Fine vita, il valore della persona

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ATTUALITà • Fine vita, il valore della persona
Fine vita,
il valore
della persona
Il ddl Calabrò sul biotestamento contrasta con il Codice deontologico
professionale degli Infermieri.
La posizione dell’Ipasvi e la clausola di coscienza
di Daniela Binello
N
el corso dell’ultimo anno il disegno di legge sul
fine vita ha rappresentato un argomento la cui
portata etica, e non meramente legislativa, è stata più volte al centro di opinioni e riflessioni che si sono
articolate in un ampio dibattito in tutto il paese. L’Ipasvi,
anche per il coinvolgimento professionale degli infermieri
su tale tematica, ha ritenuto di dover esprimere la propria
posizione. È stato pertanto convocato ed effettuato un
Consiglio nazionale – aperto anche a tutte le Associazioni
infermieristiche – in cui è svolta una ricca e approfondita
riflessione sul tema del fine vita e sui contenuti del cosiddetto disegno di legge Calabrò ossia “Disposizioni in
materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e
di dichiarazioni anticipate di trattamento”.
La posizione assunta dal Consiglio nazionale – espressa
in un Pronunciamento – è stata presentata il 16 dicembre u.s in una conferenza stampa nazionale. “Il nostro
Pronunciamento non nasce certo oggi – ha premesso ai
giornalisti Annalisa Silvestro, presidente della Federazione nazionale dei Collegi Ipasvi –, ma è il risultato di una
riflessione molto approfondita che abbiamo avviato fin dal
2008, quando abbiamo intrapreso il processo di revisione
del nostro Codice deontologico. Questa riflessione etica
non avrebbe potuto non toccare tematiche di particolare
sensibilità e rilevanza quali la terminalità della vita, il
rispetto delle volontà dell’assistito e il suo accompagnamento nel fine vita. Da qui la nostra decisione di rendere
pubbliche le nostre valutazioni”.
Secondo l’Ipasvi il ddl Calabrò: non assume come fondante la centralità della persona e delle sue volontà, assegna una forte discrezionalità decisoria al medico, non
riconosce il lavoro in team e quindi il ruolo dell’intera
équipe assistenziale nell’accompagnamento dell’assistito al fine vita.
Il grande bagaglio di esperienza e di vissuti ha particolarmente arricchito il dibattito, che si è sistematicamente richiamato al Codice deontologico e ha trovato sintesi
condivisa nel “Pronunciamento” (cfr. Pronunciamento.
La persona nel fine vita, pubblicato su L’infermiere, n.
5-6/2009, pp. 5-6) inteso come posizione pubblica degli infermieri che, in assenza di sostanziali modifiche
all’attuale disegno di legge, potrebbero anche appellarsi alla clausola di coscienza, così come previsto dall’articolo 8 del loro Codice deontologico 2009.
.
La clausola di coscienza
La clausola di coscienza, inserita nel Codice deontologico
2009, evidenzia una chiara assunzione di responsabilità
etica e deontologica nel caso si evidenziassero situazioni
a forte coinvolgimento valoriale e professionale per le
quali l’ordinamento giuridico italiano non prevedesse
la possibilità di avvalersi dell’obiezione di coscienza. La
clausola di coscienza, infatti, indica un principio guida
al quale ispirare il comportamento etico degli operatori
sanitari in quei casi dove l’obiezione di coscienza pro-
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priamente detta non sia contemplata per legge (AAVV,
Commentario del Codice, a cura di Annalisa Silvestro,
Ed. McGraw-Hill, Milano 2009, p. 18).
In altre parole l’infermiere, in quanto persona umana e
soggetto libero, ha il diritto d’agire in modo coerente e
secondo la propria dignità morale, qualora si riscontri
una situazione assistenziale configgente con i principi
della professione e con il suo personale sistema di valori.
Infatti la dignità morale di una persona si esprime e passa attraverso la scelta delle azioni da compiere: questo
vale, legittimamente, anche per l’infermiere, il quale ha
il diritto di rifiutare la partecipazione a talune azioni
sulla base della propria deontologia professionale e coscienza individuale. Un eventuale veto ad avvalersi della
clausola di coscienza o il vedersi sottrarre con la forza la
libertà del proprio atto di coscienza rappresenterebbe,
altrimenti, oltre a un’umiliazione, anche la negazione
del diritto alla sua dignità umana.
L’obiezione di coscienza in ambito sanitario è disciplinata giuridicamente in tre casi ben definiti: la legge
sull’aborto, sulla sperimentazione animale e sulla procreazione medicalmente assistita. Quando all’uscita del
Codice deontologico 2009 è apparsa la scelta della Federazione Ipasvi di rifarsi alla clausola anziché all’obiezione di coscienza, sono state proposte alcune osservazioni. La clausola di coscienza, va detto, sconta l’essere
un’assoluta new entry nella storia della deontologia italiana: il neologismo fu introdotto dal Comitato Nazionale di Bioetica nel 2004, in un documento relativo alla
posizione dei farmacisti sulla pillola del giorno dopo.
