Etica e responsabilità sociale nelle imprese

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Etica e responsabilità sociale
nelle imprese
*
Enrico Cavalieri
Abstract
L’etica che connota la condotta aziendale si riconduce alla stessa etica che contraddistingue il contesto
socio-economico in cui le aziende svolgono la loro attività. Le istanze ed i livelli d’eticità di imprese operanti
in determinati paesi sono sostanzialmente differenti da quelli di aziende operanti in altre aree, dove la salvaguardia ambientale, la tutela sociale, i diritti umani, la cooperazione, l’assistenza sono pretesi ed offerti a
livelli più bassi o non sono affatto richiesti o tutelati.
La nuova economia globalizzata, formata da network e basata sulla gestione integrata delle conoscenze,
produce spinte evolutive verso la crescita dei livelli di eticità, ma al contempo genera effetti frenanti sui contenuti etici dei comportamenti aziendali.
Keywords: Mercati globali; Responsabilità sociale d’impresa; Etica; Trasparenza; Asimmetrie economiche
e legislative
1. Etica e mercati globali
Si parla spesso di ‘etica d’impresa’, quasi a significare che all’interno
delle organizzazioni produttive possono prendere corpo e svilupparsi concezioni etiche per così dire ‘autonome’, generate dalle logiche e dalle esigenze dello stesso contesto produttivo, che non trovano, tuttavia, rispondenza o correlazione nelle concezioni etiche presenti nella società.
Tutto ciò è impensabile. L’azienda è un sistema aperto all’ambiente ed è
governata da soggetti che vivono in determinati contesti e sono portatori,
nello svolgimento delle funzioni di governo aziendale, delle istanze, della
cultura, della moralità che li caratterizza in quanto parte di una società che
tali valori auspica o sottace, che tali valori esprime in modo più o meno
forte e consapevole. L’etica che ritroviamo nelle aziende è composta della
medesima materia dell’etica che ritroviamo nel contesto socio-economico
in cui le aziende stesse svolgono la loro attività.
Questa prima consapevolezza introduce la concezione di relatività del
comportamento etico, nel tempo e nello spazio. Le istanze ed i livelli d’eticità
di aziende operanti in determinati paesi sono sostanzialmente differenti da
quelli di aziende operanti in altre aree ove salvaguardia ambientale, tutela
sociale, diritti umani, cooperazione, assistenza, ecc. sono pretesi ed offerti a
livelli più bassi o non sono affatto richiesti o tutelati.
Pensare ad un’etica universale che informi al medesimo modo e con la
stessa forza i comportamenti delle aziende, a prescindere da dove operano,
potrebbe essere un auspicio, un’aspirazione a valere in un futuro ancora lon1
tano, ma purtroppo non è mai stata ed ancora non può essere una realtà .
Questa nuova economia globalizzata, reticolarizzata, basata sulla gestione
integrata delle conoscenze mette in movimento spinte evolutive verso la
crescita dei livelli di eticità, ma produce contemporaneamente effetti frenanti
sui contenuti etici dei comportamenti aziendali. Spinte evolutive ed effetti
frenanti si producono a prescindere dalla normativa esistente, in quanto sono collegati ad esigenze di natura puramente economica e sociale.
* Professore Ordinario di Economia Aziendale, Università degli Studi di Roma-Tor Vergata
Edited by: ISTEI - University of Milan-Bicocca
ISSN: 1593-0300
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□ ‘È certamente la prima volta nella storia che in modo così
massiccio… la legislazione che disciplina da secoli il regime capitalista chiama in causa princìpi esterni, o per essere più espliciti
l’etica – e questo non per risolvere un singolo problema, ma per
trovare una soluzione globale alle disfunzioni di un sistema che
appare ormai incontrollabile. Le motivazioni di questi richiami sono di volta in volta diverse, spesso confuse e non sempre innocenti, e probabilmente costituiscono una violenta reazione di rigetto dell’apparato ideologico che da sempre sorregge il capitalismo. La novità rispetto al passato è che la critica non viene dai
nemici, ma dagli stessi fautori di un sistema fin qui orgoglioso del2
la propria autosufficienza – anche ideologica’ .
