tomistiche – fornisce dunque una spiegazione e una caratterizzazione ontologica e metafisica della realtà. Il Principio che questa concezione filosofica pone a fondamento della realtà infatti viene ricondotto alla natura essenziale e sostanziale dell’uomo, ovvero al concetto di Ragione umana ontologicamente connotato. 2.2 Il razionalismo ontologico-metafisico Un’altra concezione filosofica è quella che riconduce il Principio fondamentale ed essenziale della realtà non tanto alla natura umana genericamente intesa 9, quanto alla Ragione umana, quale caratteristica precipua e peculiare dell’uomo. La concezione del “razionalismo ontologico-metafisico” radica questa facoltà razionale in un quadro unitario ontologizzante ed essenzialistico. Questa teoria filosofica è infatti caratterizzata da una spiegazione della razionalità umana in termini metafisici e ontologici. All’interno di questa impostazione ontologica e realistica si possono distinguere diverse linee di pensiero. Una derivazione del Fondamento prioritario ed essenziale della realtà dall’attività della ragione si ritrova ad esempio nel “giusnaturalismo razionalistico” del XVII secolo, i cui esponenti principali sono Ugo Grozio (1583-1645), Samuel Pufendorf (1632-1694), T. Hobbes e J. Locke. Questa dottrina filosofico-giuridica sostiene l’esistenza di norme di diritto naturali – ovvero appunto razionali – anteriori a ogni norma giuridica positiva. Si teorizza infatti l’esistenza di una “legge naturale”: essa si configura come un insieme di diritti naturali, inalienabili e universali, che appartengono all’essere umano proprio in quanto essere razionale. Grozio nel De Iure Belli ac Pacis (1625) parla infatti della “retta ragione”, che coglie la “natura delle cose” e che costituisce appunto la fonte da cui deriva la legge naturale10. Il concetto di Ragione si presenta, in questa concezione, come ontologicamente connotato: la razionalità umana si configura infatti come una facoltà ontologicamente garantita, ovvero di natura ontologica e metafisica. Questo concetto di Ragione, ontologicamente connotato, dunque è alla base del tentativo portato avanti dagli esponenti del giusnaturalismo – che appunto si presenta come un vero e proprio giusrazionalismo – di edificare la filosofia come “scienza razionale dimostrativa”. Lo stesso tentativo di fare della filosofia una scienza razionale dimostrativa si ritrova in vari pensatori, in altri aspetti differenti tra loro. Questo progetto di dare vita a una filosofia dimostrata è proprio infatti dei giusnaturalisti – che abbiamo trattato sopra – quali Grozio, Pufendorf, Hobbes e Locke, e anche di altri pensatori come Baruch Spinoza (1632-77) e Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716). Spinoza infatti, in un passo in cui emerge particolarmente proprio la centralità della ragione, scrive: “Gli uomini, dunque, in quanto Si tratta della concezione del “naturalismo ontologico-metafisico” (trattata nel § 2.1), che riconduce il Fondamento della realtà appunto alla natura umana genericamente intesa. La natura umana viene poi caratterizzata, da questa concezione, in termini di ragione (per questo motivo il naturalismo ontologico-metafisico viene in questa tesina annoverato all’interno del razionalismo – vedi note 5 e 6). 10 Cfr. U. Grozio, De Iure Belli ac Pacis. 9 vivono secondo la guida della ragione, in tanto soltanto fanno necessariamente quelle cose che sono necessarie per la natura umana e, conseguentemente, per ogni uomo, e cioè quelle cose che concordano con la natura di ogni uomo; e perciò gli uomini anche tra di loro, in quanto vivono secondo la guida della ragione, concordano sempre necessariamente” 11. Un’altra linea lungo la quale è stata percorsa la strategia razionalistica e un altro tentativo di presentare la filosofia come una scienza razionale dimostrativa è rappresentato dai “razionalisti realisti” del XVII secolo, quali Samuel Clarke (1675-1729) e William Wollaston (1659-1724). Si tratta di un razionalismo caratterizzato da una spiegazione realistica: esso dà infatti una portata realistica alle conclusioni filosofiche scoperte mediante la ragione. La ragione opera accertando se vi è accordo tra le idee e la realtà, coglie il collegamento veritativo tra le idee e i fatti. Secondo questa concezione dunque la Verità è riconoscibile individuando quali sono le relazioni adeguate alle cose in se stesse e dunque è ricondotta a una relazione di adeguatezza tra le idee e le cose. Si sostiene quindi che la Verità si trova in una qualche relazione tra le cose e che la ragione sia la facoltà che permette di scoprire questa Verità. Si tratta infatti di una concezione “realistica” 12 e oggettivistica, che teorizza appunto l’esistenza di fatti e verità nel mondo del tutto indipendenti da noi. Il “realismo” si accompagna, dal punto di vista conoscitivo e gnoseologico, alla concezione del “cognitivismo” 13 , secondo cui i giudizi descrivono appunto fatti e proprietà del mondo e sono quindi “veri” o “falsi” (il linguaggio viene cioè considerato come un linguaggio descrittivo). E’ propria allora di questo modello la teorizzazione dell’esistenza di una qualche intuizione o facoltà che permetta di scoprire e conoscere in modo assoluto e compiuto delle specifiche proprietà del mondo. Secondo i razionalisti realisti la facoltà che permette di scoprire questi fatti o verità è appunto la ragione umana. L’assunzione, propria di questa concezione, che vi sia una Verità oggettiva ed esterna all’uomo che consiste in una qualche relazione tra le cose sarà fortemente criticata dal pensiero successivo. L’altra assunzione presupposta dai razionalisti realisti, B. Spinoza, Etica. Dimostrata con metodo geometrico, p. 254. Questa concezione del realismo è propria, naturalmente, di tutte le teorie filosofiche finora trattate, ovvero della concezione eteronoma (sia nella forma religiosa che in quella statuale), del naturalismo ontologico-metafisico e appunto del razionalismo ontologico-metafisico. 13 Questa concezione gnoseologica ed epistemologica del cognitivismo, accompagnandosi (come abbiamo detto in questo paragrafo) alla concezione del realismo, è propria di tutte le teorie filosofiche in cui si ritrova appunto una concezione realistica, e dunque in tutte quelle finora trattate (vedi nota 12): la concezione eteronoma (sia nella forma religiosa che in quella statuale), il naturalismo ontologico-metafisico e appunto il razionalismo ontologico-metafisico. 11 12 propria anche (come abbiamo visto nel paragrafo precedente, ovvero nel § 2.1) del naturalismo ontologico-metafisico, è che esista la grande “catena dell’essere”, secondo cui gli esseri sono ordinati secondo una struttura gerarchico-piramidale che riguarda l’intero universo. In questa scala gerarchica il livello più basso è occupato dalle piante, seguite poi dagli animali, fino ad arrivare al livello superiore in cui si colloca l’uomo appunto in quanto essere razionale. Questa teoria che sostiene l’esistenza della catena dell’essere istituisce distinzioni ontologiche, eterne e necessarie tra gli esseri e si configura come una concezione antropocentrica. Anche questa tesi della gerarchia tra gli esseri, propria dunque di un modello antropocentrico quale appunto il razionalismo, verrà rifiutata e confutata dal pensiero successivo. 2.3 Il razionalismo dell’autonomia Un’altra concezione filosofica che spiega il Principio fondamentale e prioritario della realtà rinviandolo alla ragione umana, che cioè riconduce la spiegazione della realtà ai verdetti della ragione, è quella del “razionalismo dell’autonomia”, teorizzata da Immanuel Kant (1724-1804). Questa teoria filosofica radica il Fondamento della realtà non più in tratti generali della natura o della ragione umana 14, ma specificamente nella ragione umana collocata al di fuori di un orizzonte ontologico ed essenzialistico. In Kant infatti si ha a che fare non più con la struttura essenziale del mondo, quanto piuttosto con la razionalità pratica umana. Il concetto di ragione umana proprio di questa concezione è depurato da ogni connotazione metafisica, ontologica o sostanziale; questa forma di razionalismo si colloca così al di fuori di un quadro unitario, metafisico, essenzialistico o dimostrativo. La ragione in Kant si configura allora come una sfera autonoma rispetto alla dimensione della fede religiosa: il filosofo infatti denuncia come ‘spurio’ ed eteronomo il principio della realtà fondato attraverso questa via. Si giunge dunque con Kant al riconoscimento e alla salvaguardia dell’autonomia della ragione dalla religione. Il Fondamento della realtà veniva ricondotto a tratti generali della natura o ragione umana rispettivamente nella concezione del “naturalismo ontologico-metafisico” (§ 2.1) e nella concezione del “razionalismo ontologico-metafisico” (§ 2.2). 14 Ma nella concezione kantiana l’autonomia, pur essendo rivendicata e riconosciuta rispetto al piano religioso, non trova un’attuazione e una realizzazione completa. Secondo Kant la ragion pratica, attraverso la rappresentazione della legge morale, costituisce il movente della volontà. Questa legge morale si configura come generale, universale, formale, oggettiva, “a priori”. In particolare il principio pratico che guida l’agire umano è l’ “imperativo categorico”, formulato appunto dalla razionalità pratica umana. Esso prescrive di agire soltanto secondo quella massima15 che si può volere che diventi anche una legge universale e si caratterizza quindi come un principio che vale indistintamente per ogni essere morale, come un principio oggettivo, universale, a priori. Secondo la concezione kantiana dunque tale principio ha un carattere e una natura universale, oggettiva, generale, formale, a priori e la volontà dell’uomo si caratterizza come una volontà umana generale. Il Fondamento della filosofia di Kant si colloca allora in una dimensione “trascendentale”: il soggetto si configura infatti come un Soggetto sovraindividuale astorico, la cui peculiare razionalità si caratterizza appunto come trascendentale, universale e assoluta. Questa teoria filosofica, come anche le teorie precedenti, si presenta allora come una concezione riduzionistica. L’autonomia infatti in Kant – come abbiamo accennato sopra – pur essendo rivendicata e riconosciuta rispetto al piano religioso, non trova un’attuazione e una realizzazione completa. La ragione viene ridotta a una struttura di pensiero del tutto formale; non si spiega allora come la razionalità umana, intesa così “formalisticamente”, possa proporsi concretamente, effettivamente, come motivo di determinazione ovvero come movente della volontà. Questa concezione della razionalità come trascendentale, universale, formale, assoluta, sovraindividuale e astorica non rende conto dell’autonomia individuale del soggetto finito e mortale, ovvero dei singoli esseri umani finiti, determinati, storici e individuali. Emerge dunque che in questa concezione del razionalismo dell’autonomia, caratterizzata appunto dall’uso di una nozione come quella di “trascendentale”, persistono e permangono tendenze e assunzioni ontologizzanti, essenzialistiche, sostanziali e metafisiche16. Questa concezione razionalistica è caratterizzata dalla negazione della riconducibilità del principio fondamentale e primario della realtà e della natura umana a sentimenti, emozioni ed istinti degli uomini. Si istituisce infatti (come si è spiegato a proposito del razionalismo La “massima” è un principio pratico di valore puramente soggettivo, ovvero valido solamente ed esclusivamente per l’individuo che la fa propria. 16 La razionalità kantiana può infatti essere designata come una “ragione metafisica”. 