teoria sintetica dell`evoluzione.

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L'evoluzione
Il mutamento più importante nella visione che l'uomo aveva del mondo, della natura vivente e
di se stesso si è verificato in un periodo di un centinaio di anni, a partire dal XVIII secolo
soltanto, quando si fece strada l'idea di cambiamento inteso su lunghi periodi di tempo: in una
parola, l’idea di evoluzione. La visione del mondo che l'uomo ha oggi è dominata dalla
consapevolezza che l'universo, le stelle, la Terra e tutti gli esseri viventi si sono evoluti attraverso
una lunga storia, non preordinata o programmata, ma al contrario in continuo, graduale
cambiamento, modellato da processi naturali più o meno direzionali, conformi alle leggi fisiche.
L'evoluzione cosmica e l'evoluzione biologica hanno questo tratto caratteristico in comune.
Eppure l'evoluzione biologica è, per molti aspetti, fondamentalmente diversa dall'evoluzione
cosmica. In primo luogo, è più complicata e i sistemi viventi, che ne sono i prodotti, sono di gran
lunga più complessi di qualsiasi sistema non vivente. I miti dei popoli primitivi e della maggior
parte delle religioni, riguardanti la creazione, avevano in comune un concetto essenzialmente
statico di un mondo che, una volta creato, era rimasto immutato e che non esisteva, di fatto, da
molto tempo. Il calcolo effettuato nel XVII secolo dal vescovo Ussher, in base al quale il mondo
era stato creato nel 4004 a.C., è degno di nota semplicemente per la scrupolosità fuori luogo
mostrata in un'epoca in cui la portata della storia era ancora misurata, in prospettiva, dal limitato
estendersi nel tempo dei documenti scritti e della tradizione. I naturalisti e i filosofi illuministi
del XVIII secolo e i geologi e biologi del XIX secolo dovettero cominciare a estendere la
dimensione temporale. Nel 1749, il naturalista francese Buffon si mise per primo a calcolare l'età
della Terra e trovò come minimo 70 000 anni (suggerendo un'età di almeno 500 000 anni nelle
sue note inedite). Kant fu ancora più azzardato nella sua Cosmogonia del 1755, in cui scrisse in
termini di milioni, o addirittura di centinaia di milioni, di anni. E’ chiaro che sia Buffon sia Kant
concepivano un universo fisico che si era evoluto.
Il termine «evoluzione» sottintende un cambiamento con continuità, in genere con una
componente direzionale. L'evoluzione biologica si definisce meglio come un cambiamento nella
varietà e nell'adattamento di popolazioni di organismi. La prima teoria coerente dell'evoluzione
fu proposta nel 1809 dal naturalista e filosofo francese Jean Baptiste de Lamarck, il quale si
concentrò sul cambiamento nel tempo, cioè su ciò che gli sembrava essere un progresso in
natura, a partire dai più piccoli organismi visibili fino alle piante, agli animali più complessi e
quasi perfetti e quindi all'uomo.
Confronto tra Darwin e Lamarck
Per spiegare il particolare corso dell'evoluzione, Lamarck chiamava i causa quattro principi:
1. l'esistenza, negli organismi, di una spinta interna verso la perfezione;
2. la capacità degli organismi di adattarsi alle "circostanze", cioè all'ambiente;
3. il frequente verificarsi della generazione spontanea ;
4. la trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti.
La fede nell’ereditabilità dei caratteri acquisiti, errore per il quale Lamarck è soprattutto
ricordato oggi, non era solo sua; ai suoi tempi era una fede universale, solidamente radicata nel
folclore (ne erano espressione la storia di Giacobbe, raccontata dalla Bibbia, e la distinzione del
bestiame bovino in due gruppi: con manto a strisce e con manto a chiazze). Questa convinzione
rimase anche dopo.
Per esempio Darwin ammetteva che l'uso o il non uso di una struttura da parte di una
generazione si sarebbe riflesso nella generazione successiva. Altrettanto fecero molti
evoluzionisti fino alla fine dei XIX secolo quando il biologo tedesco August Weismann dimostrò
l’impossibilità, o perlomeno l’improbabilità, della trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti.
