Vivere la fede: la fede e le opere L'obbedienza della fede La Sacra Scrittura chiama «obbedienza della fede» la risposta a Dio che si rivela da pare dell’uomo che accoglie la parola di Dio e la vive generosamente nella sua vita (ccc 142-144). Se la fede non porta a obbedire a Dio non unisce il fedele a Cristo e non ne fa un membro vivo del suo corpo mistico. San Giacomo ci dice che «La fede senza le opere è morta ” (Gc 2,26)). Abramo e Maria sono considerati dalla Sacra Scrittura i più grandi modelli di fede coerente, perché sono stati pronti anche a sacrificare il proprio figlio per obbedire a Dio. Per questa fede Abramo è stato chiamato “padre della fede” e Maria “madre dei credenti”. Ma l’esempio più grande di obbedienza nella fede l’abbiamo avuto da Gesù stesso che fu “obbediente al Padre fino alla morte e alla morte di Croce” (Fil 2,8). Benedetto XVI, nella sua lettera apostolica “Porta fidei”, insiste molto sulla necessità di una “nuova evangelizzazione e comprensione della fede”, per combattere le sfide della vita moderna, che oggi ci allontanano da Dio, come l’eclissi del senso di Dio, la secolarizzazione, il relativismo, la frattura tra Vangelo e cultura, l’abbandono della vita cristiana dalla massa dei fedeli. I “Credenti non praticanti” e i veri credenti Oggi capita spesso di sentire da qualcuno: “Io sono credente, ma non praticante”. Ma a quale Dio crede un credente non praticante? Non crede a Dio che si è rivelato, non crede a Gesù Cristo e al suo Vangelo. Crede solo a se stesso, come un superuomo che fa a meno di Dio e decide lui ciò che è bene e ciò che è male, quale pagina di vangelo accogliere e quale rifiutare. L’uomo moderno si basa sulla scienza e sulla tecnica e con esse fa quello che vuole, fino a costruire anche la bomba atomica, con le conseguenze che conosciamo. Con il potere economico l’uomo trova ricchezza, piacere e potere che però danno una felicità effimera e lasciano solitudine, angoscia e soprattutto una vita senza senso. I veri credenti sono i santi di ieri e di oggi che hanno accolto Cristo, lo hanno messo al centro della vita e hanno sempre conformato la loro vita alla sua parola, riconoscendolo poi in ogni fratello. Uno di questi grandi è stato il nostro fondatore, san Paolo della Croce. “La fede” era la stella luminosa del suo cammino, “la volontà di Dio” era il centro della sua spiritualità, del suo insegnamento e della sua vita coerente. Dalla meditazione assidua della parola di Dio e della passione di Gesù, aveva appreso a mettere al primo posto la volontà di Dio. Come Gesù, ripeteva continuamente: “Il mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera” (Gv 4,34). Ricordava sempre l’esempio e le parole di Gesù: “Non cerco la mia volontà, ma la volontà di Colui che mi ha mandato” (Gv 5,30). Negli eventi contrari esclamava con Gesù: “Così, Padre, è piaciuto a te, così piace anche a me”. Scriveva: “Prego il mio Divino Salvatore, che faccia che il mio continuo cibo sia il fare la sua adorabilissima Volontà” (LL 1341). Prima di ogni decisione, rifletteva, pregava, si consigliava per conoscere la volontà di Dio. Poi certo di questa volontà, andava avanti con forza e nessun ostacolo umano poteva trattenerlo. La fede e le opere La fede che ci dà la certezza di avere incontrato Gesù, ci deve portare a una sequela piena e coerente. Scrive Benedetto XVI: “L’Anno della fede sarà un’occasione propizia per intensificare la testimonianza della carità. Ricorda san Paolo: “Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!” (1Cor 13,13). Con parole ancora più forti, l’apostolo Giacomo affermava: “A che serve, fratelli miei, se uno dice di avere fede, ma non ha le opere? Quella fede può forse salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: «Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi», ma non date loro il necessario per il corpo, a che cosa serve? Così anche la fede: se non è seguita dalle opere, in se stessa è morta” (Gc 2,1417). La fede senza la carità non porta frutto e la carità senza la fede sarebbe un sentimento in balia costante del dubbio. Fede e carità si esigono a vicenda, così che l’una permette all’altra di attuare il suo cammino. Molti cristiani dedicano la loro vita con amore a chi è solo, emarginato o escluso come al primo verso cui andare e al più importante da sostenere, perché proprio in lui si riflette il volto di Cristo. Grazie alla fede possiamo riconoscere in quanti chiedono il nostro amore il volto del Signore risorto. “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40): queste sue parole sono un monito da non dimenticare ed un invito perenne a ridonare quell’amore con