15 in generale – vedi § 2) un dualismo filosofico, una separazione e una dicotomia tra due elementi distinti e contrapposti tra loro quali appunto la razionalità e i sentimenti, le passioni, le emozioni, gli istinti e gli impulsi. In questa contrapposizione antitetica la priorità di valore è assegnata alla ragione, di cui si teorizza appunto l’esaltazione, la posizione di superiorità, supremazia e privilegio. L’elemento inferiore e negativo è rappresentato dalla sfera passionale e istintuale propria dell’animalità, che proprio in quanto tale è contrapposta appunto alla razionalità peculiare dell’uomo, rispetto a cui rappresenta l’Alterità, l’Altro, il Diverso. Si teorizza così la condanna, la negazione, il rifiuto e la repressione dell’emotività, della passionalità e dell’istintività – appunto in quanto risulta l’elemento negativo – da parte della ragione. Il razionalismo, e in particolare quello kantiano, individua dunque il fondamento della realtà e della natura umana nella ragione in quanto parte migliore, più alta e superiore della natura umana. Mentre rifiuta di assumere sentimenti, passioni o emozioni – che si configurano come particolari, parziali, individuali, soggettivi ed egoistici – come criterio di spiegazione della realtà e dell’uomo, proprio per poter garantire l’universalità, l’imparzialità e l’assolutezza di tale principio cardine della realtà. Così secondo Kant i sentimenti, le passioni e i desideri non devono costituire il movente delle azioni umane, ma è la ragione che deve muovere e spingere all’agire. La volontà umana infatti può essere mossa sia dai desideri e dalle passioni che dalla razionalità. Ma perché l’agire umano sia un agire morale, la volontà non deve essere soggetta al dominio delle passioni, ma deve seguire i dettami della ragione. E, secondo Kant, si deve agire secondo ragione e non spinti da desideri e pulsioni perché siamo esseri liberi: Kant infatti stabilisce, sul piano metafisico, che la libertà è ratio essendi della moralità17. Secondo questa concezione “libertarista” la moralità non può essere spiegata in base alla necessità causale (come invece volevano i sostenitori del “determinismo”): si nega cioè che i motivi che determinano causalmente l’azione – ovvero i desideri e le passioni – possano valere come moventi dell’agire. Così la ragione è l’unica via che consente la libertà: infatti l’operare della ragione garantisce la libertà in quanto la volontà, agendo secondo ragioni, non è necessitata da fattori esterni, ovvero appunto da sentimenti, le pulsioni e i desideri. Dunque nella concezione kantiana per spiegare il principio fondamentale della realtà e della natura umana non si ricorre a emozioni, desideri o passioni, ma esso è ricondotto esclusivamente alla ragione. Scrive infatti Kant: “La regola pratica è sempre un prodotto 17 Cfr. I. Kant, Critica della ragion pratica, p. 95 nota. della ragione, perché prescrive l’azione come mezzo rispetto all’effetto che costituisce il fine. Ma in un essere per il quale il motivo determinante della volontà non è esclusivamente la ragione, questa regola è un imperativo, cioè una regola caratterizzata da un dover essere esprimente la necessità oggettiva dell’azione; questa regola sta a significare che, se la ragione determinasse interamente la volontà, l’azione avrebbe luogo infallibilmente secondo questa regola. […] Le leggi debbono determinare sufficientemente la volontà in quanto volontà, prima ancora che io mi chieda se ho la capacità richiesta per produrre l’effetto desiderato o ciò che occorre per produrlo. Perciò esse debbono essere categoriche: in caso diverso non sono leggi, facendo loro difetto la necessità che, in quanto pratica, deve risultare indipendente da ogni condizione patologica, perciò da ogni condizione connessa incidentalmente alla volontà. […] Affinché la ragione possa dar leggi, occorre che essa abbia bisogno di presupporre solo se stessa; infatti la regola è oggettiva e fornita di valore universale solo quando vale a prescindere dalle condizioni accidentali e soggettive che distinguono un essere razionale da un altro. Se poi si trova che questa regola è praticamente giusta, si tratterà di una legge, perché è un imperativo categorico. Dunque le leggi pratiche non fanno riferimento che alla volontà, indipendentemente da ciò che è effettuato mediante la sua causalità; e si può far astrazione dalla causalità (perché appartenente al mondo sensibile) per averle nella loro purezza” 18. Questa concezione razionalistica kantiana, che nega i desideri individuali e le pulsioni emotive, va incontro a delle difficoltà. Essa infatti, asserendo che la vera natura dell’uomo si realizza quando l’individuo si distacca dai propri desideri ed emozioni, sostiene un “paradosso”: vuole fornire una teoria delle ragioni per gli individui, ma le concepisce come richieste di una ragione metafisica che è di per sé indifferente a ciò che i singoli individui trovano ragione di fare nelle loro condizioni ordinarie (imperfette, nel linguaggio kantiano). Il razionalismo infatti crea una divisione e una scissione – analoga a quella che si ritrova nelle concezioni metafisiche – tra il contesto ordinario e il contesto perfetto, il mondo sovrasensibile perfetto ovvero tra l’io che ha desideri e pulsioni e l’io in quanto soggetto della riflessione razionale. Il razionalismo dunque teorizza un’astrazione e un’ immunizzazione dalla molteplicità dei sentimenti, passioni, emozioni e desideri che governano l’io; ma questa astrazione e immunizzazione 18 I. Kant, Scritti morali, pp. 154-155. dalla sfera sentimentale e passionale risulta poco plausibile (come sostiene il sentimentalismo, trattato nella prossima sezione – sez. 3)19. 3. Il sentimentalismo e l’irrazionalismo La confutazione del razionalismo e la teorizzazione sentimentalistica e irrazionalistica 3.1 Il sentimentalismo Il razionalismo – esaminato nella sezione precedente (sez. 2) – rintracciava il Fondamento essenziale e costitutivo della realtà nella razionalità umana. Secondo questa spiegazione si aveva – come abbiamo visto – un’indipendenza, un’eterogeneità, una separazione tra questo elemento razionale e la sfera sentimentale, emotiva e istintuale. Si stabiliva così un dualismo filosofico, una distinzione, una demarcazione netta tra pensare e sentire e dunque tra ragionamento, riflessione, giudizio e passioni, emozioni, desideri e istinti. La concezione razionalistica infatti teorizzava la sostanzialità dell’anima, dell’Io, dell’identità personale, del Sé – caratterizzato in termini di Ragione. Si asseriva la consistenza, la compattezza, l’unità, la coerenza e l’ininterrotto permanere della Coscienza di Sé, dell’Io – che si configurava come chiuso in sé stesso, restava confinato in sé stesso – e dunque il fondamento stabile del Sé. Si teorizzava dunque l’individualità dell’Io e la sua separatezza appunto dalla sfera passionale ed istintiva dell’uomo, che rappresentava allora l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso. Questa distinzione si configurava come una vera e propria opposizione, antagonismo ed antitesi, in cui la positività, la priorità di valore era La concezione kantiana ha avuto grande fortuna nel XX secolo. Viene infatti ripresa da pensatori, differenti tra loro, quali John Rawls, Hilary Putnam, Karl Otto Apel, Thomas Nagel. Questi cercano di depurarla dalle assunzioni e tendenze ontologico-metafisiche in essa presenti, elaborando così posizioni filosofiche non molto lontane da quelle degli esponenti del “prescrittivismo non cognitivistico” (è importante ricordare a questo proposito la confluenza di un’eredità kantiana esplicitamente denunciata nella posizione non-cognitivista di Richard Mervyn Hare). 19 assegnata appunto alla ragione; si asseriva dunque l’esaltazione, il privilegio e la superiorità di tale elemento razionale contrapposto a quello sentimentale, passionale e istintivo considerato inferiore e negativo. Infatti la corporeità, l’insieme di sentimenti, passioni, emozioni, desideri, pulsioni, impulsi e istinti costituiva – secondo questa concezione filosofica – una sfera propria dell’animalità e proprio in quanto tale veniva contrapposta appunto alla razionalità caratteristica dell’uomo, rispetto a cui rappresentava appunto l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso. Tale lato passionale ed istintivo si configurava come il lato oscuro dell’uomo, il luogo dell’Immoralità, del Male e del Diavolo in quanto personificazione del Male. Si aveva così la conseguente negazione e repressione dell’elemento passionale e istintuale – appunto in quanto risultava negativo e malvagio – da parte di quello positivo e superiore, ovvero la razionalità umana; tale repressione si configurava come un vero e proprio dominio, oppressione, sottomissione, prevaricazione, sopraffazione e annichilimento dell’Altro, del Diverso ovvero appunto della sfera sentimentale, emotiva e istintiva dell’uomo. La teoria filosofica del “sentimentalismo” rappresenta un superamento delle concezioni razionalistiche. Anche secondo questo modello infatti – come nel razionalismo – si definiscono due sfere e realtà indipendenti, ontologicamente separate e distinte, quali appunto l’elemento razionale e l’elemento sentimentale, passionale, istintivo. Si stabilisce così un dualismo filosofico che si configura anche qui come un antagonismo, una dicotomia e una contrapposizione antitetica tra elementi distinti e opposti tra loro, ovvero appunto tra ragione e sentimento, mente e corpo, pensare e sentire, ideale e materiale. Ma nel sentimentalismo vi è un ribaltamento e un rovesciamento di questa dicotomia, teorizzata dalla concezione razionalistica. Infatti la positività, la priorità di valore viene assegnata, nel sentimentalismo, non più all’elemento razionale, ma al contrario proprio all’elemento sentimentale, emotivo ed impulsivo. Si teorizza allora l’esaltazione, la superiorità e il ruolo centrale e prioritario del lato passionale, dell’insieme di sentimenti, passioni, emozioni, desideri, pulsioni, impulsi e istinti. In questa teoria filosofica infatti si ha la negazione della sostanzialità dell’anima, dell’Io, dell’identità personale, del Sé – che si configurava appunto come chiuso in sé stesso, restava confinato in sé stesso. L’individualità del Sé e la sua separatezza dagli istinti ed emozioni – che rappresentano appunto l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso – è, secondo questa concezione, un’illusione, un’invenzione, una costruzione e una creazione dei sistemi metafisico-religiosi e di quelli razionalistici. La consistenza, la compattezza, l’unità, la coerenza e l’ininterrotto permanere della Coscienza di Sé, e dunque il fondamento stabile dell’Io, viene quindi a dissolversi, viene meno, viene minato, oscurato e negato. Infatti l’Alterità, l’Altro – dove per ‘Altro’ si intende sia l’Altro che ci è di fronte, sia, soprattutto, l’Altro che è in noi ovvero appunto l’insieme delle nostre passioni, pulsioni, istinti e desideri20 – non resta confinato, ma tende a invaderci: il nostro Sé è intessuto di Altro, è permeato dall’Altro. Questo modello filosofico rifiuta dunque la concezione razionalistica secondo cui l’Altro è un’entità esterna e differente dal Sé e teorizza l’introiezone dell’Altro, la concezione ‘dividuale’ della soggettività. Il sentimentalismo rifiuta e nega quindi la possibilità di riconoscere la ragione quale Principio primario e fondamentale della realtà e della natura umana. In questa concezione si ha infatti il rifiuto, la negazione e la confutazione della tesi secondo cui il Fondamento centrale ed essenziale della realtà e della natura umana vada ricercato nella ragione e l’affermazione di un’interpretazione secondo cui tale Fondamento va rintracciato nel sentimento. La filosofia tradizionale ha sempre considerato la ragione come la parte superiore, migliore e più alta dell’uomo, quasi una parte eterna e di origine divina, mentre le passioni e gli istinti come sinonimo di cecità, incostanza e falsità. Scrive infatti David Hume (17111776), uno degli esponenti del sentimentalismo del Settecento: “Non c’è nulla in filosofia, e anche nella vita quotidiana, che parlare del conflitto tra passione e ragione per dare la palma alla ragione […]. Si sostiene che ogni creatura razionale ha l’obbligo di regolare la proprie azioni secondo i dettami della ragione: e che nel caso in cui ci sia qualche altro motivo che pretenda di determinare la sua condotta, deve opporsi a esso finché non sia completamente domato o almeno conciliato con quel principio superiore. La maggior parte della filosofia, antica e moderna, sembra fondarsi su questo modo di pensare; e non c’è nulla che offra maggior spazio sia alle disquisizioni metafisiche, come alle declamazioni popolari, quanto questa presunta superiorità della ragione sulla passione” 21. Ma il sentimentalismo toglie alla ragione questa posizione di privilegio e superiorità, abbandona e confuta la tesi secondo cui il Principio essenziale e fondamentale della realtà e della natura umana consiste nella facoltà della ragione22. Infatti, mentre il razionalismo non tiene conto della vita sentimentale e Infatti il tema del rapporto con l’Altro viene a configurarsi come caratteristico della nostra stessa interiorità, le problematiche dell’intersoggettività si ritrovano dentro di noi, all’interno del nostro stesso Sé. 21 D. Hume, Trattato sulla natura umana, pp. 433-434. 