Forse queste considerazioni aiutano a capire perché il tema dell’etica è
diventato così pregnante.
2. Le spinte evolutive
2.1 La trasparenza
La prima esigenza che può essere sinteticamente richiamata è quella
della trasparenza, che tende a diventare – anche se lentamente ed in modo contrastato – una condizione essenziale d’accesso e permanenza sui
mercati, non solamente finanziari, ove le risorse dovrebbero indirizzarsi
preferibilmente nella direzione delle strutture produttive più performanti e
virtuose. L’informazione è parte rilevante della vita democratica, in quanto
consente non soltanto di fare scelte consapevoli, ma altresì di prevenire o
fermare ogni sorta di possibili abusi da parte di taluni soggetti su altri.
2.2 La qualità
La seconda esigenza, mette in campo la qualità, largamente intesa. È
un tema complesso, che si sviluppa ben oltre le esigenze di realizzare e
fornire un prodotto conforme agli standard definiti ed alle specifiche attese
del cliente, in relazione al prezzo pagato. La qualità investe direttamente le
logiche della produzione in tutta la filiera, in tutte le fasi della catena di
creazione del valore, seguendo la filosofia del Total Quality Management.
Appare evidente come i percorsi verso le mille forme della qualità incorporino contenuti più elevati d’eticità rispetto alle precedenti logiche produttive
che di tali percorsi tenevano conto in modo marginale. Un’organizzazione
indirizzata alla qualità presenta caratteristiche di ordine, realizza un cambiamento di mentalità, consente di individuare errori, disfunzioni e relative
responsabilità, cerca di rendere massima la creazione di valore ed ottimale il
livello di sevizio reso.
Tutto ciò acquista maggior rilievo in un’economia sempre più tesa alla
realizzazione di prodotti che assumono sempre di più la configurazione di
servizi ad alto valore per l’utilizzatore, offerti in sostituzione o – assai
spesso – ad integrazione dei beni.
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2.3 La cooperazione
Il tema della cooperazione è certamente il più suggestivo ed il più rilevante ai fini della valutazione dei contenuti etici dell’operare d’azienda.
Aprire la discussione sulla cooperazione significa affrontare problematiche
di grande apertura sociale. Ci riferiamo alle differenti forme di collegamento, collaborazione, alleanza tra organizzazioni produttive di ogni natura e
dimensione, che hanno abbandonato il modello dell’assoluta autonomia
ed hanno scelto di vivere la loro esperienza produttiva partecipando a più
ampi sistemi, dai quali traggono parte non trascurabile delle risorse materiali ed immateriali necessarie a realizzare la combinazione produttiva e
sostenere l’innovazione, per competere con successo e possibilità di sopravvivenza sul mercato globale.
Orbene, quando le logiche del puro scambio lasciano il posto a quelle della sistematica collaborazione tra le parti, si assiste al superamento dei contenuti etici del rapporto contrattuale (correttezza delle parti nell’adempimento
delle rispettive obbligazioni) a favore dell’imprevedibile potenziale etico (oltre
che innovativo) che scaturisce dal dialogo, dalla condivisione dei progetti,
dei rischi e delle relative responsabilità, nonché della produzione e dallo
scambio di idee e conoscenze.
Ma il tema della cooperazione investe anche le modalità attraverso le
quali si realizzano i modelli decisionali all’interno delle organizzazioni. Assistiamo ad un lento passaggio da rapporti basati esclusivamente sulle
forme della gerarchia, imperniate su regole e rigidità, a rapporti più flessibili e più largamente orientati alla partecipazione ed alla condivisione di
responsabilità.
2.4 La salvaguardia ambientale
L’esigenza della salvaguardia ambientale, infine, ripropone all’attenzione
il ruolo esercitato dalla società sulle scelte operative e strategiche delle
aziende: la crescente preoccupazione per i livelli di inquinamento ha imposto alle aziende più attente e puntuali politiche, anche innovative e
complesse, rivolte alla tutela dell’ambiente naturale.