Anche le ipotesi di Lamarck circa una spinta verso la perfezione e una frequente generazione
spontanea non furono confermate. Questo scienziato aveva tuttavia ragione di riconoscere che, in
buona parte, l'evoluzione è ciò che noi oggi chiamiamo evoluzione adattativa. Aveva capito,
inoltre, che la grande varietà degli organismi viventi si può spiegare solo postulando che l'età
della Terra sia molto antica e che l'evoluzione sia un processo graduale.
Lamarck era interessato soprattutto all'evoluzione nella dimensione temporale: per così dire,
all’evoluzione verticale Al contrario, Darwin fu attratto, all'inizio, dalla fonte della diversità e in
modo più specifico, dall'origine delle specie attraverso una diversificazione in dimensione
geografica. Cioè, in pratica, si occupò dell'evoluzione orizzontale. Come è noto, la sua attenzione
per la diversificazione e la speciazione fu risvegliata dal viaggio attorno al mondo che a partire
dal 1831, per ben cinque anni, compì come naturalista sulla Beagle, nave di Sua Maestà
britannica. Alle Galapagos, per esempio, si accorse che ogni isola possedeva il proprio tipo di
tartarughe, di mimi poliglotti e di fringuelli: le varie forme erano legate da una stretta affinità
eppure erano nettamente distinte. Riflettendo sulle sue osservazioni una volta tornato in
Inghilterra, egli giunse alla conclusione che la popolazione di ogni isola era una specie in
formazione, quindi al concetto di «trasmutazione» o evoluzione delle specie. Nel 1838, concepì il
meccanismo che poteva spiegare l'evoluzione: la selezione naturale. Nel 1858, dopo anni di
osservazioni e sperimentazioni, arricchiti di informazioni tratte da ampie letture nel campo della
geologia, della zoologia e in altri settori della scienza, Darwin annunciò a Londra, in forma
preliminare, in una relazione alla Linnean Society, la sua teoria riguardante l'evoluzione per
selezione naturale. Alfred Russel Wallace, un giovane naturalista inglese che stava effettuando
ricerche nell'India orientale, era giunto indipendentemente allo stesso concetto di selezione
naturale e aveva consegnato le sue idee a un manoscritto che aveva spedito a Darwin e che venne
letto nella stessa occasione.
La teoria darwiniana
L'intera teoria darwiniana, sostenuta da innumerevoli osservazioni personali e accuratamente
discussa,venne pubblicata il 24 novembre 1859 nel volume On the Origin of Species. Il suo
ampio schema interpretativo comprendeva un certo numero di sottoteorie, o postulati, tra le quali
sceglierò le quattro che ritengo siano le principali. Due di esse concordavano con il pensiero di
Lamarck.
a. La prima postulava che il mondo non è statico, ma in evoluzione. Le specie cambiano
continuamente: se ne originano di nuove e altre si estinguono. I viventi, di cui si vede il
riflesso nella documentazione fossile, cambiano con il tempo e, quanto più sono antichi, tanto
più differiscono visibilmente dagli organismi viventi. Dovunque si guardi in natura, si
incontrano fenomeni che non hanno alcun senso se non in termini di evoluzione.
b. Il secondo concetto lamarckiano di Darwin postulava, invece, che il processo evolutivo è di
tipo graduale e continuo cioè non presenta salti discontinui o cambiamenti bruschi.
c. I due altri postulati darwiniani erano concetti essenzialmente nuovi. Uno concerneva la
discendenza comune. Per Lamarck, ogni organismo - o gruppo di organismi rappresentava una linea evolutiva indipendente, che aveva avuto inizio nella generazione
spontanea ed era spinto continuamente verso la perfezione.
Darwin sosteneva, invece che gli organismi simili erano legati tra loro, discendendo da un
antenato comune. Egli avanzava l'ipotesi che tutti i mammiferi fossero derivati da un'unica specie
ancestrale, che tutti gli insetti avessero un antenato comune e così pure tutti gli organismi di
qualsiasi altro gruppo. Sottintendeva, in realtà, che tutti gli organismi viventi potessero essere
fatti risalire a un'unica fonte di vita.