22 Con la negazione della ragione quale Fondamento essenziale costitutivo della realtà e della natura umana si rifiuta anche la strategia kantiana di rintracciare tale Fondamento nella peculiare 20 passionale, il sentimentalismo ritiene che non sia possibile spiegare e rendere conto della natura umana prescindendo dai sentimenti e dai desideri. Per quanto riguarda la motivazione infatti, il sentimentalismo empiristico spiega la natura dei motivi che spingono all’agire ricorrendo a sentimenti e passioni. D. Hume, uno degli esponenti del sentimentalismo del Settecento, indaga su quali tipi di operazioni mentali abbiano la capacità di influenzare la volontà, di muovere e spingere all’agire e individua due differenti operazioni presenti nell’uomo: la ragione e le passioni. “La ragione serve a scoprire la verità o l’errore”, che “consistono in un accordo o in un disaccordo o con le reali relazioni delle idee, o con l’esistenza e i dati di fatto reali”23. La ragione dunque opera accertando se vi è accordo tra la connessione delle idee e la realtà; ma il movente delle azioni deve avere natura pratica, per poter appunto spingere all’agire. Così la ragione, che invece opera accertando la verità o la falsità, non può avere influenza sulla volontà, non può essere il movente delle azioni umane. La ragione risulta dunque una facoltà “contemplativa” ovvero “inattiva”, “impotente” e “inerte” 24. Mentre la passione si configura come “un’esistenza originaria, o, se preferite, una modificazione originaria, e non contiene nessuna qualità rappresentativa che ne faccia una copia di una qualunque altra esistenza o modificazione”25. Le passioni e gli impulsi cioè, al contrario della ragione, sono dei fatti o realtà originarie, non hanno carattere rappresentativo, non sono né veri né falsi 26; e sono questi pertanto che hanno una natura attiva e che costituiscono il movente delle azioni. Così il sentimentalismo empiristico critica la tesi secondo cui il “movente di un’azione possa essere la considerazione che noi facciamo di quell’azione”; infatti “le azioni umane si spiegano non facendo ricorso a regole, a principi astratti, a valutazioni o considerazioni, che sono tutte cose che intervengono dopo l’azione, quando essa è già stata prodotta; bisogna far ricorso invece a moventi naturali, a concreti bisogni ed interessi e passioni piantate nella natura dell’uomo; essi sono dei principi attivi, degli impulsi, delle energie originarie” 27. razionalità pratica (nel sentimentalismo empiristico inglese, che nasce e si sviluppa nella prima metà del Settecento, si ritrova dunque, oltre al rifiuto e alla confutazione del razionalismo precedente, anche una critica ante litteram del razionalismo kantiano). 23 D. Hume, Trattato sulla natura umana, p. 484. 24 M. Dal Pra, Hume e la scienza della natura umana, pp. 245, 247. 25 D. Hume, Trattato sulla natura umana, p. 436. 26 In un linguaggio filosofico contemporaneo, possiamo dire che le passioni e gli impulsi sono stati desiderativi, e dunque, in quanto tali, non consistono in una forma di credenza, ovvero di rappresentazione delle cose. 27 M. Dal Pra, Hume e la scienza della natura umana, pp. 246-247. L’elemento prioritario della realtà e della natura umana dunque, secondo la concezione del sentimentalismo empiristico, non consiste nell’attività della ragione, ma nell’operare delle passioni: Hume asserisce infatti che “la ragione non può mai contrapporsi alla passione nella guida della volontà”28 e conclude con la celeberrima affermazione che “la ragione è, e deve solo essere, schiava delle passioni”29. Secondo il sentimentalismo empiristico dunque la natura dell’uomo è caratterizzata da un insieme di sentimenti, passioni, desideri ed istinti. Questa teoria critica dunque la tesi razionalista secondo cui per spiegare la realtà e la natura umana bisogna ricorrere alla ragione. La ragione infatti – come abbiamo visto sopra – si configura come una facoltà che coglie una serie di relazioni tra idee o fatti. Ma la moralità, il Bene non consiste in nessun dato di fatto o in nessuna relazione tra le cose che si possa scoprire con la ragione o l’intelletto. Per spiegare e dimostrare questa tesi Hume fa gli esempi del parricidio e dell’omicidio premeditato: “Quindi, per sottoporre tutta la questione a tale prova, scegliamo un oggetto inanimato, come una quercia o un olmo; supponiamo che con la caduta dei suoi semi esso faccia germogliare ai suoi piedi un alberello che, crescendo progressivamente, alla fine sorpassi e distrugga l’albero genitore; mi domando: in questo caso risulterebbe mancante una qualche relazione, rintracciabile invece nel parricidio o nell’ingratitudine? L’uno non è forse la causa dell’esistenza dell’altro? E il secondo non è forse la causa della distruzione del primo, allo stesso modo di quando un figlio uccide suo padre? Non basta replicare che manca una scelta o una volontà. Infatti nel caso del parricidio la volontà non genera delle relazioni differenti, ma rappresenta solo la causa da cui procede l’azione, e di conseguenza la volontà produce le stesse relazioni che, per la quercia o per l’olmo, sorgono da altri principi. Sono la volontà o la scelta che determinano un uomo a uccidere suo padre, e sono le leggi della materia e del moto che determinano un alberello a distruggere la quercia da cui è nato. Quindi le medesime relazioni hanno qui cause differenti, ma pur tuttavia le relazioni sono sempre le stesse: e poiché la loro scoperta in entrambi i casi non si accompagna con una nozione di immoralità, ne deriva che questa nozione non nasce da tale scoperta”30. E ancora: “Prendiamo un’azione ritenuta viziosa, ad esempio un omicidio premeditato; esaminiamola da tutti i punti di vista e vediamo se riusciamo a scoprire il dato di fatto, o esistenza reale, che chiamiamo vizio. In qualsiasi maniera la prendiate troverete D. Hume, Trattato sulla natura umana, p. 434. Ivi, p. 436. 30 Ivi, p. 494. 28 29 solo certe passioni, motivi, volizioni e pensieri; non vi sono altri dati di fatto. Il vizio sfuggirà completamente fino a quando considerate l’oggetto. Non potrete mai scoprirlo fino a che non volgerete la vostra riflessione al vostro cuore in cui troverete che è sorto un sentimento di disapprovazione nei confronti di questa azione. Ecco allora un dato di fatto, ma oggetto di sentimento e non della ragione. Esso si trova in voi, non nell’oggetto. Così, quando dichiarate viziosa un’azione o un carattere, non intendete dire niente altro che, data la costituzione della vostra natura, voi provate un senso o un sentimento di biasimo nel contemplarli. Il vizio e la virtù possono, perciò, essere paragonati ai suoni, ai colori, al caldo e al freddo che, secondo la filosofia moderna, non sono qualità degli oggetti, ma percezioni della mente”31. Dunque la morale non consiste né in un dato di fatto né in una relazione tra le cose che possa essere colta dalla ragione. Il sentimentalismo empiristico nega dunque la tesi che rintraccia il principio costitutivo della realtà e della natura umana nella ragione e riconduce tale principio al sentimento: “la morale, perciò, è più propriamente oggetto di sentimento che di giudizio”32. All’interno del sentimentalismo empiristico, che rintraccia appunto il fondamento della realtà e della natura dell’uomo non più nella ragione ma nel sentimento, si possono distinguere diverse posizioni, anche molto lontane tra loro. L’iniziatore di questo filone sentimentalistico del Settecento è Anthony Ashley Cooper Shaftesbury (1671-1713). Questi asserisce, attraverso una ricognizione empirica degli esseri umani, il ruolo centrale delle passioni nella natura dell’uomo e, in particolare, l’esistenza nella natura umana di un “senso” o “sentimento morale”: esso si configura come un sentimento, istinto o senso originario, immediato e diretto, comune a tutti gli uomini, di ciò che è bene o giusto. Un elemento peculiare del sentimentalismo di Shaftesbury consiste nel fatto che questo sentimento si accompagna con il peculiare piacere che ciascuna creatura umana prova quando si sente con le sue azioni in piena armonia con il tutto: ovvero sente che le sue azioni affermano la superiorità dell’interesse del mondo in generale rispetto all’interesse particolare. Il sentimentalismo di Shaftesbury si colloca infatti all’interno della peculiare filosofia di questo pensatore che si caratterizza come un “naturalismo panteistico” o “deistico”. 31 32 Ivi, pp. 495-496. Ivi, p. 497. Una presentazione e un’analisi più approfondita delle passioni umane e, in particolare, del senso morale viene realizzata da Francis Hutcheson (1694-1746), che appunto può essere considerato come il primo pensatore che ha effettivamente presentato una teoria sentimentalistica. Questi teorizza infatti l’esistenza di uno specifico e peculiare senso morale distinto dalla ragione e dagli altri sensi. Scrive Hutcheson: “Come l’Autore della Natura ci ha determinato a ricevere, mediante i nostri sensi esterni, idee piacevoli o sgradevoli degli oggetti a seconda che essi siano utili o dannosi per i nostri corpi, e a ricevere dagli oggetti uniformi i piaceri della bellezza e dell’armonia […] analogamente egli ci ha dato un senso morale per dirigere le nostre azioni e trasmetterci il più nobile dei piaceri. Proprio a ragione di questo senso morale mentre noi stiamo tendendo esclusivamente al bene altrui, in modo del tutto inconsapevole stiamo anche promuovendo il nostro più grande bene privato. […] Noi non dobbiamo immaginare che questo senso morale presupponga delle idee, conoscenze o proposizioni pratiche innate più di quanto accada con gli altri sensi. Con esso noi ci riferiamo solo a una determinazione delle nostre menti a ricevere le idee semplici dell’approvazione o condanna dalle azioni osservate, antecedentemente al formarsi di una qualsiasi opinione relativa al vantaggio o alla perdita che ricaveremo da tali azioni; così come noi proviamo piacere in presenza di una forma regolare o di una composizione armoniosa senza avere nessuna conoscenza di ordine matematico, o percepire un qualche vantaggio in quella forma o composizione differente da quello stesso piacere immediato che ne traiamo” 33. Hutcheson dunque individua il fondamento costitutivo della natura umana nel lato passionale dell’uomo e, in particolare, nel senso morale, che si caratterizza come un organo o facoltà attraverso cui si esprime il nostro senso del bene e del male. Questo senso morale teorizzato da Hutcheson si configura come un senso aggiuntivo che fornisce una conoscenza reale, ed è dunque effettivamente rappresentativo e valutabile in termini di verità o falsità dei dati con esso colti, non diversamente dagli altri sensi. Il senso morale dunque, secondo questo filosofo, fonda conclusioni etiche universali ed oggettive: esso infatti coglie delle proprietà e qualità etiche naturali. Le idee di bene e male sono dunque, in Hutcheson, rappresentative della realtà morale esterna e oggettiva. Inoltre nella filosofia di Hutcheson, la validità conoscitiva e l’aggancio realistico di queste idee risultano garantiti da una legge naturale stabilita da Dio. F. Hutcheson, An Inquiry Concerning The Original of our Ideas of Virtue or Moral Good, pp. 188-189. 