3. Gli effetti frenanti
3.1 Le asimmetrie economiche e normative sul mercato globale
La pressione della competizione globale, unitamente al fatto che esistono paesi ove è possibile attuare le combinazioni produttive con minor impiego di risorse (risparmi di costi del lavoro, imposte, oneri finanziari) o
con più elevati gradi di libertà (assenza di vincoli o presenza di vincoli meno stringenti), spingono le imprese (e soprattutto quelle che debbono difendere leadership di costo) a collocare larga parte delle loro attività produttive (specie manifatturiere) e finanziarie in tali paesi, al fine di poter
produrre ed operare in condizioni di vantaggio competitivo (minori costi,
più agevole accesso alle risorse).
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Riesce assai difficile, per non dire impossibile, pensare ad un’azienda che
decida di non sfruttare a suo vantaggio le asimmetrie economiche e normative
presenti sul mercato globale; che decida di adottare i comportamenti più rispettosi dell’ambiente, della dignità del lavoro, ecc. e, quindi, sostanzialmente
più costosi rispetto ad altri, meno etici in assoluto, ma egualmente perseguibili,
che sono stati (o possono essere) adottati dai diretti competitori.
Non si vuole giustificare o condividere tali scelte, ma semplicemente
sottolineare che sono ‘contenute’ nel fenomeno della globalizzazione, che
sono generalmente diffuse e sono attuate non solamente dalle grandi imprese multinazionali, ma altresì dalle imprese minori che orientano le attività produttive in luoghi ove sia possibile realizzare importanti economie di
costo. Ciò almeno fino a quando tali asimmetrie continueranno ad essere
facilmente sfruttabili e rappresenteranno un fattore decisivo per il mantenimento della continuità aziendale.
Osserviamo, dunque, che le aziende che svolgono la loro attività in aree
caratterizzate da profonde differenze sociali tendono ad essere, per così dire, aziende ‘multietiche’, in quanto sono portate a differenziare, almeno in
parte, i loro livelli d’eticità, allineandoli a quelli dei contesti socio-economici in
cui vanno ad operare, molti dei quali presentano contenuti etici marginali.
3.2 La struttura di gruppo
La necessità di sfruttare a proprio vantaggio le asimmetrie tra le diverse
aree che compongono il mercato globale impone alle organizzazioni produttive la scelta della struttura organizzativa di gruppo. Proprio la struttura
di gruppo viene utilizzata per aggirare ed eludere le norme poste a tutela
di interessi vari (dei creditori, dei risparmiatori, ecc.) e, con le norme, anche i contenuti etici che esse racchiudono.
3.3 Il ruolo della finanza
La finanza domina l’economia: il potere degli investitori istituzionali (fondi
comuni, fondi pensione, assicurazioni, ecc.) è superiore al PIL mondiale
(oltre 50 mila miliardi di $) e ciò consente loro di acquisire il controllo di
qualsiasi grande impresa multinazionale.
Il denaro è ogni giorno alla ricerca dei migliori rendimenti possibili e gli investitori operano sul mercato finanziario globale con logiche di tipo speculativo. Molti investitori istituzionali considerano l’acquisizione di un pacchetto di
controllo come un investimento speculativo, da liquidare non appena il valore di mercato delle azioni è aumentato; i manager, quindi, sono indotti a realizzare politiche gestionali mirate a far lievitare il valore delle azioni nel breve
3
periodo, anche se tali politiche (come sostiene Rapport ) tagliano gli investimenti determinanti per lo sviluppo, esternalizzano costi e danni e mettono a
rischio la sopravvivenza ed il successo futuro dell’organizzazione. L’azienda,
dunque, è vista alla stregua di ‘... un asset articolato, un asset cioè la cui misurazione di performance è in qualche modo assimilata a quella relativa
all’investimento in un bond o in un titolo del debito pubblico, comunque ad
un investimento assoggettato a convenienze contingenti che si esprimono
dal confronto con le opportunità economiche alternative; tale conseguenza
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logica, se può assecondare l’interesse speculativo di qualche o anche di
molti azionisti, certamente è ben lontana dall’idea di governo di un sistema
complesso da parte di azionisti coinvolti nelle scelte supreme, nelle scelte di
4
direzione e coordinamento’ .
