Macchine elettriche statiche Amedeo Andreotti - Simone Falco - Luigi Verolino 2 Macchine elettriche statiche Indice Prefazione Capitolo 1 Generalità sulle macchine elettriche Capitolo 2 Il trasformatore Capitolo 3 Conversione dell’energia Capitolo 4 Pile ed accumulatori 3 Macchine elettriche statiche Prefazione In questo testo sono raccolte alcune lezioni sulle macchine elettriche statiche. In particolare, dopo l’introduzione di alcuni concetti fondamentali, è ampiamente trattato il trasformatore, sia monofase che trifase, nel secondo capitolo; la conversione da corrente alternata a corrente continua viene presa in esame nel terzo capitolo; infine, nel quarto capitolo, viene diffusamente esaminata la conversione di energia chimica in elettrica, trattando delle pile e degli accumulatori. In ogni capitolo vengono offerti al lettore più attento ed interessato spunti di riflessione ed approfondimento, come, ad esempio, nell’appendice del primo capitolo in cui viene discussa la definizione di induttore in condizioni quasi stazionarie. La conoscenza dei concetti fondamentali relativi ai campi elettici e magnetici è indispensabile alla comprensione di quanto esposto: si pensi, ad esempio, ai circuiti magnetici che, in questo testo, vengono utilizzati per modellare il trasformatore, la cui spiegazione è data per acquisita. Quale riferimento per questa parte propedeutica si può considerare il volume di Campi elettrici e magnetici di questa collana. A. A. - S. F. - L. V. Settembre 2002 4 Macchine elettriche statiche Capitolo 1 Generalità sulle macchine elettriche 1.1 Introduzione 1.2 Un po’ di gergo 1.3 Rendimento e perdite 1.4 Un cenno ai materiali 1.5 Principio di funzionamento dei generatori 1.6 Campo magnetico rotante 1.7 Riscaldamento delle macchine elettriche Appendice: la tensione ai capi di un induttore Sommario In questo capitolo tenteremo di capire, seppure per sommi capi, come un alternatore ed un motore funzionino, quali siano i materiali più di frequente utilizzati nella costruzione delle macchine elettriche, come si definisca e si valuti il rendimento e quali strategie si utilizzino per aumentarlo. Queste sono solo alcune delle domande cui cercheremo di dare una risposta nel presente capitolo. 5 Macchine elettriche statiche 1.1 Introduzione Scopo di questo capitolo è capire come funziona un motore elettrico, quali i princìpi generali che consentono la trasformazione di energia meccanica in energia elettrica. E poi, che cosa è un alternatore, come si definisce, si valuta (magari, si incrementa) il rendimento di una macchina elettrica e quali i materiali più frequentemente utilizzati nelle cosiddette ‘costruzioni elettromeccaniche’. Come di intuisce, si tratta di argomenti dai quali qualunque studio serio delle macchine elettriche non può prescindere. Ciò che segue ha, dunque, lo scopo di fornire qualche informazione di carattere generale, comune a tutte le macchine elettriche, attirando la vostra attenzione su quelli che vengono chiamati i ‘concetti di base’, piuttosto che sui dettagli costruttivi. Tenteremo, per grosse linee, di descrivere il funzionamento dei generatori, anche detti alternatori, e dei motori, eliminando, però, tutti quei particolari costruttivi, peraltro utilissimi, ma che, se raccontati a questo stadio di apprendimento, risultano soltanto inutili distrazioni. Non preoccupatevene troppo, comunque: tutto si chiarirà, pian piano, ... strada facendo. Di una cosa, però, siamo sicuri: una macchina elettrica è costituita da opportuni avvolgimenti, realizzati su ferro. Per questo è stata per noi un’esigenza irrinunciabile concludere questo capitolo con un’appendice nella quale si definisse sotto quali condizioni la tensione ai capi di un induttore si può interpretare come una differenza di potenziale. Vogliamo, in altri termini, discutere quando un dato avvolgimento possa essere compiutamente descritto per mezzo di un bipolo induttore che, come certamente ricorderete, ha lo scopo di immagazzinare l’energia magnetica. 1.2 Un po’ di gergo Lo studio delle macchine elettriche non può essere adeguatamente intrapreso senza l’introduzione di alcuni termini che, nel seguito, useremo frequentemente. Senza alcuna pretesa di spiegare compiutamente i dispositivi e gli apparati che qui introdurremo, vogliamo iniziare presentando il gergo comunemente adoperato dagli esperti di macchine elettriche. In una accezione del tutto generale, chiameremo macchina elettrica un qualunque apparato che funzioni sulle basi delle leggi dell’Elettromagnetismo e che sia in grado di convertire energia meccanica in energia elettrica, ovvero di realizzare la trasformazione inversa, cioè trasformare energia elettrica in energia meccanica: questa definizione va opportunamente completata aggiungendo nel novero delle macchine elettriche anche tutti quei dispositivi di modificare il valore 6 Macchine elettriche statiche oppure le caratteristiche di grandezze elettriche. Per rendere più esplicito quanto detto, si parla di macchina, senza aggiungere altro, ogni qual volta si ha a che fare con un dispositivo che realizzi la conversione di energia meccanica, o qualsiasi altra forma di energia, in energia elettrica: pensate, ad esempio, ai generatori di tensione che abbiamo introdotto studiando la teoria delle reti; non sappiamo bene secondo quali trasformazioni energetiche, ma siamo certi che si tratta di bipoli i quali, a spese di un’altra forma di energia, mettono a disposizione del circuito a cui sono collegati una certa quantità di energia elettrica. Invece, si chiama motore un qualsiasi apparato che realizza la conversione duale, quella, cioè, che trasforma l’energia elettrica in energia meccanica. Energia meccanica Macchina Energia elettrica Energia elettrica Motore Energia meccanica Figura 1.1: definizione di macchina e motore elettrico. Le macchine elettriche vengono, poi, tradizionalmente divise in due grandi gruppi: la macchine statiche e le macchine rotanti. Le macchine statiche, così dette perché prive di parti in movimento, modificano il valore della corrente o della tensione alternata forniti in ingresso mantenendo pressoché inalterato il valore della potenza fornita in ingresso: a questa prima categoria appartiene, senza dubbio, il trasformatore. Le macchine rotanti, nelle quali è presente una parte che ruota attorno ad un asse, appartengono a tre tipi fondamentali: il tipo sincrono, che opera in regime sinusoidale e la velocità di rotazione è costante; il tipo asincrono, che funziona sempre in regime sinusoidale con una velocità di rotazione dipendente dal campo magnetico interno alla macchina e variabile con il carico; il tipo a corrente continua, che opera in regime stazionario, poiché l’energia viene fornita o prodottauna Infine, in corrente menzionecontinua. particolare meritano tre dispositivi che svolgono importanti funzioni che sono chiarite dalla stessa definizione: il convertitore, che modifica la frequenza delle grandezze alternate, realizzando una trasformazione della frequenza del segnale di ingresso oppure trasformando le grandezze alternate in 7 Macchine elettriche statiche grandezze continue; l’invertitore che trasforma grandezze continue in alternate; il raddrizzatore che converte grandezze alternate in grandezze, a valor medio non nullo, da cui si estrae una grandezza continua. Lo schema che segue riassume in forma grafica la principali classificazioni della macchine elettriche date in precedenza. Macchine elettriche Statiche Rotanti Trasformatore A corrente continua Motore Generatore A corrente alternata Motore Generatore Sincrono Asincrono 1.3 Rendimento e perdite I materiali che costituiscono una macchina elettrica sono soggetti a perdite di varia natura durante il funzionamento: possono essere sia perdite nei conduttori che costituiscono gli avvolgimenti, tipicamente di rame, sia perdite nel ferro e, nel caso delle macchine rotanti, perdite meccaniche, per attrito e ventilazione, che devono essere tenute in debito conto. Tra poco discuteremo dettagliatamente le perdite elettriche, dedicando solo pochi cenni a quelle meccaniche. Comunque, siano elettriche o meccaniche, una macchina elettrica è sede di perdite. • Rendimento Prima di esaminare queste perdite in qualche dettaglio, però, definiamo il rendimento. Ogni apparato (passivo) funziona per effetto di una potenza fornita in ingresso PIN e restituisce una potenza in uscita PUS, come schematicamente indicato in Figura 1.2. La differenza 8 Macchine elettriche statiche PASS = PIN - PUS rappresenta la potenza assorbita dall’apparecchio nel suo funzionamento. Chiameremo rendimento il rapporto tra la potenza resa in uscita e quella fornita in ingresso η = PUS . PIN PASS PIN Generico dispositivo PUS Figura 1.2: definizione del rendimento. Questo rapporto, sempre più piccolo dell’unità, può anche essere espresso nelle due forme equivalenti PUS η = PIN - PASS = , PIN PUS + PASS e nel seguito discuteremo in quali circostanze sia più utile usare l’una o l’altra forma. È abitudine diffusa introdurre anche il rendimento percentuale, dato da η % = 100 PUS . PIN Diremo, pertanto, che un certo motore ha un rendimento η = 0.82 (o η % = 82%) intendendo che restituisce l’82% della potenza fornitagli in ingresso. Il rimanente 18% viene perduto sotto forma di perdite elettriche o meccaniche. Infine, è ovvio che il rendimento è un numero sempre compreso tra zero e uno 0≤η≤1, 9 Macchine elettriche statiche dato che, essendo il dispositivo passivo, la potenza resa in uscita è necessariamente più piccola di quella fornita in ingresso. Uno dei problemi fondamentali che ci impegnerà non poco, durante l’intero studio delle macchine elettriche, è la messa a punto di tutte quelle strategie che consentano di aumentare il rendimento di una macchina. E questo, credeteci, non è un affare semplice ... come avrete modo di constatare, di qui a non molto. • Perdite nel rame La Figura 1.3 ha lo scopo di ricordare che un conduttore percorso da una corrente si può approssimare con un resistore. L ρ R=ρL S S Figura 1.3: resistenza associata ad un filo conduttore. Gli avvolgimenti di una macchina elettrica, che sono dei conduttori tipicamente di rame (σCu ≅ 58 MS/m), sono, dunque, sede di perdite per effetto Joule, rappresentabili per mezzo della relazione PCu = R I2 . Se siamo in regime stazionario, I rappresenta la corrente che passa attraverso il resistore; in regime sinusoidale, I rappresenta, invece, il valore efficace della corrente. Per calcolare il corretto valore di resistenza da inserire in questa formula, è necessario considerare il numero totale di avvolgimenti sede di perdite, sia nell’indotto che nell’induttore, numero che dipende dal tipo di macchina, monofase o trifase. Cosa ciò compiutamente significhi tutto ciò, sarà chiarito più avanti, tuttavia vale la pena precisare che il circuito induttore (anche detto circuito di eccitazione della macchina) ha lo scopo di creare il campo magnetico mediante la circolazione di corrente (anche detta di eccitazione) nei conduttori che lo costituiscono, mentre il circuito indotto raccoglie le variazioni del campo magnetico, diventando sede di tensioni e correnti indotte, che, durante il funzionamento della macchina, contribuiscono a determinare il campo magnetico complessivo e l’insieme delle azioni esercitate da questo avvolgimento prende il nome di reazione di indotto. 10 Macchine elettriche statiche Comunque, nel caso di conduttori di rame funzionanti con una densità di corrente di 4 A/mm 2, la perdita specifica, intesa come perdita per unità di massa, è pari a 40 W/kg. • Perdite nel ferro Un materiale ferromagnetico, che talvolta indicheremo genericamente come ‘ferro’, quando viene immerso in un campo magnetico variabile, finisce per riscaldarsi. Questo innalzamento di temperatura è sostanzialmente dovuto a due tipi di perdite: le perdite per correnti parassite; le perdite per isteresi. Prima di esaminare questi due fenomeni dissipativi, diciamo subito che essi comportano una trasformazione dell’energia del campo elettromagnetico in energia termica, che si manifesta sotto forma di innalzamento della temperatura media del materiale. Ora, questa perdita di energia, che non viene utilizzata per gli scopi per i quali la macchina è stata progettata, produce un eccesso di energia termica che rappresenta uno dei più grossi problemi per le macchine elettriche, soprattutto per quelle che devono lavorare per elevati valori di potenza, dato che, se diventasse troppo sostenuta, potrebbe danneggiare in maniera irreversibile il comportamento dell’intero apparato. Il buon progetto di una macchina, pertanto, non può prescindere da un adeguato sistema di raffreddamento che abbia lo scopo di ‘estrarre’ dalle parti più importanti e delicate del nostro apparato quel calore in eccesso che potrebbe risultare oltremodo dannoso. Cerchiamo, allora, di spiegare quali processi fisici sono alla base di queste perdite. • Perdite per correnti parassite Consideriamo il cilindro conduttore, di resistività ρ, mostrato in Figura 1.4. Questo cilindro sia immerso in un campo di induzione magnetica, uniforme nello spazio e diretto parallelamente all’asse del cilindro, descritto da un’unica componente che varia, nel tempo, secondo la funzione sinusoidale di pulsazione ω B(t) = BM sen(ωt) = B 2 sen(ωt) . In forma simbolica, questa sinusoide si può rappresentare, facendo una convenzione ai valori efficaci, per mezzo del numero complesso B(t) → B = B . 11 Macchine elettriche statiche Fate attenzione a non confondere, nella precedente relazione, il fasore B, che è un numero complesso, con il vettore B(t), che è un vettore reale. Immaginiamo che il conduttore sia composto da tanti tubi cilindrici coassiali di piccolo spessore, che indicheremo con ∆r. Il generico tubo di raggio interno r, spessore ∆r e lunghezza L, può essere pensato come una spira che si concatena con il flusso Φ(t) sinusoidale, anch’esso esprimibile in forma simbolica Φ(t) = π r 2 B(t) → Φ = π r 2 B = π r 2 B . 2r L S = π a2 ρ B(t) 2(r + ∆r) Figura 1.4: calcolo delle correnti parassite indotte in un cilindro conduttore. Dalla legge dell’induzione elettromagnetica, o legge di Faraday - Neumann, è noto che nella spira si induce una forza elettromotrice, ovviamente sinusoidale, rappresentabile come e(t) = - d Φ(t) → E = - j ω Φ = - j ω π r 2 B . dt Questa forza elettromotrice tende a far circolare una corrente nella spira che fluisce, dunque, in circuiti circolari coassiali col cilindro. La conduttanza, offerta dalla spira al passaggio della corrente, ricordando la seconda legge di Ohm, vale ∆G = L ∆r , 2πrρ mentre il valore efficace della corrente che circola nella spira, trascurando l’induttanza della spira stessa, è pari a ∆I = E ∆G = E L ∆r . 2πrρ 12 Macchine elettriche statiche La potenza attiva ∆P ∆P = E ∆I = E2 ∆G , dissipata nella spira per effetto Joule e legata al passaggio di questa corrente, in forza delle precedenti espressioni, diventa ∆P = π L ω 2 B2 r 3 ∆r . 2ρ Soffermiamoci un momento a riflettere su cosa abbiamo ottenuto questa potenza: abbiamo immerso un cilindro conduttore in un campo di induzione magnetica, uniforme nello spazio e variabile sinusoidalmente nel tempo; nel conduttore, per effetto del campo elettrico indotto, si è creata una circolazione di corrente, determinata facendo ‘a fettine’ il cilindro; per ciascuna porzione, dopo averne valutato la conduttanza, si è calcolato la corrente e, quindi, la potenza in essa dissipata. Ora, è chiaro che le quantità finite, indicate con la lettera greca ∆, possono essere considerate indefinitamente piccole, operando la sostituzione formale della ‘∆’ con la ‘d’. Facciamo ciò allo scopo di integrare rispetto al raggio, per calcolare la potenza P, complessivamente assorbita dal cilindro: P = π L ω 2 B2 2ρ a 0 4 r 3 dr = πL ω 2 B2 a . ρ 8 Volendo mettere in evidenza la potenza PCP , dovuta alle correnti parassite, anche dette di Foucault, ed assorbita nell’unità di volume, si può anche scrivere PCP = 2 2 P = ω 2 B2 a2 , = π2 f BM a2 . 8ρ 4ρ π a2 L dove il pedice ‘CP’ sta per correnti parassite. Questa formula mette chiaramente in risalto che la potenza per unità di volume, assorbita in un conduttore per correnti parassite, dipende dal quadrato sia della frequenza che del valore efficace del campo. Formule diverse si possono ricavare per conduttori di forma diversa, ma la precedente espressione fornisce un’indicazione del modo in cui influiscono sulle perdite alcuni parametri 13 Macchine elettriche statiche PCP = kCP B2M f 2 . La costante kCP , seppur ricavata nel caso particolare di conduttore cilindrico 2 2 kCP = π a = π S , 4ρ 4ρ dipende, ovviamente, dal tipo di materiale e dalla geometria che si considera. Si noti come, mantenendo fissi tutti gli altri parametri, questa costante dipende dalla superficie della sezione trasversa del conduttore. Ne deriva l’opportunità, quando è possibile, di sostituire a un unico conduttore un insieme di conduttori, isolati tra loro per mezzo di una vernice isolante oppure semplicemente dell’ossido che tra essi si forma, aventi sezione globale equivalente, ma con sezione individuale ridotta: è molto diffuso l’uso di laminati, anziché di materiali massicci. Ovviamente la laminazione va effettuata in senso parallelo alla direzione di magnetizzazione. B B Vernice isolante Laminato Compatto Figura 1.5: materiale ferromagnetico composto da lamierini sovrapposti. Lo spessore tipico dei lamierini dipende dalla applicazioni cui sono destinati ma è, comunque, di pochi millimetri. La Figura 1.5 suggerisce, tra l’altro, un metodo per realizzare l’impacchettamento dei lamierini. • Perdite per isteresi Si consideri, poi, il caso, comune in tutte le macchine elettriche, di un circuito magnetico, costituito da materiale ferromagnetico, sede di flusso variabile sinusoidalmente nel tempo. Il materiale non solo è dotato di una certa conduttività che determina, come abbiamo appena visto, la presenza di correnti parassite e, dunque, di una potenza perduta non trascurabile, ma è anche sede di potenza perduta per isteresi. La Figura 1.6 rappresenta un ciclo di isteresi. 14 Macchine elettriche statiche Uno studio sperimentale, condotto su diversi tipi di materiali ferromagnetici, mostra che le perdite di potenza attiva PI, per unità di volume, dovute all’isteresi di un materiale sottoposto a magnetizzazione ciclica alternativa, sono proporzionali all’area del ciclo di isteresi e possono essere espresse per mezzo della relazione PI = kI f B αM , dove kI, che dipende dal tipo di materiale, rappresenta un coefficiente che dipende dal materiale, f è la frequenza, BM è il valore massimo di induzione magnetica ed α, detto coefficiente di Steinmetz, è un numero reale, compreso tra 1.6 e 2, che dipende dal valore massimo dell’induzione magnetica e che va determinato sperimentalmente. B 0 H Figura 1.6: ciclo di isteresi. Approssimativamente si può dire che l’esponente di Steinmetz assume i valori α= 1.6 , per BM < 1 T ; 2, per BM ≥ 1 T . • Cifra di perdita 15 Macchine elettriche statiche Sommando le perdite per correnti parassite e per isteresi, si ottiene la perdita complessiva nel ferro che, riferita all’unità di volume, vale PFe = PCP + PI = kCP B2M f 2+ k I f B αM . Questa formula risulta, tuttavia, di non facile applicazione, data la difficoltà di calcolo di tutti i parametri presenti, e, per caratterizzare il comportamento di un determinato materiale riguardo alle perdite, viene spesso utilizzata anche la cosiddetta cifra di perdita, che rappresenta la potenza perduta in un chilogrammo di materiale ferromagnetico quando esso è sottoposto a un campo di induzione sinusoidale, con frequenza di 50 Hz e valore massimo prestabilito di induzione magnetica (che può essere di 1 T oppure di 1.5 T a seconda dei casi). La cifra di perdita, espressa in watt al chilogrammo, è quindi il parametro più significativo a rappresentare in modo sintetico la bontà del materiale sotto l’aspetto delle perdite; tecnicamente esso è l’unico parametro fornito dai produttori di materiali magnetici, essendo di scarsa utilità pratica la conoscenza dei vari coefficienti che compaiono nelle diverse formule, tra l’altro approssimate, utili essenzialmente per la comprensione dei fenomeni. Informazioni più complete, ma non molto diffuse, sono i vari diagrammi sperimentali sull’andamento delle perdite al variare dei parametri più importanti. Per avere un’idea dell’ordine di grandezza della cifra di perdita, si ricordi che lamierini di ferro al silicio di spessore (0.35 ÷ 0.5) mm, con tenore di silicio (0.1 ÷ 5)%, hanno cifre di perdita che vanno da circa 0.8 W/kg, per basso spessore ed alto tenore di silicio, a circa 3 W/kg, per elevato spessore e basso tenore di silicio. Attualmente i materiali più usati per le costruzioni elettromeccaniche hanno cifre di perdita intorno a 1 W/kg. La cifra di perdita viene generalmente riferita a lamiere nuove; nella valutazione delle perdite nel ferro si deve tener conto di un aumento di circa il 10% per l’invecchiamento del materiale e per le lavorazioni meccaniche a cui i lamierini vengono sottoposti durante le diverse fasi di costituzione dei nuclei magnetici. Riassumendo, i due tipi di perdite esaminate vengono normalmente indicate come perdite nel ferro. Esse costituiscono un inconveniente non soltanto per l’abbassamento del rendimento globale della macchina, ma anche, e soprattutto, per gli effetti termici connessi con lo sviluppo di calore conseguente. La loro presenza richiede, pertanto, una serie di provvedimenti, che si possono riassumere nella laminazione e nell’uso di leghe speciali, che hanno lo scopo di mantenerle entro limiti economicamente accettabili e che esamineremo, in maggior dettaglio, più avanti. 