In realtà la clausola di coscienza può essere ricondotta
ad alcuni articoli costituzionali: gli articoli 2 (inviolabilità dei diritti dell’uomo), 19 (sulle libertà religiose) e 21
(sulla libertà d’espressione). Esistono, inoltre, rilevanti
protocolli e convenzioni internazionali in materia di diritti universali e inalienabili che rappresentano un punto di riferimento a sostegno della legittimità del ricorso
alla clausola di coscienza in determinate situazioni, anche in assenza di norme specifiche che la autorizzino e
regolamentino, come d’altra parte accadde nel nostro
paese con le prime forme di rifiuto del servizio di leva,
allora identificate come diserzioni in assenza di una
specifica normativa. Ma come sappiamo, la norma non
precede le questioni morali, caso mai le regolamenta
nella più ampia società, una volta emerse all’attenzione
comune.
Sebbene la posizione soggettiva specifica dell’obiettore
non trovi nella Costituzione italiana un riferimento normativo esplicito, il complesso normativo cui ci siamo
riferiti induce ad affermare che la libertà di coscienza
comporti anche il diritto d’agire secondo i dettami della propria morale a patto che, tutelate e rispettate le
L’iter legislativo del ddl “Disposizioni in materia di alleanza terapeutica,
di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento”
Il disegno di legge ha focalizzato un confronto su un complesso di valutazioni e istanze che non hanno ancora
trovato modo di conciliarsi fra loro. Di particolare rilevanza è la scelta effettuata rispetto al ruolo del medico, a
cui il ddl assegna in forma esclusiva la competenza e gli oneri decisionali nei confronti dell’assistito nel fine vita.
Superando la precedente dizione (living will o testamento biologico), le dichiarazioni anticipate di trattamento
entrano quale punto focale nel ddl in questione, raccogliendo così una terminologia ormai corrente derivante dai
documenti internazionali di riferimento (Convenzione di Oviedo, 1997).
Il disegno di legge Calabrò Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento è approdato al vaglio della Commissione Affari Sociali della Camera nella
seconda metà del dicembre 2009, insieme alla presentazione di circa 2.700 emendamenti. Nel marzo
scorso lo stesso ddl aveva ottenuto l’approvazione
al Senato con 150 voti favorevoli, 123 contrari e 3
astenuti.
L’iter parlamentare prevede adesso la discussione
e la votazione degli emendamenti al ddl nell’ambito della Commissione Affari Sociali della Camera,
al fine di raggiungere l’obiettivo di sottoporre in
Aula il testo unificato e tradurlo in legge. Il relatore di questa fase, tuttora in corso alla Camera, è
l’onorevole Di Virgilio (Pdl).
La discussione degli emendamenti, comunque,
procede a rilento.
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libertà fondamentali e i diritti inviolabili dell’uomo, il
diritto di scegliere secondo coscienza non violi i principi costituzionali. È quanto accaduto, come già accennato, nella Nota sulla contraccezione d’emergenza,
emanata dal Comitato Nazionale di Bioetica il 28 maggio 2004, che attribuisce al medico a cui venga richiesta tale prescrizione il diritto di appellarsi alla clausola
di coscienza, a prescindere dalle disposizioni normative riferite all’oggetto dell’obiezione. Da ciò si può
dedurre, quindi, che “sulla base di tale fondamento di
legittimità, la clausola di coscienza può essere estesa anche a tutte le altre professioni sanitarie e trovare così applicazione in tutte quelle situazioni clinico-assistenziali
in cui la libertà della coscienza morale personale possa
essere messa a rischio” (A. Silvestro, in Commentario
cit., pp. 92-97).
Una riflessione che continua anche sui
mass media
La maggior parte delle criticità sul testo del ddl sul fine
vita sono state trattate dai mass media nazionali e da
un numero significativo di quotidiani e periodici regionali,
con particolare riferimento al Pronunciamento dell’Ipasvi
e alle interviste rilasciate dalla presidente Annalisa Silvestro. Dalla seconda metà del dicembre scorso, fino a
oggi, è stata raccolta una rassegna di articoli che dimostrano quanto questa tematica vada a colpire i nodi più
sensibili della vita delle persone e delle famiglie, mettendo a nudo, per così dire, molti nervi tuttora scoperti
in campo etico, legislativo, costituzionale. Questa riflessione, non in ultima analisi, riguarda anche la qualità
del rapporto fra le varie professioni che interagiscono e
formano il nostro sistema sanitario.