L'inclusione dell'uomo nella discendenza comune dei mammiferi fu considerata da molti come
un imperdonabile insulto che Darwin aveva lanciato alla razza umana e scatenò una tempesta di
proteste. Quell'idea aveva però un potere interpretativo così grande da essere adottata
immediatamente dalla maggior parte dei biologi. Spiegava, infatti, sia la gerarchia linneana delle
categorie tassonomiche sia il risultato, ottenuto in anatomia comparata, secondo cui tutti gli
organismi potevano essere assegnati a un limitato numero di tipo morfologici.
d. La quarta sottoteoria di Darwin postulava, infine, la selezione naturale ed era la chiave di
volta del suo vasto schema. Il cambiamento evoIutivo, diceva, non è il risultato di una spinta
lamarckiana qualunque e non è neppure semplicemente un fatto casuale; è, invece, il risultato
di una selezione.
La selezione è un processo che si svolge in due fasi.
a) La prima produce variazioni: in ogni generazione, secondo Darwin, si produceva
un'enorme quantità di variazione, di cui egli non conosceva la fonte e che potè essere capita
solo dopo il sorgere della genetica. Darwin conosceva solo empiricamente la riserva,
apparentemente inesauribile, delle grandi e piccole differenze dentro la specie.
b) La seconda fase consiste nella selezione, che si attua attraverso la sopravvivenza nella lotta
per l'esistenza. Nella maggior parte delle specie animali e vegetali, un insieme di genitori
produce migliaia, se non milioni, di discendenti. La lettura che Darwin aveva compiuto di
Malthus l'aveva reso edotto sul fatto che, di questi discendenti, solo pochissimi riuscivano a
sopravvivere. Quali avrebbero questa fortuna? Quelli che hanno la combinazione di caratteri
più consona per far fronte all'ambiente, inclusi in questo il clima, i competitori, i nemici. Essi
avrebbero la maggior probabilità di sopravvivere, di riprodursi e di lasciare dei discendenti e,
in tal modo, le loro caratteristiche sarebbero disponibili per il successivo ciclo selettivo.
Il concetto di un mondo in evoluzione, al posto di un mondo statico, fu quasi universalmente
accettato dagli scienziati seri anche prima della morte di Darwin, avvenuta nel 1882. Costoro
accettavano anche il concetto di discendenza comune (pur essendovi quelli che insistevano nel
togliere l'uomo da una simile genealogia comune).
Gradualità e selezione naturale sono viene accettate con difficoltà.
Due altri postulati darwiniani furono acremente combattuti da molte persone abili e dotte nei
successivi 50-80 anni. Uno dei postulati riguardava il concetto di gradualità. Perfino Thomas H.
Huxley, che era chiamato «il bulldog di Darwin», tanto era vigorosa la sua difesa di quasi tutti gli
aspetti della nuova teoria, non potè accettare l'origine graduale dei tipi superiori e delle nuove
specie: in contrapposizione propose un'evoluzione «a salti». Quest'idea trovò consensi anche
presso biologi come Hugo De Vries, uno di coloro che riscoprirono le leggi dell'ereditarietà di G.
Mendel. Nel 1901, De Vries propose una teoria in base alla quale le nuove specie, si
originerebbero per mutazione. Ancora nel 1940 il genetista Richard B.G. Goldschmidt difendeva
le «mutazioni sistemiche» come fonte dei nuovi tipi superiori.
(Tre eventi portarono al definitivo abbandono di queste teorie dell'evoluzione per salti. Il primo
fu la graduale adozione di un nuovo atteggiamento verso il mondo fisico e la sua variazione.
Dai tempi di Platone, l'idea dominante era stata quella che il filosofo Karl Popper ha chiamato
«essenzialismo»: il mondo consiste di un numero limitato di essenze invarianti (le idee di
Platone) di cui i mutevoli fenomeni del mondo visibile sono semplicemente riflessi incompleti e
imprecisi. In una concezione di questo tipo, un vero cambiamento può insorgere soltanto
attraverso l'origine di una nuova essenza o per creazione o per salti spontanei (mutazioni). Le
classi di oggetti fisici consistono di entità identiche e le costanti fisiche sono invarianti in
condizioni identiche. Pertanto (nel XIX secolo) non vi era conflitto tra la matematica o le scienze
fisiche da una parte e la filosofia dell'essenzialismo dall'altra.