16 Macchine elettriche statiche • Perdite negli isolamenti Anche negli isolamenti delle macchine elettriche vi sono delle perdite di potenza attiva, dette perdite dielettriche. Esse sono dovute al fenomeno dell’isteresi dielettrica che si ha nel funzionamento in corrente alternata: variando con continuità la polarità della tensione agente su uno strato isolante, si verifica, in modo analogo a quanto avviene in un condensatore reale, l’inversione ciclica del verso della polarizzazione delle molecole dell’isolante, con un conseguente movimento di cariche elettriche che genera una dissipazione di energia elettrica all’interno dell’isolante. La perdita specifica, per unità di massa, è data dalla relazione PDI = ω ε E 2 tan δ , d dove ω è la pulsazione della tensione applicata, ε è la costante dielettrica del materiale, d rappresenta la sua densità, E è l’intensità del campo elettrico agente sullo spessore di isolante considerato e tan δ è il cosiddetto fattore di dissipazione del materiale. Queste perdite dielettriche sono dell’ordine di pochi milliwatt per chilogrammo, assai più piccole delle perdite specifiche nel ferro, e possono essere sempre trascurate nel computo della potenza totale perduta da una macchina elettrica. Invece, esse vanno tenute in debito conto nel dimensionamento degli isolamenti al fine di evitare che riscaldamenti localizzati pregiudichino l’integrità dell’isolamento della macchina. • Perdite meccaniche La stima delle perdite meccaniche è assai difficile da fare analiticamente a causa della diversa natura delle stesse e viene, di solito, ricavata in maniera sperimentale. Comunque, per le macchine rotanti, come i motori asincroni oppure i generatori sincroni, è necessario considerare le perdite meccaniche, ascrivibili ai seguenti motivi: perdite per attrito nei cuscinetti di supporto nell’albero motore, dipendenti dal peso della parte rotante e proporzionali alla velocità di rotazione; perdite per ventilazione, dovute essenzialmente all’attrito tra le parti in rotazione e l’aria circostante, rappresentano il grosso delle perdite meccaniche e sono proporzionali al cubo della velocità di rotazione; perdite per attrito tra spazzole e collettore, si verificano nelle macchine, come quelle a corrente continua, in cui, per stabilire il contatto tra due circuiti elettrici, 17 Macchine elettriche statiche vengono appoggiate delle spazzole conduttrici fisse su un particolare organo rotante, detto collettore, e sono proporzionali alla superficie delle spazzole, alla pressione sulla superficie di appoggio ed alla velocità del collettore. • Perdite addizionali Le perdite addizionali sono tutte quelle perdite che si verificano nel funzionamento di una macchina in aggiunta a quelle principali, cioè a quelle ohmiche, nel ferro e meccaniche. Sono di difficile valutazione analitica e vengono determinate sperimentalmente, come differenza tra la potenza totale perduta e la somma delle perdite principali. La maggior parte delle perdite addizionali è dovuta all’azione dei flussi magnetici variabili nel tempo su parti metalliche conduttrici, come le parti strutturali delle macchine, gli alberi meccanici, e così via. Questi flussi determinano delle correnti parassite e, se la parte interessata ha anche un comportamento magnetico, dei cicli di isteresi, con conseguente perdita di potenza attiva. 1.4 Un cenno ai materiali Diamo, ora, qualche rapida informazione sui più comuni materiali che costituiscono le varie parti di una macchina elettrica. Di volta in volta, quando ci tornerà utile, approfondiremo le nozioni contenute in questo paragrafo, che fornisce, comunque, un quadro generale di riferimento per i materiali. Una classificazione dei materiali usati nelle macchine elettriche è la seguente: materiali conduttori; materiali isolanti; materiali magnetici. • Materiali conduttori I conduttori più comunemente usati per realizzare gli avvolgimenti sono il rame e l’alluminio. Il primo, come ricorderete, ha una resistività ρCu = 0.01724 µΩm a 20 °C; il secondo presenta una più alta resistività ρAl = 0.0278 µΩm. In entrambi i casi, dovete sempre tener presente che la resistività è direttamente proporzionale alla temperatura. Altri materiali conduttori, meno adoperati nelle applicazioni elettriche, sono l’argento, il bronzo, l’oro e l’ottone. • Materiali isolanti Gli isolanti, anche detti anche materiali dielettrici, vengono, d’abitudine, caratterizzati dalla rigidità dielettrica (V/m) e dalla costante dielettrica ε. Mettendo 18 Macchine elettriche statiche in risalto ciò che maggiormente interessa per lo studio delle macchine, gli isolanti solidi per le macchine elettriche sono catalogati in base alla temperatura massima ammessa, secondo la tabella di seguito riportata. Classi di isolamento Temperatura massima Esempi C oltre 180° H 180° Come la classe B impregnati con resine siliconiche. F 155° Come la classe B impregnati con collanti organici. B 130° Fibra di vetro, amianto impregnato, mica. E 120° Resine poliesteri, triacetato, fibre particolari. A 105° Carta, seta, cotone impregnati. Y 90° Carta, seta, cotone senza impregnazione. Mica, porcellana, ceramica, vetro. Tra gli isolanti liquidi si citano gli oli minerali e alcuni liquidi a base di silicone. L’uso di questi isolanti ha anche lo scopo di asportare il calore eventualmente generato durante il funzionamento della macchina. Tra gli isolanti gassosi si citano l’aria e l’idrogeno. • Materiali magnetici Tutti i circuiti magnetici sono costituiti da materiali la cui permeabilità magnetica è molto elevata. Lo studio dei campi magnetici nella materia mostra che più elevata è la permeabilità, migliore è l’approssimazione che considera completamente intrappolato nel materiale il campo di induzione magnetica, in modo tale che la superficie che delimita la frontiera del materiale magnetico diventa un tubo di flusso dato che contiene al suo interno tutte le linee del campo di induzione magnetica B. I materiali ferromagnetici si possono dividere nelle due seguenti categorie: materiali dolci, che hanno uno stretto ciclo di isteresi ed un’elevata permeabilità e vengono utilizzati come nuclei di induttori o di mutui induttori o per ottenere elevati valori di induzione in campi prodotti da altri elementi; materiali duri, caratterizzati da un largo ciclo di isteresi ed usati per i magneti permanenti, sono materiali che consentono di ottenere, in una determinata zona dello spazio, campi magnetici sufficientemente elevati senza l’intervento di circuiti elettrici. Questa suddivisione, fatta sulla base delle funzioni che si vuole attribuire al materiale, non è significativa per materiali con caratteristiche intermedie. Inoltre, 19 Macchine elettriche statiche al materiale da impiegare in una determinata applicazione possono essere richieste caratteristiche particolari che, di volta in volta, esamineremo. Tra i materiali dolci si possono menzionare il ferro ‘dolce’, l’acciaio ‘dolce’, le leghe dei principali materiali ferromagnetici (ferro, cobalto e nichel) con materiali non ferromagnetici (alluminio, cromo, rame, manganese, molibdeno, silicio, tungsteno), o composti chimici chiamati ferriti dolci. Fra i materiali duri si trovano i vari tipi di acciai temperati e variamente legati (acciai alnico, cioè legati con alluminio, nichel e cobalti, acciai al tungsteno, acciai al cobalto) e materiali ceramici sinterizzati (ferriti dure). La sinterizzazione è un processo termico cui viene sottoposto un sistema di particelle individuali oppure un corpo poroso, con o senza applicazione di pressione esterna; durante il riscaldamento, le proprietà del sistema si modificano per la creazione di giunzioni tra le particelle, riempiendo i vuoti esistenti tra esse. 1.5 Principio di funzionamento dei generatori È interessante iniziare con una panoramica, anche se incompleta e parziale, del principio di funzionamento delle principali macchine rotanti. Queste idee verranno, ovviamente, riprese quando si approfondiranno le singole macchine rotanti, ma è bene avere da subito un’idea del loro funzionamento. Per semplificare il problema e consideriamo un avvolgimento, composto da N spire, posto in rotazione, con velocità angolare costante, attorno ad un asse, in un campo magnetico uniforme, come mostrato schematicamente in Figura 1.7. L’asse x - y rappresenta l’asse fisso attorno al quale ruota la spira. Come sappiamo, la legge dell’induzione elettromagnetica prevede che, proprio a causa di questa rotazione, nella spira si generi una f.e.m., che come vedremo varia sinusoidalmente nel tempo. Andando più nel dettaglio, il flusso ϕ(t) collegato ad una della spire che costituisce l’avvolgimento, vale ϕ(t) = B ⋅ n dS = B A cos α = B A cos(ωt) [per una sola spira] , SPIRA avendo indicato con A la superficie della spira. È bene puntualizzare che, nello schema di Figura 1.8, il campo di induzione è fisso e la spira ruota. 20 Macchine elettriche statiche asse di rotazione B y n spira α = ωt B x spira in sezione Figura 1.7: spira rotante in un campo magnetico. Ciò vuol dire che ruota pure la normale n, solidale con la spira, e questa normale forma con il campo di induzione magnetica un angolo α, variabile nel tempo. È facile convincersi che, supponendo costante la velocità angolare di rotazione, questo angolo valga proprio α = ω t. Per stabilire se avete veramente compreso, provate a rispondere alla domanda: all’istante t = 0, qual è la posizione relativa del piano della spira e del campo? Cosa potete dire sulla posizione del versore normale? Se non siete del tutto convinti, provate ancora in altri istanti. Allora, moltiplicando per N il valore di ϕ(t) ottenuto per mezzo dell’integrazione, non è difficile ottenere la f.e.m. complessivamente indotta e(t) = - d N ϕ(t) = N B A ω sen(ωt) [a tutto l’avvolgimento] . dt Questa semplice espressione mostra con chiarezza che una f.e.m. sinusoidale si è generata ai capi della spira, sempre che la velocità angolare di rotazione sia costante (dove abbiamo usato questa ipotesi?), di valore efficace E = 2π f N B A = 2π f N ΦMAX ≅ 4.44 f N ΦMAX , 2 2 dove ΦMAX = B A rappresenta il massimo valore del flusso che si concatena con la generica spira dell’avvolgimento e con f = ω/2π la frequenza di rotazione. Nella pratica, l’avvolgimento è, ad esempio, messo in rotazione da alcune turbine che trasformano in moto circolare, mettendo in rotazione un albero su cui è calettato l’avvolgimento stesso, il moto rettilineo dell’acqua di una cascata. Quale che sia il motore primo, se un avvolgimento ruota a velocità angolare costante in un campo magnetico, ai suoi capi si potrà raccogliere una f.e.m. sinusoidale. 21 Macchine elettriche statiche Su questa idea, che approfondiremo studiando la macchina sincrona, si fonda il principio di funzionamento dei principali generatori sinusoidali, anche detti alternatori. Senza voler scendere in troppi dettagli, vale la pena sottolineare il fatto che, nella realizzazione pratica di un alternatore, si preferisce una struttura duale rispetto a quella descritta, in cui la spira è ferma ed il campo di induzione magnetica ruota: le formule presentate continuano a valere, dato che ciò che conta è il moto relativo tra l’avvolgimento ed il campo a creare la f.e.m. indotta. Inoltre, si tratta di una struttura cilindrica composta di due parti: lo statore, che è fisso, rappresenta la parte più esterna ed ospita due cave, nella Figura 1.8 a sezione rettangolare, in cui alloggiano le spire; il rotore, che è mobile, è la parte più interna e presenta due estremità (dette in gergo espansioni o scarpe polari) opportunamente sagomate. Espansione polare Rotore Avvolgimento Cava ω ω Statore Basamento Figura 1.8: realizzazione di un alternatore. Il campo di induzione magnetica creato dal rotore è in moto rigido con esso e si chiude nel ferro dello statore, presentando un tipico andamento radiale nella regione del traferro, anche detto interferro, che rappresenta la zona posta in mezzo ai due tratti di ferro dello statore e del rotore. 1.6 Campo magnetico rotante Nel paragrafo precedente abbiamo mostrato come si possa realizzare la conversione di energia meccanica in elettrica. Ora dobbiamo farci un’idea di come possa avvenire la trasformazione inversa, cioè stiamo per domandarci quale sia il principio di base secondo cui funzionano i motori elettrici. 22 Macchine elettriche statiche Iniziamo con una semplice osservazione. Prendiamo in una mano una bussola, nell’altra un magnete permanente, una calamita. Avviciniamoli ed iniziamo a far girare il magnete: si osserva che l’ago magnetico della bussola segue il magnete che è in rotazione, cioè l’aghetto segue il campo magnetico come suggerito in Figura 1.9. Domandiamoci: abbiamo costruito, seppure in maniera molto rudimentale e semplificata, un motore elettrico? La risposta è decisamente no. Abbiamo semplicemente messo a punto un sistema (trasduttore) che trasferisce l’energia meccanica impressa al magnete in altra energia meccanica, quella della rotazione della bussola. Tuttavia, generare un campo magnetico rotante ed avere un rotore (l’ago della bussola) che segua quest’ultimo è comunque una buona idea per progettare un motore, a patto di essere capaci di far ruotare il campo magnetico, in una maniera non meccanica. N S N S Figura 1.9: bussola posta in rotazione da una calamita. In questo paragrafo mostreremo come si possa ottenere un campo rotante per mezzo di avvolgimenti fermi: sarà una opportuna variazione delle correnti che circolano nelle spire a fare in modo che il campo magnetico ruoti ed a far funzionare il motore. Si ricordi che, in ultima analisi, un motore elettrico è un dispositivo al quale forniamo energia elettrica e dal quale raccogliamo energia meccanica. Questo è il punto centrale della faccenda su cui si basano tutti i motori, siano essi asincroni, passo - passo, a collettore, ossia la generazione di un campo magnetico rotante, che chiameremo anche campo di Ferraris. Vediamo allora come si generi un campo magnetico rotante, seguendo lo stesso schema che il grande Galileo Ferraris seguiva nelle sue lezioni: cerchiamo di capire, magari in maniera semplificata, prima il principio di base, poi vedremo come lo si possano rigorosamente formalizzare. 23 Macchine elettriche statiche Consideriamo la spira percorsa da corrente e mostrata in Figura 1.10. Sappiamo che il campo magnetico da essa sostenuto esibisce un complicato andamento di linee di forza nello spazio: per rendere più leggibili alcune delle figure che andremo a fare, rappresenteremo la spira come un sottile conduttore visto in sezione, mentre del campo riporteremo il solo valore al centro della spira, che è perpendicolare al piano della spira e vale B = µ0 N i , 2a essendo a il raggio della spira, costituita da N avvolgimenti. Si tratta di una maniera comoda di rappresentare un campo il cui andamento nello spazio, come già ricordato, è piuttosto complicato. B i(t) Figura 1.10: schematizzazione del campo magnetico di una spira. Il campo magnetico generato in corrispondenza del centro geometrico della spira è diretto secondo l’asse delle spira stessa ed i versi della corrente e del campo dovranno rispettare, comunque, la regola della mano destra (o del cavatappi, se preferite). • Rotazione a scatti Consideriamo, poi, tre avvolgimenti percorsi dalle correnti i1(t), i2(t), i3(t) ed i cui assi di simmetria siano disposti secondo angoli relativi di 120° = 2π/3. Osservate con attenzione la Figura 1.11, divisa in quattro parti: esaminatela partendo dalla parte in alto a sinistra, dove sono state rappresentate in maniera schematica i tre avvolgimenti. Nell’ipotesi di aver fissato un’origine dei tempi, facciamo in modo di far circolare, diciamo per un secondo, una corrente nella sola spira 1, mentre nelle altre due non circoli alcuna corrente. Allora, per il primo secondo, il campo di induzione magnetica sarà rappresentato dal vettore B1. Nell’intervallo 1 < t < 2 24 Macchine elettriche statiche circoli, invece, solo corrente nella spira 2, mentre le altre due non siano percorse da corrente. Questa volta il campo di induzione magnetica è rappresentato dal vettore B2. Infine, per 2 < t < 3, la sola spira alimentata sia la numero 3 e, di conseguenza, il campo è rappresentato dal vettore B3. Detto ciò facciamo ripetere ciclicamente questo procedimento. Guardate di nuovo la Figura 1.12 e ripercorrete in rapida sequenza i tre intervalli di tempo: nel primo secondo, il un campo magnetico è diretto come B1, nel secondo successivo, si osserva la scomparsa di B1 e la comparsa del campo B2, nel terzo secondo, si ha la scomparsa di B2 e la comparsa di B3. 1 1 0<t<1 B1 3 2 1 3 1 1<t<2 B2 3 2 2<t<3 B3 2 3 2 Figura 1.11: campo rotante prodotto da tre avvolgimenti. Come varia, allora, il campo di induzione magnetica nello spazio? Il campo ruota, nonostante le spire siano ferme. Certo, non ruota con continuità, ma a scatti, ma l’idea di fondo sembra promettente. Tra non molto vedremo come far ruotare con continuità questo campo magnetico. Per il momento accontentiamoci della conclusione cui siamo giunti: tre avvolgimenti, posti a 2π/3, alimentati uno per volta da tre correnti, ad esempio costanti nel tempo, che operino in intervalli temporali differenti, possono creare un campo di induzione che ruota nello spazio. Ciò era quanto ci premeva di farvi comprendere bene. Quello che segue è solo qualche conto algebrico che serve ad affinare l’intuizione e consentire al campo di ruotare con maggiore ... continuità. 25 Macchine elettriche statiche • Rotazione continua Torniamo ai tre avvolgimenti e cerchiamo di fare un’analisi un tantino più accurata. Cominciamo col supporre che le tre spire siano alimentate dalla terna trifase, simmetrica ed equilibrata, di correnti i1(t) = I 2 sen(ωt) , i2(t) = I 2 sen(ωt - 2π/3) , i3(t) = I 2 sen(ωt - 4π/3) . Ricorderete che questa terna è una terna diretta che gode della proprietà secondo cui la somma delle tre correnti è, istante per istante, nulla: i1(t) + i2(t) + i3(t) = 0 , in ogni istante . La Figura 1.12 riporta i campi sostenuti dalle tre spire; i versi dei tre vettori riportati danno informazione su come sia stato realizzato l’avvolgimento: il campo e la corrente su ciascuna spira devono essere accordati secondo la regola del cavatappi. Per determinare l’andamento temporale del campo sostenuto da ciascuna spira, è bene innanzitutto ricordare il valore delle funzioni trigonometriche per gli angoli notevoli: cos π = - cos 2 π = - cos 4 π = 1 ; sen π = sen 2 π = - sen 4 π = 3 . 3 3 3 2 3 3 3 2 y 1 B2 B3 x 3 2 B1 Figura 1.12: i campi sostenuti dalle correnti nelle tre spire. 26 Macchine elettriche statiche Detto ciò, ricordando che il campo prodotto da una spira, almeno nel suo centro geometrico (o pressappoco), è proporzionale alla corrente, possiamo scrivere B1 = - λ i 1(t) y , B2 = λ i 2(t) - 3 x + 1 y , B3 = λ i 3(t) 3 x + 1 y , 2 2 2 2 in cui, come ricorderete, la costante λ = µ0 N 2a dipende dal numero di spire di cui è costituito l’avvolgimento (andate a rivedere la formula che descrive il campo di una spira nel suo centro geometrico). Ora, il campo complessivamente prodotto dalle spire è dato dalla sovrapposizione dei tre contributi, in formule: B = B1 + B2 + B3 = λ x 3 i 3(t) - 3 i 2(t) + λ y - i 1(t) + i2(t) + i3(t) . 2 2 2 2 Sviluppiamo con ordine (e pazienza) i diversi calcoli. Il primo addendo, applicando le formule di addizione del seno, vale 3 i 3(t) - 3 i 2(t) = 3 I 2 sen ωt - 4π - sen ωt - 2π = 2 2 2 3 3 = 3 I 2 - 1 sen(ωt) + 3 cos(ωt) + 1 sen(ωt) + 3 cos(ωt) = 2 2 2 2 2 = 3 I 2 cos(ωt) . 2 Il secondo addendo, invece, sfruttando il fatto che la somma delle tre correnti è in ogni istante nulla, si può scrivere come - i 1(t) + i2(t) + i3(t) = - i1(t) - i1(t) = - 3 i 1(t) . 2 2 2 2 Pertanto, il campo totale, valutato nell’origine degli assi, diventa 27 Macchine elettriche statiche B = 3 λ I 2 cos(ωt) x - 3 λ I 2 sen(ωt) y = 2 2 = 3 λ I 2 x cos(ωt) - y sen(ωt) = B 0 x cos(ωt) - y sen(ωt) , 2 in cui la costante B0 = 3 λ I 2 2 è stata introdotta solo allo scopo di alleggerire la notazione. Proviamo a disegnare il vettore risultante che abbiamo ottenuto per avere un’idea di come evolva nel tempo. La Figura 1.13 propone di osservare quattro istanti distanziati di un quarto di periodo T, legato alla pulsazione dalla ben nota relazione: T = 2π ω ovvero ωT = 2π . y t=3T 4 t=T 2 raggio = B0 t=0 0 t=T 4 x verso di rotazione Figura 1.13: campo magnetico rotante. L’analisi attenta di questa figura mostra che, applicato nell’origine degli assi, abbiamo un vettore, che rappresenta l’induzione magnetica e che ruota in verso orario, il cui estremo si trova su una circonferenza di raggio B0. Si può verificare in tutta generalità che il campo di induzione magnetica ruota seguendo la successione delle tre fasi: dalla 1, attraverso la 2, per giungere alla 3. Detto in altri termini, dalla relazione trovata appare chiaro che l’estremo del vettore B è dotato di un moto risultante da quello di due moti armonici di uguale frequenza ed ampiezza, su assi fra loro ortogonali, con fasi differenti di un quarto di periodo; come è noto dalla cinematica, un tale moto risultante è circolare 28 Macchine elettriche statiche uniforme e, nel caso in esame, ha verso orario e la sua velocità angolare è ω. Il vettore B descrive, pertanto, un campo magnetico rotante. Si è, dunque, verificato che tre solenoidi con assi formanti una stella simmetrica, percorsi da una terna di correnti equilibrate, danno luogo, nell’origine degli assi, ad un campo magnetico rotante. È poi evidente che questa conclusione vale approssimativamente anche per tutti i punti circostanti l’origine. Vale la pena notare, infine, che, se due qualunque delle tre correnti sinusoidali vengono scambiate fra loro, il verso di rotazione del campo magnetico rotante si inverte, mantenendo inalterata la sua intensità. Per dimostrare ciò, basta ripetere i calcoli sviluppati in precedenza scambiando fra loro, ad esempio, gli avvolgimenti 2 e 3. • Campo rotante bifase Un’ultima osservazione prima di concludere questo capitolo introduttivo. La relazione appena trovata B = B 0 x cos(ωt) - y sen(ωt) , suggerisce pure un’altra maniera di realizzare un campo magnetico rotante. Il campo risultante B risulta dalla composizione di due campi, uno diretto secondo l’asse x del riferimento scelto, l’altro diretto come l’opposto dell’asse y. y j2(t) j1(t) x j1(t) j2(t) Figura 1.14: campo rotante bifase. Sapete già che il moto circolare uniforme può ottenersi dalla composizione di due moti armonici, di uguale pulsazione ed ampiezza, sfasati di π/2, il primo che si 29 Macchine elettriche statiche sviluppa lungo un certo asse, l’altro lungo un altro asse ortogonale al primo. Pertanto, è pensabile di utilizzare due spire, alimentate dalle due correnti j1(t) = I 2 cos(ωt) , j2(t) = I 2 cos(ωt + π/2) = - I 2 sen(ωt) , indicate con ‘j’ per non confonderle con le precedenti, la prima che crea un campo di induzione magnetica diretto lungo l’asse x, la seconda che sostiene un campo di induzione magnetica diretto lungo l’asse y (a parte il segno). In questo caso, come mostrato in Figura 1.14, non essendo più sostenuto da un sistema di correnti trifasi, il campo rotante viene detto bifase. 