33 La teoria filosofica di Hutcheson si configura allora come una forma di “realismo” e di “cognitivismo”: il senso morale è infatti una peculiare facoltà che scopre e coglie delle specifiche proprietà presenti nel mondo – ovvero le qualità etiche – che si caratterizzano appunto come reali, oggettive e indipendenti dal soggetto che le percepisce. Si ritrova dunque in Hutcheson una ricostruzione realistica, oggettivistica, ontologizzante e cognitivistica34. All’interno del filone sentimentalistico settecentesco vi sono poi autori che si distanziano da questa concezione realistica e cognitivistica presente in Hutcheson, come Adam Smith (1723-1790) e D. Hume. Hume riconosce la tesi, presente in Hutcheson, della centralità della sfera passionale e sentimentale nella vita e nella natura dell’uomo e, in particolare, dell’importanza di un sentimento o senso morale peculiare e specifico, piuttosto che a una capacità razionale: “la morale”, scrive Hume, “è più propriamente oggetto di sentimento che di giudizio”35. Ma Hume, partendo dal riconoscimento – in linea con la filosofia di Hutcheson – del ruolo centrale del sentimento anziché della ragione, si distanzia poi nettamente da questo pensatore. Hume rifiuta infatti l’idea, propria di Hutcheson, che il senso morale fornisca una conoscenza reale ed oggettiva. Secondo Hume invece la moralità è costituita da qualità soggettive: il bene e il male, la virtù e il vizio non sono conoscibili come delle realtà oggettive, ma sono delle “qualità secondarie” 36. Il bene e il male così non sono considerati come qualità oggettive e reali, ma appunto come qualità secondarie, ovvero come un modo soggettivo di discriminare tra le azioni sulla base delle nostre reazioni sentimentali. In Hume infatti il senso morale si configura come una qualità del tutto soggettiva e non conoscitiva: esso consiste nel peculiare piacere, appunto soggettivo, che proviamo di fronte a un’azione virtuosa. Scrive Hume: “Avere il senso della virtù non significa altro che sentire una soddisfazione di tipo particolare nel contemplare una certa qualità. Ed è proprio in questo sentire che risiede la nostra lode o la nostra ammirazione” 37. Hume connette dunque il bene e il male con il piacere e il dolore: “l’impressione che sorge Questa concezione intuizionistica presente in Hutcheson sarà ripresa nel XX secolo da autori come Henry Sidgwick (1838-1900) e George Edward Moore (1873-1958). Questi teorizzano un’intuizione del tutto speciale che è in grado di cogliere le proprietà etiche non-naturali, distinte dalle qualità naturali ordinarie. Gli intuizionisti contemporanei dunque depurano l’etica da quelle componenti gnoseologiche presenti nella teoria di Hutcheson. 35 D. Hume, Trattato sulla natura umana, p. 497. 36 Si veda a questo proposito il passo humeano dell’omicidio premeditato riportato prima, a proposito della confutazione delle concezioni razionalistiche. 37 D. Hume, Trattato sulla natura umana, p. 498. 34 dalla virtù è gradevole e […] quella che deriva dal vizio è sgradevole” 38. Per cui avere il senso del bene significa sentire un piacere di natura particolare, e avere il senso del male un dolore di natura particolare. Così la concezione humeana risulta in contrapposizione con tutta la filosofia precedente. Hume infatti rifiuta e confuta la ricostruzione filosofica realistica, oggettivistica, ontologizzante e cognitivistica, propria sia delle concezioni razionalistiche che del sentimentalismo realistico e ontologico di Hutcheson, e propone una ricostruzione filosofica non-realistica, non-cognitivistica e soggettivistica39. 3.2 L’irrazionalismo Il razionalismo – esaminato nella sezione 2 – rintracciava il Fondamento essenziale e costitutivo della realtà nella razionalità umana. Secondo questa spiegazione si aveva – come abbiamo visto – un’indipendenza, un’eterogeneità, una separazione tra questo elemento razionale e la sfera irrazionale, sentimentale, emotiva e istintuale. Si stabiliva così un dualismo filosofico, una distinzione, una demarcazione netta tra pensare e sentire e dunque tra ragionamento, riflessione, giudizio e passioni, emozioni, desideri e istinti. La concezione razionalistica infatti teorizzava la sostanzialità dell’anima, dell’Io, dell’identità personale, del Sé – caratterizzato in termini di Ragione. Si asseriva la consistenza, la compattezza, l’unità, la coerenza e l’ininterrotto permanere della Coscienza di Sé, dell’Io – che si configurava come chiuso in sé stesso, restava confinato in sé stesso – e dunque il fondamento stabile del Sé. Si teorizzava dunque l’individualità dell’Io e la sua separatezza appunto dalla sfera irrazionale, passionale ed istintiva dell’uomo, che rappresentava allora l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso. Questa distinzione si configurava come una vera e propria opposizione, antagonismo ed antitesi, in cui la positività, la priorità di valore era assegnata appunto alla ragione; si asseriva dunque l’esaltazione, il privilegio e la superiorità di tale elemento razionale contrapposto a quello irrazionale, sentimentale, passionale e Ivi, p. 497. Questa impostazione che riconosce un ruolo centrale alla sensibilità con il rifiuto della supremazia della mera attività razionale conoscitiva è stata ripresa nel XX secolo da autori come David Wiggins e John McDowell. Questi abbandonano le pretese fondazionali proprie sia della teoria del ‘senso morale’ settecentesca come dell’intuizionismo di questo secolo per muovere verso intenti meramente esplicativi. 38 39 istintivo considerato inferiore e negativo. Infatti l’irrazionalità, la corporeità, l’insieme di sentimenti, passioni, emozioni, desideri, pulsioni, impulsi e istinti costituiva – secondo questa concezione filosofica – una sfera propria dell’animalità e proprio in quanto tale veniva contrapposta appunto alla razionalità caratteristica dell’uomo, rispetto a cui rappresentava appunto l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso. Tale lato irrazionale, passionale ed istintivo si configurava come il lato oscuro dell’uomo, il luogo dell’Immoralità, del Male e del Diavolo in quanto personificazione del Male. Si aveva così la conseguente negazione e repressione dell’elemento irrazionale, passionale e istintuale – appunto in quanto risultava negativo e malvagio – da parte di quello positivo e superiore, ovvero la razionalità umana; tale repressione si configurava come un vero e proprio dominio, oppressione, sottomissione, prevaricazione, sopraffazione e annichilimento dell’Altro, del Diverso ovvero appunto della sfera irrazionale, sentimentale, emotiva e istintiva dell’uomo. La teoria filosofica dell’ “irrazionalismo” rappresenta un superamento delle concezioni razionalistiche. Anche secondo questo modello infatti – come nel razionalismo – si definiscono due sfere e realtà indipendenti, ontologicamente separate e distinte, quali appunto l’elemento razionale e l’elemento irrazionale, sentimentale, passionale, istintivo. Si stabilisce così un dualismo filosofico che si configura anche qui come un antagonismo, una dicotomia e una contrapposizione antitetica tra elementi distinti e opposti tra loro, ovvero appunto tra razionale e irrazionale, ragione e sentimento, mente e corpo, pensare e sentire, ideale e materiale. Ma nell’irrazionalismo vi è un ribaltamento e un rovesciamento di questa dicotomia, teorizzata dalla concezione razionalistica. Infatti la positività, la priorità di valore viene assegnata, nelle concezioni irrazionalistiche, non più all’elemento razionale, ma al contrario proprio all’elemento irrazionale ovvero sentimentale, emotivo ed impulsivo. Si teorizza allora l’esaltazione, la superiorità e il ruolo centrale e prioritario del lato irrazionale e passionale, dell’insieme di sentimenti, passioni, emozioni, desideri, pulsioni, impulsi e istinti. In questa teoria filosofica infatti si ha la negazione della sostanzialità dell’anima, dell’Io, dell’identità personale, del Sé – che si configurava appunto come chiuso in sé stesso, restava confinato in sé stesso. L’individualità del Sé e la sua separatezza dagli istinti ed emozioni – che rappresentano appunto l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso – è, secondo questa concezione, un’illusione, un’invenzione, una costruzione e una creazione dei sistemi metafisico-religiosi e di quelli razionalistici. La consistenza, la compattezza, l’unità, la coerenza e l’ininterrotto permanere della Coscienza di Sé, e dunque il fondamento stabile dell’Io, viene quindi a dissolversi, viene meno, viene minato, oscurato e negato. Infatti l’Alterità, l’Altro – dove per ‘Altro’ si intende sia l’Altro che ci è di fronte, sia, soprattutto, l’Altro che è in noi ovvero appunto l’insieme delle nostre passioni, pulsioni, istinti e desideri40 – non resta confinato, ma tende a invaderci: il nostro Sé è intessuto di Altro, è permeato dall’Altro. Questo modello filosofico rifiuta dunque la concezione razionalistica secondo cui l’Altro è un’entità esterna e differente dal Sé e teorizza l’introiezone dell’Altro, la concezione ‘dividuale’ della soggettività. L’irrazionalismo rifiuta e nega quindi la possibilità di riconoscere la ragione quale Principio primario e fondamentale della realtà e della natura umana. In questa concezione si ha infatti il rifiuto, la negazione e la confutazione della tesi secondo cui il Fondamento centrale ed essenziale della realtà e della natura umana vada ricercato nella ragione e l’affermazione di un’interpretazione secondo cui tale Fondamento va rintracciato nel lato irrazionale dell’animo umano. La filosofia tradizionale ha sempre considerato la ragione come la parte superiore, migliore e più alta dell’uomo, quasi una parte eterna e di origine divina, mentre il lato irrazionale dell’uomo, ovvero le passioni e gli istinti, come sinonimo di cecità, incostanza e falsità. Ma la concezione irrazionalistica toglie alla ragione questa posizione di privilegio e superiorità, abbandona e confuta la tesi secondo cui il Principio essenziale e fondamentale della realtà e della natura umana consiste nella facoltà della ragione. Infatti, mentre il razionalismo non tiene conto dell’aspetto irrazionale e oscuro dell’uomo, ossia della vita sentimentale e passionale, l’irrazionalismo ritiene che non sia possibile spiegare e rendere conto della natura umana prescindendo dal lato irrazionale dell’animo umano. 