Le tre maggiori Agenzie di stampa nazionali (Ansa, Agi
e Adnkronos) hanno rilanciato quasi integralmente il
Pronunciamento, titolando pressoché all’unisono il richiamo degli infermieri alle norme espresse nel Codice
deontologico per valutare l’articolato del disegno di legge 2350, con la richiesta di poter esercitare la clausola di
coscienza. “Il nostro Codice deontologico – ha dichiarato
la Presidente Ipasvi ad Adnkronos Salute – esprime un
indirizzo chiaro e a cui ci sentiamo fortemente vincolati:
se il testo di legge rimanesse inalterato e se persistesse una
richiesta di attività in contrasto con i principi etici della
professione e con i nostri valori, si potrebbero determinare
situazioni in cui gli infermieri sarebbero indotti ad appellarsi alla clausola di coscienza. Noi vogliamo continuare
ad assistere i nostri pazienti nella fase del fine vita, nel
rispetto della loro dignità e volontà, attraverso atteggiamenti e gesti che vogliono accogliere e che sanno ascoltare,
comunicare, lenire”.
Il quotidiano Il Tirreno, fra gli altri, ha pubblicato una
riflessione della presidente che mette in campo un ulteriore ragionamento: “Se oggi esiste un equilibrio tra il
ruolo del medico e quello degli infermieri, la creazione di
staff articolati annullerà di fatto le richieste disposte dal
paziente, delegando al medico tutte le decisioni. Assistere, tuttavia, non significa soltanto operare delle scelte su
farmaci, dialisi o ausilio respiratorio, ma rappresenta il
modo di affrontare una tematica su un piano generale,
che coinvolge gli aspetti psicofisici della persona, ed è per
questo che la decisionalità caso per caso è di fondamentale importanza”.
Anche in un articolo apparso su Il Messaggero e in un
servizio dell’inserto sulla sanità di Il Sole 24 Ore è stata
sottolineata l’importanza del coinvolgimento dell’intera
équipe assistenziale, aspetto ripreso in altri resoconti
pubblicati su Il Fatto Quotidiano e su diverse testate
regionali come, ad esempio, sulla Gazzetta del Sud e sul
Messaggero Veneto.
Anche i siti d’informazione online di Kataweb, Quotidiano.net, Focus Salute, Il Bisturi, Salute Domani, Salute
news, e diversi altri hanno dato riscontro del Pronunciamento dell’Ipasvi e sul web dell’Aduc, nella rubrica
dedicata alla salute, è stato posto in particolare risalto il
fatto che da parte della Camera è stata operata la scelta
di “non ascoltare mediante audizione alcun rappresentante della professione infermieristica, la quale, più di ogni
altra, è vicina agli assistiti in ogni istante della fase terminale della vita”. Infine, è andata in onda
su Radio Radicale una lunga intervista ad
Annalisa Silvestro, nell’ambito
della quale la presidente Ipasvi
ha concluso che “i rapporti tra
l’assistito, i suoi cari, il medico,
l’infermiere e l’équipe assistenziale
non possono essere rigidamente definiti da una legge potenzialmente
fonte di dilemmi etici e difficoltà
relazionali, ma devono essere vissuti e sviluppati secondo le norme dei
Codici deontologici”.
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Uno sguardo allo scenario
internazionale
D
a una ricognizione legislativa nel panorama internazionale in materia di fine vita, la punta di diamante è notoriamente rappresentata dagli Stati
Uniti, quale paese precursore mondiale del “via libera”
al testamento biologico (Living Will) a partire dal caso di
Karen Ann Quinlan del 1975, sul quale si è attivato un imponente confronto sul Right To Die fino a produrre, appena un anno dopo, il Natural Death Act emanato dallo stato
della California. A livello federale, l’efficacia del Living Will
è stata sancita nel 1991 con il Patient Self Determination Act
(atto successivo, ma analogamente al caso Quinlan, sollevato dal dibattito sul trattamento artificiale che teneva in vita
Nancy Cruzan). Il caso di Terry Schiavo, però, ha nuovamente riaperto la questione nel 1998, in quanto nello Stato
della Florida non era previsto che in assenza del testamento
biologico si potesse dare corso all’interruzione del trattamento. Nel tentativo di superare le contraddizioni sorte
all’interno del nucleo familiare, che peraltro riproducevano
quelle che si riscontrano nella società, nel 2003 è stata emanata in Florida la cosiddetta Terry’s Law. Dichiarata incostituzionale, è stata poi annullata. Nel 2005, di questo caso
irrisolto, se ne è occupato allora direttamente il Congresso,
deliberando un atto specifico che ha trasferito la relativa
competenza giurisdizionale alla Corte Suprema Federale. La
Corte, però, non ha accolto il ricorso dei genitori di Terry
Schiavo e quindi, nel marzo del 2005, si è potuto procedere
al distacco del tubo di alimentazione.