Fino a quando queste realtà (sfruttamento delle asimmetrie normative, utilizzo improprio della struttura di gruppo, eccessiva invadenza della finanza)
dominano l’economia globale, è assai difficile immaginare l’affermazione di
comportamenti etici nel governo delle organizzazioni, nonostante la presenza delle spinte evolutive connesse alle esigenze di trasparenza, qualità, salvaguardia ambientale ed al graduale affermarsi di relazioni cooperative tra i
soggetti e tra le aziende.
4. La responsabilità sociale d’impresa
Le organizzazioni che operano nella società contribuiscono a determinarne o frenarne la crescita economica e sociale. È logico, quindi, pensare che l’azienda, alla pari di qualsiasi altro soggetto, sia responsabile verso la società di cui è parte e nella quale svolge la propria attività.
Possiamo, intanto, osservare:
a) l’integrazione globale tra sistemi di imprese, pubbliche amministrazioni, servizi ed infrastrutture, sistemi di norme e di vincoli contribuisce a rendere sempre più gravose e pesanti le situazioni di inefficienza e di insolvenza, le carenze qualitative e gli squilibri di ogni
tipo che possono manifestarsi in ciascuna organizzazione produttiva. I riflessi, infatti, non si ripercuotono solamente sulla sopravvivenza della singola organizzazione, ma si estendono all’esterno in
termini di rottura degli equilibri della rete, del sistema (della filiera)
o dell’aggregato operativo cui l’azienda appartiene. E ciò contribuisce ad accrescere in modo esponenziale e a rendere più complesse le responsabilità di ciascuna unità del sistema. La responsabilità
sociale è diventata più profonda e complessa proprio con il passaggio da un’economia caratterizzata da scambi monetari tra unità,
poco o affatto integrate, ad un’economia caratterizzata da profonde
interazioni orizzontali e verticali tra le organizzazioni;
b) analoghe considerazioni valgono con riferimento alle modalità di finanziamento, che non sono più esclusivamente basate sull’intermediazione
bancaria (e sulle garanzie che assistevano il rapporto), ma consentono l’afflusso diretto, ed assai più rischioso, delle risorse finanziarie dai risparmiatori alle aziende. Sicché, con riferimento ai soggetti
che emettono strumenti finanziari (sul mercato globale), si amplia a
dismisura il coinvolgimento di finanziatori che legano direttamente
la loro economia a quella dell’azienda finanziata, in presenza di
asimmetrie informative assai rilevanti, che i mercati non sembrano
in grado di ridurre e di contenere ad un livello di rischio fisiologico.
c) Si tratta di precisazioni a nostro avviso utili per comprendere come
gli uomini di governo delle aziende debbano avvertire, in modo più
forte e pregnante, la responsabilità di gestire interessi vitali e risparmi di un numero sempre più ampio di soggetti, che si sono posti
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in relazione con l’organizzazione produttiva confidando nella professionalità e nella competenza dei suoi manager e nella validità
del suo disegno strategico.
□ ‘I governi, gli attivisti e i media sono diventati abilissimi
nell’attribuire alle imprese la responsabilità delle conseguenze
5
sociali della loro attività , con gli effetti negativi che da tali atteggiamenti derivano. Ecco perché ‘... la Corporate Social
Responsibility (CSR) è diventata una priorità ineludibile per i
leader aziendali di tutto il mondo’.
Viene innanzitutto spontaneo fare una considerazione di carattere critico
sulle affermazioni di Porter sopra richiamate: sostiene, infatti, l’Autore che
gli uomini d’impresa non possono più eludere il problema della CSR, in
quanto l’opinione pubblica si è accorta dei danni sociali provocati
dall’attività delle organizzazioni produttive. Ciò significa, rovesciando il discorso, che soltanto il sistematico controllo della società civile può spingere le aziende a porsi criticamente di fronte al problema di individuare ed
attuare ‘comportamenti responsabili’. Ed infatti, ‘la crescente attenzione
che le imprese dedicano alla CSR non riflette una scelta del tutto volontaria. Molte di esse ne hanno preso atto solo dopo essere state colte di sorpresa dalle reazioni dell’opinione pubblica a questioni che mai in prece6
denza avevano immaginato rientrare nelle loro responsabilità’ .