1.7 Riscaldamento delle macchine elettriche Le varie perdite, che accompagnano la trasformazione di energia che avviene in una macchina elettrica, danno luogo a due effetti negativi: oltre all’impoverimento del flusso di energia determinano anche un riscaldamento delle parti ove si manifestano. Le perdite risultano tanto più elevate, quanto più elevata è la potenza erogata dalla macchina: da ciò segue un limite superiore a tale potenza in rapporto alle caratteristiche costruttive e di dimensionamento della macchina stessa, non dovendosi mai raggiungere temperature eccessive in corrispondenza delle parti isolanti. Questa limitazione è dovuta al degradamento delle caratteristiche meccaniche ed isolanti che ogni dielettrico subisce durante il riscaldamento. La vita di un materiale isolante è definita proprio come il periodo di tempo durante il quale le sue caratteristiche permangono superiori ad un limite, al di sotto del quale non può essere più considerato idoneo alla sua funzione. Prove sperimentali mostrano che essa è tanto più breve, quanto più alta è la temperatura, secondo la legge sperimentale vita media degli isolanti → A exp(B/T) , dove A e B sono costanti caratteristiche del materiale e T è la temperatura assoluta di esercizio. Discende che si potrà tollerare una temperatura di funzionamento elevata, a patto di accettare una vita breve dell’apparecchiatura. Ad esempio, nel caso dei missili propulsori spaziali, la vita richiesta è di pochi minuti e, pertanto, i materiali potranno essere assoggettati ad elevatissime temperature, sempre limitatamente alla loro infiammabilità o passaggio di stato. Le comuni macchine elettriche sono, invece, destinate a funzionare per decine di anni e tale deve essere la vita richiesta dei materiali isolanti: per questo, le norme CEI classificano i 30 Macchine elettriche statiche materiali isolanti in varie classi, per ognuna delle quali vengono stabiliti i limiti di temperatura ammessi. La determinazione della temperatura delle diverse parti di una macchina elettrica durante il suo funzionamento è un problema assai complesso, che esula dai limiti impostici in questa trattazione. Tuttavia, al fine di discutere alcuni aspetti di principio, si prenda in esame il semplice problema del riscaldamento di un corpo omogeneo, dotato di conducibilità interna molto grande, tanto da poter considerare che tutti i suoi punti siano alla stessa temperatura. Si supponga ancora che all’interno di esso venga dissipata una certa potenza producendo un uguale flusso di calore Q. Se il corpo fosse termicamente isolato dall’ambiente circostante, il flusso Q produrrebbe un innalzamento continuo della temperatura del corpo (riscaldamento adiabatico). In un generico intervallo di tempo ‘dt’, si può scrivere la seguente equazione di bilancio Q dt = M c dT , in cui M rappresenta la massa del corpo, c è la sua capacità termica d ‘dT’ l’aumento di temperatura nel tempo elementare ‘dt’. Detta allora T A la temperatura dell’ambiente, temperatura che all’istante iniziale possiede il corpo, integrando la precedente relazione, si otterrebbe T = TA + Q t , Mc cioè una temperatura che aumenta linearmente con il tempo. In pratica, gli scambi con l’ambiente circostante non sono nulli ed una parte del calore prodotto nel corpo viene ceduta all’ambiente esterno: questa cessione di calore è tanto più elevate, quanto più è grande la temperatura del corpo rispetto all’ambiente. Ciò comporta che, se il flusso Q è costante, si raggiungerà una temperatura T MAX per la quale tutto il calore prodotto viene ceduto all’esterno. In altri termini, il bilancio termico va corretto secondo la relazione Q dt = M c dT + k S (T - TA) dt , dove ‘k’ è il coefficiente di dispersione termica attraverso la superficie esterna ‘S’ del corpo in esame. Nella ipotesi di Q costante, l’andamento della temperatura in funzione del tempo è dato dalla relazione esponenziale 31 Macchine elettriche statiche T = TA + Q 1 - e-t/τ , kS avendo introdotto, per brevità, la costante di tempo termica τ=Mc. kS La costante termica dipende soltanto dalle caratteristiche fisiche e geometriche e caratterizza il comportamento durante i transitori di raffreddamento o di riscaldamento: le variazioni di temperatura sono tanto più rapide, quanto minore è la costante termica. La massima temperatura raggiunta si ottiene, infine, nel limite di tempi molto grandi e vale T MAX = TA + Q , kS come suggerisce la Figura 1.15. T MAX T = TA + Q 1 - e-t/τ kS T = TA + Q t Mc TA t τ 0 1 2 3 4 5 Figura 1.15: transitorio termico di riscaldamento. 32 Macchine elettriche statiche Appendice: la tensione ai capi di un induttore È noto che, in condizioni stazionarie, l’integrale del campo elettrico lungo una generica linea non dipende dalla linea, ma soltanto dai suoi estremi: per questo, a suo tempo, questo integrale venne chiamato differenza di potenziale. Sappiamo pure che, in condizioni variabili nel tempo, ciò non è più vero e la tensione non può porsi nella forma di una differenza di potenziale. In altri termini, la tensione dipende, oltre che dagli estremi, dalla linea che li congiunge. Sotto opportune condizioni, che studieremo in questa appendice, è possibile introdurre una differenza di potenziale anche se siamo in presenza di campi variabili. Consideriamo un avvolgimento di N spire, come potrebbe essere quello schematizzato in Figura A.1, di estremi A e B, sottoposto ad un campo magnetico di induzione magnetica, lentamente variabile nel tempo, B(t). B(t) n τ A Γ AVV Γ0 Γ1 Γ2 B Figura A.1: avvolgimento in un campo lentamente variabile nel tempo. L’avverbio lentamente ci ricorda che possiamo trascurare i fenomeni di corrente di spostamento, ma dobbiamo tenere in conto i fenomeni di induzione elettromagnetica, e, quindi, scrivere l’equazione di Ampère - Maxwell nella forma semplificata B ⋅ τ dl = µ0 I Γ , Γ in cui IΓ è la corrente che si concatena con la linea chiusa Γ, descritta dal versore τ, ed abbiamo trascurato il termine che descrive la corrente di spostamento. 33 Macchine elettriche statiche Applichiamo la legge di Faraday - Neumann, conosciuta anche come legge della induzione elettromagnetica, alla linea chiusa di Figura A.1, costituita dall’avvolgimento che forma la spira e da un tratto ideale esterno all’avvolgimento che serve per collegare i morsetti. Vogliamo dimostrare che, in realtà, nelle ipotesi in cui ci siamo messi, la tensione lungo una generica linea, che colleghi all’esterno dell’avvolgimento i due morsetti, è indipendente dalla linea stessa. Se la linea è scelta opportunamente, contrariamente a quello che ci si poteva aspettare, anche in condizioni variabili nel tempo, purché lentamente, possiamo continuare a dire che la tensione ai morsetti dell’avvolgimento è una differenza di potenziale. Tentiamo di capirne la ragione. I morsetti A e B sono collegati per mezzo di tratti matematici (fittizi) di linea che partono da B e giungono fino ad A, i quali contribuiscono, insieme all’avvolgimento, che è reale, a formare una linea chiusa, che indicheremo con Γ. Questa linea chiusa è, dunque, costituita dall’unione della linea Γ AVV, che rappresenta l’avvolgimento, e dalla linea Γ 0, Γ 1 oppure Γ 2, genericamente Γ k, rappresentante la parte esterna: Γ = Γ AVV + Γ k . La legge dell’induzione elettromagnetica, applicata all’intera linea Γ, impone che la circuitazione del campo elettrico sia pari proprio all’opposto della derivata nel tempo del flusso concatenato con la linea chiusa Γ: E ⋅ τ dl = - d ΦΓ . dt Γ Il segno meno è legato al fatto che la superficie SΓ, che si appoggia alla linea Γ, si suppone orientata in modo congruente con quello assunto per Γ, rispettando la regola della ‘mano destra’. Si noti che ΦΓ rappresenta il flusso del campo magnetico che si concatena con la strana superficie a chiocciola di forma elicoidale che ha la linea chiusa Γ come orlo. Detto ciò, l’integrale di linea presente in questa equazione può essere scomposto in due parti: E ⋅ τ dl = Γ E ⋅ τ dl + A-ΓAVV-B E ⋅ τ dl . B-Γk -A 34 Macchine elettriche statiche Al secondo membro si deve rispettare il verso di integrazione e ciò comporta che, per il primo addendo, si parta da A, si integri lungo Γ AVV per terminare in B, mentre, per il secondo addendo, si parta da B, si integri nel tratto di linea esterna Γ k, e poi si giunga nel punto A. Ora, dato che stiamo supponendo che l’avvolgimento sia fatto di materiale buon conduttore, la cui resistività, come è noto, tende a zero, per la legge di Ohm alle grandezze specifiche E=ρJ, si capisce che il campo elettrico E in ogni punto interno del conduttore, essendo proporzionale alla densità di corrente secondo il coefficiente di resistività ρ, è trascurabile. Quindi, tanto più un conduttore approssima il suo comportamento a quello di conduttore ideale, tanto più sarà vero che nei punti interni ad esso, il campo elettrico dovrà essere trascurabile. Sotto tale ipotesi, il primo integrale a secondo membro degli addendi in cui abbiamo scomposto la circuitazione del campo elettrico, dato che si sviluppa entro il conduttore, sarà trascurabile e l’unico contributo deriva dal cammino all’aperto, che si sviluppa in aria, esterno all’avvolgimento: E ⋅ τ dl = Γ E ⋅ τ dl . B-Γk -A Ritornando alla legge dell’induzione elettromagnetica, avendo stabilito che l’intera circuitazione del campo E è pari semplicemente alla tensione del campo elettrico lungo una qualunque linea esterna al conduttore che colleghi i terminali A e B, possiamo scrivere E ⋅ τ dl = - d ΦΓ . dt B-Γ -A k Nelle condizioni in cui ci siamo messi, la variazione temporale, cambiata di segno, del flusso concatenato con l’intera linea chiusa Γ è pari alla tensione del campo elettrico lungo una linea generica Γ k che congiunge all’esterno il punto B con il punto A. Inoltre, cambiando il verso di orientazione di Γ k, cambia anche il segno dell’integrale 35 Macchine elettriche statiche E ⋅ τ dl = + d ΦΓ . dt A-Γ -B k La domanda centrale del nostro discorso è la seguente: cosa succede se cambiamo la linea Γ k che collega i due morsetti A e B? Per rispondere a questa domanda calcoliamo il flusso del campo di induzione magnetica concatenato con l’intera linea chiusa Γ, che può immaginarsi decomposto in due contributi, Φ1 e Φ2: ΦΓ = Φ1 + Φ2 . La parte Φ1 rappresenta il flusso attraverso la superficie a spirale (se preferite, a chiocciola) che costituisce le N spire, mentre Φ2 è il flusso attraverso la superficie piana ABCD. Si noti, per inciso, che, in Figura A.2, il verso della normale alla superficie e l’orientamento della linea di contorno rispettano, come d’abitudine, la regola della mano destra. B(t) n A D Γ AVV Γk Γ2 B C Figura A.2: calcolo del flusso sulla superficie dell’avvolgimento. Valutiamo, allora, questi due contributi. Il primo, Φ1, sarà pari alla somma di tutti i flussi (ϕ k) attraverso le singole spire della superficie a chiocciola: Φ1 = ϕ 1 + ϕ 2 + + ϕN . Ci si convince facilmente che, su spire sottili e fittamente avvolte, gli N flussi ϕ k sono tutti uguali tra loro e, pertanto, quest’ultima relazione diventa: 36 Macchine elettriche statiche Φ1 = N ϕ . Se poi lungo il piano di una generica spira, rappresentato da solo in Figura A.3, assumiamo che il campo di induzione magnetica sia grossomodo uniformemente distribuito e pressoché perpendicolare all’area della superficie, come accade nel caso di un solenoide molto lungo, il flusso ϕ relativo alla generica spira sarà pari a ϕ ≅BS. B(t) n Figura A.3: flusso sulla generica spira dell’avvolgimento. Detto ciò, è chiaro che il flusso complessivo, relativo all’intera superficie a spirale, può scriversi come Φ1 ≅ N B S . Vediamo, ora, quanto vale l’altro contributo Φ2. Esso può essere valutato come Φ2 = B S ⊥ , dove S⊥ rappresenta l’area della proiezione della superficie mistilinea ABCD sul piano perpendicolare al vettore induzione magnetica, e, come vedremo tra un momento, deve avere un valore dello stesso ordine di grandezza dell’area di una singola spira, non potendo, cioè, diventare arbitrariamente grande. Confrontando i due valori di Φ1 e Φ2, si ha Φ1 = N B S = N S . Φ2 B S⊥ S⊥ Quello che è importante osservare è che, se le due superfici S ed S⊥ sono dello stesso ordine di grandezza, il rapporto tra i flussi dipende solo dal numero di spire N. Allora, se il numero delle spire è sufficientemente grande, Φ2 risulterà 37 Macchine elettriche statiche certamente trascurabile rispetto a Φ1 ed il flusso totale concatenato con la linea Γ è pressoché uguale al solo flusso relativo alla superficie a chiocciola ΦΓ = Φ1 + Φ2 ≅ Φ1 ≅ N B S . ed il flusso ΦΓ non dipende dalla particolare linea Γ k che abbiamo usato per collegare i morsetti del solenoide. Ricordando che la tensione lungo la linea Γ k è pari alla derivata nel tempo del flusso di ΦΓ, il quale non dipende dalla particolare linea, non dipenderà dalla linea neppure la sua derivata, che coincide proprio con la tensione ai capi A e B. Se ne conclude che la tensione del campo elettrico E ⋅ τ dl = TAB T A-Γk -B = A-Γk -B non dipende dalla linea Γ k che congiunge i morsetti A e B e che, nelle ipotesi di un campo di induzione magnetica lentamente variabile nel tempo, tale tensione può essere considerata come una differenza di potenziale, tra il potenziale del morsetto A e quello del morsetto B T A-Γk -B = TAB = vA(t) - vB(t) . Ogni volta che si considera un circuito come il precedente, sia esso avvolto in aria o su materiale ferromagnetico, si potrà legittimamente affermare che ai suoi capi si stabilisce una tensione v(t) variabile nel tempo, indipendente dal cammino usato per congiungere i suoi estremi, cioè una differenza di potenziale, pari a v(t) = d ΦΓ = vA(t) - vB(t) . dt Non è difficile convincersi che, anche se cambia il verso della corrente, scegliendo sempre l’orientamento della normale secondo la regola della mano destra applicata alla linea Γ, quest’ultima relazione resta comunque valida. 38 Macchine elettriche statiche Capitolo 2 Il trasformatore 2.1 Introduzione 2.2 Il trasformatore ideale 2.3 Accoppiamento mutuo 2.4 Accoppiamento su materiale ferromagnetico 2.5 Modelli semplificati del trasformatore 2.6 Un cenno agli effetti non lineari 2.7 Condizioni e valori nominali 2.8 Rendimento 2.9 Prove sui trasformatori 2.10 Caduta di tensione 2.11 Trasformatori in parallelo 2.12 Autotrasformatore 2.13 Notizie sulla costruzione 2.14 Trasformatori per usi speciali 2.15 Trasformatori trifasi 2.16 Dati di targa 39 Macchine elettriche statiche 2.17 La diagnostica 2.18 Simboli grafici Appendice: sforzi elettrodinamici negli avvolgimenti Sommario Una notevole distanza intercorre, spesso, tra il luogo in cui l’energia elettrica viene prodotta (la centrale) e quello in cui viene utilizzata (officine, case, vie cittadine). Questo collegamento viene realizzato per mezzo di lunghi cavi, detti linee di trasmissione, che, per quanto costituiti da buoni conduttori, trasformano comunque una parte dell’energia che trasportano in calore. Se il valore della corrente circolante lungo le linee fosse elevato, avremmo potenze perdute in linea non trascurabili: si deve individuare una soluzione che le riduca. 40 Macchine elettriche statiche 2.1 Introduzione Il trasformatore è una macchina elettrica che consente di innalzare ed abbassare, in maniera efficiente e senza eccessive perdite, il valore della tensione. Trattandosi di una macchina elettrica statica, cioè senza parti in movimento, presenta rendimenti elevatissimi, fino al 99%, come specificheremo meglio nel seguito. Esiste sia nella versione monofase, sia in quella trifase. Ma che cos’è un trasformatore? Si tratta sostanzialmente di un doppio bipolo, il cui simbolo circuitale è mostrato in Figura 2.1. i1(t) + i2(t) + v1(t) − v2(t) − i1(t) i2(t) Figura 2.1: simbolo circuitale del trasformatore. Certamente ricorderete che ciò che definiva un doppio bipolo era il concetto di porta e la corrente che entra in una delle due porte è uguale a quella che esce. Se, ad esempio, il doppio bipolo è lineare e puramente resistivo, la tensione ai capi di ciascuna porta è definita dalle relazioni v1 = R 11 i 1 + R 12 i 2 , v2 = R 21 i 1 + R 22 i 2 , che mostrano chiaramente che non basta definire la corrente e la tensione ad una sola porta per studiarne il funzionamento, come invece accadeva per il semplice bipolo. Queste relazioni sono soltanto un modo di assegnare le caratteristiche: dovreste ricordare espressioni quali rappresentazioni in termini di conduttanze, rappresentazione ibrida o di trasmissione. Come, poi, si descriva il doppio bipolo ‘trasformatore’ lo impareremo pian piano procedendo nella lettura. In questo capitolo, infatti, partendo dal più semplice modello di trasformatore, quello ideale, procederemo per ... successive complicazioni. Ciò vuol dire che introdurremo, man mano che la trattazione avanzerà, sempre maggiori elementi che avvicinano i nostri modelli alla realtà sperimentale. In questo studio ritroveremo (ed 41 Macchine elettriche statiche approfondiremo) vecchie conoscenze come il doppio bipolo accoppiamento mutuo, che abbiamo introdotto come doppio bipolo durante lo studio dei circuiti. A cosa serve un trasformatore? Per rispondere compiutamente a questa domanda, dobbiamo capire per quale motivo ci interessa così tanto cambiare a nostro piacimento il valore della tensione e ciò è intimamente legato al ruolo che un trasformatore svolge nel complesso meccanismo della trasmissione e della distribuzione dell’energia elettrica. A1 = A2 I1 I2 A2 = A3 I3 G V1 T1 V2 V2 T2 T3 V3 A → potenza apparente Figura 2.2: trasmissione dell’energia elettrica da una centrale alle varie utenze. Osservate con attenzione la Figura 2.2: essa rappresenta quello che in gergo tecnico si chiama diagramma unifilare e di cosa si tratti lo comprenderete fino in fondo quando studieremo gli impianti elettrici. Per il momento ci basti intuire che stiamo studiando uno schema in cui è presente una centrale elettrica, indicata con G, due trasformatori, indicati con i cerchi che si incrociano e tanti carichi, detti anche utenze, quali possono essere le nostre case o gli impianti industriali, indicati con le freccette terminali. Notate come tra i vari carichi, lungo la seconda linea dall’alto, vi sia anche un altro trasformatore. Cerchiamo di comprendere la funzione dei due trasformatori T 1 e T 2. Il primo trasformatore eleva la tensione V1 fino al valore V2. Dovendo essere costante la potenza apparente (per quel che diremo più compiutamente nel seguito del capitolo), ciò comporta che la corrente I1 è più grande della I2. Il secondo trasformatore, invece, abbassa la tensione da V2 a V3, elevando al tempo stesso la corrente da I2 a I3. Allora, l’energia elettrica, che viene prodotta a tensione intermedia per motivi che vi saranno chiariti più avanti, viene innalzata per essere inviata sulle linee di trasmissione dell’energia: questo innalzamento della tensione serve a ridurre la corrente che passa attraverso i conduttori, allo scopo di abbassare le perdite per effetto Joule. Le linee per la trasmissione dell’energia possono essere anche molto lunghe, dato che non è raro riscontrare che il luogo di 42 Macchine elettriche statiche produzione dell’energia sia piuttosto lontano da quello di utilizzazione. Quando poi l’energia debba essere fornita alle utenze, civili o industriali, la tensione viene abbassata ulteriormente da un secondo trasformatore poiché, per motivi di sicurezza, è meglio fornire agli utenti energia elettrica in bassa tensione. Oggigiorno, si è trovato che nelle centrali conviene produrre l’energia elettrica a tensioni dell’ordine della decina di chilovolt, ad esempio 15 kV. Nelle grandi linee di trasporto conviene utilizzare tensioni dell’ordine delle centinaia di chilovolt: tipico esempio 380 kV. Nelle sedi di utilizzazione conviene disporre di tensioni dell’ordine delle centinaia di volt, tipicamente 220 V o 380 V. Addentrarsi nelle ragioni di carattere tecnico ed economico di questa scelta convenienze sarebbe troppo lungo e forse impegnativo. Produzione, trasmissione e distribuzione dell’energia sono i tre capitoli fondamentali della scienza e tecnica degli impianti elettrici, il cui sviluppo è strettamente legato a importantissime questioni di convenienza economica e di sicurezza. Solo a titolo di curiosità facciamo un cenno alla scelta dei valori più convenienti per le tensioni nelle linee di trasmissione. Per una data potenza elettrica, il costo dei conduttori decresce se si abbassa il valore della corrente, e, perciò, se si innalza la tensione. Il costo dell’isolamento (isolatori veri e propri, distanziamento tra i conduttori, altezza da terra) cresce, invece, se si innalza la tensione. La somma di questi due costi, che rappresenta il costo totale di primo investimento della linea, ha dunque un valore minimo al variare della tensione, ed il valore della tensione che corrisponde al costo minimo è proprio delle centinaia di migliaia di volt, per una potenza trasportata intorno ai 100 MW. Il costo di gestione di una linea in alta tensione, invece, non dipende dal livello di tensione di funzionamento sia esso 150 kV, 220 kV oppure 380 kV. Negli alternatori delle centrali la questione dell’isolamento incide in misura più forte: ciò spiega il minor valore ottimo che si ha per la tensione in sede di produzione. Presso le sedi di utilizzazione, infine, è il fattore sicurezza a limitare fortemente il valore conveniente per la tensione, che si riduce, come già detto, a poche centinaia di volt. Riassumendo, l’energia elettrica viene prodotta a media tensione, trasmessa ad alta, smistata agli utenti in bassa. Forse non sapete neppure il significato preciso di alta, media e bassa tensione; siamo, tuttavia, certi che avete intuito il senso di ciò che volevamo dire e questo basta ... per il momento! 2.2 Il trasformatore ideale Per definire con completezza il trasformatore, inizieremo con un modello semplice, detto trasformatore ideale, privo di tutte le complicazioni dei 43 Macchine elettriche statiche trasformatori reali, complicazioni che aggiungeremo poco per volta nei paragrafi che seguono. i1(t) a:1 i2(t) + + v1(t) v2(t) − − Figura 2.3: trasformatore ideale. Il simbolo circuitale che comunemente si usa per indicare un trasformatore ideale è mostrato in Figura 2.3. Fate attenzione alle convenzioni adottate alle due porte: per entrambe si è fatto uso della convenzione dell’utilizzatore. Le relazioni che definiscono questo nuovo doppio bipolo sono: v1(t) = a v2(t) , i2(t) = - a i1(t) . Cosa rappresenti il parametro ‘a’, un numero reale che può avere segno qualsiasi, vi sarà chiaro più avanti: ciò che ci interessa sottolineare è che esso è l’unico che serve a definire il doppio bipolo, descritto dalle relazioni precedenti, che, a suo tempo, sono state indicate come caratteristica ibrida. Il segno meno nella seconda equazione è dovuto alle convenzioni scelte alle due porte. Vale la pena notare subito che il trasformatore ideale, a differenza di quello reale, funziona anche in corrente continua: nelle relazioni assegnate, infatti, il tempo compare come un parametro che, in regime stazionario, scompare. Ora, nel trasformatore reale, la creazione di una f.e.m. indotta è legata alla legge di Faraday - Neumann e richiede, pertanto, un regime di grandezze variabili. Un piccolo dettaglio che, però, fa una grande differenza. Cominciamo ad analizzare il significato del parametro ‘a’. Si può dire che, ammettendo per semplicità di utilizzare tensioni di porta positive, se |a| < 1, poiché v1(t) < v2(t), si avrà un trasformatore elevatore; se |a| > 1, poiché v1(t) > v2(t), si avrà un trasformatore abbassatore. 