Una Fedra diversa. Il teatro di Seneca secondo

Una Fedra diversa. Il teatro di Seneca secondo Andrea De
Rosa
Lunedì 23 Novembre 2015
È andata in scena la scorsa settimana al Teatro Bonci di Cesena la prima nazionale di
Fedra; sulla scena, tra gli altri, Laura Marinoni, Anna Coppola e Fabrizio Falco, diretti dalla
convincente regia di Andrea De Rosa, in uno spettacolo co-prodotto da Emilia Romagna
Teatro Fondazione
Nella sua Fedra Seneca fa una scelta precisa, che marca una distanza significativa tra il suo testo e quello euripideo di
partenza. Seneca decide di non mettere in scena gli dei.
Se nell'opera del drammaturgo greco Afrodite e Artemide si lasciano andare a commenti sprezzanti, contemplando la triste
sorte dei personaggi dall'alto, in modo distaccato come solo agli dei è permesso, i lunghi monologhi che compongono il testo
del moralista latino sono invece frutto della tragica disperazione di personaggi in tutto e per tutto mortali.
Occorre dunque tenere presente la scelta registica di Andrea De Rosa e cercarne le ragioni profonde: perché, nonostante si
sia cimentato con l'opera di Seneca, ha voluto lasciare sulla scena una presenza divina? Perché affidare alla convincente
interpretazione di Anna Coppola una rossa Afrodite attempata, dalla risata sardonica, sarcastica commentatrice (tutta greca)
delle sorti del povero Ippolito (il giovanissimo Fabrizio Falco), di Teseo (Luca Lazzareschi) e di Fedra (una magnifica Laura
Marinoni)?
La risposta, che rimane inevasa per tutta la durata dello spettacolo, ci viene fornita nelle ultime battute proprio da De Rosa
che innesta (genialmente) sul testo originale euripideo un passaggio chiave delle Lettere a Lucilio, un vero e proprio atto di
fede proto-cristiano, e lo fa pronunciare direttamente dalla dea:
“È vicino, è con te, è dentro di te. Proprio questo voglio dirti, o Lucilio: alberga dentro di noi un sacro spirito che osserva e
custodisce segnate le nostre azioni buone e cattive. Come è trattato da noi, così egli ci tratta. Nessuno riesce ad essere uomo
veramente buono senza Dio: nessuno infatti riuscirebbe senza l'aiuto suo a sollevarsi al di sopra della fortuna. Egli suggerisce
idee grandi e diritte. Non si sa quale dio, ma un dio abita in ogni uomo virtuoso.”
Cesenanotizie
De Rosa riesce in questo modo a rendere evidente tutta la contraddizione del testo di Seneca, pensatore stoico ormai lontano
dalla congerie intellettuale dell'antica Grecia euripidea. È vero, il testo di Seneca è accomunato a quello di Euripide nella
ferma condanna della passione sfrenata di Fedra, madre rapita da un vero e proprio furor amoroso per il figliastro Ippolito; e
Seneca può farlo senza problemi, perché si tratta della trasposizione teatrale di un topos comune della trattatistica stoica
greco-latina, l'esaltazione dell'apatia razionale del saggio contro la nocività delle passioni, che devono essere controllate e,
nei limiti dell'umano, represse. Ma non possiamo giudicare in un'ottica stoica la vicenda di Fedra.
La tragicità della sua condizione risiede proprio nell'impossibilità totale del controllo del suo furor, direttamente provocato
dall'invidia di Afrodite; e, lo sappiamo, è impossibile scampare al volere di un dio, impossibile scrollarsi di dosso un eros che ci
coglie come una malattia.
Forse. Quello che emerge dal passaggio della famosa lettera a Lucilio è una nuova sensibilità che sta prendendo piede e che
nutrirà filosoficamente il nascente pensiero cristiano: è l'idea di una responsabilità personale del colpevole, e di uno spazio
concesso da dio – che, in Seneca, è già ridotto a uno – alle azioni dell'uomo. Un dio che non commenta dall'esterno, che non
ride delle miserie umane, ma che, all'uomo virtuoso, suggerisce sempre la scelta giusta. La decisione di compierla sta ad
ognuno di noi: ed è questo lo spazio di responsabilità che colpevolizza la Fedra di Seneca, laddove in Euripide l'ammanta
della tragicità dell'ingiustizia.
Fedra è sì presa da un eros snaturato, ma per Seneca – così come per il tardo stoicismo – è in lei la facoltà razionale di
controllarlo. Questo giustifica le parole, in realtà piuttosto ciniche, che all'inizio dell'opera le rivolge la nutrice (la promettente
Tamara Balducci):
“L'amore eÌ€ un dio? Questo lo dice la libidine, che eÌ€ turpe e complice del vizio. Per essere piuÌ€ libera ha dato il nome di un
dio alle sue voglie... Ma certo! Venere manda qua e là suo figlio, per tutto il mondo, e lui, svolazzando, con la sua tenera
manina lancia dardi crudeli. Tra gli dei, dunque, il piuÌ€ piccolo ha il potere piuÌ€ grande... Tutto questo eÌ€ assurdo!”
Quando, alla fine dello spettacolo, la Venere-Anna Coppola si toglie la maschera e ammette candidamente di “non essere
niente”, De Rosa ci consegna il significato più puro del pensiero di Seneca, che veste della severità romana la filosofie morali
greche: siamo noi stessi gli unici responsabili della nostra sventura.
E se lo spettacolo, co-prodotto dal Teatro Stabile di Torino e da Emilia Romagna Teatro Fondazione, è assolutamente
convincente dal punto di vista contenutistico, è da quello formale, per così dire, che stupisce maggiormente. Le scene, a cura
di Simone Mannino, le luci, di Pasquale Mari, e il suono, a cura di Gup Alcaro, sono congegnati in modo assolutamente
originale, capaci di far balzare sulla sedia lo spettatore durante i passaggi più forti, e di tenere viva l'attenzione durante quelli
più delicati. La casa-scatola al centro della scena, che potrebbe rappresentare il privato dei personaggi, il loro intimo,
contrapposto allo spazio pubblico del palco, è una trovata scenica elegante e di carica assolutamente erotica; la decisione di
velare il viso ai personaggi relegati nell'Ade, sulla destra del palco, è convincente perché attinge la sua ragion d'essere
direttamente dall'immaginario del pensiero greco: una volta nell'Ade, gli spiriti dei morti perdono la loro identità, si confondono
gli uni negli altri, abdicano alla necessità di un volto univoco.
Visto al Teatro Bonci di Cesena, domenica 22 novembre 2015
Iacopo Gardelli
Cultura
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