Occorrerebbe, invece, cambiare atteggiamento mentale ed imparare a
muoversi su un piano strategico per individuare un approccio positivo e
vincente ai temi dell’etica e della responsabilità sociale dell’azienda. I ‘proclami’ etici, tanto elevati quanto inattuabili, che si traducono, poi, in comportamenti cosmetici, permeati di esteriorità, spesso adottati dalle organizzazioni al solo scopo di costruire o migliorare la propria immagine, non
7
sono utili né all’azienda, né alla società .
Nel saggio citato, Porter sostiene che le quattro più rilevanti scuole di pensiero a sostegno della CSR: l’imperativo morale, il principio della sostenibilità, l’approccio basato sulla licenza ad operare e quello basato sulla reputazione non possono ritenersi soddisfacenti in quanto ‘... pongono l’accento
sulla tensione tra business e società, invece che sulla loro interdipendenza.
Ciascuna di esse pone un fondamento teorico generico che non ha alcuna
relazione con la strategia e le attività di un’impresa specifica, né con i diversi
8
luoghi in cui opera’ . Propone, quindi, di pensare in termini di ‘integrazione
(piuttosto che di responsabilità) sociale dell’impresa’. Questa integrazione,
volta a costruire valori condivisi tra impresa e società civile, non può realiz9
zarsi in ogni direzione , ma solamente individuando alcuni problemi sociali
rispetto ai quali l’impresa è in grado di fornire un contributo importante e dai
quali può anche trarre il massimo vantaggio competitivo.
L’idea di far evolvere la concezione di ‘responsabilità sociale’ verso quella di ‘integrazione tra le strategie della specifica impresa ed i problemi della società in cui essa opera’ appare pienamente condivisibile. Consente,
infatti, di superare l’identificazione della ‘responsabilità sociale’ con le politiche di beneficenza, con il supporto (più o meno rilevante) a determinate
cause sociali o con la gestione sistematica degli effetti negativi delle attiviEdited by: ISTEI - University of Milan-Bicocca
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tà della catena del valore. Suggerisce di valorizzare anche gli effetti positivi di tali attività e, soprattutto, di individuare ed attuare ‘... un numero limitato di iniziative che siano in grado di portare benefici ampi e significativi
10
alla società e al business’ .
In altri termini, secondo Porter, l’impresa ‘socialmente integrata’ non si limita ad interiorizzare nelle proprie strategie le decisioni volte a non arrecare
danni alla società nello svolgimento delle attività che compongono la sua catena del valore, ma ricerca e sviluppa anche gli investimenti che possono
realizzare importanti benefici alla società civile e, contemporaneamente, accrescere il proprio vantaggio competitivo e le proprie performance.
Dall’analisi degli esempi che Porter utilizza per chiarire il suo pensiero
emerge, in modo evidente, che ci si riferisce alla progettazione strategica di
‘specifici’ interventi che consentono di risolvere problemi di ordine sociale,
ma contemporaneamente pongono le basi per un accrescimento del proprio
business. Laddove tali possibilità emergono, laddove gli ‘investimenti sociali’
producono anche ricadute positive sull’economia dell’organizzazione o sono
funzionali ad uno sviluppo dell’attività, si evidenzia – secondo l’Autore –
un’integrazione del ‘sociale’ nelle logiche della creazione di valore per gli azionisti.
L’impresa, dunque, persegue l’integrazione sociale nella ricerca (e nella realizzazione) delle sinergie tra crescita della società e crescita del proprio business.
Il pensiero di Porter sulla CSR assume grande rilevanza non solamente
per il carisma ed il valore scientifico dello studioso di strategia, ma soprattutto per l’idea – chiaramente enunciata – di trattare i problemi dell’etica e
della responsabilità sociale non tanto come elementi di cornice o come
eventi di natura cosmetica, pensati per dare smalto all’organizzazione,
quanto – piuttosto – come ‘un investimento di lungo termine sulla competitività futura’, da affrontare e gestire all’interno della funzione di imprenditorialità, che attua la direzione strategica dell’impresa.