44 Macchine elettriche statiche In altri termini, se |a| < 1, passando dalla porta primaria a quella secondaria, la tensione aumenta (e la corrente, in valore assoluto, diminuisce). Se, invece, |a| > 1, passando dalla porta primaria a quella secondaria, la tensione diminuisce (e la corrente, in valore assoluto, aumenta). Tuttavia, sia nel caso di innalzamento che di abbassamento della tensione, il trasformatore ideale è trasparente alla potenza: ciò vuol dire che non ha luogo alcun assorbimento di energia nel trasformatore e tutta l’energia fornita alla prima porta si ritrova alla seconda porta. Questa proprietà si verifica facilmente. La potenza istantanea assorbita da un doppio bipolo p(t) = v1(t) i1(t) + v2(t) i2(t) , in forza della definizione data di trasformatore ideale, diventa p(t) = v1(t) i1(t) - v1(t) a i 1(t) = 0 . a Si è soliti riassumere questo risultato dicendo che il trasformatore ideale è trasparente per le potenze. Inoltre, appare ora ancora più evidente che, nel passare dalla porta primaria a quella secondaria, se il trasformatore è elevatore, aumenta il valore della tensione ma diminuisce, in valore assoluto, quello della corrente. Viceversa, se il trasformatore è abbassatore, la tensione diminuisce e la corrente, in modulo, aumenta. Esaminiamo ancora la Figura 2.4 e tentiamo di capire come viene ‘vista’ la resistenza R, che chiude la porta secondaria. La definizione (2.2) resta sempre vera, ed allora i2(t) = - a i1(t). Se osserviamo che v2(t) = - R i2(t) (il segno meno è dovuto al fatto che sul resistore abbiamo la convenzione del generatore), si avrà v1(t) = a v2(t) = - a R i2(t) = - a R - a i1(t) = a 2 R i 1(t) . Si capisce, allora, che l’avere posto una resistenza alla porta secondaria viene visto, dalla porta primaria, come una nuova resistenza di valore a2 R, cioè la resistenza R amplificata o ridotta a2 volte. Lo stesso ragionamento si può ripetere se consideriamo, in regime sinusoidale, induttanze o capacità, o, più in generale, una generica impedenza. Da quanto precede, non dovrebbe essere difficile mostrare che, se la porta secondaria di un trasformatore ideale, operante in regime sinusoidale, è chiusa su una generica impedenza di valore Z, la porta primaria ‘vede’ un’impedenza che è pari a 45 Macchine elettriche statiche V1 = a 2 Z , I1 dove è chiaro che V1 e I1 sono i fasori che rappresentano la tensione e la corrente alla prima porta, rispettivamente. Questa formula è conosciuta come formula del trasporto (anche detto riporto) di una impedenza al primario e tornerà molto utile nel seguito. i1(t) a:1 i2(t) i1(t) + + v1(t) v2(t) − − + R v1(t) a2 R − Figura 2.4: trasposto al primario di una resistenza. Mettiamo in pratica subito quel che abbiamo appreso sul riporto al primario di un’impedenza, convinti che, una volta effettuato il riporto, la rete diventa, in tutto e per tutto, simile ad un normale circuito (tipicamente funzionante in regime sinusoidale), privo di trasformatore ideale. Esempio 1 - La rete mostrata in figura opera in regime sinusoidale. Determinare il valore della potenza attiva assorbita dal resistore R. R0 R a:1 j(t) RG C L i1(t) i2(t) Si assuma che RG = 20 Ω, R0 = 2 Ω, R = 100 Ω, j(t) = J 2 cos(ωt), J = 20 A, ω = 20 krad/s, L = 0.5 mH, C = 0.25 µF, a = 0.2. 46 Macchine elettriche statiche Cominciamo a calcolare il valore delle due reattanze XL = ωL = 10 Ω , XC = 200 Ω . Poi, usiamo il coseno per la rappresentazione dei fasori, in modo che sia j(t) = 20 2 cos(ωt) → J = J = 20 A . La potenza assorbita dal resistore R può essere espressa in funzione di I1 o di I2 PR = R I22 = a 2 R I 21 , essendo, come è ben noto, le due correnti legate dalla relazione I1 = I2 . a Riportando il resistore R e la reattanza XC al primario, la rete si semplifica come indicato nello schema che segue. A J RG R0 a2 R a2 XC XL I1 B Se immaginate che il resistore RG e la reattanza XL costituiscano una sola impedenza di valore Z = R G || jXL = j RG XL = (4 + 8 j) Ω , RG + j XL la corrente I1 può essere calcolata adoperando la regola del partitore di corrente 47 Macchine elettriche statiche I1 = J Z . 2 Z + R 0 + a R - jX C Sostituendo i valori numerici, si conclude che I1 = 8 (1 + 2 j) A , e, di conseguenza, che la potenza media (o attiva) assorbita dal resistore R sarà PR = a 2 R I 21 = 1280 W . 2.3 Accoppiamento mutuo Dopo aver parlato del trasformatore ideale, introduciamo qualche aspetto della realtà fisica: nella pratica tecnica, il trasformatore è costituito da due circuiti mutuamente accoppiati, come quelli schematicamente indicati in Figura 2.5. Per la verità, le due spire vengono avvolte su un supporto di materiale ferromagnetico, ma di questo ci interesseremo nel paragrafo seguente. grande distanza i2(t) i1(t) v1(t) + − + v2(t) − i1(t) i2(t) v1(t) + − + v2(t) − B Figura 2.5: due circuiti elettromagneticamente non accoppiati ed accoppiati. In un primo momento immaginiamo che le due spire siano a grande distanza, tanto che i campi magnetici sostenuti da ciascuna spira non interagiscano. In questa situazione, ai capi delle due spire raccoglieremo le tensioni 48 Macchine elettriche statiche v1 = L1 di1 , v2 = L2 di2 . dt dt In ciò non vi è nulla di veramente nuovo: sapevamo già che ai capi di un induttore percorso da una corrente variabile si manifesta una tensione variabile. Le due costanti L 1 e L 2 sono le induttanze proprie dei due avvolgimenti e sono da ritenersi quantità positive. Avviciniamo, ora, i due avvolgimenti. In questa nuova situazione, i campi prodotti dalle due spire interagiranno ed alle due precedenti tensioni si sommeranno due nuovi contributi, secondo le relazioni: v1 = L1 di1 + nuovo termine dovuto alla seconda spira , dt v2 = L2 di2 + nuovo termine dovuto alla prima spira . dt Per comprendere appieno il funzionamento di due circuiti accoppiati dobbiamo, allora, specificare meglio che cosa rappresentino questi due nuovi contributi. Il primo circuito genera un campo magnetico variabile nel tempo il quale induce nel secondo circuito una f.e.m. variabile. Questa f.e.m. indotta produce, nel secondo circuito, il passaggio di una corrente, la quale a sua volta produce un campo magnetico variabile nel tempo, che, proprio perché variabile, genera nel primo circuito una seconda forza elettromotrice, e così via. Le stesse cose possono essere dette per il secondo circuito. Si dice che i due circuiti sono mutuamente accoppiati per mezzo del campo di induzione magnetica. Non tutte le linee di campo prodotte dal primo (e dal secondo) circuito si concatenano con il secondo (o con il primo) circuito; alcune saranno ‘disperse’ nel senso che, pur essendo prodotte da uno dei due circuiti, non raggiungono l’altro. Ai fini pratici è necessario evitare, o almeno limitare questa dispersione; pertanto, un accoppiamento mutuo non viene realizzato in aria, ma, per quello che già sappiamo dei circuiti magnetici, le due spire vengono avvolte, come mostrato in Figura 2.6, su un ‘buon ferro’, che ha il compito di intrappolare la maggior parte delle linee di campo induzione magnetica al suo interno. I due avvolgimenti vengono, pertanto, realizzati su un materiale ferromagnetico che, a causa della elevata permeabilità magnetica, riesce a trattenere gran parte del campo B al suo interno, ed il ‘ferro’ diventa un tubo di flusso per questo campo. Nel prossimo paragrafo parleremo in maniera più specifica dei circuiti accoppiati su materiale ferromagnetico. 49 Macchine elettriche statiche Nella Figura 2.6 abbiamo rappresentato anche una generico alimentatore collegato alla porta primaria ed un carico generico collegato alla porta secondaria per ricordarvi il maggiore impiego che viene fatto del trasformatore monofase. i1(t) + − + v1(t) − i2(t) B N1 N2 B + v2(t) − Figura 2.6: due avvolgimenti su ‘ferro’. Tornando al generico accoppiamento di Figura 2.5, le relazioni che lo definiscono sono, pertanto: v1 = L1 di1 + M 12 di2 , dt dt v2 = M 21 di1 + L2 di2 . dt dt Quando siamo in regime sinusoidale, ricordando che al posto della derivata rispetto al tempo possiamo sostituire l’operatore jω, le relazioni diventano V1 = j ω L 1 I1 + j ω M12 I2 , V2 = j ω M21 I1 + j ω L 2 I2 . Si noti come i valori delle due tensioni v1(t) e v2(t), al generico istante temporale t, non dipendono da quelli delle correnti allo stesso istante, ma dalle loro derivate. I coefficienti di autoinduzione L 1 e L 2, come sappiamo, sono positivi; quelli di mutua induzione, M12 e M21, possono essere positivi oppure negativi a seconda dei riferimenti scelti per i versi delle correnti. Ora accade, come mostreremo approfondimento, che M12 = M 21 = M , tra un momento in un riquadro di 50 Macchine elettriche statiche cioè che le due induttanze mutue del doppio bipolo sono uguali. Questo legame è per noi molto importante in quanto porta a tre, e non quattro, i parametri che caratterizzano un doppio bipolo accoppiamento mutuo: L 1, detto anche autoinduttanza del circuito primario, L 2, detto anche autoinduttanza del circuito secondario, ed M, detta mutua induttanza. I primi due sono sempre positivi; il terzo può assumere qualsiasi segno. Per indicare anche sullo schema grafico il segno di M, si adotta la convenzione mostrata in Figura 2.7. i1(t) i2(t) M + v1(t) M≥0 + L1 L2 − v2(t) n1 − i1(t) n2 i2(t) M + v1(t) − M≤0 + L1 L2 v2(t) − n1 n2 Figura 2.7: convenzioni di segno per M. Si osservi con attenzione la Figura 2.7: se alle due porte del doppio bipolo è stata fatta, come d’abitudine la convenzione dell’utilizzatore, allora M è positivo quando i due pallini neri sono affiancati; in caso contrario, M è da ritenersi negativo. Il segno del flusso di mutua induzione dipende dalla convenzione scelta per il primo e per il secondo circuito. Pertanto, anche se per il calcolo del flusso si conviene di scegliere sempre come verso della normale quello che ‘vede’ il verso positivo della circuitazione in senso antiorario (terna levogira), resta ancora un grado di libertà nella scelta delle due normali relative ai due circuiti, come è indicato sempre nella Figura 2.7. Dimostrare che i due coefficienti di mutua induzione sono uguali non è cosa semplicissima e, per comprenderla appieno, c’è bisogno di strumenti avanzati del calcolo differenziale. Solo un desiderio di completezza ci anima, dunque, nel riportarla qui di seguito. Partiamo dalla potenza istantanea assorbita dal doppio bipolo accoppiamento mutuo, definita dalla relazione: 51 Macchine elettriche statiche p(t) = v1(t) i1(t) + v2(t) i2(t) = L 1 di1 + M 12 di2 i 1 + L 1 di1 + M 12 di2 i 2 , dt dt dt dt Ricordando che la potenza istantanea è pari alla derivata dell’energia rispetto al tempo p(t) = dU , dt possiamo anche scrivere la relazione precedente in termini differenziali: dU = p(t) dt = L 1 i 1 + M 21 i 2 di 1 + L 2 i 2 + M 12 i 1 di 2 . Ma, dato che l’energia è una funzione di stato, quest’ultima relazione deve essere un differenziale esatto. Affinché ciò avvenga, occorre che le due derivate siano uguali ∂(L 1 i 1 + M 21 i 2) = ∂(L 2 i 2 + M 12 i 1) , ∂i2 ∂i1 da cui discende immediatamente l’asserto M12 = M 21 = M . Dopo aver dimostrato che, in realtà, abbiamo bisogno di un solo coefficiente che descriva l’accoppiamento mutuo, domandiamoci se tra questi tre parametri non esista qualche altro legame. La risposta a questa domanda ci viene, come non è difficile rendersi conto, considerando l’energia elementare dU = L1 i 1(t) di1 + L2 i 2(t) di2 + M i2(t) di1 + i1(t) di2 . Essa può essere integrata membro a membro e fornire, a meno di una costante additiva di integrazione che si assume nulla, l’energia assorbita dal nostro doppio bipolo al generico istante t di funzionamento U(t) = 1 L 1 i 21(t) + M i1(t) i2(t) + 1 L 2 i 22(t) . 2 2 52 Macchine elettriche statiche Ora, essendo il doppio bipolo in esame passivo, questa energia deve descrivere una quantità che non cambia segno e risulta sempre positiva. La forma funzionale suggerisce di porre in evidenza un termine sicuramente positivo, riscrivendola come 2 U(t) = 1 L 1 i 21(t) 1 + 2 M i2(t) + L 2 i2(t) . 2 L 1 i1(t) L 1 i21(t) Ciò che determina il segno dell’energia è la parte in parentesi nell’espressione precedente. Infatti, questa parentesi quadra può essere riscritta come un trinomio di secondo grado in forma adimensionale (che indicheremo con y) y = 2 U(t) = L 2 x 2 + 2M x + 1 , L1 L 1 i 21(t) L 1 in cui abbiamo chiamato x il rapporto tra le due correnti x = i2(t)/i1(t). Ora, affinché anche il secondo membro sia una quantità sempre positiva si deve avere per tutti i valori della variabile x, cioè per ogni condizione di funzionamento, che il discriminante del trinomio non sia positivo, cioè 2 ∆ = 4 M - 4 L2 ≤ 0 . L1 L 21 Avrete certamente riconosciuto nella funzione y, definita in precedenza, una parabola, più precisamente un insieme di parabole, ad asse verticale, disegnata in Figura 2.8. Questa figura lascia intuire anche graficamente perché il discriminante deve essere minore di zero: se così non fosse, allora per alcuni valori della variabile x, cioè per alcune condizioni di funzionamento, potrebbe accadere che l’energia diventi negativa, cosa che dobbiamo scongiurare per i nostri scopi. 53 Macchine elettriche statiche y 30 ∆<0 20 10 ∆=0 0 x ∆>0 -10 0 2 4 6 8 10 Figura 2.8: energia assorbita dal doppio bipolo accoppiamento mutuo. Detto in altri termini, dobbiamo fare in modo che l’equazione di secondo grado L 2 x 2 + 2M x + 1 = 0 L1 L1 ammetta soltanto radici complesse e coniugate, al più, reali e coincidenti, e ciò si ottiene imponendo semplicemente che il discriminante non sia positivo (sia, cioè, negativo o nullo). Ora, imporre che questo discriminante sia minore di zero, equivale a dire che M2 ≤ L 1 L 2 Si tratta di una condizione che deve sempre essere verificata affinché l’energia U sia, in ogni istante e per qualunque valore del rapporto tra le correnti di uscita e di ingresso, una quantità positiva, al più nulla in un punto. Comunque, nel caso limite M2 = L1 L 2 si dice che siamo in condizione di accoppiamento perfetto: in tal caso esiste un valore del rapporto delle correnti per cui l’energia del campo magnetico è nulla. In questa condizione di funzionamento è evidente che i campi magnetici, sostenuti dalle due bobine, siano uguali in modulo ed opposti in verso in modo da produrre un campo risultante nullo. Se, invece, M2 < L1 L 2, si dice 54 Macchine elettriche statiche che siamo in condizioni di accoppiamento non perfetto e l’energia presenta un minimo, la cui ordinata è positiva. • Accoppiamento perfetto Soffermiamo, ora, la nostra attenzione su un caso particolare di accoppiamento: l’accoppiamento perfetto. Come abbiamo già detto prima, si parla di accoppiamento perfetto quando tra i diversi parametri vale la relazione L1 L 2 = M 2 , che si può porre, introducendo il parametro ‘a’, nella forma equivalente L1 = M = a . M L2 Operando in regime sinusoidale, si ha che V1 = j ω L 1 I1 + j ω M I2 , V2 = j ω M I1 + j ω L 2 I2 . Dividiamo membro a membro queste due equazioni, allo scopo di considerare il rapporto tra la tensione alla porta primaria e quella alla porta secondaria: I1 + M I2 V1 = j ω L 1 L1 = L1 = a → V = a V . 1 2 V2 j ω M I1 + L 2 I2 M M Abbiamo, in tal modo, ottenuto la prima relazione che definisce il trasformatore ideale. Ricaviamo ora la corrente I1, riscrivendo la prima equazione nella forma I1= V1 - M I . 2 j ω L 1 L1 Siccome M = L1/a, la precedente relazione diventa I1 = V1 - 1 I . 2 j ω L1 a 55 Macchine elettriche statiche Questa ultima uguaglianza richiama alla memoria quella già vista nel trasformatore ideale I2 = - a I1. Ma come si osserva vi è la presenza anche di un altro addendo che può essere interpretato come una corrente relativa alla prima maglia, che attraversa la reattanza ω L 1, posta in parallelo alla porta primaria. I1 + * I1 I0 I2 a:1 + V1 ω L 1 − V2 − Figura 2.9: circuito equivalente in condizioni di accoppiamento perfetto. Osservate con cura la Figura 2.9: non dovrebbe meravigliarvi troppo che la rete mostrata soddisfi l’equazione per le tensioni che definisce il trasformatore ideale e che anche la seconda, in forza della LKC, deve essere verificata * I1 = I1 + I0 = - 1 I2 + V1 . a j ω L1 La cosa che dovete ricordare è che si è fatto tutto ciò per capire che si passa dal concetto di trasformatore ideale a quello più concreto dell’accoppiamento mutuo, aggiungendo alla prima maglia del trasformatore ideale una induttanza, proprio come mostrato in Figura 2.9. Si fa notare esplicitamente che, nel caso in cui l’induttanza L 1 assuma valori molto elevati, la precedente relazione approssima molto bene quella del trasformatore ideale, essendo I1 ≅ - 1 I2 , a se L1 → ∞ . Esempio 2 - Si valutino le potenze, attiva e reattiva, erogate dal generatore di tensione nella rete di figura in regime sinusoidale. 56 Macchine elettriche statiche j(t) R1 A C2 R2 M + e(t) L1 C1 L2 R3 − L B j(t) Si assuma e(t) = E sen(ωt), E = 100 2 V, j(t) = - J cos(ωt + π/4), J = 20 A, ω = 1 krad/s, R1 = R2 = 10 Ω, R3 = 2.5 Ω, L = 5 mH, C1 = 0.1 mF, C2 = 0.4 mF, L 1 = 10 mH, L 2 = 2.5 mH, |M| = 5 mH. Per applicare il metodo fasoriale, si calcolano le reattanze X = ωL = 5 Ω , X1 = 1 = 10 Ω , X2 = 1 = 2.5 Ω , XL1 = 10 Ω ωC1 ωC2 e si trasformano le sinusoidi nei fasori corrispondenti, assumendo e(t) = 100 2 sen(ωt) → E = 100 V , j(t) = - 20 cos(ωt + π/4) → J = 10 2 e-jπ/4 = 10 (1 - j) A . La condizione L1 L 2 = M 2 indica la presenza di accoppiamento perfetto e la rete assegnata può essere trasformata come indicato in figura, avvalendosi di un trasformatore ideale caratterizzato da un rapporto di trasformazione pari a a = L1 = M = 2 . M L2 57 Macchine elettriche statiche R1 J X2 R2 A a:1 + XL1 X1 E R3 − X B J Riportando al primario la resistenza R3 e la reattanza X2, R30 = a 2 R3 = 10 , X20 = a 2 X2 = 10 , la rete può ulteriormente semplificarsi come mostrato nella figura seguente. R1 J A R2 X20 + E − X1 XL1 R30 I X B J Dovendosi valutare la potenza complessa erogata * P = E I = PE + j QE , occorre determinare la corrente I che interessa il generatore di forza elettromotrice. Appare immediata l’opportunità di semplificare ulteriormente la rete valutando l’impedenza equivalente Z “vista” dai morsetti AB, comprensiva della reattanza X1: Z = -jX1 || R2 + jXL1 || R30 - jX20 = (5 - 10 j) Ω . 58 Macchine elettriche statiche R1 J A I + I+J E Z − X B J Applicando la seconda legge di Kirchhoff alla maglia, possiamo scrivere E = R1 + jX I + Z I + J . Dalla precedente relazione segue immediatamente che I= E - Z J = (6 + 12 j) A . R1 + jX + Z La potenza è quindi data da P = PE + j QE = 600 - 1200 j , da cui discende immediatamente che PE = 0.6 kW , QE = - 1.2 kVAr . Ritorniamo all’accoppiamento perfetto. Se, invece di usare la prima relazione, relativa alla tensione V1, per ricavare la corrente, avessimo deciso di usare la seconda V2 = j ω M I1 + j ω L 2 I2 , con un ragionamento del tutto analogo al precedente, avremmo potuto scrivere I1 = - L 2 I2 + V2 = - 1 I2 + V2 = - 1 I2 - V2 . a a M jωM j ω a L2 j ω L2 59 Macchine elettriche statiche Nella Figura 2.10 riportiamo anche il circuito equivalente che corrisponde a questa equazione: la reattanza ω L 2 è posta in parallelo alla porta secondaria, e * I2 = I2 - I0 = I2 - V2 . j ω L2 * I1 + a:1 I2 I2 + ω L 2 V2 V1 − I0 − Figura 2.10: un altro circuito equivalente in condizioni di accoppiamento perfetto. Il circuito equivalente di Figura 2.10, tuttavia, viene scarsamente adoperato dato che, per consuetudine, il carico viene posto in parallelo alla porta secondaria e, pertanto, conviene il circuito di Figura 2.9 per realizzare efficacemente il riporto al primario. • Accoppiamento non perfetto Anche in questo caso partiamo dalle due relazioni che definiscono il doppio bipolo accoppiamento mutuo e, poiché siamo in condizioni di accoppiamento non perfetto, deve essere M2 < L1 L 2 . Le induttanze proprie L 1 e L 2 sono dei numeri positivi che, dovendo soddisfare la precedenze disuguaglianza, possiamo sempre immaginare costituite da due parti: (2) (2) L 1 = L(1) e L2 = L(1) 1 + L1 2 + L2 , (1) in cui i due contributi L (1) 1 e L 2 sono scelti in maniera tale da soddisfare l’uguaglianza (1) M2 = L(1) 1 L2 . 60 Macchine elettriche statiche Questa scomposizione, che può apparire un mero artificio matematico, troverà un riscontro nelle applicazioni che tra breve esamineremo. Spieghiamoci con un esempio numerico. Supponiamo ci siano stati assegnati i seguenti valori: L 1 = 10 mH , L 2 = 6 mH , M = 5 mH . Come potete facilmente controllare siamo in condizioni di accoppiamento non perfetto: M2 = 25 µH2 , L 1 L 2 = 60 µH2 e M2 < L 1 L 2 . Tuttavia possiamo sempre immaginare che, ad esempio, L 1 sia la somma di due induttanze L 1 = 5 mH + 5 mH , oppure L 1 = 8 mH + 2 mH . L’importante è che la somma delle due induttanze in cui immaginiamo scomposto il valore di L 1 diano, in ogni caso, per somma 10 mH. La stessa cosa potremmo pensare di fare per L 2. Riassumendo, abbiamo immaginato di scomporre in due contributi le autoinduttanze della porta primaria e secondaria e le suddivisioni imposte verificano il sistema (2) L (1) 1 + L1 = L1 , (2) L (1) 2 + L2 = L2 , (1) 2 L (1) 1 L2 = M , (2) (1) (2) composto da tre equazioni e quattro incognite: L (1) 1 , L 1 , L 2 e L 2 . Una incognita è di troppo e, pertanto, possiamo fissarla a nostro piacimento: in genere, si usa considerare L (2) 2 nullo, ma avremmo potuto altrettanto correttamente considerare nullo L (2) 1 , ed il precedente sistema si semplifica 61 Macchine elettriche statiche (2) L (1) 1 + L1 = L1 , L (1) 2 = L2 , 2 L (1) 1 L2 = M . Se provate a risolvere questo sistema, otterrete i tre valori 2 2 (2) M M L (1) = , L = L , L (1) 1 1 1 2 = L2 . L2 L2 Ad esempio, usando i valori assegnati in precedenza, risulta il sistema (2) L (1) 1 + L 1 = 10 , L (1) 2 = 6 , L (1) 1 L 2 = 25 , che fornisce i tre valori (2) (1) L (1) 1 = 4.16 mH , L1 = 5.83 mH , L2 = 6 mH . Sostituendo la scomposizione appena sviluppata nella definizione del doppio bipolo, otteniamo (2) V1 = j ω L (1) 1 + L1 I1 + j ω M I2 , V2 = j ω M I1 + j ω L (1) 2 I2 , relazioni che si possono, ovviamente scrivere nella forma equivalente (2) V1 = j ω L (1) 1 I1 + j ω M I2 + j ω L 1 I1 , V2 = j ω M I1 + j ω L (1) 2 I2 , Se nella prima relazione fosse assente il termine j ω L (2) 1 I 1, potremmo concludere che si tratta delle stesse equazioni del caso dell’accoppiamento perfetto. Tuttavia, l’aggiunta di questo termine comporta soltanto la piccola (ma sostanziale) modifica indicata in Figura 2.11. 62 Macchine elettriche statiche I1 ω L (2) 1 a:1 + V1 I2 ω L (1) 1 − + V2 − Figura 2.11: primo circuito equivalente in accoppiamento non perfetto. Allora, quando ci troviamo in condizioni di accoppiamento non perfetto, si può passare dal trasformatore ideale all’accoppiamento mutuo aggiungendo in serie alla prima porta una induttanza di valore L (2) 1 . Non ci resta che specificare quanto valga ‘a’. Dalla relazione (da noi imposta) che definisce la parte di ‘accoppiamento perfetto’ 2 L (1) 1 L2 = M segue immediatamente che (1) L a = 1 = M (nell’esempio a = 0.83) . M L2 In genere, se il trasformatore è ben progettato, l’induttanza L (2) 1 (detta anche (1) induttanza longitudinale) è piccola rispetto alle altre due L 1 e L 2 (dette trasverse o trasversali), che sono più grandi. Tra un po’ vi daremo qualche ordine di grandezza relativo. Per il momento ci basti riassumere dicendo che, con riferimento al circuito di Figura 2.11, il generico parametro longitudinale di un trasformatore è più piccolo di quello trasversale. Esempio 3 - Il doppio bipolo mostrato in figura opera in regime sinusoidale. Determinare la sua rappresentazione in termini di impedenze. 