3.2.1 Il Dionisiaco di Nietzsche La filosofia d Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900) occupa un posto centrale nel processo filosofico di critica e “demitizzazione” dell’ideologia metafisica e razionalistica e nel “disincantamento” del mondo. Nietzsche attua infatti la distruzione dei miti, delle credenze e delle certezze metafisiche, religiose e razionalistiche – proprie della tradizione Infatti il tema del rapporto con l’Altro viene a configurarsi come caratteristico della nostra stessa interiorità, le problematiche dell’intersoggettività si ritrovano dentro di noi, all’interno del nostro stesso Sé. 40 platonico-cristiana – che non sono altro, secondo il filosofo, che invenzioni, costruzioni e creazioni appunto costruite dagli uomini, nel tentativo di sublimare e trasfigurare il caos della vita. Infatti Nietzsche in Ecce homo (1888) si descrive come “il primo uomo decente” dopo la “falsità che dura millenni”: “Conosco la mia sorte. Sarà legato al mio nome il ricordo di qualcosa di enorme – una crisi, quale mai si era vista sulla terra, la più profonda collisione della coscienza, una decisione evocata contro tutto ciò che finora è stato creduto, preteso, consacrato. Io non sono un uomo, sono una dinamite”. E ancora, in Umano, troppo umano (1878), scrive: “I miei scritti sono stati chiamati una scuola di sospetto e ancor più di disprezzo, per fortuna però anche di coraggio, anzi di temerarietà. E in realtà io stesso non credo che alcuno abbia mai scrutato il mondo con un sospetto ugualmente profondo”. Ma il pensiero filosofico di Nietzsche non si esaurisce nella demolizione polemica e nella critica dei sistemi razionalistico-metafisici che dominano la tradizione e la cultura occidentale, al contrario il filosofo si fa “lieto messaggero” di una nuova Verità. Scrive infatti in Ecce homo: “Io vengo a contraddire, come mai si è contraddetto, e nondimeno sono l’opposto di uno spirito negatore. Io sono un lieto messaggero, quale mai si è visto, conosco compiti di un’altezza tale che finora è mancato il concetto per definirli; solo a partire da me ci sono nuove speranze”. In linea con il suo pensiero caratterizzato appunto dalla radicale critica dei sistemi metafisico-religiosi e razionalistici, il linguaggio filosofico di questo pensatore si configura come anti-sistematico, ovvero lontano dalle costruzioni sistematiche e razionali ben definite e concluse, proprie delle concezioni che egli confuta. Dal punto di vista stilistico infatti il discorso filosofico di Nietzsche ha un carattere aforistico, anti-sistematico, cifrato e profetico: è caratterizzato dall’uso di allusioni, metafore, aforismi e profezie e presenta una molteplicità e pluralità di significati non univoci. Nietzsche nella sua prima grande opera, La nascita della tragedia (1872), propone una nuova visione del mondo greco, che costituisce un ribaltamento e un rovesciamento della visione del mondo greco che ha dominato la cultura europea dal Rinascimento al Romanticismo. La civiltà greca a cui Nietzsche si riferisce non è infatti quella della filosofia socratico-platonico-aristotelica e della tragedia di Euripide – che rappresenta la fase decadente del pensiero e della cultura greca, ma la civiltà greca dei presocratici e della grande tragedia di Eschilo e Sofocle. Rifacendosi al mondo greco, Nietzsche individua due principi cosmici opposti e antitetici, ma al tempo stesso inscindibili, entrambi necessari e presenti, coessenziali, generatori della realtà e caratterizzanti la realtà e l’interiorità dell’uomo. Questi due elementi contrapposti, che la filosofia nietzscheana – rifacendosi appunto alla mitologia greca – pone a fondamento della realtà, sono individuati in Apollo, il dio dell’equilibrio, della misura e dell’ordine, della melodia e del canto armonico e in Dioniso, il dio dell’ebbrezza, della danza e dell’estasi. Così l’Apollineo rappresenta la razionalità e il controllo della ragione sulle passioni, ovvero l’ordine e la forma, la stasi, il finito, la luce, la serenità, il sogno, contrapposto al Dionisiaco che rappresenta invece l’universo delle passioni, sentimenti, istinti, impulsi, emozioni, desideri e volizioni ovvero la Vita, la forza vitale, il caos, il divenire, l’infinito, l’oscurità, l’inquietudine, l’ebbrezza. Queste coppie di opposti, questi due principi antitetici e contrapposti tra loro formano una sintesi e un binomio inscindibile, sono coesistenti e coessenziali, si configurano entrambi come necessari e costitutivi della realtà e della vita e dell’esistenza dell’uomo. Nella filosofia nietzscheana dunque – cfr. il § 3 dell’introduzione: Il sentimentalismo – si definiscono due sfere e realtà indipendenti, ontologicamente separate e distinte, quali appunto l’elemento razionale e l’elemento sentimentale, passionale, istintivo. Si stabilisce cioè un dualismo filosofico che si configura come un antagonismo, una dicotomia e una contrapposizione antitetica tra elementi distinti e opposti tra loro, ovvero appunto tra ragione e sentimento, mente e corpo, pensare e sentire, ideale e materiale. In questa concezione vi è un ribaltamento e un rovesciamento della dicotomia teorizzata dalle concezioni razionalistiche. Infatti la positività, la priorità di valore viene assegnata non più all’elemento razionale, ma al contrario proprio all’elemento sentimentale, emotivo ed impulsivo. Si teorizza allora l’esaltazione, la superiorità e il ruolo centrale e prioritario nella vita e nell’esistenza dell’uomo proprio dell’elemento dionisiaco, ovvero del lato passionale, dell’insieme di sentimenti, passioni, emozioni, desideri, pulsioni, impulsi e istinti. L’Apollineo infatti non è altro che un’invenzione, una costruzione, una creazione, una credenza, una falsità e una menzogna costruita dagli uomini, che nasce dal tentativo di sublimare e trasfigurare il caos nella forma, l’orribile e l’assurdo in un mondo definibile e armonico, il senso oscuro delle cose e il lato notturno dell’animo umano in forme luminose ed equilibrate. Nella filosofia nietzscheana si ha allora la negazione della sostanzialità dell’anima, dell’Io, dell’identità personale, teorizzata dalle concezioni metafisiche e razionalistiche – secondo le quali il Sé si configurava appunto come chiuso in sé stesso, restava confinato in sé stesso. L’individualità del Sé e la sua separatezza dagli istinti ed emozioni – ovvero dal Dionisiaco che rappresenta appunto l’Alterità, l’Altro dal Sé, il Diverso – è, secondo questa concezione, un’illusione, un’invenzione e una creazione dei sistemi metafisico-religiosi e di quelli razionalistici. La consistenza, la compattezza, l’unità, la coerenza e l’ininterrotto permanere della Coscienza di Sé, e dunque il fondamento stabile dell’Io, viene quindi, in Nietzcshe, a dissolversi, viene meno, viene minato, oscurato e negato. Infatti l’Alterità, l’Altro – ovvero il Dionisiaco – non resta confinato, ma tende a invaderci: il nostro Sé è intessuto di Altro, è permeato dall’Altro. Questo modello filosofico rifiuta dunque la concezione razionalistica secondo cui l’Altro è un’entità esterna e differente dal Sé e teorizza l’introiezone dell’Altro, la concezione ‘dividuale’ della soggettività. Questa teoria rifiuta e nega quindi la possibilità di riconoscere la ragione quale Principio primario e fondamentale della realtà e della natura umana. In questa concezione si ha infatti il rifiuto, la negazione e la confutazione della tesi secondo cui il Fondamento centrale ed essenziale della realtà e della natura umana vada ricercato nella ragione e l’affermazione di un’interpretazione secondo cui tale Fondamento va rintracciato nel lato passionale e istintuale dell’uomo. Questo ruolo centrale del Dionisiaco viene minato e negato dalla concezione razionalistica e intellettualistica di Socrate, propria anche della tragedia di Euripide, caratterizzata dal prevalere dell’Apollineo, che domina e trionfa sul Dionisiaco. Con il trionfo del razionalismo socratico si ha infatti il trionfo dell’Apollineo, che si configura come una trasposizione mitico-ideale, una sublimazione e una trasfigurazione della caducità e della tragicità della vita e dell’esistenza, che l’uomo vuole esorcizzare, in un mondo definito e armonico. Con la filosofia socratica ha così inizio, secondo Nietzsche, l’età di “decadenza”, che giunge al suo apice con il cristianesimo. Mentre l’affermazione del dionisiaco e del tragico è una rivendicazione della vita, il cristianesimo mortifica e condanna la vita. Infatti la ricerca dell’al di là, di un mondo che sta “dietro” e “oltre” il mondo è espressione di un disgusto nichilistico per la vita – dove per nichilismo si intende appunto il dire di no alla vita. E’ ben evidente allora nel cristianesimo l’acquisizione e l’utilizzazione del platonismo. Il platonismo infatti aveva affermato la necessità di distinguere e separare un mondo trascendente e metafisico – quello delle idee immutabili ed eterne – che si configura come il mondo “vero”, dal mondo sensibile e transeunte, che è invece il mondo “apparente”; e aveva adottato il mondo “vero” come criterio di quello “apparente”, che veniva così screditato e rifiutato. La “malattia”, la “decadenza” e il rifiuto della vita domina, secondo Nietzsche, la cultura occidentale, caratterizzata appunto dal rifiuto di ciò che è terreno a favore di un mondo ultraterreno e trascendente, dall’uccisione delle profondità e degli abissi istintuali e tragico-dionisiaci della vita a favore del pallido ideale della ragione. Nietzsche critica la razionalità socratica, che domina la cultura europea, e asserisce, nel primo aforisma di Umano troppo umano, che “i colori più magnifici” derivano dal lato basso, materiale e spregiato dell’animo umano, cioè gli impulsi, le passioni, i desideri e gli istinti. Questo lato oscuro dell’uomo costituisce una verità-base, una verità elementare a cui devono essere riportate le “menzogne” dell’ideologia e i prodotti spirituali della sublimazione, per demistificarli. Nella filosofia nietzscheana infatti prevale il Dionisiaco in quanto “affermazione della vita totale, non rinnegata né frantumata”. Dioniso è infatti esaltazione entusiastica del mondo e della caoticità dell’esistenza, è la volontà orgiastica della vita nella totalità della sua potenza. Dioniso è il dio dell’ebbrezza, della gioia, della danza sfrenata, dell’energia vitale e dell’irrazionalità; è il dio che bandisce ogni rinuncia alla vita. Infatti i cosiddetti valori e virtù della tradizione platonico-cristiana, fondati sulla rinuncia, sull’abbandono e sulla diminuzione della vita, che tendono a mortificare, a reprimere, a spezzare e a impoverire la vita e la forza vitale, secondo Nietzsche non sono veri valori. Questo pensatore critica aspramente dunque la morale tradizionale, ovvero quella cristiana, costituita da valori trascendenti fondati sulla razionalità, in quanto costituisce la tipica forma di morale attraverso cui l’uomo è giunto a porsi contro la vita stessa. Invece, per Nietzsche, sono virtù le passioni, che, al contrario della ragione, dicono sì alla vita e al mondo: costituisce valore “tutto ciò che è ricco e vuol dare, e vuol gratificare la vita, dorarla, eternizzarla e divinizzarla […] tutto ciò che approva, afferma ed agisce per affermazione”. Questo primato del lato passionale dell’uomo contrapposto ad un mondo di forme composte, armoniose e ideali emerge nel celebre aforisma di Nietzsche contenuto in Ecce homo: “dove voi vedete le cose ideali, io vedo cose umane, ahi troppo umane”. In una prima fase della storia dell’umanità, soprattutto nel mondo classico, la morale si basa sui valori vitali – quali la forza, la salute, la fierezza, la gioia (la morale dei signori) – mentre in una seconda fase, che giunge al suo apice con il cristianesimo, essa è costituita da valori anti-vitali – quali l’abnegazione, il sacrificio di sé, ecc. (la morale degli schiavi). Originariamente la morale dei signori comprende anche quella dei sacerdoti. Mentre il cavaliere persegue le virtù del “corpo”, il sacerdote tende alle virtù dello “spirito”. Ma la casta dei sacerdoti prova “risentimento” verso i guerrieri, cioè invidia e desiderio di rivalsa nei loro confronti. Così viene elaborata dai sacerdoti una tavola dei valori antitetica e contrapposta a quella dei guerrieri: al corpo viene anteposto lo spirito, all’orgoglio l’umiltà, alla sessualità la castità. Con la vittoria dalla morale degli schiavi predomina una maniera anti-vitale di rapportarsi alla vita, che costituisce appunto la “decadenza” e la “malattia” della civiltà occidentale. Questo “rovesciamento” dei valori e quindi il predominio della morale anti-vitale storicamente è rappresentato dall’ebraismo – secondo Nietzsche gli ebrei sono il “popolo sacerdotale” per antonomasia – e dal cristianesimo. Il cristianesimo rappresenta, secondo Nietzsche, il risentimento dell’uomo verso la vita, “la più sotterranea congiura che sia mai esistita contro salute, bellezza […] contro la vita stessa”. Esso infatti introducendo la nozione di “peccato” ha inibito gli impulsi naturali e primari dell’esistenza, quali la gioia e il piacere, e ha prodotto un uomo risentito, malato, represso, auto-tormentato e perseguitato dai sensi di colpa (infatti “tutti gli istinti che non si scaricano all’esterno si rivolgono all’interno”). Nietzsche attua allora una radicale critica della morale tradizionale, ovvero quella della tradizione platonico-cristiana, in favore di una risoluta ed entusiastica esaltazione del mondo umano, terreno e corporeo. Nel prologo di Così parlò Zarathustra (1883-85) scrive infatti: “Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio. Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la terra: possano scomparire!”. Così Nietzsche attua un ribaltamento, un’inversione o trasmutazione dei valori: “La verità è tremenda: perché fino a oggi si chiamava verità la menzogna. Trasvalutazione di tutti i valori: questa è la mia formula per l’atto con cui l’umanità prende la decisione suprema su se stessa, un atto che in me è diventato carne e genio” (Ecce homo). Nietzsche stesso si definisce “immoralista”: ma con questo il filosofo non intende riferirsi all’abolizione di ogni valore. Infatti in Nietzsche la critica ai valori anti-vitali si accompagna alla proposta di una nuova tavola di valori, antitetici e contrapposti ad essi. Si tratta dunque di una trasformazione, rovesciamento e ribaltamento dei valori che consiste nella critica dei valori tradizionali fondati sulla rinuncia e sull’abbandono della vita, in favore dell’accettazione libera e gioiosa e dell’esaltazione della vita nella sua potenza primitiva. I valori affermati da Nietzsche sono valori vitali, sono di carattere mondano e a misura d’uomo. L’anima infatti, che si configura come l’essenza ultra-mondana e sovrannaturale dell’uomo, secondo questo pensatore è insussistente, non esiste. L’uomo è, al contrario, una creatura interamente terrestre e corporea, è sostanzialmente corpo: “io sono corpo tutt’intero e nient’altro, dice Zarathustra; l’anima è soltanto una parola che indica una particella del corpo”. Così “la Terra e il corpo dell’uomo si trasfigurano: la Terra cessa di essere il deserto in cui l’uomo è in esilio e diventa la sua dimora gioiosa; il corpo cessa di essere prigione o tomba dell’anima e diviene il concreto modo di essere dell’uomo nel mondo”41. La filosofia di Nietzsche è dunque caratterizzata dalla rivendicazione della natura terrestre e corporea dell’uomo e dall’accettazione ed esaltazione del Dionisiaco in quanto potenza primitiva della vita. Uno dei temi centrali e fondamentali della filosofia di Nietzsche è quello della “morte di Dio”. In Nietzsche con il concetto di Dio si intende, in senso generale, ogni prospettiva oltre-mondana e ultraterrena, e quindi anti-vitale – propria di tutte le metafisiche e le religioni – che pone il senso dell’essere fuori o al di là dell’essere, in una realtà metafisica e trascendente, separando e contrapponendo questo mondo ad un altro mondo, ritenuto l’unico “vero” e “perfetto”. Dio dunque è, in Nietzsche, il simbolo e la personificazione delle certezze e delle “credenze metafisiche e religiose elaborate attraverso i millenni per dare un ‘senso’ e un ordine ‘rassicurante’ alla vita” 42. Le concezioni metafisiche e religiose hanno introdotto la distinzione e la contrapposizione tra anima e corpo, tra spirito e carne, tra vita celeste e vita terrena, tra Dio e uomo. E Dio e l’ultra-mondano rappresentano una fuga dalla vita e da questo mondo: “in Dio è dichiarata inimicizia alla vita, alla natura, alla volontà di vivere! Dio, la formula di ogni calunnia dell’ ‘aldiqua’, di ogni menzogna dell’ ‘aldilà’ (L’Anticristo, 1888). Infatti, secondo Nietzsche, l’idea di un cosmo ordinato, razionale, armonico, retto da un Dio provvidente – su cui le metafisiche e le religioni si fondano – è una costruzione dell’uomo per poter sopportare ed esorcizzare la realtà, che si configura come caotica, contraddittoria, disarmonica, “danza sui piedi del caso”: “il carattere complessivo del mondo è il caos per tutta l’eternità, non nel senso di un difetto di necessità, ma di un difetto di ordine, di articolazione, forma, bellezza, sapienza e di tutto quanto sia espressione delle nostre estetiche nature umane” (La gaia scienza, 1882). Ma ora le metafisiche e le religioni si sono finalmente rivelate allo sguardo disincantato del filosofo moderno come “prospettive consolatorie, decorazioni della realtà e bugie di 41 42 N. Abbagnano, G. Fornero, Fare filosofia, autori, vol. III, p. 120. Ivi, p. 123. sopravvivenza”43. Scrive infatti Nietzsche: “C’è un solo mondo, ed è falso, crudele, contraddittorio, corruttore, senza senso […]. Un mondo così fatto è il vero mondo […]. Noi abbiamo bisogno della menzogna per vincere questa ‘verità’, cioè per vivere […]. La metafisica, la morale, la religione, la scienza […] vengono prese in considerazione solo come diverse forme di menzogna: col loro sussidio si crede nella vita” (Frammenti postumi). Così Dio si configura, secondo Nietzsche, come la più antica delle bugie e degli inganni, come “la nostra più lunga menzogna”, escogitata e costruita dall’uomo per sopportare il volto caotico e dionisiaco dell’esistenza. La credenza in Dio dunque non è altro che l’espressione della paura e del terrore dell’uomo di fonte alla verità dell’essere. La celebre tesi nietzscheana della “morte di Dio”, dichiarando irreale, falsa e decadente la realtà ideale e trascendente teorizzata dalle metafisiche e dalle religioni, segna il crollo dell’impalcatura di credenze e di certezze su cui gli uomini hanno basato la loro vita per millenni. L’annuncio che “Dio è morto” (Gott ist tot!), viene da questo pensatore “drammatizzata” nel famoso racconto dell’ “uomo folle”, contenuto ne La gaia scienza. L’ateismo risulta dunque, per Nietzsche, “qualcosa di dato, di palpabile, d’indiscutibile” (La gaia scienza). L’ateismo di Nietzsche si configura come un ateismo radicale: questo pensatore non si limita a contestare e criticare Dio, ma estende la sua critica a tutti i surrogati di Dio. Infatti gli uomini, per esorcizzare la loro paura di fronte all’essenza caotica della vita, hanno sempre bisogno di creare una realtà o un essere mitico-ideale, equilibrato e armonico: così “abbattute le antiche divinità, tendono inevitabilmente a crearne altre” 44. Così, in Così parlò Zarathustra, Nietzsche racconta di uomini che adorano un asino: l’uomo ha ancora bisogno di Dio, ha bisogno di riempire il vuoto lasciato dalle strutture e credenze metafisiche e religiose che sono crollate, con qualsiasi cosa, anche la più assurda come un asino, simbolo di ogni sostituto o surrogato idolatrico di Dio 45. Nietzsche allora, abbattute e confutate tutte le concezioni metafisiche o religiose, teorizza l’essenza caotica, non provvidenziale, a-razionale e quindi a-tea del mondo, che si configura appunto come un “mondo sdivinizzato”. Ibidem. Ivi, p. 126. 45 L’ “asino” “allude probabilmente alle varie forme dell’ateismo ‘positivo’ dell’Ottocento, nelle quali Dio si trova ‘rimpiazzato’ da altrettanti supplenti (lo stato, l’Umanità, la scienza, il socialismo, ecc.)” (Ibidem). 43 44 Il profondo smarrimento esistenziale prodotto dal tramonto dell’idea di Dio è la condizione necessaria per la nascita del superuomo: “la morte di Dio segna, per Nietzsche, l’atto di nascita del superuomo” 46. Infatti solo coscienti dell’illusorietà delle credenze metafisiche si può prendere atto della caoticità a-razionale della realtà e dunque varcare l’abisso che divide l’uomo dall’oltre-uomo. Solo se Dio non esiste, l’universo è caos dionisiaco e il superuomo può nascere; solo sul presupposto di un mondo “sdivinizzato” e ateo, il mondo dionisiaco e irrazionale e il superuomo nietzscheano possono esistere. Zarathustra esclama infatti: “Morti son tutti gli dei: ora vogliamo che il superuomo viva”. “Pertanto, il superuomo ha dietro di sé, come condizione necessaria del suo stesso essere, la morte di Dio […], ma ha davanti a sé il ‘mare aperto’ delle possibilità scaturenti da una libera progettazione della propria esistenza al di là di ogni struttura metafisica data” 47. L’uomo infatti con la morte di Dio – personificazione degli ideali e delle certezze del tutto umane e terrene, che l’uomo proietta al di fuori di sé in una realtà superiore e trascendente – è finalmente libero da ogni condizionamento, è appunto un “mare aperto”. Scrive Nietzsche: “Noi filosofi e ‘spiriti liberi’ alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presentimento, d’attesa, finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno, finalmente possiamo di nuovo scioglier le vele alle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo, ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così ‘aperto’”(La gaia scienza). Dunque la filosofia nietzscheana del “sospetto” – cioè caratterizzata dalla demolizione e confutazione della tradizione occidentale – consiste non solo nella critica della concezione teologica ovvero del sistema filosofico proprio di questa cultura – appunto il modello razionalistico-metafisico – ma anche nella contestazione della concezione antropologica che questa civiltà propone ovvero del tipo di uomo da essa prodotto: “l’individuo anti-vitale e sottomesso ad autorità costituite”48. Nietzsche infatti propone e delinea un nuovo modello di uomo: il “superuomo” o l’ “oltre-uomo” (Ubermensch)49. Il superuomo o l’oltre-uomo è un Ivi, p. 125. Ibidem. 48 Ivi, p. 115. 49 Il termine tedesco Ubermensch può essere tradotto anche con “oltre-uomo” per sottolineare una caratteristica peculiare del superuomo, ovvero quella di essere un modello o modo di essere di un possibile uomo o umanità futura. Si sottolinea e si evidenzia così la diversità tra il superuomo, che 46 47 concetto centrale in cui si risolvono i vari temi della filosofia di Nietzsche: il superuomo è infatti colui che, preso atto della “morte di Dio” e rifiutata la morale tradizionale, attua una trasvalutazione dei valori ed accetta la realtà e la vita al di là delle illusioni metafisiche nel suo carattere caotico e dionisiaco. La nozione filosofica di superuomo sta dunque a significare ed esprimere il progetto nietzscheano di un nuovo modo d’essere dell’uomo o dell’umanità. Il superuomo inoltre si pone come “volontà di potenza” – altro concettochiave della filosofia di Nietzsche – che è appunto il modo di essere proprio del superuomo. La volontà di potenza è “la scoperta e la messa in atto delle infinite potenzialità ancora insite nella vita dell’uomo e rimaste per secoli mortificate e trascurate in ossequio a valori puramente negativi”50. E’ proprio perché nell’universo non c’è nessun Essere a cui ci si debba subordinare, che l’uomo può finalmente sviluppare appieno queste sue infinite e incommensurabili potenzialità. La volontà di potenza si configura come libertà creatrice, propria del superuomo: questi si erge al di sopra del caos della realtà ed impone ad essa i propri significati e valori, così da “ri-creare l’essere a misura della propria oltre-umanità”51. Scrive infatti Nietzsche: “per conservarsi, l’uomo fu il primo a porre dei valori nelle cose – per primo egli creò un senso alle cose, un senso umano. Perciò si chiama uomo, cioè: colui che valuta”. E ancora: “Ogni così fu è un frammento, un enigma, una casualità orrida – fin quando la volontà che crea non dica anche: ma così volli che fosse! Finché la volontà che crea non dica: ma io così voglio! Così vorrò!” (Così parlò Zarathustra). La volontà di potenza ri-creando il mondo, reinvesta incessantemente e costantemente anche se stessa e dunque consiste nel “continuo superamento che la vita fa di se stessa” 52: “E la vita stessa mi ha confidato questo segreto. Vedi, – disse, – io sono il continuo, necessario superamento di me stessa”, “mille sentieri vi sono non ancora percorsi; mille salvezze e isole nascoste della vita. Inesaurito e non scoperto è ancora sempre l’uomo e la terra dell’uomo”. Anche nei concetti filosofici nietzscheani di superuomo e di volontà di potenza dunque, come è stato per tutte le nozioni e temi della filosofia di Nietzsche, emerge la radicale provocazione, accusa, contestazione e critica della concezione metafisico-razionalistica della civiltà e della cultura occidentale e l’affermazione e l’esaltazione entusiastica del carattere caotico e dionisiaco della vita. si staglia sull’orizzonte del futuro, e l’uomo del presente. 50 F. Adorno, T. Gregory, V. Verra, Manuale di storia della filosofia, vol. III, p. 129. 51 N. Abbagnano, G. Fornero, Fare filosofia, autori, vol. III, p. 130. 52 Ibidem. 