Dobbiamo tuttavia convenire che l’idea non è nuova. La necessità di concepire i rapporti con le differenti componenti della società come una condizione vitale per garantire la durabilità dell’organizzazione e, conseguentemente, la necessità di sviluppare relazioni vincenti con ciascuno dei differenti soggetti interessati alle vicende produttive è stata ben presente nella dottrina dei nostri Maestri, da Gino Zappa in poi. D’altra parte, l’aver considerato l’azienda come un sistema di forze economiche (uomini e mezzi) ha costituito la premessa logica per assegnare valenza strategica anche alle aspettative e alle speranze dei soggetti che cooperano alla realizzazione degli
obiettivi di produzione che sono propri delle diverse tipologie aziendali.
Una concezione virtuosa dell’operare d’impresa (anzi, dell’azienda in
genere), che si sintetizza nella ricerca di equilibri sostenibili nel tempo, di
comportamenti capaci di creare e mantenere un tessuto di relazioni stabili
e proficue con i soggetti che circondano l’organizzazione, è propria
dell’aziendalismo italiano.
A conferma di quanto si afferma, giova ricordare la concezione di ‘economicità’ (o produttività economica) proposta dall’Onida, come attitudine
dell’impresa a remunerare permanentemente e convenientemente i fattori
11
produttivi per mantenerli avvinti alla propria economia .
Tale concezione include le condizioni utili a realizzare comportamenti
che producono effetti benefici non solo nei confronti della proprietà, ma
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altresì di tutti i soggetti che ruotano attorno all’organizzazione o ne fanno
parte; l’organizzazione è un centro di creazione di ricchezza per l’intera
collettività. Per contro, comportamenti irresponsabili si ripercuotono negativamente in termini di perdita di posti di lavoro e di danni arrecati a differenti categorie di soggetti interessati.
La locuzione ‘conveniente remunerazione dei fattori produttivi’ deve essere opportunamente interpretata in chiave attuale per meglio precisarne il significato e per comprenderne la portata. Appare evidente, infatti, che non ci
riferiamo solamente alla ‘remunerazione in termini monetari’ dei soggetti che
assicurano la disponibilità ‘dei fattori produttivi’ (lavoratori, fornitori di beni e
servizi, finanziatori con vincolo di proprietà o di prestito), poiché tale ottica
sarebbe tipica di rapporti di tipo puramente contrattuale. Ci riferiamo, invece,
anche alle modalità attraverso le quali dovrebbe svilupparsi il tessuto delle
relazioni con i soggetti sopra elencati e con i clienti, relazioni che dovrebbero
muoversi secondo logiche di natura cooperativa (collaborativa), aprendo con
tali soggetti un dialogo serrato e permanente, indirizzato a creare conoscenza ed a costruire le condizioni per l’evoluzione dei rispettivi rapporti.
Come è facile osservare, la dimensione concettuale che si può ricavare
dagli insegnamenti della nostra dottrina è di ben più ampia portata rispetto
alle concezioni cui è arrivato Porter nel suo più recente scritto in argomento. Porter, infatti, limita l’integrazione sociale alle sole situazioni in cui
emergono, in qualcuna delle attività che compongono la catena del valore,
convenienze specifiche per l’impresa: si tratta delle situazioni in cui si prospettano investimenti che consentono di incidere nella società civile, ma
anche di aumentare le performance dell’organizzazione.
A ben vedere, investire in talune attività utili allo sviluppo della società civile ma, contemporaneamente, capaci di incrementare la redditività aziendale
sembra espressione di una strategia competitiva, che individua e persegue
le occasioni di business che si presentano, piuttosto che espressione di un
percorso rivolto a realizzare l’integrazione tra impresa e società.
Di ben altra rilevanza e portata appaiono le tesi che abbiamo sinteticamente richiamato come patrimonio del nostro modo di intendere l’impresa:
l’organizzazione produttiva pone nella propria visione strategica l’esigenza
ineludibile di considerare adeguatamente e stabilmente le attese dei soggetti che in essa collaborano nello svolgimento delle vicende produttive.