63 Macchine elettriche statiche i1(t) i0(t) A i2(t) M v1(t) L1 L2 R v2(t) B Si assuma L 1 = L2 = 20 mH, M = 10 mH, R = 20, ω = 1 krad/s. La rappresentazione in termini di impedenze è formalmente definita per mezzo della trasformazione lineare di carattere generale V1 = Z 11 I1 + Z m I2 , V2 = Z m I1 + Z 22 I2 , che, nel caso in cui il doppio bipolo si riduca ad un accoppiamento mutuo, diventano V1 = j ω L 1 I1 + j ω M I0 , V2 = j ω M I1 + j ω L 2 I0 . Nel nostro caso, alle due relazioni ora scritte, va aggiunta quella che esprime la prima legge di Kirchhoff al nodo A I2 = I0 + V2 . R Eliminando da queste relazioni la corrente I0, ci si riconduce al sistema V1 = j ω L 1 I1 + j ω M I2 - j ω M V2 , R V2 = j ω M I1 + j ω L 2 I2 - j ω L 2 V2 , R 64 Macchine elettriche statiche che individua una rappresentazione implicita per il doppio bipolo in esame. Dalla seconda equazione, sommando i termini in V2 al primo membro, si ricava che V2 = jωMR I1 + jωL 2R I2 , R + jωL 2 R + jωL 2 da cui discendono le due impedenze Z m = V2 I1 Z 22 = V2 I2 I2 = 0 = jωMR = (5 + 5 j) Ω , R + jωL 2 I1 = 0 = jωL 2R = (10 + 10 j) Ω . R + jωL 2 Sostituendo la tensione V2 appena trovata nella prima equazione Z 11 = jωL 1 + ω 2M2 = (2.5 + 17.5 j) Ω . R + jωL 2 Per controllare i calcoli sviluppati, il lettore può ottenere la matrice delle impedenze nella via più usuale, adoperando, cioè, le definizioni Z 11 = V1 I1 I2 = 0 , Z m = V2 I1 I2 = 0 = V1 I2 I1 = 0 , Z 22 = V2 I2 . I1 = 0 È evidente che dovrà ritrovare le impedenze calcolate in precedenza. Discutiamo, infine, brevemente il caso in cui L (2) 1 viene scelto pari a zero. In questo caso, seguendo un ragionamento simile a quello appena sviluppato, non è difficile verificare che si può adoperare il circuito mostrato in Figura 2.12. ω L (2) 2 I1 I2 a:1 + + V1 ω L 1 − (1) V2 − 65 Macchine elettriche statiche Figura 2.12: secondo circuito equivalente in accoppiamento non perfetto. L’induttanza longitudinale è passata dalla porta primaria a quella secondaria. Inoltre, per quanto riguarda il valore di ‘a’ troverete che a = L1 = M . M L (1) 2 Nel caso generale, assumendo non nulli i quattro parametri, il doppio bipolo accoppiamento mutuo si può schematizzare per mezzo del circuito di Figura 2.13 (provate a verificarlo da soli, ripetendo ciò che avete appreso nei due precedenti casi). I1 ω L (2) 1 a:1 + V1 ω L (2) 2 ω L (1) 1 − I2 + V2 − Figura 2.13: terzo circuito equivalente in condizioni di accoppiamento non perfetto (nessun parametro nullo). 2.4 Accoppiamento su materiale ferromagnetico Fatte queste premesse piuttosto generali in cui abbiamo discusso genericamente di circuiti accoppiati, facciamo un passo avanti per rendere più concrete le cose dette e consideriamo un accoppiamento mutuo, in presenza del ‘ferro’, come quello che avevamo disegnato in Figura 2.6. Per studiare questo nuovo oggetto, sempre in regime sinusoidale, sappiamo già di poter utilizzare il circuito magnetico equivalente mostrato in Figura 2.14, circuito che approssima tanto meglio la realtà, quanto più il ferro è un tubo di flusso per il campo di induzione magnetica. 66 Macchine elettriche statiche ℜ − + N1 I1 − N2 I2 Φ + Figura 2.14: circuito magnetico equivalente. Fissiamo l’attenzione sui due solenoidi di Figura 2.6; per essi il flusso totale sarà: primo solenoide, fatto di N1 spire, Φ1 = N 1 Φ ; secondo solenoide, fatto di N2 spire, Φ2 = N 2 Φ . Detto ciò, applichiamo la LKT alle due porte del trasformatore: V1 = j ω Φ1 = j ω N1 Φ e V2 = j ω Φ2 = j ω N2 Φ . Scriviamo, inoltre, la seconda legge di Hopkinson alla maglia del circuito magnetico di Figura 2.14 N1 I1 + N 2 I2 = ℜ Φ . Fermiamoci un momento e riassumiamo le equazioni che descrivono il comportamento del nostro trasformatore su ‘ferro’: V1 = j ω N1 Φ , V2 = j ω N2 Φ , N1 I1 + N 2 I2 = ℜ Φ . Se facciamo il rapporto delle prime due equazioni del questo sistema V1 = N1 = a , V2 N2 scopriamo che il parametro ‘a’ risulta completamente definito dal rapporto delle spire degli avvolgimenti primario e secondario. Se, dunque, vogliamo un 67 Macchine elettriche statiche trasformatore elevatore, bisogna fare in modo che il numero di spire al secondario sia maggiore di quello al primario; per un trasformatore abbassatore, bisogna fare esattamente il contrario. Riscriviamo il sistema precedente nella forma: V1 = a V2 (a = N1/N2) , V2 = j ω N2 Φ , I1 = - 1 I2 + ℜ Φ . a N1 • Ferro ideale Il sistema appena scritto definisce un trasformatore ideale se vale la cosiddetta condizione di ferro ideale, per la quale la permeabilità relativa del materiale ferromagnetico che costituisce il trasformatore è molto elevata, al limite µr → ∞. I materiali magnetici si dividono in tre grosse famiglie: i materiali diamagnetici, quelli paramagnetici ed i ferromagnetici. I primi due tipi sono caratterizzati da una permeabilità relativa prossima all’unità, mentre i materiali ferromagnetici hanno permeabilità relative piuttosto elevate (105 ed oltre). Ora, dal momento che la riluttanza, definita come il rapporto ℜ= 1 L, µ0 µr S in cui L è lunghezza media del circuito magnetico e S la sua sezione trasversale, tende a diventare sempre più piccola, al limite nulla, quanto più aumenta la permeabilità del mezzo. In queste ipotesi, si avrà che ℜ → 0, ovvero che la riluttanza tende a zero, dando luogo al nuovo e più semplice sistema V1 = a V2 a = N 1/N2 , V2 = j ω N2 Φ , I1 = - 1 I2 , a che rappresenta proprio un trasformatore ideale. Rappresentiamo in un diagramma fasoriale nel piano di Gauss le equazioni del trasformatore ideale. 68 Macchine elettriche statiche V1 I1 V2 Φ I1 I2 a:1 I2 + + V1 V2 − − Figura 2.15: primo e più semplice modello di trasformatore su ‘ferro’. Spieghiamo come si è giunti a questo diagramma fasoriale. Scelto l’orientamento per il flusso Φ, è evidente che le due tensioni V1 e V2 sono in anticipo di fase rispetto ad esso di π/2; in Figura 2.15 abbiamo rappresentato come esempio un trasformatore abbassatore. L’angolo che vi è, poi, tra queste tensioni e le due correnti dipende dall’impedenza Z sulla quale viene chiusa la porta secondaria dato che V2 = - Z I2 . Il segno meno deriva dal fatto che si è fatto uso della convenzione del generatore sul carico. Le due correnti I1 e I2, tuttavia, devono essere in opposizione di fase e che, nell’ipotesi di trasformatore abbassatore, la prima corrente deve essere, in modulo, più piccola della seconda. • Riluttanza finita Facciamo un ulteriore passo in avanti e supponiamo di trovarci con un ferro un po’ ‘più reale’ che abbia una riluttanza piccola, ma non nulla. Torniamo, in altri termini, alle equazioni più generali ed in tal caso dovremo tenere conto del nuovo addendo della corrente I1 = - 1 I2 + ℜ Φ = - 1 I2 + ℜ V1 . a a N1 j ω N21 69 Macchine elettriche statiche Questo nuovo termine si può facilmente interpretare come la corrente che passa attraverso un’induttanza, posta in parallelo alla porta primaria, e di valore 2 L 0 = N1 . ℜ Pertanto l’equazione può formalmente essere riproposta nella forma I1 = - 1 I2 + I0 = - 1 I2 + V1 . a a j ω L0 Quindi si deve aggiungere alla prima maglia del trasformatore ideale una induttanza in parallelo alla prima porta come mostrato in Figura 2.16. V1 * V2 I1 I1 Φ I0 I1 * I2 I1 a:1 I2 + V1 − I0 L0 + V2 − Figura 2.16: secondo modello di trasformatore su ‘ferro’. Il diagramma fasoriale di Figura 2.15 si complica solo per quanto riguarda la corrente I1 che si arricchisce di un ulteriore componente che ha la stessa direzione e verso del flusso Φ, cioè è in fase con il flusso. Ciò lo si deduce dal fatto che I0 = V1 = j ω N1 Φ = N1 Φ . j ω L0 j ω L0 L0 70 Macchine elettriche statiche * Quindi il vero fasore I1 risulterà dalla composizione di I1 e di I0, come si deduce dalla Figura 2.16. Si confronti, ora, il circuito equivalente riportato in Figura 2.9 con quello appena costruito di Figura 2.16: cosa se ne può ricavare? Che sono identici! Ciò vuol dire che considerando una riluttanza finita il circuito equivalente del trasformatore coincide con il caso dell’accoppiamento perfetto. Per convincercene fino in fondo, calcoliamo i parametri equivalenti del doppio bipolo, cioè L 1, L 2 ed M. Immaginiamo, cioè, di rappresentare il nostro accoppiamento su ferro per mezzo del legame generale V1 = j ω L 1 I1 + j ω M12 I2 , V2 = j ω M21 I1 + j ω L 2 I2 , che, se si osserva che V1 = j ω Φ1 , V2 = j ω Φ2 , può essere facilmente riscritto in termini di flussi Φ1 = L1 I1 + M I2 , Φ2 = M I1 + L2 I2 . Ora, ricordando quanto abbiamo imparato sui doppi bipoli e che il flusso nel ferro vale N1 I1 + N 2 I2 = ℜ Φ , non è difficile ricavare i parametri che ci interessano. Cominciamo con L 1: 2 2 L 1 = Φ1 = N1 Φ = N1 I1 = N1 , quando I2 = 0 . I1 I1 I1 ℜ ℜ Similmente per L 2 risulta: 2 2 L 2 = Φ2 = N2 Φ = N2 I2 = N2 , quando I1 = 0 . I2 I2 I2 ℜ ℜ La mutua induttanza, infine, vale: 71 Macchine elettriche statiche M = Φ1 = N1 Φ = N1 N2 I2 = N1 N2 , quando I1 = 0 . ℜ I2 I2 I2 ℜ Le ultime tre relazioni confermano in pieno l’ipotesi che avevamo intuito guardando gli schemi equivalenti: siamo in condizioni di accoppiamento perfetto e, pertanto, 2 2 2 2 M2 = N1 N2 = L1 L 2 = N1 N2 . ℜ ℜ ℜ2 • Perdite nel ferro Facciamo un altro passo verso un modello più reale. Fino ad ora abbiamo ipotizzato che le perdite per isteresi magnetica e per correnti parassite fossero così piccole da poter essere trascurate. Tenerne conto in maniera precisa non è facile dato che esse dipendono, oltre che dal tipo di materiale ferromagnetico, anche dalla geometria, cioè dalla forma che ha il trasformatore. Si ricorda che le perdite per isteresi sono dovute all’attrito che nasce tra i vari domini di Weiss quando sono costretti a seguire un campo magnetico esterno e l’area del ciclo di isteresi è proporzionale all’energia che si dissipa in un solo periodo. Le perdite per correnti parassite, invece, sono dovute alla nascita di correnti elettriche nel ferro che, oltre ad essere un materiale ferromagnetico, è anche un buon conduttore. Le perdite per isteresi producono una potenza perduta specifica che è linearmente dipendente dalla frequenza; quelle per correnti parassite dipendono, invece, dal quadrato della frequenza. V1 I0 * V2 I1 I1 Iρ Φ Iµ L0 R0 Iµ I2 I0 Iρ Figura 2.17: terzo modello contenente le perdite per isteresi e correnti parassite. 72 Macchine elettriche statiche Queste perdite si inseriscono nel circuito equivalente 2.16 considerando, in parallelo all’induttore L 0, una resistenza, che, in Figura 2.17 abbiamo indicato genericamente con R0. Nel diagramma fasoriale la I0 risulterà somma della corrente Iµ che interessa l’induttore e di quella Iρ assorbita dal resistore, come mostrato in Figura 2.17. • Induttanze di dispersione Facciamo ora un ulteriore passo in avanti. Visto che si sta considerando un ferro non ideale dobbiamo anche valutare il fatto che le linee di flusso generate dei due avvolgimenti non sono più tutte interne al ferro, ma che alcune di queste linee di flusso vadano perse, come mostrato schematicamente in Figura 2.18. Il flusso Φ1 che si concatena, ad esempio con il primo avvolgimento, può essere pensato come costituito da due flussi: il flusso principale N1Φ che concatena entrambi gli avvolgimenti e di un flusso disperso Φ1D, sicché Φ1 = N 1 Φ + Φ1D . B i1(t) + v1(t) − B campo disperso Figura 2.18: campo disperso alla porta primaria di un trasformatore. Similmente e con analogo significato dei simboli, alla porta secondaria possiamo porre Φ2 = N 2 Φ + Φ2D . Ora, le tensioni alla porta primaria e secondaria, essendo pari a V1 = j ω Φ1 e V2 = j ω Φ2 , 73 Macchine elettriche statiche per quanto appena detto, possono essere riscritte nella forma equivalente V1 = j ω N1 Φ + Φ1D e V2 = j ω N2 Φ + Φ2D . Queste ultime due relazioni mostrano chiaramente che nel circuito equivalente dobbiamo aggiungere altre due induttanze, in serie alle porte primaria e secondaria, di valore L 1D = Φ1D , L 2D = Φ2D . I1 I2 Se dunque inseriamo queste induttanze in serie alla porta primaria e secondaria, otteniamo il circuito equivalente mostrato in Figura 2.19. I1 ω L 1D * I1 + I0 ω L0 V1 − R0 Iµ Iρ ω L 2D a:1 + E1 − + E2 − I2 + V2 − Figura 2.19: inserimento delle induttanze di dispersione. Vale la pena notare come, in Figura 2.19, abbiamo indicato con E 1 e E 2 le tensioni alle porte del trasformatore ideale per distinguerle da quelle in ingresso al trasformatore che, a causa delle cadute di tensione sulle due nuove induttanze di dispersione, non coincidono più. Non ci resta che aggiungere due resistori, di opportuno valore R1 ed R2, in serie alle induttanze di dispersione, che tengano in debito conto delle perdite nel rame, delle perdite resistive nei due avvolgimenti, primario e secondario, per ottenere lo schema circuitale di Figura 2.20, che rappresenta un trasformatore reale. 74 Macchine elettriche statiche I1 ω L 1D * I1 + V1 − + I0 ω L0 R0 R1 Iµ ω L 2D a:1 + E1 + E2 Iρ − − I2 V2 R2 − Figura 2.20: inserimento delle resistenze degli avvolgimenti. Siamo finalmente giunti allo schema più completo, ma anche più complicato, che descrive il funzionamento del trasformatore monofase. Per completare il nostro lavoro, dobbiamo fare il diagramma fasoriale relativo al nuovo circuito equivalente. La Figura 2.21 riporta questo diagramma per il circuito di Figura 2.19; costruitelo con cura, verificando la posizione relativa dei diversi fasori. V1 E1 R1 I1 E2 I1 V2 jωL 2D I2 I2 jωL 1D I1 * I1 Iρ R2 I2 Φ Iµ I0 Figura 2.21: diagramma fasoriale. Soltanto due osservazioni prima di concludere questo paragrafo. Il circuito cui siamo giunti che ‘traduce’ in rete elettrica il funzionamento del trasformatore, è, 75 Macchine elettriche statiche per alcune applicazioni, troppo complicato e, pertanto, il primo lavoro che ci attende è la ricerca di schemi semplificati. La seconda cosa da sottolineare riguarda la corrente I0: se osservate con cura la Figura 2.20, concluderete che essa può a buon diritto chiamarsi corrente a vuoto poiché, se alla porta secondaria non vi venisse collegato alcun carico, cioè se questa porta fosse aperta, la corrente circolerebbe solo nella maglia primaria e varrebbe la relazione I1 = I0 . Si noti che, nella realtà, la corrente I0 è spesso, in valore efficace, molto più piccola della I1, così come le cadute di potenziale sugli elementi longitudinali sono molto più piccole di V1 e di V2, rispettivamente. La Figura 2.21 deve intendersi come solo indicativa, poiché le ampiezze dei diversi fasori sono state scelte soltanto sulla base di criteri di chiarezza grafica. Su queste ultime osservazioni torneremo nel seguito. 2.5 Modelli semplificati del trasformatore Il circuito equivalente, riportato in Figura 2.20, risulta molto utile quando il trasformatore cui ci si riferisce sia inserito in una rete elettrica e si voglia analizzare il comportamento nel suo insieme. Tuttavia, per evitare calcoli troppo complessi, si accetta spesso di modificare questo circuito equivalente, cercando, al tempo stesso, di contenere entro qualche percento gli errori dovuti alla semplificazione introdotta. Aggiungiamo ancora che non è facile, per mezzo di prove sperimentali, conoscere il valore di tutti i parametri equivalenti, nel senso che non tutti i parametri possono essere dedotti indipendentemente. Con queste premesse, si capisce la necessità di ricorre ad un circuito semplificato, i cui parametri siano facilmente deducibili da misure di tensione e corrente, fatte alle due porte. La schema semplificato maggiormente in uso è il cosiddetto modello a flusso bloccato, mostrato in Figura 2.22: la modifica apportata, rispetto alla Figura 2.20, consiste nello spostare il ramo (in gergo detto ‘cappio’) trasversale composto dal resistore R0 e dall’induttore L 0 a sinistra di L 1D e di R1. Questo modello viene detto ‘a flusso bloccato’ perché la corrente Iµ, che era proporzionale al flusso Iµ = V1 = j ω N1 Φ = N1 Φ , j ω L0 j ω L0 L0 76 Macchine elettriche statiche è nota quando la tensione della porta primaria è assegnata. L 1D I1 + V1 Iµ − R0 Iρ R1 L 2D a:1 + I0 L0 * I1 E1 − + + E2 − I2 V2 R2 − Figura 2.22: modello a flusso bloccato. Ciò è lecito, in prima approssimazione, perché il valore efficace della corrente I0 è piccolo, in condizioni di funzionamento normale, rispetto a quello della corrente I1, ed il fatto che ora I0 non percorra più R1 e L 1D modifica poco la caduta di tensione su questi due bipoli. Se aggiungiamo, poi, che questa caduta di tensione è piccola rispetto a V1 e E 1, si intuisce perché il nuovo schema lascia praticamente inalterate le varie grandezze presenti nel circuito equivalente. Dallo schema di Figura 2.22 è facile ottenere un ulteriore modello, rappresentato in Figura 2.23, che si ottiene riportando al secondario le resistenze e le reattanze di dispersione del circuito primario. Le resistenze sono state, dunque, accorpate in un’unica resistenza di valore RT = R 2 + R1 , a2 mentre l’induttanza complessiva è pari a LT = L2 + L1 . a2 77 Macchine elettriche statiche * I1 I1 + V1 I0 L0 Iµ − LT a:1 + R0 E 1 + − + E2 Iρ − I2 V2 RT − Figura 2.23: modello a flusso bloccato con perdite tutte al secondario. Nel circuito equivalente di Figura 2.22, pertanto, tutte le perdite ‘longitudinali’ sono state riportate al secondario. Nel seguito faremo largo uso di questo modello. 2.6 Un cenno agli effetti non lineari Chiuso il discorso sui circuiti equivalenti, è necessario sviluppare qualche osservazione sugli effetti non lineari che possono avere luogo dato che, come certamente ricorderete, i materiali ferromagnetici sono descritti da un legame tra l’induzione ed il campo magnetico di tipo isteretico, che significa non lineare ed a più valori. Finora abbiamo ipotizzato che il ferro adoperato nella costruzione del trasformatore abbia un comportamento ideale, avendo supposto B= µH. Anzi, abbiamo immaginato che la permeabilità magnetica fosse elevata, se non addirittura infinita. Rimuovere questa ipotesi non è cosa semplice: lo studio dei sistemi non lineari è argomento di studio avanzato e molti gruppi di ricerca, anche afferenti a discipline diverse, dalla termodinamica all’elettromagnetismo, stanno spendendo molte energie per fare luce in un campo difficile da ... arare. Ciò che abbiamo implicitamente assunto nel nostro precedente studio è che, se la tensione di alimentazione ad una porta del trasformatore è sinusoidale di assegnata frequenza, anche tutte le altre grandezze sono sinusoidali e della stessa frequenza imposta dal generatore. E questa è una particolarità che caratterizza in maniera forte i sistemi lineari: se il segnale di ingresso, quale esso sia, è sinusoidale, anche l’uscita lo è ed inoltre conserva la stessa frequenza dell’ingresso. Come per il 78 Macchine elettriche statiche regime sinusoidale, anche in questo caso si intende che il transitorio, peraltro breve, sia terminato: qui ci riferiamo soltanto alla soluzione di regime, proprio come facemmo per l’alternata. Considerare un ferro non ideale non è facile e ci si limiterà soltanto a proporre un esperimento che possa mettere in luce una delle più importanti proprietà dei sistemi non lineari. In realtà, nel caso dei materiali ferromagnetici il problema è ancora più complicato per la presenza dell’isteresi. Ma questo punto verrà da noi trascurato. Consideriamo l’esperimento proposto in Figura 2.24. Il trasformatore presenta la porta secondaria a vuoto allo scopo di realizzare un induttore che, come vedremo tra poco, è non lineare. I trasduttori di corrente e tensione presenti nello schema sono dispositivi elettronici che convertono i valori istantanei di corrente e tensione in segnali comprensibili dall’elaboratore elettronico. La presenza di un elaboratore elettronico rappresenta una gran comodità dato che in tal modo possiamo comodamente rappresentare sullo schermo le forme d’onda della corrente e della tensione. i(t) + v(t) − TC TT PC TC → Trasduttore di corrente TT → Trasduttore di tensione Figura 2.24: analisi armonica di un trasformatore. Nella Figura 2.25 sono riportate le tracce di corrente, visibili sul calcolatore, nel caso in cui la tensione sia una funzione sinusoidale, del tipo v(t) = VM sen(ωt) , 79 Macchine elettriche statiche la frequenza sia fissa e l’ampiezza assuma i tre valori VM = (0.5, 1, 1.2) V. 3 Corrente normalizzata VM = 1.2 V 2 1 0 ωt VM = 0.5 V -1 -2 VM = 1 V -3 0 2 4 6 8 10 Figura 2.25: uscite non lineari. Cosa si deduce da questi grafici? Osservando con attenzione la figura riportata, si comprende che, fino a quando il valore massimo della tensione è piccolo, la corrente ha un andamento molto somigliante ad una funzione sinusoidale. Appena il valore massimo aumenta, la forma d’onda che la rappresenta non è nemmeno lontanamente somigliante ad una sinusoide. Più precisamente, per descrivere la corrente, avremmo bisogno non più di una sola funzione sinusoidale, ma di più sinusoidi, le cui frequenze sono multipli interi della frequenza del generatore. In altri termini, la corrente è rappresentabile da una somma del tipo i(t) = I1 sen(ωt) + I2 sen(2ωt) + I3 sen(3ωt) + , cioè una combinazione lineare di funzioni sinusoidali di valori massimi I1, I2, I3 e pulsazioni ω, 2ω, 3ω (per la verità, nel caso del trasformatore l’ampiezza I2 è nulla: ma questo è un inutile dettaglio e, pertanto, lo trascuriamo). Proprio questa era la proprietà dei sistemi non lineari che ci premeva mettere in luce: pur essendo la tensione di ingresso una funzione sinusoidale di assegnata pulsazione, la corrente presenta più sinusoidi di pulsazioni diverse, al limite anche infinite. 80 Macchine elettriche statiche Potremmo dire che un sistema non lineare ‘crea’ frequenze diverse (multiple) da quella del segnale di ingresso. Dal punto di vista del sistema elettrico, in generale, questa creazione di frequenze è un fenomeno indesiderato che va sotto il nome di inquinamento armonico e che può creare non pochi problemi alle linee di trasmissione a cui il trasformatore viene collegato. Lo studio dettagliato di questi fenomeni, comunque, esula dai limiti impostici, pur rappresentando uno dei più bei capitoli della Matematica, conosciuto come studio delle serie di Fourier. 