La biologia esigeva una filosofia diversa.) Gli organismi viventi sono caratterizzati dall'unicità:
ogni popolazione consiste di individui diversi in maniera unica. Quando si pensa a una
popolazione, i valori medi sono astrazioni: solo l'individuo variante è realtà. L'importanza della
popolazione è nel suo essere un pool di variazioni (un pool di geni, nel linguaggio della
genetica). Adottando questo punto di vista l'evoluzione graduale diventa un fatto possibile e
domina oggi ogni aspetto della teoria evoluzionistica.
Il secondo evento che ha portato al rifiuto dell'evoluzione per salti fu la scoperta dell'immensa
variabilità delle popolazioni naturali, con la comprensione che un'elevata variabilità di fattori
genetici discontinui, ammesso che ve ne siano a sufficienza e che le distanze tra loro siano
sufficientemente piccole, si può manifestare con una variazione continua degli organismi. Il terzo
evento fu la dimostrazione, da parte dei naturalisti, che i processi di evoluzione graduale
possono spiegare perfettamente l'origine di discontinuità, come le nuove specie e i nuovi tipi, e di
novità evolutive, come le ali degli uccelli e i polmoni dei vertebrati.
L'altro concetto darwiniano, cui si opposero a lungo quasi tutti i biologi e i filosofi fu quello
di selezione naturale. All'inizio molti lo respingevano perché non era deterministico e pertanto
non consentiva di formulare previsioni nello stile della scienza del XIX secolo. Come poteva una
«legge di natura» (poiché come tale era proposta la selezione natura le) essere esclusivamente
una questione casualità? Altri attaccavano il «grossolano materialismo» di quel concetto. Nel
XIX secolo, l'attribuire l'armonia mondo vivente all'operato arbitrario della selezione significava
minare l'«argomentazione in favore di un progetto», tipica della teologia naturale, secondo cui
l'esistenza di un Creatore poteva essere dedotta dall'elegante progetto delle sue opere. Coloro
che respingevano la selezione naturale per motivi di ordine religioso o filosofico, o
semplicemente perche sembrava loro un processo troppo casuale per spiegare l'evoluzione,
continuarono per molti anni a proporre schemi alternativi, con nomi come ortogenesi,
monogenesi, aristogenesi o «principio omega» (Teilhard de Chardin), ciascuno basato su qualche
tendenza o spinta interna verso la perfezione o il progresso. Tutte queste teorie erano
finalistiche: postulavano qualche forma di teleologia cosmica, di finalità o di programma.
I sostenitori delle teorie teleologiche, malgrado i loro sforzi, non riuscirono a trovare meccanismi
(eccetto quelli soprannaturali) che potessero spiegare il finalismo che postulavano. La possibilità
che un qualsiasi meccanismo del genere esista è stata esclusa in epoca recente dai dati della
biologia molecolare.
Monod (Il caso e la necessità).
Come Jacques Monod sosteneva con particolare vigore, il materiale genetico è costante e
può cambiare solo attraverso la mutazione. Le teorie finalistiche sono state confutate anche dalla
documentazione paleontologica, come ha dimostrato con la massima chiarezza George Gaylord
Simpson. Quando si esamina attentamente la tendenza evolutiva di un qualsiasi carattere - per
esempio una tendenza verso una maggiore mole corporea o verso denti più lunghi - si trova che
essa non è uniforme, ma cambia direzione ripetute volte e perfino, di tanto in tanto, si inverte. La
frequenza dell'estinzione in ogni periodo geologico è un altro potente argomento contro una
qualsiasi tendenza finalistica verso la perfezione.
Per quanto riguarda l'obiezione al presunto aspetto casuale della selezione naturale, non è
difficile affrontare l'argomento. Questo processo di selezione naturale non è affatto una questione
di pura casualità. Benché le variazioni insorgano attraverso processi casuali, esse sono poi scelte
nella seconda fase del processo: la selezione attraverso la sopravvivenza, che è un fattore
decisamente opposto al caso. E, se cionondimeno è vero che qualche forma di evoluzione è il
risultato del caso, si sa oggi che i processi fisici hanno in generale una componente probabilistica
ben più ampia di quanto non venisse riconosciuto un centinaio di anni fa.