cui Egli si prende cura di noi. È la fede che permette di riconoscere Cristo ed è il suo stesso amore che spinge a soccorrerlo ogni volta che si fa nostro prossimo nel cammino della vita. (Porta Fidei n.14). Dal kerygma alla didachè Proseguiamo la riflessione prendendo lo spunto da un'omelia del P. Raniero Cantalamessa. Egli ricorda che oggi la nostra situazione è tornata ad essere la stessa del tempo degli apostoli. Essi avevano davanti a sé un mondo precristiano da evangelizzare; noi abbiamo davanti a noi un mondo post-cristiano da rievangelizzare. Dobbiamo ritornare al loro metodo, ripartire dall’annuncio del nucleo centrale della fede, detto “kerygma”, cioè annunciare “Cristo incarnato, morto e risorto per la nostra salvezza” (cf. Rom 4,25). Ma poi al “kerygma” bisogna aggiungere la “didachè”, cioè la spiegazione della fede e la pratica della vita cristiana. Se manca questo passaggio dalla fede alle opere non saremo mai veri cristiani, non avremo mai una Chiesa viva. Ezechiele vede un angelo che gli porge un rotolo da divorare (Ez 2,9-3,3), per significare che la parola di Dio va accolta, approfondita e vissuta. Questa visione si è realizzata nella storia in senso letterale in Maria, quando il rotolo delle parole di Dio si è racchiuso in una sola Parola, diventando il Verbo. Il Padre lo ha dato a Maria; Maria lo ha accolto, se n’è riempita le viscere, anche fisicamente e poi lo ha dato al mondo. Lei è il modello di ogni evangelizzatore, che si deve riempire di Gesù per darlo agli altri. Maria ha concepito Gesù “per opera dello Spirito Santo” e così deve essere anche di ogni evangelizzatore. Benedetto XVI è stato la mano che con l’anno della fede ci ha ripresentato il Catechismo della Chiesa Cattolica, dicendo a ogni cattolico: “Prendi questo libro, mangialo, riempitene le viscere e vivilo nella vita”. Mangiare il libro significa non solo studiarlo, memorizzarlo, ma farlo carne della propria carne e sangue del proprio sangue, cioè “viverlo”, trasformare la fede studiata in fede vissuta, passare dalla fede teorica alla fede vissuta con le opere. Anno della Fede: richiamo a una fede viva e coerente Celebrare l’Anno della Fede è una grazia, un’opportunità per vivere la fede in modo più fruttuoso ed essere così la Chiesa viva di Cristo. È l’occasione per crescere nella fede, essere più saggi e ricchi di quella sapienza che viene dall’alto e camminare lungo le strade del mondo, con coraggio e generosità, per testimoniare a tutti come deve essere un vero credente. Il cammino verso una fede più matura richiede di fare nostre - senza interpretazioni di comodo - anche le pagine difficili del Vangelo, cominciando da quella delle beatitudini, dell’amore del prossimo, dell’amore per i nemici, del perdono. Ci sono diversi insegnamenti e parabole del vangelo che insistono molto sulla necessità di far fruttificare i doni di Dio, in particolare il dono della fede che è inseparabile dal dono della grazia. La Parabola dei talenti completa in modo pieno questo insegnamento: i doni di Dio vanno fruttificati: Un uomo, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno. Colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli e ne guadagnò altri cinque. Quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. Colui che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone… Al ritorno il padrone volle regolare i conti con loro. Il primo presentò 10 talenti, il secondo ne presentò 4. A loro disse il padrone: “Bene, servi buoni e fedeli, siete stati fedeli nel poco, vi darò potere su molto; prendete parte alla gioia del vostro padrone”. Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro e molto esigente. Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che sono esigente, avresti dovuto far fruttificare anche tu il mio denaro così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. Toglietegli il talento e datelo a chi ha i dieci talenti. Perché chi è stato laborioso sarà nell’abbondanza; ma a chi è stato infingardo, verrà tolto anche quello che ha. E il servo inutile sarà punito severamente (Cfr. Mt 25,14-30). Concludiamo con queste parole chiare del Signore: “Non chiunque mi dice: “Signore, Signore”, entrerà nel regno dei cieli, ma colui che fa la volontà del Padre mio che è nei cieli”. (Mt 7-21): Come dire: “La fede senza le opere è morta”! Rifletti: 1. Che cos’è l’obbedienza della fede? 2. Che cosa diresti a chi dice di essere credente, ma non praticante? 3. Che cosa pensi della parola di s. Giacomo: “La fede senza le opere è morta”? 4. Che cosa insegna la parabola dei talenti? 5. Possiedi e usi il Catechismo della Chiesa Cattolica? P. Alberto Pierangioli