2.7 Condizioni e valori nominali Le condizioni nominali di funzionamento sono quelle per le quali un trasformatore subisce delle sollecitazioni adeguate alle caratteristiche per cui è stato prima progettato, poi costruito. Esse vengono precisate dal costruttore proprio per evitare tutte quelle sollecitazioni per le quali il trasformatore non è stato progettato, e vengono, d’abitudine, espresse come: V1N , valore efficace della tensione primaria nominale ; I1N , valore efficace della corrente primaria nominale ; V2N , valore efficace della tensione secondaria nominale ; I2N , valore efficace della corrente secondaria nominale ; cos ϕ 2N , fattore di potenza nominale . Se conosciamo i parametri del circuito equivalente e i valori dei parametri nominali, possiamo ricavare altri parametri nominali, tra i quali l’impedenza secondaria nominale Z 2N = Z 2N , ϕ 2N = V2N , ϕ 2N , I2N e la cosiddetta potenza nominale, intesa come potenza apparente secondaria in condizioni nominali AN = A 2N = V 2N I 2N . Le sollecitazioni a cui il trasformatore è sottoposto durante il suo esercizio possono essere di natura diversa e, se non sono tenute sotto controllo, possono determinare non pochi problemi. Qui esamineremo, in rapida sintesi, le principali. 81 Macchine elettriche statiche • Sollecitazioni meccaniche Le forze di attrazione e repulsione dovute all’interazione delle correnti tra le spire che compongono gli avvolgimenti producono vibrazioni contenute nei limiti stabiliti. Figura 2.26: danni per sforzi meccanici negli avvolgimenti. Queste vibrazioni rappresentano la sorgente del normale ronzio del trasformatore e non creano eccessivi sforzi interni che, con il passare del tempo, potrebbero compromettere la compattezza meccanica della macchina. Nella appendice posta alla fine del capitolo approfondiamo l’argomento degli sforzi elettrodinamici che, se non sono tenuti sotto controllo, possono arrecare danni molto gravi al trasformatore, come testimonia la Figura 2.26. • Sollecitazioni dielettriche Le tensioni tra i vari punti degli avvolgimenti e del nucleo devono assumere i valori previsti per essere correttamente sopportate dalla rigidità dielettrica dei vari isolanti. • Sollecitazioni magnetiche Di esse si è già fatto cenno nel precedente paragrafo ed il flusso, o l’intensità dell’induzione magnetica, assume un valore massimo per uno sfruttamento 82 Macchine elettriche statiche ottimale del ferro, senza raggiungere il limite di saturazione, che provocherebbe eccessive distorsioni nelle forme d’onda della corrente magnetizzante. • Sollecitazioni termiche Il calore dissipato per effetto Joule negli avvolgimenti (perdite nel rame) e quello dovuto alle perdite nel ferro elevano la temperatura interna nei vari elementi rispetto al valore previsto in sede di progetto. Figura 2.27: raffreddamento in un trasformatore di grossa potenza. Per porre rimedio a questo inconveniente, bisogna riuscire a rimuovere questo calore in eccesso. Per i trasformatori di piccola potenza, la naturale convezione dell’aria è sufficiente a tenere sotto controllo la temperatura. Tuttavia, se la potenza cresce, è necessario rimuovere il calore in eccesso, cosa che può essere fatta aumentando la superficie di scambio termico, cioè alettando il cassone che contiene il trasformatore. Se nemmeno le alette sono sufficienti, si realizza una convezione forzata facendo passando un liquido refrigerante in tubi che avviluppano la macchina. Pertanto, il sistema di smaltimento del calore in eccesso, considerando il tipo di raffreddamento, può essere indicato dai seguenti simboli: 83 Macchine elettriche statiche N F D sta per naturale; sta per forzata; sta per forzata e guidata. Invece, considerando il tipo di refrigerante, si possono adoperare i simboli: O L G W per olio minerale non infiammabile; per altro liquido non infiammabile; per gas; per acqua. Figura 2.28: raffreddamento forzato per mezzo di tubi e ventola. In tal modo, per un trasformatore di elevata potenza, la sigla ONAF indica che il raffreddamento avviene con Olio Naturale, il cui movimento è spontaneo sotto l’azione del calore, ed Aria Forzata, la quale, sospinta da ventilatori, asporta il calore dell’olio. 2.8 Rendimento 84 Macchine elettriche statiche Come abbiamo detto nel primo capitolo, per una macchina o, più in generale, per un qualunque dispositivo elettrico, uno dei parametri tecnici che ne caratterizza le prestazioni è il rendimento. Anche per il trasformatore si può definire il rendimento come rapporto tra la potenza restituita in uscita e quella fornita in ingresso η = Potenza in uscita = PUS . Potenza in ingresso PIN Questo rapporto è, tuttavia, difficile da misurare, specialmente per i trasformatori di elevata potenza, che possono avere rendimenti pari circa a 0.99. Non molto tempo fa, a causa della imprecisione degli strumenti di misura, poteva capitare che, disposti due wattmetri alla porta di ingresso e di uscita, un errore di misura in eccesso sulla potenza in uscita ed uno in difetto su quella in ingresso, essendo queste due potenze praticamente coincidenti, portava ad un valore fisicamente assurdo del rendimento, un valore maggiore dell’unità. Se, poi, a ciò si aggiunge la difficoltà di avere a disposizione strumenti di misura che possano sopportare il passaggio di corrente e tensioni elevate, si conclude che è preferibile valutare il rendimento in maniera indiretta, secondo la definizione: η= PUS . PUS + PCu + PFe Questa relazione definisce il rendimento come il rapporto della potenza in uscita, anche detta potenza trasferita al secondario, e della potenza in ingresso, intesa come somma delle potenze perdute nel rame, nel ferro e della potenza di uscita stessa. In realtà, si tratta del rendimento convenzionale, detto così a causa della presenza di perdite di altro tipo quali quelle per ventilazione, magnetostrizione ed elettrostrizione, non tenute in conto in questa definizione. Per valutare le diverse potenze presenti, facciamo riferimento allo schema semplificato a flusso bloccato e con perdite tutte al secondario di Figura 2.23, e supponiamo che alla porta primaria vi sia un generatore di tensione, mentre a quella secondaria vi sia un carico generico, caratterizzato dall’impedenza Z = Z , ϕ = Z (cos ϕ + j sen ϕ) . La Figura 2.29 riporta lo schema che vogliamo usare per il calcolo del rendimento, uno schema che, seppur riferito ad un modello semplificato del trasformatore, ci consentirà di fare interessanti considerazioni. Notate che, alla 85 Macchine elettriche statiche porta secondaria, abbiamo cambiato il verso della corrente, facendo sul carico la convenzione dell’utilizzatore; in ciò non vi è nulla di magico: solo un cambio di verso per scrivere in maniera più compatta le formule che seguono. Segue, allora, che la potenza assorbita dal carico è pari a PUS = V 2 I 2 cos ϕ . Le perdite nel ferro, legate al resistore R0, sono 2 PFe = R 0 I 2ρ = V1 , R0 ed, una volta assegnata la tensione alla porta primaria, sono note, almeno fin quando è valido il modello di trasformatore utilizzato. In particolare, queste perdite non dipendono dalla corrente I2 della porta secondaria. * I1 I1 I0 LT a:1 + I2 + + + L0 V1 − Iµ R0 E 1 E2 Iρ − − V2 RT Z − Figura 2.29: schema semplificato per la valutazione delle perdite. La potenza dissipata nel rame per effetto Joule, invece, è data da PCu = R T I 22 , Sostituendo queste relazioni scritte nella definizione del rendimento, si ottiene η= V2 I 2 cos ϕ PUS = . PUS + PCu + PFe V2 I 2 cos ϕ + R T I 22 + PFe 86 Macchine elettriche statiche Osservate subito che non abbiamo sostituito per le perdite nel ferro nell’ultima relazione, dato che esse dipendono esclusivamente dalla tensione primaria che supponiamo assegnata e fissa. Molto diffuso nella pratica tecnica è riferirsi non tanto alla corrente della porta secondaria, quanto al rapporto adimensionale α = I2 , I2N tra questa corrente e la corrente nominale alla stessa porta. Generalmente, il coefficiente α ≤ 1 e, solo per periodi limitati, si può tollerare la condizione di sovraccarico α > 1. Il rendimento può, pertanto, riscriversi nella nuova forma η= V2 I 2N cos ϕ V2 I 2N cos ϕ + R T I 22N α + PFe α . Siamo, finalmente, giunti al punto nodale della trattazione. Chiediamoci: supponendo che il valore efficace della tensione secondaria V2 non cambi, come accade nelle principali applicazioni domestiche ed industriali, per quale valore di α il rendimento è massimo? Se supponiamo che la tensione secondaria sia fissa e non dipenda da α, il massimo rendimento si raggiunge quando il denominatore D(α) D(α) = V2 I 2N cos ϕ + R T I 22N α + PFe α è minimo. La parte posta nel riquadro che segue mostra come si trovi questo valore minimo. La funzione D(α) = V2 I 2N cos ϕ + R T I 22N α + PFe , α assume il suo valore minimo per α = αMIN = PFe . RT I 22N Per verificare questa affermazione, considerata la derivata prima rispetto a α 87 Macchine elettriche statiche d D(α) = RT I 22N - PFe , dα α2 possiamo affermare, ricordando che, per definizione, α è un numero positivo, che la funzione cresce se d D(α) > 0 → RT I 22N - PFe > 0 → α > αMIM = dα α2 αMIN PFe . RT I 22N α 0 minimo Ciò basta a provare che la funzione ammette il minimo predetto. Dunque, se α= PFe , RT I 22N avremo un minimo del denominatore D(α) e questo minimo non dipende dal fattore di potenza, il cos ϕ, del carico. In corrispondenza di questo valore, il rendimento convenzionale del trasformatore è massimo, come mostrato in Figura 2.30, per disegnare la quale abbiamo assunto una potenza apparente nominale alla porta secondaria S2N = V 2N I 2N = 200 kVA, una potenza nominale assorbita dagli avvolgimenti di rame pari a RT I 22N = 2 kW ed una potenza dissipata nel ferro PFe = 1 kW. Con questi dati il rendimento diventa η= 200 α cos ϕ , 200 α cos ϕ + 2 α2 + 1 che è proprio la funzione disegnata in figura, per un valore del fattore di potenza del carico pari a 0.8. 88 Macchine elettriche statiche Si osservi che la zona in cui si raggiunge il valore massimo del rendimento è piuttosto larga. Stesso andamento si ottiene anche cambiando il fattore di potenza; in particolare, il massimo rendimento si ottiene quando il carico è puramente resistivo, ovvero cos ϕ = 1 e, per un’ampia classe di trasformatori commerciali, il ‘largo’ massimo si ottiene attorno al valore α = 3/4. η 1 0.95 0.9 0.85 cos ϕ = 0.8 0.8 0.75 0.7 0.65 α 0.6 0 0.5 1 1.5 2 Figura 2.30: rendimento del trasformatore al variare del parametro α. Ponendoci nella condizione di massimo, siamo in grado di determinare la corrente che dovrebbe circolare al secondario per avere rendimento massimo. Tuttavia ciò non è sempre possibile. Tuttavia, la corrente che circola al secondario dipende dal carico, cioè dalle richieste degli utenti, che variano continuamente. Quindi, nell’arco di una giornata il rendimento cambia in continuazione, e per tenerne conto si definisce il rendimento giornaliero, inteso come rapporto delle energie assorbite nell’intera giornata (nelle 24 ore): η= ∑ V2k I 2k cos ϕk ∆tk ∑ k V2k I 2k cos ϕ k + R T I 22k ∆tk + 24 PFe , k in cui il tempo ∆tk, espresso in ore, rappresenta un intervallo di utilizzazione in cui le caratteristiche della potenza prelevata sono costanti ed il significato da 89 Macchine elettriche statiche attribuire agli altri simboli adoperati dovrebbero risultare chiaro da quanto detto in precedenza. La condizione di massimo per il rendimento giornaliero sarà del tutto simile a quella discussa in precedenza. Si osserva, comunque, che il rendimento va tenuto in ogni caso elevato, avendo cura che non diventi troppo piccolo: in questi casi, si pensi a un’utenza cittadina durante le ore notturne, si preferisce avere a disposizione due trasformatori, uno di grande potenza per le ore del giorno, uno più piccolo per le ore della notte, in modo che quale dei due trasformatori sia in funzione operi sempre con una corrente secondaria prossima al valore nominale, cioè a rendimento elevato. 2.9 Prove sui trasformatori La determinazione indiretta del rendimento comporta la conoscenza esplicita della potenza perduta nel ferro e nel rame. Per conoscere queste grandezze, ovvero valutare i parametri trasversali e longitudinali del circuito equivalente del trasformatore, si usa praticare delle prove sul trasformatore: cominciamo dalla prova a vuoto. • Prova a vuoto Questa prova, schematicamente mostrata in Figura 2.31, viene effettuata lasciando aperta la porta nel circuito secondario ed applicando al primario la tensione nominale V1N: il voltmetro posto in parallelo alla porta primaria serve proprio a verificare che il valore efficace della tensione di alimentazione coincida con la tensione nominale. In realtà, la parte di alimentazione non è così semplice: si preferisce usare la normale rete di distribuzione dell’energia elettrica e poi adattare alle nostre esigenze il valore della tensione usando un autotrasformatore, di cui si parlerà tra poco. Comunque questo dettaglio non è essenziale per ciò che stiamo per dire e, pertanto, lo trascureremo. + + V1N + W I2 = 0 V − A 90 Macchine elettriche statiche Figura 2.31: illustrazione della prova a vuoto. Le misure fornite dall’amperometro e dal wattmetro, che indicheremo rispettivamente con I0 e P0, sono in grado di fornire i valori dei parametri trasversali del trasformatore. Per capire come ciò possa realizzarsi, ricorriamo ancora una volta al modello semplificato con le perdite resistive tutte al secondario di Figura 2.23, riprodotto, per quel che qui interessa, in Figura 2.32. Dalla misura del wattmetro e del voltmetro si può ricavare facilmente il valore del primo parametro trasversale, il valore della resistenza R0 2 2 P0 = V1N → R0 = V1N . R0 P0 Inoltre, non è difficile determinare anche il fattore di potenza P0 = V 1N I 0 cos ϕ 0 → cos ϕ 0 = P0 . V1N I 0 Noto l’angolo ϕ 0, è poi semplice valutare la potenza reattiva Q0 e da essa la reattanza X0 = ω L 0; in formule: 2 2 2 Q0 = P0 tan ϕ 0 = V1N → X0 = V1N → L 0 = V1N . X0 Q0 ω Q0 * I0 I1 = 0 I1 + L0 V1N − Iµ R0 Iρ Figura 2.32: schema della prova a vuoto. 91 Macchine elettriche statiche Dunque, la misura illustrata in Figura 2.31 consente di determinare i parametri trasversali, R0 ed L 0, di un trasformatore; in altri termini, siamo finalmente in grado di stimare, con ragionevole approssimazione, la potenza PFe, dissipata nel ferro. • Prova in cortocircuito Per valutare le perdite negli avvolgimenti e l’induttanza di dispersione, i cosiddetti parametri longitudinali del trasformatore, possiamo effettuare un nuovo insieme di misure, denominato prova in cortocircuito. + + W I1N I2 + V1CC V − A Figura 2.33: prova di corto circuito su un trasformatore. Per questa prova si pone in cortocircuito la seconda porta. Si impone alla prima porta una tensione V1CC , detta tensione di cortocircuito, definita come la tensione che, con il secondario in cortocircuito, fa circolare al primario la corrente nominale. Questa tensione è di gran lunga più bassa di quella nominale V1N e bisogna fare particolare attenzione a partire da tensioni più basse di quella di cortocircuito e, poi, aumentare il valore poco per volta. Se, sempre con la porta secondaria in corto circuito, la tensione dovesse malauguratamente superare i limiti suddetti, è ben far durare la misura il più breve tempo possibile poiché, date le elevate correnti in gioco, il trasformatore potrebbe subire danni molto seri. Anche in questa prova si utilizza un autotrasformatore, al quale abbiamo già fatto cenno nella prova a vuoto, per ridurre la tensione della linea a valori più bassi. 92 Macchine elettriche statiche I1N I0 ≅ 0 a2 L T + L0 V1CC − R0 I1N Iµ Iρ a2 RT Figura 2.34: schema della prova in corto circuito. Spieghiamo questa prova ricorrendo ancora una volta allo schema semplificato di Figura 2.23, adattato al caso in esame in Figura 2.34, in cui i parametri longitudinali della porta secondaria sono stati ricondotti al primario, moltiplicandoli ovviamente per a2. Notate che i parametri trasversali sono stati eliminati dallo schema dato che, essendo molto più elevati degli altri, possono essere considerati dei circuiti aperti. Dunque, misurata V1CC grazie al voltmetro e la corrente nominale I1N per mezzo dell’amperometro, la potenza misurata con il wattmetro rappresenta la potenza attiva assorbita dagli avvolgimenti di rame PCC = a 2 RT I 21N → RT = PCC . a2 I 21N Inoltre, dalla conoscenza del fattore di potenza PCC = V 1CC I 1N cos ϕ CC → cos ϕ CC = PCC , V1CC I 1N si può dedurre l’angolo ϕ CC e la potenza reattiva QCC , e da essa la reattanza XT = ω L T; in formule: QCC = PCC tan ϕ CC = a 2 XT I 21N → XT = QCC → L T = QCC . a2 I 21N ω a2 I 21N Dunque, la misura illustrata in Figura 2.34 consente di determinare i parametri longitudinali, RT ed L T, di un trasformatore; in altri termini, siamo finalmente in 93 Macchine elettriche statiche grado di stimare, con ragionevole approssimazione, la potenza PCu, dissipata negli avvolgimenti. Alcune considerazioni prima di terminare. La prima riguarda la simmetria dei due procedimenti di misura: riguardate quanto detto sulle due prove e scoprirete una notevole simmetria, negli schemi e nelle formule. La seconda riguarda la frequenza: un dato che abbiamo implicitamente usato e non misurato è la frequenza. Gli schemi di misura presentati, pertanto, vanno completati con un frequenzimetro per misurare la frequenza delle grandezze alternate, che abbiamo omesso dagli schemi al fine di renderli più leggibili. 2.10 Caduta di tensione Per capire quale sia il problema che vogliamo affrontare in questo paragrafo, ritorniamo allo schema approssimato, secondo Kapp, del trasformatore di Figura 2.23. Nella Figura 2.35 abbiamo riprodotto questo schema di trasformatore chiuso su un carico generico. I1 + + V1 − LT * I1 I0 a:1 I2 + E1 E2 − − + Z RT V2 − Figura 2.35: trasformatore chiuso su un generico carico. Osservate questa figura con attenzione: i parametri trasversi sono stati rappresentati per mezzo di una generica impedenza e sul carico abbiamo fatto la convenzione dell’utilizzatore, cambiando l’usuale verso della corrente alla porta secondaria. Niente di particolarmente complicato: dovreste essere ormai abituati a questi cambi di convenzione, sempre collegati alla semplificazione della trattazione che si vuole svolgere. Se la porta secondaria è a vuoto, la tensione che si misura a questa porta è proprio E 2; quando, invece, è presente un carico, la tensione assume il valore V2 che dipende dal carico collegato. La caduta di tensione (∆V) è definita proprio con riferimento ai valori efficaci di queste tensioni 94 Macchine elettriche statiche ∆V = E2 - V2 , e rappresenta la variazione di tensione alla porta secondaria del trasformatore nel funzionamento a vuoto e sotto carico. Più precisamente, le norme CEI definiscono caduta di tensione industriale (c.d.t.i.) il rapporto ∆V = 1 - V2 , E2 E2 ovvero il suo equivalente percentuale ∆V% = 100 1 - V2 . E2 Comunque, a parte i simboli e le definizioni, dobbiamo valutare la differenza tra i moduli delle tensioni a vuoto e sotto un generico carico. Allora, applicando la LKT alla maglia di uscita, possiamo scrivere: E 2 = V2 + RT + j ω L T I2 . Da questa relazione tra fasori dobbiamo estrarre le informazioni relative ai valori efficaci che ci interessano per calcolare la caduta di tensione: per fare ciò, l’abbiamo rappresentata graficamente in Figura 2.36. La costruzione che segue illustra nel piano di Gauss quanto accade nella realtà, ma non aggiunge informazioni altre informazione alla LKT. E2 A O ϕ I2 B D ϕ V2 RT I2 C j X T I2 Figura 2.36: rappresentazione fasoriale della LKT alla maglia di uscita. Iniziamo a dire che abbiamo supposto la corrente I2 in ritardo, di un certo angolo ϕ, rispetto alla tensione V2, assumendo un carico di tipo ohmico - induttivo: 95 Macchine elettriche statiche questa ipotesi non è necessaria, ma è stata fatta per illustrare un caso abbastanza frequente: per rendervene conto fino in fondo, adattate quanto diremo in questo paragrafo a un carico di tipo ohmico - capacitivo. Osservate che la tensione RT I2 è parallela alla corrente I2, mentre la tensione j ω L T I2 è in anticipo di π/2, sempre rispetto alla corrente. La scelta di porre V2 sull’asse reale, anche se in figura non viene riportato, è del tutto arbitraria. Consideriamo, ora, la circonferenza di raggio E 2 e facciamola passare per il punto D del disegno. Ci rendiamo conto che la caduta di tensione è pari alla differenza: ∆V = E2 - V2 = OD - AO = AD . Tuttavia, nei casi di maggior interesse applicativo, il segmento AD è circa pari a AC, essendo trascurabile il piccolo segmento CD. Pertanto, possiamo approssimativamente scrivere ∆V = E2 - V2 = OD - AO = AD ≅ AC . Ora vedrete come la semplificazione introdotta renda meno complicato il calcolo della caduta di tensione. Osservando la Figura 2.36 e ricordando le definizioni delle funzioni trigonometriche seno e coseno, non è difficile scrivere che AC = R T I 2 cos ϕ + X T I 2 cos π - ϕ = R T I 2 cos ϕ + X T I 2 sen ϕ , 2 essendo ϕ l’angolo di fase tra il fasore della tensione V2 e quello della corrente. R2T + X2T ϕ 2CC RT XT Figura 2.37: impedenza ed angolo di fase. Se immaginate di eliminare l’impedenza di carico e di sostituirla con un cortocircuito, indicando con ϕ 2CC la fase dell’impedenza RT + j XT, detto angolo di cortocircuito, aiutandovi con la Figura 2.37, potete scrivere che 96 Macchine elettriche statiche sen ϕ 2CC = RT XT , cos ϕ 2CC = , 2 2 2 + XT RT + X T R2T e la relazione precedente diventa AC = R T I 2 cos ϕ + X T I 2 sen ϕ = = I 2 R2T + X 2T cos ϕ sen ϕ 2CC + sen ϕ cos ϕ 2CC = = I 2 R2T + X 2T sen(ϕ + ϕ 2CC ) . Sostituendo questa ultima relazione nella definizione della caduta di tensione, possiamo, finalmente, scrivere ∆V ≅ AC = = I2 R2T + X 2T sen(ϕ + ϕ 2CC ) . Questa formula è utile per valutare la caduta di tensione e, quindi, per studiare quando la ∆V è nulla. Si verifica, facilmente, che la ∆V è nulla nel caso di circuito aperto alla porta secondaria, quando la corrente I2 è nulla, oppure ∆V = 0 → sen(ϕ + ϕ 2CC ) = 0 → ϕ = - ϕ 2CC . Ora, dato che, come suggerisce la Figura 2.37, l’angolo di cortocircuito al secondario vale ϕ 2CC = arctan RT , XT concludiamo pure che la caduta di tensione è nulla in corrispondenza dell’angolo di fase ϕ = - arctan RT . XT Riassumendo, dato un carico Z, supposto, per esempio, di tipo ohmico - induttivo, abbiamo tracciato il grafico della caduta di tensione, abbiamo calcolato una sua buona approssimazione, dalla quale abbiamo dedotto quando essa si annulla: si annulla, ovviamente, quando il carico alla porta secondaria è un circuito aperto, ma si annulla anche quando la porta secondaria è chiusa su un carico particolare, 97 Macchine elettriche statiche in grado di sostenere un ritardo della corrente rispetto alla tensione proprio pari all’angolo - ϕ 2CC , l’opposto dell’angolo di cortocircuito al secondario. Questo era un risultato davvero imprevedibile? Non era del tutto imprevedibile se ricordate la condizione di adattamento di un carico ad un generatore reale in regime sinusoidale. Come vedremo nel volume dedicato agli impianti elettrici, il problema del calcolo della caduta di tensione è un problema generale che viene risolto secondo le stesse modalità descritte in questo paragrafo. 