3.2.2 L’Inconscio e l’Es di Freud Sigmund Freud (1856-1939) è il padre fondatore della psicoanalisi, a proposito della quale si può parlare di una vera e propria “rivoluzione psicoanalitica” 53. Essa assume un ruolo fondamentale anche dal punto di vista filosofico: “la scoperta dell’inconscio, con tutto il suo mondo caotico e disordinato di pulsioni istintuali, esito decisivo della ricerca freudiana, ha avuto altresì la funzione di mettere in crisi ancora una volta (dopo Nietzsche) la verità della coscienza”54. Così Freud viene considerato, insieme a Marx e a Nietzsche appunto, uno dei “maestri del sospetto”: egli, proprio come aveva fatto Nietzsche, diffonde il “sospetto” circa la coscienza, intesa come il lato razionale dell’uomo, e la religione. Nella tradizione filosofica occidentale prima di Freud la “psiche” veniva identificata con l’ “anima” ovvero la “ragione”, la “coscienza”. La scienza moderna positivista poi, spiega A. Koyrè, aveva eretto il suo grande edificio “sostituendo al nostro mondo della qualità e delle percezioni sensibili, il mondo che è teatro della nostra vita, delle nostre passioni e della nostra morte, un altro mondo, il mondo della quantità”. Aveva cioè “escluso e rimosso […] il soggetto con lo spessore delle sue istanze, dei suoi bisogni, del suo desiderio […] in favore dell’oggettività dei fatti”55. Contro la cultura occidentale e il positivismo si era già mosso Nietzsche, asserendo il valore del corpo e del lato passionale dell’uomo. La psicoanalisi nasce dunque nel clima della crisi e del disfacimento delle teorie filosofiche tradizionali e positivistiche. Freud infatti si rifà a Nietzsche: “spero di trovare in lui [Nietzsche appunto] le parole per tutto quanto resta muto in me” 56. La nascita della psicoanalisi infatti è segnata dalla scoperta dell’inconscio, inteso come l’insieme delle forze psichiche operanti al di là della sfera di consapevolezza del soggetto (la psicoanalisi viene anche definita come “psicologia abissale” o “del profondo”). Contro la concezione della “psiche” come “ragione” o “coscienza” – propria appunto della filosofia occidentale a 53 54 55 56 N. Abbagnano, G. Fornero, Fare filosofia, temi, vol. III, p. 71. Ibidem. Le Garzatine, Filosofia, p. 409. S. Freud, Lettera a Fliess, 1.2.1900. partire da Socrate e del positivismo – Freud “afferma invece che la maggior parte della vita mentale si svolge fuori dalla coscienza e che l’inconscio non costituisce il limite inferiore del conscio, ma la realtà abissale primaria di cui il conscio (simile alla punta di un iceberg) è solo la manifestazione visibile. Tant’è vero che l’inconscio viene eletto, dalla psicoanalisi, a punto di vista privilegiato da cui osservare l’uomo”57. Freud allora rifiuta e nega la concezione intellettualistica dell’Io come unità semplice riportabile all’unico centro unificatore che è l’Io cosciente, ed elabora, riguardo all’articolazione della vita psichica, una prima topica psicologica (studio dei topoi o luoghi della psiche), esposta nel VII capitolo dell’Interpretazione dei sogni (1900). Nella scomposizione psicoanalitica della personalità della prima topica Freud distingue tre metaforici “luoghi” psichici: il conscio, il preconscio e l’inconscio. Il conscio è appunto la coscienza, la razionalità. Il preconscio comprende l’insieme dei ricordi, che sono solo momentaneamente inconsci: essi sono infatti accessibili alla coscienza ovvero possono divenire consci. L’inconscio, che è la parte più profonda della psiche, è l’insieme delle pulsioni, degli istinti, degli impulsi, dei desideri, delle passioni ovvero il lato cieco e irrazionale dell’animo umano. Queste forze psichiche inconsce operano al di là della sfera di consapevolezza del soggetto: questa zona cioè è del tutto separata dalla coscienza in quanto comprende degli elementi che sono, al contrario di quelli contenuti nel preconscio, stabilmente inconsci. Questi contenuti sono mantenuti tali (ovvero stabilmente inconsci) dalla “rimozione”: sono cioè stati rimossi – l’inconscio freudiano infatti coincide con il “rimosso” – ovvero è stato loro precluso l’accesso al preconscio e alla coscienza, e non possono mai tornarvi direttamente. La rimozione è dunque uno “sbarramento selettivo tra inconscio e preconscio-cosciente”, “una sorta di censura”, “un’esigenza di difesa” 58, che serve a evitare il soddisfacimento di una pulsione. A partire dal 1920 Freud definisce la pluralità del soggetto o scomposizione della personalità nella seconda topica psicologica, in cui distingue tre istanze, livelli, zone o luoghi psichici: l’Es, l’Io e il Super-io. L’Es (termine tedesco che indica il pronome personale neutro alla terza persona singolare) “è la parte oscura, inaccessibile della nostra personalità”59. Freud lo definisce come “un calderone di impulsi ribollenti”: è costituito dalle pulsioni, dagli istinti, dagli impulsi, dai desideri, dalle passioni, è cioè il polo N. Abbagnano, G. Fornero, Fare filosofia, temi, vol. III, p. 72. F. Adorno, T. Gregory, V. Verra, Manuale di storia della filosofia, vol. III, p. 229. 59 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, p. 479. 57 58 pulsionale della personalità, “la forza impersonale e caotica […] che costituisce la matrice originaria della nostra psiche”60. Riguardo ad esso Freud scrive infatti che il “suo contenuto è tutto quanto è ereditato, acquisito con la nascita, fissato costituzionalmente, prima di tutto dunque gli istinti derivanti dall’organizzazione del corpo, i quali trovano qui una prima espressione psichica a noi sconosciuta nelle sue forme” (Compendio di psicoanalisi, 1939). L’Es “non conosce né giudizi di valore, né il bene e il male, né la moralità” 61, ma obbedisce esclusivamente al principio del piacere; Freud spiega infatti che esso esprime “solo lo sforzo di ottenere soddisfacimento per i bisogni pulsionali nell’osservanza del piacere” 62. Inoltre l’Es esiste al di là di ogni collocazione spazio-temporale (la sfera in cui si collocano le passioni – appunto l’Es – è cioè una sfera al di fuori dello spazio e del tempo) e ignora le leggi della logica, incluso il principio di non-contraddizione (infatti “impulsi contraddittori sussistono l’uno accanto all’altro, senza annullarsi a vicenda”). Vi è poi il Super-io: “come precipitato del lungo periodo infantile, durante il quale l’uomo futuro vive in dipendenza dai suoi genitori, si forma nell’Io una particolare istanza, nella quale si prolunga l’influenza dei genitori, chiamata Super-io” (Compendio di psicoanalisi). Il Super-io è la coscienza morale ovvero l’insieme delle norme, dei comandi, dei precetti, dei divieti e delle proibizioni che vengono impartite all’uomo fin da bambino dai genitori (o da coloro che sostituiscono i genitori come gli educatori, i modelli pubblici o la società) e che poi lo accompagnano sempre. Scrive infatti Freud: “Il Super-io è il successore e il rappresentante dei genitori (ed educatori) che avevano vegliato sulle azioni dell’individuo durante il suo primo periodo di vita; quasi senza modificarle, esso perpetua le loro funzioni”. L’altra istanza o luogo psichico di questa seconda tripartizione della psiche proposta da Freud è l’Io: “originariamente, come strato corticale dotato degli organi per ricevere gli stimoli e delle strutture per proteggersi dagli stimoli, si è stabilita un’organizzazione particolare, che da quel momento ha fatto da mediatrice tra l’Es e il mondo esterno”. L’Io è la parte organizzata della personalità, che si configura come una zona intermedia tra l’Es e il Super-io. Freud lo definisce come il “servo di tre padroni” che sono l’Es, il Super-io e l’ambiente esterno: l’Io infatti è l’istanza che deve cercare di equilibrare, soddisfare e conciliare le pressioni, le esigenze e le pretese opposte e contrastanti dell’Es, del Super-io e della realtà esterna. “Spinto così dall’Es, stretto dal Super-io, respinto dalla realtà, l’Io lotta per venire a capo N. Abbagnano, G. Fornero, Fare filosofia, temi, vol. III, p. 73. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, p. 480. 62 Ibidem. 60 61 del suo compito economico di stabilire l’armonia tra le forze e gli impulsi che agiscono in lui e su di lui; e noi comprendiamo perché tanto spesso non ci è possibile reprimere l’esclamazione: la vita non è facile!” 63 Ma se l’Io non riesce nel suo compito – cioè non riesce a conciliare queste forze in contrasto fra loro – e ad esempio il Super-io prevale sull’Es dominando e reprimendo gli istinti, e quindi provoca la rimozione, si ha la “nevrosi”: le pulsioni che non sono state soddisfatte si manifestano con sintomi nevrotici. Il compito dell’individuo è allora, secondo Freud, quello di intraprendere un lungo e faticoso lavoro per annettere all’Io i territori dell’Es, resistendo alle repressive istanze del Super-io: ovvero un lungo e faticoso lavoro teso al “disvelamento” dei “tesori sepolti nell’interiorità e nel profondo del soggetto”64. L’attacco che Freud conduce contro la filosofia precedente e la scienza ottocentesca si configura allora come radicale. Infatti con Freud si ha l’accettazione dell’inconscio, del lato passionale e istintuale dell’uomo: egli, esploratore delle profondità psichiche, psicologo dell’istinto, riconosce l’importanza e il ruolo centrale della sfera pulsionale dell’animo umano. Freud infatti ribadisce che l’essere umano non si esaurisce nel lato razionale e nella coscienza, che non esiste una manifestazione “pura” del pensiero. Ma scopre e asserisce che in ogni atto umano si iscrivono forze e spinte che si radicano nei profondi abissi pulsionali dell’interiorità dell’uomo fino ad allora sconosciuti ed esalta tale lato inconscio e notturno della vita. Così con Freud viene ribaltata la concezione del conflitto tra le diverse istanze dell’animo umano (“la psiche è un campo di lotta fra tendenze contrapposte tra loro”, Introduzione alla psicoanalisi, 1915-17) che la tradizione filosofica precedente proponeva e completamente modificata la linea di demarcazione che separava, sempre nel pensiero prefreudiano, il “normale” dall’ “anormale”, ciò che è “razionale” da ciò che è “irrazionale”. L’interpretazione dei sogni, opera fondamentale di Freud (“l’opera della mia vita”), rappresenta “il primo atto di penetrazione” nei territori dell’inconscio, “territori che la scienza […] aveva rimosso da sé come dominio della follia” 65. Freud ritiene che i fenomeni onirici, di cui in quest’opera Freud scopre i meccanismi, costituiscano “la via regia che porta alla conoscenza dell’inconscio nella vita psichica”. Essi infatti, secondo Freud, sono Questa seconda topica psicologica si configura differente dalla prima, con cui non va confusa. Infatti, mentre l’Es corrisponde all’inconscio della prima topica, l’Io e il Super-io non possono essere identificati totalmente con il preconscio e il conscio. 64 Le Garzatine, Filosofia, p. 410. 65 Ivi, p. 409. 