In Francia dopo la legge n. 370 del 22 aprile 2005 sui diritti
del malato e sul fine vita, si è reso necessario modificare il
Code de la Santé Publique e, in particolare, l’articolo L. 111110. Tale articolo prescrive che se una persona, in fase avanzata o terminale di una malattia grave e incurabile, decide di
limitare o interrompere ogni trattamento, il medico è tenuto
a rispettarne la volontà. Il medico deve informare il paziente
sulle conseguenze della scelta al fine di salvaguardare la dignità dell’assistito e assicurargli la qualità della vita con il ricorso a terapie palliative. Questo articolo è strettamente correlato all’articolo L. 1111-4 che riguarda il diritto al consenso
informato. Nel caso in cui, però, l’assistito sia impossibilitato
a esprimere la propria volontà, anche per mezzo della propria
famiglia o di un suo fiduciario, la decisione è presa dal medico curante, previa concertazione con l’équipe assistenziale e
dietro parere motivato di almeno un altro medico (in qualità
di consulente).
In Germania, il testamento biologico trova applicazione
nella pratica, ma non è ancora stato oggetto di una normativa specifica, pur essendo riconosciuto dalla giurisprudenza. Con la sentenza del 17 marzo 2003 (BGH XII ZB
2/03), la Corte suprema federale ha dichiarato la legittimità
e il carattere vincolante del Patientenverfügung (letteralmente atto di disposizione del paziente). Con questa decisione, la
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Corte federale ha perciò ricondotto l’importanza dell’atto di
disposizione al diritto di autodeterminazione dell’individuo.
Il principio di tutela della dignità umana, fissato dall’articolo
1, comma 1, della Legge Fondamentale (Grundgesetz), stabilisce che una decisione presa da un soggetto nel pieno delle
sue facoltà mentali debba essere rispettata anche qualora sia
sopravvenuto uno stato d’incapacità.
Nei Paesi Bassi dal 12 aprile 2001 è stata introdotta la Legge
per il controllo d’interruzione della vita su richiesta e assistenza
al suicidio (legge n. 194). La cosiddetta legge sul diritto all’eutanasia stabilisce nei minimi dettagli i criteri di accuratezza secondo i quali può essere prestata l’assistenza al suicidio. Se
rispettati scrupolosamente si esclude la punibilità del medico
che ha provocato la morte del paziente consenziente. La stessa legge prevede anche l’istituzione di Commissioni regionali
per il controllo sull’interruzione della vita, le quali hanno il
compito di verificare che il medico abbia rispettato i criteri
di accuratezza citati. Annualmente, le Commissioni devono
trasmettere un rapporto analitico al Governo centrale.
Nel Regno Unito è stato adottato il Mental Capacity Act,
che è in vigore dal 1° ottobre 2007, sebbene il testamento
biologico fosse da tempo riconosciuto da una consolidata
giurisprudenza.
Il Mental Act istituisce un quadro giuridico molto preciso
in particolare per i soggetti incapaci di prendere decisioni
in modo autonomo, nonché riguardo alle dichiarazioni anticipate di volontà (anche nei casi di sopravvenienza d’incapacità). La legislazione britannica per i casi d’incapacità
persegue il criterio dei best interests. Dunque, anche il Mental Act attribuisce alle volontà scritte dal paziente, o più in
generale alle convinzioni e ai valori espressi dal medesimo
quand’era nel pieno delle sue facoltà mentali, i parametri cui
attenersi nel fine vita. Il Mental Act individua nell’interesse
del paziente una persona in grado di prendere le decisioni
in sua vece. A tal fine, è stato istituito l’IMCA (Independent
Mental Capacity Advocate), cioè una figura giuridica che rappresenta il paziente in stato d’incapacità, nei casi in cui non
abbia lasciato volontà anticipate.
In Spagna la legge base è la n. 41 del 14 novembre 2002,
strutturata su due principi cardine: l’autonomia del paziente
e i diritti e gli obblighi in materia d’informazione clinica. A
questa legge base si aggiungono, poi, alcune leggi e decreti
emanati dalle Comunità Autonome (Catalogna, Galizia, Paesi Baschi e altre), su cui prevale in caso di discrepanze l’articolo 149, comma 1, nn. 1 e 16, della Costituzione spagnola,
che assicura a tutti i cittadini medesime garanzie e diritti. Per
quanto attiene il fine vita, la legge base n. 41 prevede (all’articolo 2, commi 2 e 4, e articoli 4, 6, 10) che il paziente possa
accettare o rifiutare di sottoporsi a specifici trattamenti dopo
che il medico gli avrà fornito un’informazione completa. In
caso di stato d’incapacità dell’assistito, tale prassi è rivolta al
rappresentante legale del paziente (un familiare o una persona a lui legata anche di fatto).
(D.B.)
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