2.11 Trasformatori in parallelo Per capire perché è conveniente disporre due trasformatori in parallelo, consideriamo una linea di distribuzione dell’energia elettrica, che per semplicità immagineremo monofase, per mezzo della quale si debba alimentare un generico carico, come illustrato in Figura 2.38. + linea primaria − a' linea secondaria V1 a" + − V2 Z Figura 2.38: parallelo di due trasformatori. È opportuno non affidare il servizio di utenza ad un unico trasformatore per due motivi: in primo luogo perché in caso di guasto o manutenzione di uno dei due trasformatori interviene il secondo a garantire la continuità del servizio; in secondo luogo, richiamando alla memoria quanto detto a proposito del rendimento dei trasformatori, per cui è opportuno fare lavorare il trasformatore con una corrente prossima a quella nominale, si conclude immediatamente che, nelle ore di minor richiesta, la notte ad esempio, è utile far lavorare il solo trasformatore più piccolo, posto in parallelo al trasformatore più grande, che opera nelle ore di massimo carico. 98 Macchine elettriche statiche Per i motivi appena esposti, bisogna studiare questo tipo di collegamento con l’intento di comprendere quali siano le migliori condizioni di esercizio e quali caratteristiche debbano possedere i due trasformatori per essere posti efficientemente in parallelo. RT + a:1 + V1 + E2 − − + E 2 = V1 a − V2 XT ZT − + V2 − Figura 2.39: circuito equivalente visto dal secondario. Cominciamo col dire che ognuno dei due trasformatori può essere schematizzato come mostrato in Figura 2.39. Ciò discende dal solito modello semplificato di Kapp in cui si è considerato la sola maglia di uscita, riportando però al secondario la tensione di ingresso che vale, appunto E 2 = V1 . a Interessiamoci solo dei secondari dei nostri trasformatori e della ‘linea secondaria’ a cui sono collegati. Il nostro parallelo può, dunque, essere rappresentato come indicato in Figura 2.40. Quando l’interruttore è chiuso i due trasformatori sono collegati al carico; nel caso contrario, funzionano a vuoto. Allora, onde evitare sprechi inutili, la prima cosa da imporre è che non vi sia circolazione di corrente quando la linea secondaria è aperta. Quindi la corrente a vuoto, che circola quando l’interruttore è aperto, deve essere nulla. In questa situazione le correnti varranno: IZ = 0 , IA = - IB = E A - E B . ZA + ZB 99 Macchine elettriche statiche ZA ZB + + E A = V1 a' − − Z IA IZ E B = V1 a" IB Figura 2.40: circuito equivalente del parallelo di due trasformatori. Affinché la corrente IA sia nulla, occorre che E A = E B → V1 = V1 → a' = a" = a . a' a" In altri termini, se vogliamo porre due trasformatori in parallelo, la prima cosa di cui dobbiamo preoccuparci è che i rispettivi rapporti di trasformazione siano uguali; qualora non lo fossero, pagheremmo il prezzo di una corrente non nulla a carico non collegato. Ora, ammesso pure che i due trasformatori rispettino questa condizione, una volta che l’interruttore colleghi il carico generico alla rete, dobbiamo richiedere che entrambi i trasformatori funzionino a pieno carico, cioè nessuno dei due lavori in condizioni di basso rendimento. Visto che E A = E B, il circuito equivalente di Figura 2.40 può essere ulteriormente semplificato, in accordo con il teorema di Thévenin, secondo quanto mostrato in Figura 2.41. 100 Macchine elettriche statiche ZA A IA C + V1 a IB − ZB Z IZ Figura 2.41: rete semplificata per lo studio del parallelo di due trasformatori. Funzionare a pieno carico significa che nei trasformatori deve circolare una corrente prossima a quella nominale, che è proprio la corrente per la quale il trasformatore è dimensionato e per la quale si ha un rendimento vicino a quello massimo. Ora, tra le impedenze Z A e Z B, che sono coincidenti con le impedenze di cortocircuito (se consideriamo, come già abbiamo fatto, i parametri trasversali coincidenti con un circuito aperto), dobbiamo richiedere che sussista la relazione VAC = Z A IAN = Z B IBN → Z A = IBN . Z B IAN In altri termini, le impedenze di corto circuito devono risultare inversamente proporzionali alle correnti nominali. Questa condizione può anche essere, ovviamente, interpretata dicendo che i due trasformatori devono avere la stessa tensione di cortocircuito. Inoltre, dato che il rapporto tra le potenze apparenti assorbite dai due trasformatori vale VAC I AN = IAN = Z B , VAC I BN IBN Z A dobbiamo fare in modo che la corrente del carico IZ si ripartisca tra i due trasformatori nello stesso rapporto che sussiste fra le rispettive potenze apparenti nominali. In conclusione, ad un trasformatore più grande si collega in parallelo un trasformatore più piccolo, che può intervenire in caso di guasto del più grande, e viceversa, e, nelle ore di minore richiesta, si può staccare il più grande e fare lavorare soltanto il più piccolo. In tal modo, riusciamo a non far usurare il più grande e far lavorare con maggiore rendimento il più piccolo. Risulta chiaro, 101 Macchine elettriche statiche infine, che si possono collegare in parallelo anche due trasformatori di ugual potenza. 2.12 Autotrasformatore Quando non esiste svantaggio nel fatto che il primario e il secondario di un trasformatore siano isolati e contemporaneamente il rapporto di trasformazione è approssimativamente contenuto tra 1 e 3, allora è vantaggioso economicamente fare una sostanziale modifica nella struttura degli avvolgimenti, come indica la Figura 2.42. La figura indica che in questo caso vi è un solo avvolgimento concatenato con il nucleo magnetico N, costituito ad esempio da un pacco di lamierini, e questo avvolgimento costituisce il primario. Il secondario è qui costituito semplicemente da una parte dell’avvolgimento primario medesimo, quello che fa capo ai morsetti 2 e 2'. Il rapporto di trasformazione è anche in questo caso vicino al rapporto spire, ovvero al rapporto fra il numero delle spire dell’intero avvolgimento e quello interessato dalle derivazioni secondarie che fanno capo ai morsetti 2 e 2'. Le più usuali applicazioni di questi autotrasformatori si possono trovare negli impieghi domestici, nei laboratori, ma anche nelle reti in alta oppure altissima tensione come regolatori della tensione. 1 + V1 − 1' N1 + − 2 V2 2' Figura 2.42: schema di principio di un autotrasformatore. Con il termine autotrasformatore si intende indicare un trasformatore costituito da un unico avvolgimento, una parte del quale è comune al primario ed al secondario. Alla stregua dei trasformatori ordinari, possono essere sia abbassatori che elevatori e lo schema di funzionamento è quello di Figura 2.43. 102 Macchine elettriche statiche I1 + N1 I2 + V1 − N2 IC V2 Z − Figura 2.43: autotrasformatore collegato a un carico generico. Il numero totale di spire è pari a N1, le spire al secondario sono N2, mentre le spire attraversate in esclusiva dalla corrente primaria sono N1 - N2. La corrente IC è la corrente che interessa il tratto comune di spire. Nella Figura 2.43 si sono trascurati, per semplicità, i parametri longitudinali e trasversali ed è stata assunta la convenzione dell’utilizzatore sul carico. Le equazioni che descrivono il funzionamento dell’autotrasformatore, posto a = N1 ≥ 1 N2 e facendo la convenzione del generatore alla porta secondaria, sono V1 = a V2 , I2 = a I1 . La prima uguaglianza definisce l’accoppiamento; la seconda si ricava considerando il circuito magnetico equivalente (Figura 2.44). + N1 - N2 I1 N2 IC − + Φ ℜ= L µS − Figura 2.44: circuito magnetico equivalente di un autotrasformatore. 103 Macchine elettriche statiche Applichiamo la seconda legge di Hopkinson: N1 - N2 I1 + N 2 IC = ℜ Φ . Dato che IC = I1 - I2 , l’ultima relazione diventa: N1 - N2 I1 + N 2 I1 - I2 = ℜ Φ → N1 I1 = N 2 I2 + ℜ Φ , che, nell’ipotesi di riluttanza del ferro trascurabile, fornisce la relazione richiesta. • Risparmio in potenza La differenza fondamentale fra un trasformatore ed un autotrasformatore consiste nelle perdite per effetto Joule, che per l’autotrasformatore sono inferiori rispetto a quelle di un normale trasformatore; ciò giustifica la convenienza del suo impiego quando sussistano le condizioni accennate in precedenza. Infatti, se consideriamo un trasformatore con N1 spire di resistenza R1 alla porta primaria e N2 spire di resistenza R2 alla porta secondaria, le perdite resistive, quelle che abbiamo chiamato perdite ohmiche nel rame, valgono PTR = P1 + P2 = R 1 I 21 + R 2 I 22 . Nel caso di un autotrasformatore, alla porta primaria vi sono N1 - N2 spire che rappresentano una resistenza di valore R1A = N1 - N2 R1 , N1 che assorbe una potenza pari a P1A = R 1A I 21 = N1 - N2 R1 I 21 = 1 - N2 P 1 = 1 - 1 P 1 . a N1 N1 Già da questa relazione si vede con chiarezza che la potenza dissipata da un autotrasformatore alla prima porta è solo un’aliquota della corrispondente potenza 104 Macchine elettriche statiche assorbita da un trasformatore. Per renderci conto sino in fondo, se consideriamo un rapporto di trasformazione a = 1.25, la potenza dissipata al primario sarà: P1A = 0.2 P1 , un quinto di quella che dissiperebbe un normale trasformatore. Lo stesso discorso si può ripetere per la porta secondaria, in cui abbiamo N2 spire percorse dalla corrente IC: R2A = V2 = V2 = V2 = a V2 = a R2 . IC I1 - I2 1 I2 - I2 1 - a I2 1 - a a Allora, la potenza assorbita alla porta secondaria vale P2A = R 2A I 2C = a R2 I 22 1 - 1 2 = P2 1 - 1 . a a 1-a Come si deduce con chiarezza dalle due potenze calcolate PAT = PCu(autotrasformatore) = 1 - 1 P Cu(trasformatore) = 1 - 1 P TR . a a Quest’ultima relazione dimostra che si può avere una diversa potenza assorbita, a tutto vantaggio dell’autotrasformatore se il rapporto di trasformazione è prossimo all’unità. Se il rapporto di trasformazione inizia ad aumentare, diventando ad esempio a = 3, si ha PAT = 0.6 PTR, il guadagno diminuisce rapidamente. In quel che precede abbiamo, per semplicità, trascurato gli effetti induttivi dei due avvolgimenti. Il discorso, ovviamente, si può ripetere per la reattanza, ottenendo lo stesso risultato. • Risparmio in volume di conduttore Se indichiamo con L 1 la lunghezza di un solenoide di N1 spire, è chiaro che la lunghezza del solenoide della porta primaria di una autotrasformatore vale (la sezione dei fili è ‘S’ in entrambe le situazioni): L 1A = L1 N1 - N2 = 1 - 1 L 1 . a N1 Di conseguenza, il volume di rame necessario per realizzare queste N1 - N2 spire è 105 Macchine elettriche statiche Volume1A = L1A S = 1 - 1 L 1 S = 1 - 1 Volume1T , a a ed il risparmio di rame è evidente. Per la seconda parte del solenoide, il discorso è un po’ diverso. Infatti, poiché ragioniamo a parità di lunghezza L dei solenoidi, dalla relazione prima dimostrata tra le resistenze R2A = a R2 , 1-a discende immediatamente che ρ L = a ρ L → S 2A = 1 - 1 S2T . a S2A 1 - a S2T Anche in questo secondo caso, dunque, a parità di lunghezza, possiamo usare, nel caso dell’autotrasformatore, una sezione più piccola, cioè abbiamo un risparmio in volume di rame usato. In definitiva, vale, come in precedenza, la relazione VolumeCu (autotrasformatore) = 1 - 1 VolumeCu (trasformatore) . a • Trasparenza per la potenza complessa Anche l’autotrasformatore è un doppio bipolo trasparente alla potenza complessa. Questa proprietà, che è tipica del trasformatore, è presto verificata. Dalla sua definizione discende, infatti, che * * P1 = V1 I1 = a V2 1 I2 = P2 = PP (potenza passante) . a Questa potenza passante è la potenza rispetto a cui viene, in genere, dimensionato un trasformatore normale. Ma per l’autotrasformatore vanno fatte considerazioni ulteriori. Infatti, è rispetto alle potenza impegnate * * P1-2 = V1 - V2 I1 = V1 I1 1 - 1 = Pp 1 - 1 a a * * PC = V2 IC = V2 I2 1 - 1 = Pp 1 - 1 a a dalle N1 - N2 spire , dalle N2 spire in comune , 106 Macchine elettriche statiche che vanno dimensionate la parte superiore e inferiore di un autotrasformatore. Queste potenze, essendo piccole se ‘a’ è prossimo a uno, consentono dimensioni più piccole dell’autotrasformatore. Diventando sempre minore la richiesta di potenza nei due tratti, per svolgere il suo compito, un autotrasformatore avrà bisogno di immagazzinare sempre meno energia nei campi magnetici generati da solenoidi, cosa che comporta un uso più contenuto sia del rame che del ferro. Dalle precedenti considerazioni sorge spontanea la domanda: ma, se si risparmia rispetto alle perdite resistive, se si risparmia in rame e in ferro, allora perché non usare sempre l’autotrasformatore? In primo luogo, tutti i vantaggi esaminati risultano sempre più piccoli al crescere del rapporto di trasformazione ‘a’. Ma, cosa più importante, la mancanza di isolamento tra primario e secondario mette un contatto ‘fisico’ la prima linea di alimentazione (rivedete quanto detto a proposito del parallelo dei trasformatori) con la seconda linea di utilizzazione, collegamento non sempre accettabile perché causa di danni alle persone e di guasti di impianto. Gli autotrasformatori non devono essere usati per l’alimentazione di elettroutensili portatili, come trapani, mole, saldatrici, o di lampade da usarsi in luoghi umidi, per i quali le norme antinfortunistiche prescrivono una tensione di funzionamento non maggiore di 50 V, fornita dal secondario di un trasformatore avente il centro collegato ad una buona terra, in modo da limitare a 25 V la tensione cui può essere sottoposto l’operatore a seguito di un contatto accidentale tra involucro esterno dell’apparecchio e parti in tensione. Le norme antinfortunistiche emanate dal CEI prevedono, inoltre, il collegamento a terra dell’involucro esterno dell’apparecchio, così come il collegamento a terra di qualsiasi custodia o carcassa di macchine o di impianti elettrici, mediante un conduttore di terra in rame, di sezione non inferiore alla sezione di alimentazione. Si raccomanda vivamente l’applicazione rigorosa e costante di queste norma la cui trasgressione comporta, purtroppo, quotidianamente elettrocuzioni spesso mortali. Prima di concludere questo paragrafo dobbiamo fare un cenno ad uno strumento ampiamente usato nella pratica professionale e di laboratorio. Si tratta di un particolare autotrasformatore, detto Variac, che ha una rapporto di trasformazione ‘a’ nell’intervallo 1 ÷ 3, che è costituito da un avvolgimento disposto su un nucleo ferromagnetico toroidale. La tensione primaria viene applicata, nel caso di un trasformatore abbassatore ad esempio, ai morsetti della estremità dell’avvolgimento complessivo; la tensione secondaria viene prelevata tra uno dei due morsetti precedenti e in contatto strisciante la cui posizione determina il rapporto di spire e, dunque, il rapporto di trasformazione. 107 Macchine elettriche statiche 2.13 Notizie sulla costruzione Per ragioni tecnologiche e per motivi connessi al rendimento ed alle tensioni di cortocircuito, un trasformatore non è quasi mai realizzato come rappresentato in Figura 2.6. In primo luogo, il nucleo non è realizzato in ferro massiccio, ma è costituito da pacchi di lamierini in lega di ferro e silicio, con una percentuale di silicio nella misura dal 3% al 5%, ad alta permeabilità magnetica e bassa cifra di perdita (0.5 - 1.5) W/kg, dello spessore che va da qualche decimo fino ad un millimetro. Sappiamo che le perdite nel ferro per correnti parassite dipendono delle dimensioni della sezione normale alle linee di flusso, ed in questo caso dal quadrato dello spessore dei lamierini; la misura di 0.35 mm, che è stata assunta, rappresenta un compromesso tra la necessità di avere, da un lato, un costo di produzione non troppo alto, come pure una discreta resistenza meccanica, e dall’altro perdite nel ferro relativamente basse. Generalmente le perdite per isteresi e le perdite per correnti parassite stanno fra loro rispettivamente nel rapporto da 3:1 a 4:1. Le forme di nucleo più diffuse sono a colonna (Figura 2.45), o corazzato (Figura 2.46). 2 2' 1 1' Figura 2.45: nucleo a colonna. Per ottenerle, i lamierini sono tranciati opportunamente in più pezzi, verniciati con una sostanza isolante e successivamente accostati in modo che il piano di laminazione sia parallelo alle linee di flusso. 108 Macchine elettriche statiche 1 2 1' 2' Figura 2.46: nucleo corazzato. La sezione trasversale delle porzioni verticali dei nuclei, dette colonne, è di forma quadrata, rettangolare oppure a gradini, inscritta in un cerchio con il massimo di area utile: come esempio di sezione a gradini osservate la Figura 2.47. La sezione trasversale delle porzioni orizzontali, dette gioghi, è generalmente rettangolare. I lamierini sono pressati con forza per mezzo di legature, morse pressa - pacchi o bulloni passanti, opportunamente isolati. Figura 2.47: sezione di una colonna di trasformatore. Gli avvolgimenti sono generalmente disposti intorno alle colonne in modo da rendere il valore assoluto del coefficiente di accoppiamento quanto più possibile vicino al valore limite 1. Il coefficiente di accoppiamento, definito come il rapporto 109 Macchine elettriche statiche -1≤k= M ≤1, L1 L 2 è un numero reale, in valore assoluto minore dell’unità, che rappresenta una misura del grado di accoppiamento di due circuiti. Quando |k| = 1, si è in condizioni di accoppiamento perfetto. In ogni caso, le disposizioni tipiche sono le due seguenti: a) disposizione concentrica, nella quale gli avvolgimenti sono montati con lo stesso asse ma con diametro diverso, come in Figura 2.48; 1 2 2' 1' Figura 2.48: disposizione concentrica. b) disposizione alternata, nella quale gli avvolgimenti, suddivisi in bobine parziali di forme discoidale, hanno diametri uguali e sono montati sullo stesso asse, con bobine appartenenti al primario ed al secondario alternativamente disposte lungo le colonne, come mostrato in Figura 2.49. 1 2 1' 2' Figura 2.49: disposizione alternata. 110 Macchine elettriche statiche Ovviamente, nell’uno e nell’altro caso, gli avvolgimenti sono opportunamente distanziati sia per questioni di isolamento, sia per lasciare il posto al passaggio di fluidi refrigeranti: si ricorda, infatti, che sia gli avvolgimenti, sia il circuito magnetico sono sede di perdite, con conseguente generazione di quantità di calore che devono essere smaltite per evitare che la temperatura raggiunga valori tali da danneggiare l’isolamento. Nel caso di piccoli trasformatori (potenze fino a qualche decina di chilovoltampere) e per basse tensioni, il fluido refrigerante è semplicemente l’aria. Viceversa, per potenze maggiori e per tensioni elevate si ricorre all’olio minerale per trasformatori, il quale unisce alle proprietà termiche notevoli ed efficaci proprietà elettriche (elevata rigidità). In quest’ultimo caso il trasformatore è posto in un cassone per il contenimento dell’olio, il quale potrà avere superfici esterne lisce, nel caso di minori potenze, superfici alettate oppure a tubi, nel caso di potenze maggiori, ed addirittura potrà avere scambiatori di calore ad aria oppure ad acqua, per potenze superiori a qualche megavoltampere. 2.14 Trasformatori per usi speciali In questo paragrafo passeremo in rapida rassegna alcuni tipi molto usati di trasformatori che, per l’uso che se ne fa, hanno assunto caratteristiche costruttive particolari. • Trasformatori di misura Sulle grandi linee di trasmissione dell’energia elettrica vi è spesso la necessità di effettuare la misura di tensioni e correnti il cui valore efficace è ampiamente superiore al limite offerto dal fondo scala degli strumenti comunemente disponibili. Nel caso delle medie e delle alte tensioni, poi, si aggiungono anche problemi di sicurezza. È opportuno, quindi, ricorrere all’ausilio di trasformatori dal rapporto di trasformazione particolare per riportare entro limiti ‘ragionevoli’ tensioni e correnti troppo elevate per effettuare direttamente le misure. In generale i trasformatori di misura hanno caratteristiche particolari necessarie per rendere la misura quanto più fedele possibile al dato ‘vero’. I carichi al secondario sono in genere rappresentati da strumenti di misura, amperometri con fondo scala massimo 5 A e voltmetri con fondo scala massimo di 0.5 kV. Tali trasformatori in genere possono essere di corrente TA e di tensione TV. Trasformatori di corrente TA Si tratta di un trasformatore monofase, illustrato in Figura 2.50, con il primario collegato in serie con la linea sulla quale circola la corrente da misurare, mentre il 111 Macchine elettriche statiche secondario è chiuso su un amperometro. Il rapporto di trasformazione risulta ‘in discesa’ per la corrente ed ‘in salita’ per la tensione. Linea primaria A Figura 2.50: inserzione di un TA. In realtà la misura non è così semplice poiché, se ci riferiamo ad un trasformatore reale I1 = - 1 I2 + I0 , a la presenza della corrente a vuoto I0 può falsare la proporzionalità tra corrente primaria e secondaria e può introdurre un errore nella misura del valore efficace della corrente. Sempre a causa della corrente a vuoto, le due correnti, primarie e secondarie, non sono in fase e ciò causa anche un errore di angolo che può essere fonte di non poche incertezze nel calcolo della potenza sulla rete, per la conoscenza della quale bisogna conoscere lo sfasamento tra corrente e tensione. Quindi per rendere trascurabili tali errori occorre rendere trascurabile la corrente a vuoto, ad esempio usando al secondario sempre lo stesso amperometro si può tarare la scala dello strumento in modo da tenere, in qualche misura, in conto l’errore. Esistono anche TA trifasi. Trasformatori di tensione TV Osservate con attenzione la Figura 2.51. 