Anche così, la selezione naturale riesce a spiegare il lungo progresso evolutivo fino alle piante
e agli animali detti «superiori», ivi compreso l'uomo, a partire dall'origine della vita che si situa
tra tre o quattro miliardi di anni fa. Come può essa rendere ragione non soltanto della
sopravvivenza differenziata e dei cambiamenti adattativi all'interno di una specie, ma anche
dell'origine di nuove specie adattate in maniera diversa? Anche in questo caso è stato Darwin a
suggerire la risposta esatta. Un organismo compete non soltanto con gli altri individui della
stessa specie, ma anche con gli individui di specie diverse. Un nuovo adattamento, o un generale
perfezionamento fisiologico, renderà quell'individuo e i suoi discendenti competitori
interspecifici più potenti e contribuirà così alla loro diversificazione e specializzazione,
specializzazione che potrà anche essere un vicolo a fondo cieco, come nel caso dell'adattamento
alla vita o in grotte o in sorgenti calde. Tuttavia, molte specializzazioni, particolarmente quelle
acquisite in una fase precoce della vita evolutiva, hanno permesso di accedere a livelli
interamente nuovi di radiazione adattativa: dall'invenzione di membrane e di un nucleo cellulare
organizzato alla comparsa di sistemi nervosi centrali estremamente sviluppati e di cure parentali
prolungate.
L'evoluzione, come ha sottolineato Simpson, è temerariamente opportunistica: favorisce qualsiasi
variazione che offra un vantaggio competitivo su altri membri della popolazione a cui appartiene
l'organismo o su altri individui di specie diverse. Per miliardi di anni questo processo ha
automaticamente alimentato ciò che chiamiamo progresso evolutivo. Nessun programma lo ha
controllato o diretto: è stato il risultato di «decisioni» prese lì per lì dalla selezione naturale.
L’incertezza di Darwin a riguardo della 'fonte della variabilità genetica, che fornisce la materia
prima per la selezione naturale, ha lasciato una falla importante nelle sue argomentazioni, falla
che è stata turata dalla genetica. Nel 1865, Mendel scoprì che i fattori che trasmettono
l'informazione ereditaria sono unità distinte, trasmesse da ogni genitore alla prole: unità che si
mantengono intatte e che vengono rimescolate a ogni generazione. Darwin non fu mai a
conoscenza di questi risultati mendeliani, rimasti ignorati fino alla loro riscoperta, avvenuta nel
1900.
Geni e DNA
Sappiamo oggi che il DNA nel nucleo cellulare è organizzato in numerosi geni
autoduplicantisi (le unità ereditarie di Mendel), che possono mutare formando diversi alleli, o
forme alternative. Esistono geni strutturali, che codificano per l'informazione relativa alla
produzione di una proteina specifica, ed esistono geni regolatori, che attivano e disattivano i geni
strutturali. Un gene strutturale mutato può codificare per una proteina variante, il che conduce a
un carattere diverso. I geni sono disposti in fila sui cromosomi e possono ricombinarsi l'uno con
l'altro durante la meiosi, il processo cellulare che precede la formazione dei gameti nelle specie
dotate di riproduzione sessuale. La varietà di genotipi che può prodursi durante la meiosi è di
una vastità quasi inimmaginabile e in buona parte si conserva nelle popolazioni malgrado la
selezione naturale .
Stranamente i primi sostenitori di Mendel non accettavano la teoria della selezione naturale:
essi sostenevano l'essenzialismo e l'evoluzione per salti e consideravano la mutazione come la
probabile forza propulsiva dell'evoluzione. Questo atteggiamento cominciò a modificarsi negli
anni venti con lo sviluppo della genetica di popolazione. Alla fine, negli anni trenta e quaranta,
venne realizzata una sintesi, espressa e largamente diffusa da autori quali Thoedosius
Dobzhansky, Julian Huxley, Bernard Rensch, Simpson, G. Ledyard Stebbins e me stesso. La
nuova «teoria sintetica» ampliava la teoria darwiniana dell'evoluzione alla luce della teoria
cromosornica dell'eredità, della genetica di popolazione, dei concetto biologico di specie e di
molti altri concetti biologici e paleontologici. La nuova sintesi è caratterizzata dal
a. completo rifiuto della trasmissione ereditaria dei caratteri acquisiti, da un'enfasi sulla
gradualità dell'evoluzione,
b. dalla realizzazione che i fenomeni evolutivi sono fenomeni di popolazione e
c. dal riaffermare l'importanza preponderante del processo di selezione naturale.