Dipendenti, fornitori, finanziatori, clienti, società civile sono gli interlocutori
con i quali si rende indispensabile costruire il futuro dell’organizzazione,
con i quali è necessario organizzare e mantenere rapporti di cooperazione, di partnership in tutte le fasi della creazione del valore.
Investire nel mantenimento di stabili e proficue relazioni con i soggetti sopra
richiamati è una scelta strategica che consente di muoversi per la ricerca di
equilibri duraturi, per l’ottenimento di profitti compatibili con la sopravvivenza,
per la crescita dell’immagine; consente, altresì, di ripudiare le logiche del cortoterminismo, della ricerca del massimo profitto per il capitale di comando e
dell’esternalizzazione dei costi e delle perdite su ogni altro soggetto.
La vera integrazione sociale non si attua solamente mettendo in atto
strategie che perseguono contemporaneamente l’obiettivo di rendere un
servizio alla società civile e di realizzare benefici economici per l’impresa.
Anzi, la messa in opera di tali specifiche scelte strategiche, che sembrano
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avere natura di strategie competitive, potrebbe benissimo convivere con
comportamenti di assoluta irresponsabilità verso i dipendenti, gli azionisti di
minoranza, i finanziatori, i fornitori, i clienti, in vario modo emarginati dagli obiettivi dell’organizzazione.
L’integrazione sociale si realizza se e nella misura in cui l’organizzazione
include nelle sue logiche strategiche comportamenti che mirano a creare
ogni possibile sinergia tra i soggetti che concorrono a sviluppare la funzione
produttiva ampiamente intesa. Attraverso tali comportamenti è possibile costruire le premesse per innalzare i livelli di conoscenza e di performance e
ciò non mancherebbe di produrre benefici economici, culturali e sociali che
determinerebbero non solamente un incremento di redditività, ma interesserebbero anche i soggetti comunque coinvolti nell’attività dell’organizzazione.
La crescita del profitto si attuerebbe, per tali vie, in una prospettiva di
lungo periodo ed in una dimensione non esclusiva, ma compatibile con il
sistematico miglioramento delle condizioni di tutti i soggetti e della società.
Appare, dunque, necessario separare linee di comportamento che, sovente, si tende a sovrapporre e confondere.
a) La capacità di individuare, seguendo la catena del valore, specifiche
attività che consentono di intervenire utilmente sul tessuto sociale e,
contemporaneamente, di incrementare il volume d’affari ed i profitti
dell’impresa ha poco a che vedere con una corretta concezione di integrazione (responsabilità) sociale che appartiene al ‘modo di fare
impresa’ o, se si preferisce, al ‘modo di creare valore’.
b) Proprio per questo si riconferma la necessità che l’impresa inserisca
nel suo orientamento strategico di fondo e nei suoi comportamenti
strategici l’attitudine a mantenere stabili e soddisfacenti relazioni
cooperative con tutti i soggetti che collaborano all’attività produttiva.
Sia il soggetto economico, sia coloro cui è affidato l’esercizio della
funzione d’imprenditorialità debbono essere consapevoli che tali
comportamenti creano conoscenza, rendono l’organizzazione produttiva socialmente responsabile e la integrano nella società civile.
c) La scelta di destinare risorse (parte dei profitti) ad iniziative che
creano benefici a talune componenti della società civile o che realizzano importanti interventi di tutela, di restauro di opere d’arte o di
siti monumentali o archeologici, ecc., è certamente apprezzabile. Si
tratta di opere meritevoli che, tuttavia, non appartengono alla natura
e agli scopi per cui le imprese sono istituite, ma rientrano nella sfera
delle scelte (individuali o di gruppo) di destinare parte delle proprie
disponibilità al soccorso dei bisognosi, alla salvaguardia del patrimonio culturale della collettività, e così via.
