SESSIONE ORDINARIA 2007 Io ho quel che ho donato (Seneca)

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ESAME DI STATO DI LICEO CLASSICO - SESSIONE ORDINARIA 2007
Io ho quel che ho donato (Seneca)
Traduzione
Mi sembra che Marco Antonio, in un’opera del poeta Rabirio, vedendo la sua buona sorte
allontanarsi altrove e che nulla gli era rimasto se non il diritto di morire, e anche questo (solo) se lo
avesse presto esercitato, esclami del tutto appropriatamente: “ Io possiedo questo: tutto ciò che ho
donato”
Oh, quanto avrebbe potuto possedere, se lo avesse voluto! Queste sono le ricchezze sicure, quelle
che rimarranno al loro posto in qualsiasi volubile circostanza della ventura umana; e queste, quanto
maggiori saranno, tanto minore invidia susciteranno. Perché (dunque) risparmi (ciò che possiedi)
come se (fosse) tuo? Tu ne sei (solo) un amministratore. Tutti questi beni che, (rendendovi) tronfi e
superbi al di sopra della condizione umana, vi inducono a dimenticarvi della vostra fragilità, che voi
in armi custodite con chiavistelli di ferro, che, dopo averli razziati con spargimento di sangue altrui,
difendete col vostro, a causa dei quali fate salpare le flotte che insanguineranno i mari, a causa dei
quali distruggete le città, non sapendo quante frecce la sorte prepari per (colpirvi) alle spalle, a
causa dei quali, dopo aver tante volte infranto i vincoli di parentela, di amicizia, di colleganza, il
mondo intero si è spaccato tra due contendenti, (ebbene) non sono vostri; (questi beni) sono in
deposito e da un momento all’altro apparterranno ad un altro proprietario; oppure un nemico o un
erede con animo ostile se ne approprierà. Ti chiedi come tu possa renderli tuoi? Con l’elargirli in
dono. Prenditi cura dei tuoi beni dunque e assicuratene un possesso saldo e inattaccabile, per
renderli non solo più sicuri, ma anche per te più onorevoli. Questa (ricchezza), che tu ammiri e per
mezzo della quale ritieni (di essere) ricco e potente, fintanto che la possiedi è gravata da nomi
squallidi: è la casa, è il servo, sono i soldi; ma ,quando l’hai data in dono, è un beneficio.
Commento
Il passo, tratto dal libro VI del De beneficiis di Seneca, è incentrato sull’apparente paradosso, che
l’autore qui si compiace di evidenziare e di illustrare, secondo cui i soli veri beni sono quelli che si
danno in dono. Una volta compreso il concetto di fondo, il testo è abbastanza accessibile nella sua
parte centrale ( a partire da Omnia ista…) che pure si presenta un po’ complessa a causa della
lunghezza del periodo, costituito da una serie di relative col quae in anafora che appunto allude ai
“falsi beni”. Tuttavia, sia nella parte iniziale che in quella finale, sono in agguato alcune insidie che
richiedono una maggiore attenzione e dimestichezza con lo stile senecano. Infatti, nella prima frase
bisognava intendere che apud Rabirium poetam alludeva a un’opera di questo scrittore e che il
verbo occupaverit andava inteso nella accezione di “sfruttare, esercitare”(invece che del consueto
“impadronirsi”), in quanto attinente a ius mortis . Più avanti, si vede il cum in correlazione con hoc,
invece che con l’atteso tum, dopodiché ci si imbatte nella brachilogia della domanda Quid tamquam
tuo parcis? che necessita di integrazioni indispensabili per la resa in italiano. Superate queste
difficoltà iniziali, tuttavia, il passo prosegue senza presentare particolari difficoltà, anche se sarebbe
stato opportuno inserire, nella terzultima riga del testo, una virgola tra para e honestiores per
rendere più evidente la separazione tra principale e subordinata implicita.
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