63 “l’appagamento (camuffato) di un desiderio (rimosso)”. Il medico viennese distingue, all’interno dei sogni, un contenuto manifesto, ovvero la scena onirica, e un contenuto latente, ovvero l’insieme delle tendenze passionali e pulsionali che danno luogo alla scena onirica. I sogni dunque richiamano e rappresentano dei desideri, sono espressione e manifestazione dell’inconscio o Es, ma non in forma diretta: si tratta infatti di desideri inaccettabili dal soggetto, che sono quindi da questo repressi e censurati. “Il contenuto manifesto dei sogni è” cioè “nient’altro che la forma elaborata e travestita – sotto effetto della censura – in cui si presentano i desideri latenti. Ma se ogni sogno è la realizzazione di un desiderio […], l’interpretazione psicoanalitica dei sogni consiste nel ripercorrere a ritroso il processo di traslazione del contenuto latente in quello manifesto, al fine di cogliere i messaggi segreti dell’Es”66. Così Freud elabora riguardo al sogno “un vero e proprio modello di accesso all’inconscio […] che potrà essere esteso anche ad altre manifestazioni psichiche”67. Nella Psicopatologia della vita quotidiana (1901) infatti Freud estende il campo d’indagine: analizza ed esamina i microfenomeni della vita di tutti i giorni – quali i lapsus, le dimenticanze, gli errori, gli incidenti banali, i comportamenti ossessivi, le fobie, ecc. – che fino ad allora erano stati attribuiti al “caso” e relegati nel campo delle “distrazioni”, e quindi, in quanto tali, considerati trascurabili. Freud ritiene invece – “applicando […] il principio del determinismo psichico, secondo cui, nella nostra mente, nulla avviene in modo fortuito, ma ogni evento è il prodotto necessario di determinate cause”68 – che anche questi microfenomeni abbiano un significato. Anche essi sono infatti, come i sogni, una manifestazione ed espressione dell’inconscio. Per quanto riguarda i lapsus linguae si può fare l’esempio del giovane che dice di apprezzare la “spogliatezza” in luogo della “spigliatezza” di un’attrice, o quello della bambina che, quando le si chiede di scegliere tra cioccolata e giocattoli, risponde “cioccolattoli”, ecc.; riguardo poi contrattempi e incidenti come le dimenticanze Freud ritiene che si dimenticano nomi o si smarriscono oggetti, in quanto ad essi sono associati sentimenti inconsci dolorosi o spiacevoli. Freud fa un discorso similare anche a proposito della nevrosi. Anche i sintomi nevrotici infatti sono una manifestazione ed espressione dell’inconscio: essi rappresentano il tentativo delle pulsioni, che sono state represse e rimosse, di emergere, di fare ingresso nel conscio. Dunque secondo il medico viennese nei sogni e nelle forme di attività elencate sopra, in N. Abbagnano, G. Fornero, Fare filosofia, temi, vol. III, p. 74. Le Garzatine, Filosofia, p. 409. 68 N. Abbagnano, G. Fornero, Fare filosofia, temi, vol. III, p. 74. 66 67 quanto forme in cui si verifica un affievolimento del controllo della coscienza, emergono le forze pulsionali inconsce che sono state, dalla coscienza, represse e rimosse; e proprio da questa repressione e rimozione delle pulsioni inconsce scaturiscono le nevrosi. Così la “psicologia del profondo” presuppone l’esistenza di una vita istintiva inconscia, le cui manifestazioni, altrimenti inspiegabili, sono il risultato della repressione o rimozione appunto di tali istinti e pulsioni. Freud sostiene dunque, contro la concezione razionalistica tradizionale che afferma il primato della ragione o coscienza, che in ogni atto umano – nella nevrosi, nel sogno, nel delirio, ecc. – si iscrivono forze e spinte che si radicano nel lato pulsionale inconscio e notturno dell’interiorità dell’uomo. Un altro aspetto fondamentale del pensiero di Freud, che è stato anche quello più “rivoluzionario” e “scandaloso” per la borghesia perbenista dell’epoca, è costituito dalla teoria freudiana della sessualità. Prima di questo pensatore la sessualità costituiva un tabù, era cioè qualcosa di “scandaloso” e “sporco” che andava rifiutato e negato; essa infatti veniva concepita e ammessa solo ai fini della procreazione. Secondo questa visione, spiega Freud, la sessualità “dovrebbe mancare nell’infanzia, subentrare intorno all’epoca della pubertà e in connessione con il suo processo di maturazione, esprimersi in fenomeni di attrazione irresistibile esercitata da un sesso sull’altro; la sua meta dovrebbe essere l’unione sessuale”. Ma se fosse così non si spiegherebbero “tutte le tendenze psicosessuali differenti dal coito”69: non si spiegherebbero cioè la “sessualità infantile” (che tratteremo di seguito), la “sublimazione” – ovvero il trasferimento e la deviazione di un impulso o carica sessuale su oggetti o elementi non sessuali, come il lavoro, l’arte, la scienza, ecc. – e le “perversioni”70 – ovvero ogni attività sessuale che “ha rinunciato al fine riproduttivo e persegue il conseguimento del piacere come fine indipendente”. A Freud quindi va dato il grande merito di aver ampliato il concetto di sessualità, non più circoscritta e limitata ai fini riproduttivi. Freud infatti elabora il concetto di “libido”: l’energia o pulsione fondamentale di natura sessuale che è alla base di tutte le nostre azioni. Lo psicologo dell’inconscio la concepisce “alla stregua di un flusso migratorio localizzato di volta in volta, in corrispondenza dello sviluppo fisico, su alcune parti del corpo, dette ‘zone erogene’ ” 71. All’interno di questa originale, innovativa e rivoluzionaria teoria della sessualità elaborata da Freud si colloca la dottrina della “sessualità infantile”. Nel pensiero Ivi, p. 75. Freud non dà a questo termine una connotazione valutativa, ma solo descrittiva. 71 N. Abbagnano, G. Fornero, Fare filosofia, temi, vol. III, p. 75. 69 70 prefreudiano la sessualità era considerata, proprio in quanto concepita esclusivamente a fini riproduttivi, una prerogativa dell’età adulta e il bambino veniva concepito come una sorta di “angioletto asessuato”. Freud demolisce e confuta questa visione della sessualità e del bambino, con l’attribuzione anche all’infanzia di una forma di sessualità, non più concepita dunque come circoscritta alla funzione riproduttiva e quindi all’età adulta. Egli infatti definisce il bambino come “un essere perverso polimorfo” ovvero come “un individuo capace di perseguire il piacere indipendentemente da scopi riproduttivi (donde la ‘perversione’) e mediante i più svariati organi corporei (donde il ‘polimorfismo’)” 72. Freud sostiene che l’evoluzione della sessualità infantile – che consente di spiegare la presenza di perversioni anche nella vita psichica dell’adulto – ovvero lo sviluppo psicosessuale del soggetto avviene in tre fasi, ognuna delle quali è caratterizzata da una specifica zona erogena peculiare. La prima fase è la “fase orale”, che va dai primi mesi di vita del bambino ad un anno e mezzo circa, ha come zona erogena la bocca. In questa fase infatti la principale attività del bambino, che è dunque anche quella che gli procura piacere, è il poppare (questo rappresenta il più stretto contatto che il bambino può avere con la madre dopo l’esperienza traumatica della nascita, in cui egli è stato separato dalla mamma e dal grembo materno, idilliaco mondo prenatale in cui viveva in simbiosi con lei). La seconda fase, che va da un anno e mezzo circa a tre anni, è la “fase anale”: la zona erogena peculiare di questa fase è l’ano. In questo periodo di vita infatti le funzioni escrementizie sono quelle che procurano piacere al bambino (“tant’è che, preso in braccio e accarezzato, egli tende a rispondere con un libero sfogo delle funzioni corporali” 73). La terza fase dello sviluppo psicosessuale del soggetto è la “fase genitale”, che ha inizio alla fine del terzo anno. Al suo interno vanno distinte due sottofasi: la fase fallica e la fase genitale in senso stretto. La fase fallica viene chiamata così: “a) perché la scoperta del pene costituisce oggetto di attrazione sia per il bambino sia per la bambina, che soffrono entrambi di un ‘complesso di castrazione’ (il primo perché vive sotto la minaccia di una possibile evirazione, la seconda perché si sente di fatto evirata e prova ‘l’invidia del pene’); b) perché l’organo di eccitamento sessuale è il pene o quel suo equivalente femminile che è la clitoride” 74. La fase fallica è seguita da un periodo di latenza, che va dal quarto o sesto anno, ovvero dalla fine della sessualità infantile, all’inizio della pubertà. Dopo questo periodo di latenza ha inizio la fase genitale in Ibidem. Ibidem. 74 Ivi, pp. 75-76. 72 73 senso stretto, durante la quale le pulsioni sessuali si organizzano nelle zone genitali. All’interno della teoria della sessualità infantile si colloca la dottrina del “complesso di Edipo”. Il complesso edipico prende il nome dal personaggio della mitologia greca, Edipo appunto, che uccise suo padre e sposò sua madre. Tale complesso, che si sviluppa durante la fase fallica, consiste in “un attaccamento ‘libidico’ verso il genitore di sesso opposto e in un atteggiamento ambivalente (con componenti positive di affettuosità e tendenza all’identificazione, e componenti negative di ostilità e di gelosia) verso il genitore di egual sesso” (C. Musatti). Freud descrive così il complesso edipico: “Si vede facilmente che il maschietto vuole avere la madre soltanto per sé, avverte come incomoda la presenza del padre, si adira se questi si permette segni di tenerezza verso la madre e manifesta la sua contentezza quando il padre parte per un viaggio o è assente. Spesso dà diretta espressione verbale ai suoi sentimenti, promette alla madre che la sposerà. Si penserà che ciò è poca cosa in confronto alle imprese di Edipo, ma di fatto è abbastanza, in germe è la stessa cosa […]. Quando il piccolo mostra la più scoperta curiosità sessuale per la madre, quando pretende di dormirle accanto la notte, insiste per essere presente alla sua toeletta o intraprendere addirittura tentativi di seduzione – come spesso la madre può constatare e riferire ridendo – la natura erotica del legame con la madre è garantita contro ogni dubbio […]. Quanto alla femmina, esso [il complesso edipico] si configura in modo del tutto analogo, con le necessarie varianti. L’attaccamento affettuoso al padre, la necessità di eliminare la madre come superflua e di occuparne il posto, e una civetteria che mette già in opera i mezzi della futura femminilità, contribuiscono a dare della bambinetta un quadro incantevole, che ci fa dimenticare il lato serio e le possibili gravi conseguenze che giacciono dietro questa situazione infantile. Non trascuriamo di aggiungere che spesso gli stessi genitori esercitano un’influenza decisiva sul risveglio dell’atteggiamento edipico del bambino, abbandonandosi anch’essi all’attrazione sessuale e, nel caso che vi sia più di un figlio, anteponendo nel modo più evidente nel proprio affetto il padre la figlioletta e la madre il figlio […]” (Introduzione alla psicoanalisi, lez. XXI). Freud si occupa anche dell’importante tematica della religione, nelle opere Totem e tabù (1913) e L’avvenire di un’illusione (1927). Secondo Freud la religione non è altro che una falsità, un’invenzione, una creazione, una costruzione dell’uomo: essa infatti viene ricondotta a un appagamento del desiderio infantile, persistente nell’individuo adulto, di protezione dai pericoli della vita. Freud infatti ne L’avvenire di un’illusione scrive che le “rappresentazioni religiose” sono “illusioni, appagamenti di desideri più antichi, più forti, più pressanti dell’umanità; il segreto della loro forza è la forza di questi desideri”. La figura di Dio, Padre ultraterreno ed onnipotente verso il quale si prova amore e venerazione e allo stesso tempo timore e soggezione, si configura allora come “la proiezione dei rapporti psichici ambivalenti [ossia di amore e di odio] con il padre terreno”75. Infine Freud si esprime anche sul tema della civiltà, nella sua opera Il disagio della civiltà (1929). La civiltà, secondo Freud, “implica un ‘costo’ in termini libidici e di felicità”76: essa infatti, per poter essere tale, deve reprimere i desideri, le pulsioni e gli istinti degli individui, e deviarli o “sublimarli” nel lavoro. Il prezzo della civiltà è così la nevrosi, quale disturbo mentale dovuto appunto alla repressione e rimozione di desideri e pulsioni non appagate e soddisfatte. Inoltre la società, che rappresenta la prosecuzione dell’opera paterna, costituisce un Super-io sociale, ovvero un insieme di norme, precetti, proibizioni e divieti: “Il Super-io della civiltà, come quello individuale, affaccia severe esigenze ideali, il mancato conformarsi alle quali viene punito con l’angoscia morale” (Il disagio della civiltà). Anche nelle tematiche della religione e della civiltà, come in tutti gli altri aspetti del pensiero freudiano, emerge l’attacco radicale condotto da Freud contro la filosofia razionalistica tradizionale che afferma il primato della ragione o coscienza, e l’importanza, il ruolo centrale e primario che questo pensatore assegna alla vita istintiva inconscia ovvero al lato pulsionale e notturno dell’interiorità dell’uomo. 75 76 Ivi, p. 76. Ibidem. Bibliografia Abbagnano, N., Fornero, G. Fare filosofia. Autori, voll. I, II, III, Paravia, Torino, 2000. Adorno, F., Gregory, T., Verra, V. Manuale di storia della filosofia, voll. 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