Non si può, comunque, accettare che tali comportamenti, per quanto
auspicabili, utili e benemeriti, siano sostitutivi di quelli delineati al precedente punto sub b), di ben altro spessore sotto il profilo dell’impegno e
della complessità. In moltissimi casi si può facilmente osservare come gli
interventi posti in essere in campo assistenziale o di tutela e salvaguardia
del patrimonio artistico o ambientale, siano orientati esclusivamente al miglioramento dell’immagine delle imprese che li attuano, mentre le esigenze di dar vita a comportamenti ‘virtuosi’ verso i lavoratori, gli altri soggetti e
l’ambiente naturale non hanno cittadinanza alcuna nell’orientamento straEdited by: ISTEI - University of Milan-Bicocca
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Cavalieri Enrico, Etica e responsabilità sociale nelle imprese, Symphonya. Emerging Issues in Management (www.unimib.it
/symphonya), n. 2, 2007, pp. 31-40
(English Version: http://dx.doi.org/10.4468/2007.2.04cavalieri)
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© SYMPHONYA Emerging Issues in Management, n. 2, 2007
www.unimib.it/symphonya
tegico di quelle stesse organizzazioni, che rimangono ‘irresponsabili’ nel
‘modo di fare impresa’, anche se dedicano parte delle loro risorse ad attività socialmente utili.
Si può quindi osservare che anche le più recenti ed autorevoli prese di
posizione in materia di responsabilità (o integrazione) sociale, se da un
lato fanno giustizia di un modo di procedere fortemente orientato alla mera
creazione dell’immagine, dall’altro lato non entrano ancora nel cuore del
problema, appaiono riduttive e lasciano adito a forti critiche.
Probabilmente, la necessità di rendere operativa la Shareholder Theory,
alla cui logica la dottrina di Porter sembra essere legata, mal si concilia
con una concezione di responsabilità sociale integrata in tutti i comportamenti e le attività che compongono la catena del valore. Si vuole con ciò
ribadire come sia difficile, aldilà delle enunciazioni teoriche, coniugare, nei
comportamenti reali, la ‘creazione del valore per gli azionisti’, assunta come unica finalità dell’impresa, con l’esigenza di creare valore anche per gli
altri soggetti interessati. La creazione di valore per gli azionisti non può
essere l’unica finalità per cui l’azienda è costituita; l’azienda, infatti, deve
indirizzare la propria attività alla creazione di valore per se stessa e per le
differenti categorie di portatori di interessi comunque coinvolti nelle vicende produttive, assicurando condizioni di equilibrio economico e finanziario,
e mantenendo posizioni di equilibrio strategico nei confronti dei differenti
interlocutori e dei mercati.
Note
1
Un’etica sovra-storica basata su ‘.. astratti teoremi morali.. ha prodotto, come inevitabile conseguenza, un divorzio dalle ragioni della vita, che, in realtà, sono sempre contestuali e contingenti’.
(v. F. IANNEO 2000, La questione dei valori tra filosofia e biologia, in AA.VV., Polis ed Ethos, Edizioni Scientifiche Italiane, Roma).
2
Rossi G. 2003, Il conflitto epidemico, Adelphi, Milano, p. 19.
3
Cfr. Rappaport A. 2006, Dieci modi di creare valore per gli azionisti, Harvard Business Review
Italia, n. 4.
4
v. Lai A. 2004, Paradigmi interpretativi dell’impresa contemporanea. Teorie istituzionali e logiche contrattuali, Franco Angeli, Milano, p. 193.
5
V. Porter M. E. – KRAMER M. R., Strategia e società. Il punto d’incontro tra il vantaggio competitivo e la Corporate Social Responsibility, Harvard Business Review Italia, n. ½, 2007, p. 5.
6
ibidem, p. 5.
7
‘In effetti la risposta più comune che (le imprese) hanno dato non ha avuto un carattere strategico né operativo, ma essenzialmente cosmetico’, ibidem, p. 6.
8
ibidem, p.10.
9
‘Le pressioni a cui le imprese sono sottoposte in vista delle performance di breve termine
escludono la possibilità di attuare investimenti indiscriminati per creare un valore sociale’. ‘Le
aziende non hanno la responsabilità di tutti i problemi del mondo, né le risorse necessarie per risolverli tutti’, ibidem, pp. 21 e 22.
10
11
ibidem, p. 17.
Cfr. Onida P. 1971, Economia d’azienda, Utet, Torino.
Edited by: ISTEI - University of Milan-Bicocca
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