112 Macchine elettriche statiche Linea primaria V Figura 2.51: inserzione di un TV. I trasformatori di tensione vengono inseriti in parallelo sulla linea della quale si vuole conoscere la tensione. Anche i trasformatori di tensione indipendentemente dal rapporto teorico di trasformazione, sono caratterizzati da un rapporto effettivo fra la tensione di ingresso e quella di uscita dipendente dalle specifiche condizioni di impiego. Il rapporto nominale è anche in questo caso quello fornito dal costruttore. A causa della non idealità del trasformatore, così come per il TA, anche la misura con il TV è affetta da un errore di rapporto e di angolo che dipendono dalla caduta di tensione nella resistenza e sulla reattanza equivalenti del trasformatore; le tensioni primarie e secondarie non sono né perfettamente in fase, né in opposizione di fase ed il loro rapporto non coincide con il rapporto di spire. Per ridurre gli errori occorre ridurre le resistenze interne, aumentando la sezione dei conduttori e ridurre le reattanze di dispersione. Esistono anche TV trifasi. Un uso simultaneo di un TA e di un TV consente il collegamento ad un wattmetro per la misura della potenza. La Tabella che segue indica i modi di inserzione, funzionamento e protezioni dei trasformatori di misura. TA TV Inserzione sulla linea Funzionamento Primario in serie Primario in derivazione Protezioni Valvole fusibili Quasi in corto circuito: alimenta Quasi a vuoto: alimenta un’impedenza molto bassa. un’impedenza molto elevata. di tensione, mai Fusibili sul primario e sul secondario 113 Macchine elettriche statiche Le protezioni sono dispositivi speciali, il cui approfondimento avverrà quando studierete gli Impianti Elettrici, capaci di proteggere il circuito qualora le tensioni o le correnti assumessero valori tali da danneggiare i suoi diversi componenti. • Trasformatori di potenza Hanno il compito di innalzare la tensione all’uscita delle centrali elettriche dai valori tipici di produzione dell’ordine di decine di chilovolt a centinaia di chilovolt, allo scopo di ridurre la corrente sulle linee e, quindi, la dissipazione energetica. • Trasformatori di isolamento o separatori Si tratta di trasformatori a rapporto unitario che hanno l’unica funzione di evitare che un carico sia metallicamente collegato alla rete di alimentazione. • Trasformatori a flusso disperso Sono particolari trasformatori usati per saldatura, per giocattoli e per impianti al neon. Sono dotati di un’elevata impedenza interna che li protegge in caso di cortocircuito. La dispersione del flusso con cui si ottiene l’alta impedenza interna è realizzata per mezzo di un giogo di dispersione che consiste in una colonna di materiale ferromagnetico, dotata di due traferri, in grado di ruotare. • Trasformatori a corrente costante Nell’illuminazione stradale è importante mantenere costante la corrente al variare del carico, consistente in uno o più corpi illuminanti posti in serie: per questo scopo vengono adoperati i trasformatori a corrente costante. Alla rottura di una lampada, il circuito non si interrompe, ma il trasformatore deve adeguare la propria tensione di uscita per mantenere costante la corrente. L’aumento per qualche istante della corrente di carico, causato dalla diminuzione delle lampade, comporta un aumento della forza di repulsione tra gli avvolgimenti e ciò produce una variazione della reattanza di dispersione. La f.e.m. e la corrente, a causa della variazione di questa reattanza, si riportano ai valori stabiliti. • Trasformatori a più avvolgimenti Presentano un primario e più secondari a diversi valori di tensione. • Trasformatori a prese Hanno la possibilità di variare la tensione di uscita, oppure di ingresso, spostando la connessione dei conduttori. 114 Macchine elettriche statiche • Adattatori o traslatori di impedenza Tale trasformatore ha lo scopo di permettere a generatori di piccola potenza di funzionare in condizioni di adattamento, o quasi. Ciò vuol dire trasferire la massima potenza attiva del carico, e una potenza reattiva più piccola possibile, al limite nulla. Per fare ciò, si collega il generatore al primario di trasformatore con un rapporto di trasformazione tale da realizzare l’adattamento dell’impedenza del carico. 2.15 Trasformatori trifasi Tutto lo sviluppo di questo capitolo è incardinato sul trasformatore monofase; non dobbiamo dimenticare, tuttavia, che l’energia elettrica viene prodotta da generatori trifasi per essere trasmessa e distribuita su linee elettriche trifasi. Quindi, una volta capito come funziona il trasformatore, è opportuno fare un cenno per capire come funziona un trasformatore trifase. Nella realtà, al fine di risparmiare energia, la tensione di uscita dei generatori delle centrali di produzione viene innalzata fino a diverse centinaia di chilovolt grazie a trasformatori trifasi allo scopo di ridurre in maniera proporzionale le correnti sulla linea. Si ricordi infatti che le perdite resistive vanno con il quadrato del valore efficace della corrente, per cui, abbassando le correnti sulle linee, si riducono tali perdite. Giunta poi in prossimità delle utenze, la tensione viene nuovamente abbassata ai livelli di utilizzazione. Tutto ciò si realizza per mezzo di trasformatori trifasi. È ovvio che, per trasformare un sistema trifase di tensioni e correnti, si può ricorrere a tre trasformatori monofasi indipendenti, uno per ogni fase, con gli avvolgimenti primari fra loro collegati a stella o a triangolo, e così pure i secondari, oppure si può ricorrere a un trasformatore trifase propriamente detto, avente un unico circuito magnetico con un opportuno numero di rami fra loro interconnessi, e gli avvolgimenti sempre collegati come già detto. • Circuiti magnetici Se un trasformatore trifase è connesso in un sistema equilibrato e simmetrico, tutte le terne di grandezze omogenee in esso presenti sono tali da avere, istante per istante, somma zero, ovvero sono rappresentabili in regime sinusoidale da terne simmetriche di vettori. Ciò dunque accade per i tre flussi principali, che indicheremo con Φ1, Φ2 e Φ3, per i quali vale la relazione Φ1 + Φ2 + Φ3 = 0 . 115 Macchine elettriche statiche Nella Figura 2.52 e nelle successive, i rami del circuito magnetico sono stati rappresentati con linea a tratto e punto, mentre gli avvolgimenti elettrici, alla porta primaria ed a quella secondari, ad essi concatenati vengono indicati con una sola spira: il tutto per ragioni di semplicità grafica. 1 2 3 1' 2' 3' Φ1 Φ2 Φ3 Figura 2.52: trasformatore a tre colonne. La Figura 2.52 rappresenta schematicamente un trasformatore trifase con nucleo (o circuito magnetico) cosiddetto a tre colonne. La Figura 2.53 rappresenta, invece, un analogo trasformatore con nucleo a cinque colonne, detto anche corazzato. Sempre per semplicità, gli avvolgimenti sono ora indicati senza collegamenti fra loro. Nel nucleo a tre colonne l’annullamento della somma dei tre flussi è imposto dalla struttura stessa del circuito magnetico, anche se il sistema non è equilibrato e simmetrico, qualora si trascuri l’eventuale piccolo flusso che si può chiudere attraverso l’aria fuori dalle colonne. Nel nucleo a cinque colonne, invece, questa relazione di annullamento non è generalmente verificata se il sistema trifase non è equilibrato e simmetrico, ed è proprio per questa circostanza che le particolari proprietà del nucleo a cinque colonne sono talvolta preferite. 116 Macchine elettriche statiche 1 2 3 1' 2' 3' Φ1 Φ2 Φ3 Figura 2.53: trasformatore corazzato. Mediante l’analogia fra circuiti elettrici e circuiti magnetici, si può comprendere facilmente che un nucleo a tre colonne è analogo ad un circuito elettrico con collegamento stella - stella senza neutro, mentre un nucleo a cinque colonne è pressoché analogo a un circuito elettrico con collegamento stella - stella con neutro; in quest’ultimo caso l’analogia è ovviamente approssimata, perché la rete magnetica di Figura 2.53 ha addirittura sei nodi anziché due, tuttavia si intuisce che le colonne laterali estreme svolgano la funzione del neutro. In verità, per la perfetta simmetria di tutte le grandezze presenti nei trasformatori trifasi, anche le riluttanze equivalenti viste dai flussi Φ1, Φ2 e Φ3 dovrebbero essere uguali fra loro: ciò non accade nel nucleo a tre colonne, ove la colonna centrale presenta riluttanza minore di quelle laterali che hanno in serie i gioghi; ciò non accade neppure nel nucleo a cinque colonne, ove esiste addirittura una rete magnetica più complessa, seppure non equilibrata; gli squilibri, dovuti alla ineguaglianza delle riluttanze magnetiche, costituiscono un problema di seconda approssimazione agli effetti elettrici, se si pensa che le riluttanze sono comunque piccole. Volendo un nucleo perfettamente equilibrato nelle riluttanze, esso dovrebbe assumere la forma di Figura 2.54 e la colonna centrale AB, che svolge la funzione di neutro, potrebbe essere assente o presente. 117 Macchine elettriche statiche A 2 3 2' 3' 1 Φ2 Φ3 1' B Φ1 Figura 2.54: trasformatore a tre colonne con ‘neutro’. • Collegamenti fra avvolgimenti Gli avvolgimenti primari e quelli secondari possono essere collegati in vario modo. Schemi tipici di collegamento sono, ad esempio: avvolgimenti primari collegati a stella e secondari collegati a stella; avvolgimenti primari collegati a triangolo e secondari collegati a triangolo; avvolgimenti primari collegati a triangolo e secondari collegati a stella; avvolgimenti primari collegati a stella e secondari collegati a triangolo. I collegamenti degli avvolgimenti primari vengono indicati da una lettera maiuscola, ad esempio, D per il collegamento a triangolo e Y per il collegamento a stella, mentre i collegamenti degli avvolgimenti secondari sono indicati da una lettera minuscola, ad esempio, d oppure y. Le terne delle tensioni concatenate, primarie e secondarie, possono essere, quindi, sfasate tra loro. Tale sfasamento viene assegnato in termini di gruppo, g, pari allo sfasamento, ritardo espresso in gradi, delle tensioni concatenate secondarie rispetto alle tensioni concatenate primarie, diviso 30°. Gli schemi di collegamento raccomandati dalle norme CEI sono i gruppi 0, mostrato in Figura 2.55, e 11, mostrato in Figura 2.56. 118 Macchine elettriche statiche B Dd0 B A B C a C c b b C a A A c B a b c b Yy0 C a A c Figura 2.55: gruppo 0 (spostamento angolare 0°). A C a a b c b b B Dy11 B c C a A A B B C c b Yd11 c A C a Figura 2.56: gruppo 11 (spostamento angolare 330°). Tuttavia, le stesse norme CEI consigliano anche i gruppi 5, riportato in Figura 2.57, e 6, schematizzato in Figura 2.58. Se il collegamento è a stella, può esistere o meno il conduttore neutro. Spesso accade che il collegamento degli avvolgimenti primari o secondari di un trasformatore trifase possono essere eseguiti all’esterno dell’involucro del trasformatore stesso, presso la cosiddetta morsettiera. 119 Macchine elettriche statiche A B C a B c Dy5 A C b a A B c b B C a c Yd5 A b C a c b Figura 2.57: gruppo 5 (spostamento angolare 150°). A B c B C a Dd6 A C b a A B c c b B C a Yy6 A C b a b c Figura 2.58: gruppo 6 (spostamento angolare 180°). In tal caso gli estremi di ciascun avvolgimento sono saldati ciascuno a un bullone come indica la Figura 2.59. Il collegamento può essere eseguito inserendo opportunamente piastrine metalliche fra i bulloni e serrandole con dadi filettati; con simili dadi si collegano anche i conduttori di partenza o di arrivo della linea elettrica. Le Figure 2.59b e 2.59c mostrano i collegamenti rispettivamente a stella ed a triangolo. 120 Macchine elettriche statiche a) b) c) Linea Linea Figura 2.59: morsettiera. Poiché in condizioni nominali è fissata la tensione ai capi di ogni avvolgimento, strettamente legata al flusso concatenato, cambiando il collegamento da triangolo a stella e viceversa, si può variare la tensione concatenata in linea nel rapporto da 1 a 3 o viceversa, e mantenere così il flusso al valore nominale previsto. Ciò vale sia per il primario, sia per il secondario. Vale la pena accennare anche al fatto che talvolta l’avvolgimento primario e/o secondario su una colona di un trasformatore trifase è suddiviso in due sezioni che si possono collegare in serie o in parallelo. È opportuno segnalare che talvolta gli avvolgimenti primari e/o secondari possono essere collegati secondo uno schema cosiddetto a zigzag (simbolo Z per il primario, z per il secondario). Tale collegamento è riportato in Figura 2.60. 121 Macchine elettriche statiche Figura 2.60: collegamento a zig - zag. A titolo di esempio, si riporta lo schema Dz6. A B A C a c C B b a b c Figura 2.61: lo schema Dz6. • Circuiti equivalenti e loro interpretazioni Poiché nella maggioranza dei casi i trasformatori trifasi si usano in sistemi simmetrici ed equilibrati, si può fare riferimento al circuito equivalente relativo a una singola fase, ritenendo che per altre fasi il circuito equivalente sia identico, a parte l’angolo di fase di tutte le grandezze in esso rappresentate, che subisce un incremento di ± 2π/3. Come schemi completi o semplificati si usano così tutti quelli che abbiamo indicato nei precedenti paragrafi. 122 Macchine elettriche statiche È bene precisare che il circuito equivalente di una fase si riferisce generalmente per convenzione a un singolo avvolgimento (o serie, o parallelo di due sezioni di avvolgimento nel caso dello zigzag e simili); che poi il collegamento degli avvolgimenti sia a stella oppure a triangolo verrà precisato a parte. Pertanto, nel circuito equivalente la coppia di grandezze V1 ed I1, o V2 ed I2, indicheranno ancora, rispettivamente, quelle del primario o del secondario e saranno una tensione stellata ed una corrente di linea, a seconda che il collegamento sia a triangolo oppure a stella. Tutte le potenze che si leggono nel circuito equivalente, potenza entrante al primario, perdite nel ferro, perdite nel rame, potenza uscente al secondario, devono essere moltiplicate per 3 al fine di ottenere le corrispondenti potenze complessive nel trasformatore trifase. 2.16 Dati di targa Un trasformatore è definito da una serie di dati specifici, che vengono riportati sulla targhetta metallica ad esso collegata; ad esempio, sulla targa si può trovare il contrassegno CEI, il nome del costruttore ed il numero di identificazione. Generalmente i dati specifici sono i seguenti, anche se non sono sempre tutti riportati sulla targa. • Numero delle fasi e tipo di collegamento Se monofase, basta questo aggettivo; se trifase, si deve dire come sono collegati gli avvolgimenti, cioè se essi sono a stella, a triangolo oppure a zigzag, indicati con le lettere maiuscole, Y, D e Z, per il primario, con le lettere minuscole, d, y, z, per il secondario. A queste due lettere segue un numero intero (gruppo) che indica convenzionalmente lo sfasamento (ritardo) in gradi e diviso per 30° della tensione concatenata secondaria rispetto alla corrispondente primaria, quale viene determinato dai collegamenti indicati prima. • Tensione nominale primaria e secondaria Per i trasformatori monofase, le tensioni nominali V1N e V2N sono definite. Per quelli trifasi esse sono sempre intese come tensioni concatenate, qualunque sia il collegamento effettuato fra gli avvolgimenti; se è prevista una commutazione di collegamenti, si indicano i valori nominali relativi a ciascun collegamento, tenendo presente che la tensione nominale relativa ad un singolo avvolgimento ha un unico valore fisso. • Corrente nominale primaria e secondaria 123 Macchine elettriche statiche Per i trasformatori monofasi, le correnti nominali I1N e I2N sono definite. Per quelli trifasi esse sono sempre intese come correnti di linea, qualunque sia il collegamento effettuato fra gli avvolgimenti; se è prevista una commutazione di collegamenti, si indicano i valori nominali relativi a ciascun collegamento, tenendo presente che la corrente nominale relativa a un singolo avvolgimento ha un unico valore fisso. • Potenza nominale Essa è intesa come potenza apparente nominale resa, cioè uscente dal secondario in condizioni nominali; per un trasformatore monofase essa è A2N = V 2N I 2N , mentre per un trasformatore trifase è A2N = 3 V2N I 2N . • Fattore di potenza nominale Esso è da intendersi come cos ϕ 2N; con questo dato e con i precedenti si deduce la potenza attiva nominale resa. Dato il trasformatore con le sue resistenze e reattanze, conoscendo V2N I 2N e cos ϕ 2N, le grandezze nominali primarie V1N e I1N (ed eventualmente il cos ϕ 1N) risultano dipendenti dalle secondarie. • Frequenza nominale Essa è generalmente fN = 50 Hz per gli impianti di terra ferma in Europa. Per impianti a bordo di aeromobili la frequenza nominale è sovente fN = 400 Hz. Per i trasformatori che alimentano gli altoparlanti si ha poi tutta una gamma di frequenze: quelle tipiche della voce umana o degli strumenti musicali. • Rapporto spire Esso coincide con il rapporto fra le tensioni del primario e del secondario a vuoto, oppure con il rapporto fra le correnti secondaria e primaria in cortocircuito. • Tensione di cortocircuito Essa è stata definita in precedenza e la stessa definizione vale anche per i trasformatori trifasi. • Rendimento in condizioni normali 124 Macchine elettriche statiche Il suo valore può variare da 0.90, nel caso di trasformatori di piccola potenza, a 0.995, per quelli di grande potenza. • Natura del servizio Può accadere che un trasformatore debba funzionare con tensioni e correnti nominali continuative, ovvero per tempo indefinito, arbitrariamente lungo; la targa indica allora ‘per servizio continuativo’. Può invece accadere, come quando si alimentano saldatrici, puntatrici o cucitrici, che il trasformatore debba funzionare in servizio con tensioni e correnti nominali per un periodo di tempo T S relativamente breve, alcuni secondi o minuti, seguito da un altro periodo T 0 di funzionamento a vuoto. In tal caso il trasformatore si dice adatto per servizio intermittente e si definisce rapporto di intermittenza la quantità r= TS . TS + T0 La targa riporta il valore nominale r N di questo rapporto. Se, pur con tensioni e correnti nominali, un trasformatore per sevizio intermittente funziona con r > r N o addirittura con r = 1, cioè in servizio continuativo, esso può raggiungere temperature pericolose per la buona conservazione dei suoi materiali componenti. Per concludere, si ricorda che non devono essere mai superati i valori nominali della tensioni, delle correnti, ed eventualmente del rapporto di intermittenza, per far in modo che le perdite nel ferro e nel rame, separatamente, non superino i rispettivi valori limite. Il non superare semplicemente la potenza nominale non costituisce ovviamente di per sé una sufficiente garanzia. 2.17 La diagnostica Anche se il trasformatore è una macchina caratterizzata da malfunzionamenti non molto frequenti, è possibile rilevare un aumento della temperatura dell’olio: ciò può dipendere da sovraccarico oppure da una cattiva ventilazione. Se la macchina risultasse rumorosa, bisogna controllare il serraggio dei dadi sul nucleo oppure il valore dell’induzione alla quale il trasformatore sta operando, induzione che potrebbe risultare eccessiva. Il cortocircuito tra spire o tra avvolgimenti fa intervenire il relè Buchholz che viene usato proprio per questo scopo e che è posto sopra il trasformatore, intervenendo quando la macchina, a causa di cortocircuiti interni, sviluppa gas. L’intervento del relè avviene in due fasi: con la prima si avvisa acusticamente 125 Macchine elettriche statiche l’operatore della presenza del guasto; con la seconda, se il guasto continua, il trasformatore viene scollegato. 2.18 Simboli grafici Negli schemi dei circuiti elettrici è consueto usare segni grafici particolari per indicare i trasformatori monofasi e trifasi. La Figura 2.62a indica un trasformatore monofase, mentre in 2.62b viene indicato uno trifase con un particolare tipo di collegamento (triangolo - stella con neutro). ∆ a) b) Figura 2.62: simboli grafici per trasformatori. La Figura 2.63a indica un autotrasformatore monofase, mentre la Figura 2.63b rappresenta un autotrasformatore trifase: si osservi che negli autotrasformatori trifasi non esistono varietà di collegamenti. a) b) Figura 2.63: simboli grafici per autotrasformatori. 126 Macchine elettriche statiche Appendice: sforzi elettrodinamici negli avvolgimenti Quando gli avvolgimenti di un trasformatore sono percorsi da elevate correnti, tra le varie spire possono manifestarsi delle azioni elettrodinamiche che, se non sono tenute sotto controllo, possono danneggiare, o comunque alterare, il funzionamento della macchina. In questa appendice vogliamo tracciare una linea che può aiutare chi volesse determinare questi sforzi. Consideriamo un conduttore rettilineo di lunghezza L, percorso dalla corrente i. Sappiamo che, se questo filo viene immerso in un campo esterno B, esso risente di una forza, mostrata in Figura A.1, data dalla relazione F=iLτ×B, dove τ è un vettore unitario (versore) diretto come il filo ed orientato secondo la direzione della corrente. B i F τ Figura A.1: filo percorso da corrente in un campo magnetico. Detto ciò, prendiamo in considerazione due fili rettilinei e paralleli, percorsi dalle correnti i1 e i2, posti ad una certa distanza D. Il primo conduttore sostiene nello spazio circostante un campo magnetico ed il modulo del vettore induzione magnetica, valutato in corrispondenza nei punti del secondo conduttore, si può calcolare per mezzo della formula B1 = µ0 i1 . 2πD In questo campo si trova immerso il secondo conduttore che, per un tratto di lunghezza L, sarà sollecitato dalla forza F2 = i2 B1 L = µ0 L i 1 i 2 . 2πD 127 Macchine elettriche statiche a) F1 F2 i1 b) F1 i2 D F2 i1 i2 D Figura A.2: azioni elettrodinamiche tra due fili percorsi da corrente. Questa espressione stabilisce che la forza elettrodinamica che agisce tra due conduttori è proporzionale al prodotto delle correnti che li attraversano. Se i due conduttori sono attraversati dalla stessa corrente, la precedente relazione stabilisce che la forza che agisce tra i conduttori è proporzionale al quadrato della corrente. Inoltre, quanto detto con riferimento al campo prodotto dal primo filo può essere ripetuto in maniera duale per quello sostenuto dal secondo. Tuttavia, se le due correnti hanno lo stesso verso, come in Figura A.2a (dove con il punto abbiamo indicato due correnti che escono dal foglio del disegno), i due fili si respingeranno; invece, se le due correnti, come in Figura A.2b (dove con la croce abbiamo indicato una corrente che entra dal foglio del disegno), hanno verso contrario, i due fili si attrarranno. Ricordiamo che 1 A equivale alla corrente che deve circolare nei due fili distanti un metro affinché si attraggano con una forza 2 ⋅ 10 -7 N. Anche un avvolgimento, percorso da corrente, genera un campo magnetico e, quindi, le varie spire che costituiscono gli avvolgimenti di un trasformatore sono soggette ad una azione elettrodinamica mutua. In particolare, consideriamo tre spire contigue; quella centrale, la spira 2 di Figura A.3, verrà attratta sia da quella superiore, la spira 1, che da quella inferiore, la spira 3. Dunque, queste azioni elettrodinamiche tra spire contigue tendono ad equilibrarsi. 1 F1 2 3 F3 Figura A.3: forze esercitate sulla spira centrale. 128 Macchine elettriche statiche Tuttavia gli avvolgimenti dei trasformatori sono fatti in maniera concentrica (riguardate la Figura 2.48): attorno ad una colonna sono avvolti sia gli avvolgimenti del primario che del secondario, e le correnti in esso circolano in versi opposti. Si intuisce, allora, che il pacco di spire più esterno tende ad allargarsi, mentre quello più interno a contrarsi sulla colonna. In realtà, i due pacchi di spire, lavorando in regime sinusoidale, finiscono per sollecitarsi vicendevolmente a sforzi di compressione e di trazione. Queste considerazioni fanno comprendere perché l’avvolgimento deve potere contare su appoggi sufficientemente robusti, tali da poter sopportare queste azioni elettrodinamiche che, ad esempio in caso di cortocircuito, possono causare anche la distruzione del trasformatore.