La comprensione del processo evolutivo, raggiunta grazie alla teoria sintetica, ha avuto un
profondo effetto su tutta la biologia: ci si è resi conto che ogni problema biologico pone un
interrogativo di carattere evolutivo, che, cioè, è legittimo chiedersi, nei riguardi di una qualsiasi
struttura, funzione, o processo biologico: «Perché proprio qui?», «Qual era il suo vantaggio
selettivo quando è stato acquisito?». Domande dei genere hanno avuto un enorme impatto su
ogni branca della biologia, in particolare sulla biologia molecolare, sugli studi comportamentali e
sull'ecologia .
Filosofi e fisici, come del resto il semplice uomo della strada, continuano a incontrare
difficoltà nell'interpretare la moderna teoria dell'evoluzione organica attraverso la selezione
naturale. A rischio di ripetere qualche punto che ho già citato in un contesto storico, delineerò qui
le caratteristiche speciali della teoria corrente, in particolare attirando l'attenzione su ciò che
distingue l'evoluzione organica dall'evoluzione cosmica e da altri processi di cui si occupano i
fisici.
Il futuro dell’umanità.
Gli eventi del passato che cosa permettono di predire circa il futuro dell'umanità? Dato che non
esiste alcun elemento finalistico nell'evoluzione organica e non vi è trasmissione ereditaria dei
caratteri acquisiti, la selezione è l'unico meccanismo che possa influenzare l'evoluzione biologica
umana.
Questa conclusione pone un dilemma.
L'eugenica, o selezione deliberata, sarebbe in conflitto con i più ambiti valori umani. Anche se
non vi fossero obiezioni morali, l'informazione necessaria su cui basare una simile selezione non
è ancora disponibile. Non sappiamo quasi nulla della componente genetica dei caratteri umani
non fisici. Vi sono innumerevoli tipi e molto diversi fra loro, di esseri umani «buoni», «utili» o
ben adattati. Anche se potessimo scegliere una serie di caratteristiche momentaneamente ideali,
i cambiamenti generati nella società dai progressi tecnologici procedono così rapidamente che
nessuno potrebbe predire quale particolare miscuglio di talenti condurrebbe in futuro a una
società umana dotata della massima armonia. «L'umanità è ancora in evoluzione», diceva
Dobzhansky, ma non sappiamo dove essa sia diretta biologicamente.
C'è comunque un altro tipo di evoluzione: l'evoluzione culturale. Un processo unicamente
umano, mediante il quale l'uomo in qualche misura si modella e si adatta al proprio ambiente.
(«Mentre uccelli, pipistrelli e insetti sono diventati volatori, evolvendosi geneticamente per
milioni di anni - sottolineava Dobzhansky l'uomo è diventato il volatore più potente di tutti,
costruendo macchine volanti e non ricostruendo il proprio genotipo. L'evoluzione culturale è un
processo di gran lunga più rapido dell'evoluzione biologica. Una delle sue caratteristiche è la
fondamentale (e stranamente lamarckiana) capacità degli esseri umani di evolvere culturalmente
attraverso la trasmissione - di generazione in generazione - di informazioni apprese, ivi inclusi i
valori morali (e immorali). Sicuramente in quest'area si possono compiere ancora grandi
progressi, considerando appunto il basso livello dei valori morali dell'uomo d'oggi. Pur non
avendo alcun mezzo per influenzare la nostra evoluzione biologica, possiamo sicuramente
influire sulla nostra evoluzione culturale e morale. Il fare questo in direzioni che abbiano un
valore adattativo per tutta l'umanità sarebbe un obiettivo realistico per l'evoluzione, ma rimane il
fatto che, in una specie umana non controllata geneticamente, vi sono limiti sia all'evoluzione
culturale sia a quella morale.