Edgar Morin L`anno I dell`era Ecologica

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S&F_n. 2_2009 Edgar Morin L’anno I dell’era Ecologica tr. it. a cura di B. Spadolini, Armando Editore, Roma 2007, pp. 128, € 10 Edgard Morin propone una selezione di saggi (redatti tra il 1972 e il 2007) il cui minimo comun denominatore pessimismo sembra circa la essere capacità un moderato politico‐sociale contemporanea di proporre un deciso cambiamento programmatico, socioantropologico e anche epistemico, per la soluzione (o, almeno, la pianificazione delle azioni da intraprendere) di annose, improcastinabili, nonché inquietanti problematiche ecologiche. Perché tanto interesse in una disciplina tecnica, apparentemente lontana dalle tematiche dell’antropologia filosofica, ambito cui l’Autore appartiene? Una risposta possibile è offerta dal sottotitolo (La Terra dipende dall’Uomo che dipende dalla Terra), che il filosofo parigino utilizza per ripristinare e ribadire l’antico monito della circolarità, forse per disinnescare certa antropologia naturalistica e la metodologia, dell’“object design” (disciplina inizialmente sviluppata per la soluzione di problemi legati all’evoluzione di un software e successivamente applicata ai sistemi geografici), la quale procede gnoseologicamente estraendo dall’intorno di un sistema complesso le sue componenti, una per volta, per osservarle riduzionisticamente, evitando di connetterle con il loro intorno. Tale procedura trascura, inizialmente, l’aspetto sistemico, tipico dei sistemi aperti quali, appunto, quelli biologici, adattivi ed ecologici. Il passaggio successivo dell’indagine conoscitiva degli ecosistemi di questa scuola di pensiero prevede, però, il reinserimento dell’oggetto così investigato che risulta, inevitabilmente, modificato nei contenuti formali ed energetici, “soggettivato” da una sollecitazione (secondo Morin indebita) che ne altera la dinamica organica, l’omeostasi e, di conseguenza l’efficienza energetica. Morin, nel tentativo di risolvere l’antico dilemma tra naturalismo conservativo e razionale pianificazione delle risorse, propone un’osmosi uomo/ambiente naturale, come 251
RECENSIONI&REPORTS recensione se il primo gemmasse dal secondo. Così, vanificando le premesse dell’ecogeografia cui si raccomanda in apertura, espone a critiche severe il suo ottimismo militante, riabilitando inavvertitamente, proprio quel neopositivismo che, in buona fede, immagina di combattere. Per Morin occorre comprendere le connessioni interne degli oggetti, affidandosi, talvolta, all’intuizione “emozionale” contro la sterilità dell’empiriocriticismo e propone, dunque, un criterio esteso di sostenibilità ambientale, economicamente e socialmente equo: il capitale naturalistico vanifica se stesso e produce – nientemeno – sottosviluppo se non rispetta le aree ambientali a rischio, la biodiversità e la riciclabilità energetica. Il flusso di informazioni generato dai biosistemi, disponendo di entropia negativa (neg‐entropia, p. 21), introduce ordine e contrasta il dissiparsi energetico degli oggetti meramente fisici (non viventi). I bi(o)ggetti, viceversa, in virtù della loro capacità di diminuire il consumo unitario di energia disponibile quanto maggiore è la loro complessità, manifestano efficienza grazie alla loro storia filogenetica, alla loro complessità che nessun sistema di indagine analitico potrebbe tradurre in efficienza e qualità ambientale, in omeostasi culturale e, infine, nell’auspicata adozione di pratiche economiche virtuose, sostenibili. La lettura della piana penna di Morin fa venire in mente le prime, accese, diatribe tra due scuole di pensiero che, dagli anni Sessanta, già si contrapponevano duramente quando tentavano di definire cosa fosse il Paesaggio. In Europa (segnatamente in Italia) ha da sempre la meglio quella posizione (malamente) definita come “psicologica”, estetico‐
percettiva, che nega realtà oggettuale al paesaggio e rende conto invece della risposta emozionale nel vedere (apprezzandolo o meno) un intorno visivo (scuola pittorica) da parte del soggetto percipiente (kantianamente) mentre, dall’altra, l’accezione di Paesaggio risponde alle qualità dell’oggetto geografico, scientificamente definibile per mezzo delle discipline quantitative dure (chimica, geologia, meteorologia, zoologia e botanica innanzitutto), ecologista in senso stretto, materialista e positivista. Quella di Morin, è in effetti la vecchia argomentazione di una scienza giovane, l’Ecologia del Paesaggio, paesaggio inteso come processo evolutivo della biosfera, aggregazione di organismi autonomi ma parziali (ecotessuti) che definiscono l’insieme eterogeneo di tutti gli elementi che costituiscono l’ecosfera. Morin, parallelamente, vorrebbe veder svanire la speciosa assimilazione tra ambiente e mondo esterno, sbarazzarsi dell’opposizione uomo‐natura. L’ambiente è quindi inappellabilmente relazionale, dipendente dal 252
S&F_n. 2_2009 soggetto mentre è reale, costituito di oggetti. Il mondo esterno è allora classificabile solo per livelli o gradi di eterogeneità; se si procede per omogeneità, avverte Morin, si introduce un concetto estraneo alla Natura. Occorre pervenire al concetto di unità paesistica, territoriale, sostenibile, sintesi di elementi configurati in senso più generale (sistemi aperti, dissipativi, caotici). Tutto ciò implica un radicale cambiamento dei modelli consumistici e l’applicazione di norme ecologicamente corrette. I governi sono chiamati ad abbandonare la politica dei sussidi, a dare priorità agli spazi ambientalmente fragili e culturalmente vulnerabili: l’utilizzazione economica di un territorio è sostenibile quanto minore è l’attrazione gravitazionale degli insediamenti demografici e quanto maggiore è la decentralizzazione economico‐produttiva. Tuttavia, la disomogeneità delle politiche ambientali dei vari paesi e l’aumento del divario culturale e performativo tra nord e sud compromettono la sostenibilità. Purtroppo, sembra mestamente accorgersi Morin, la capacità umana di comprendere e prevedere il comportamento dei sistemi complessi (biologici e sociali), è ancora molto limitata. Negli ecosistemi e nei sistemi antropizzati le componenti naturali, sociali, economiche e culturali generano una rete esponenzialmente crescente di variabili che si condizionano dinamicamente e che il sociologo definisce, illuministicamente e razionalisticamente, complessità (p. 68 e sgg.). Secondo Morin, assistiamo però alla riuscita di nuovi livelli di passione, percepiti mediante un riorientamento culturale (i suoi tre principi di speranza: l’improbabile – che nega l’ineluttabile; le potenzialità umane – poietiche e creative; e la metamorfosi – vera speranza progressista di illuminazione collettiva) che non può più prescindere da un corretto rapporto tra cultura del pragmatico e sensibilità ecologica. Nel saggio titolato “Dialogo tra Edgar Morin e Nicolas Hulot” (p. 97) il lettore deve essere avvertito che un modello relazionale comunitario così inteso non è compatibile con il neoliberismo quando questo prevede un assetto produttivo indiscriminato, alieno alla computazione della quota parte energetica procapite necessaria ad arginare lo sbilancio trofico. La mitezza del personaggio Morin, lo porta però a postulare una sorridente nuova stagione del capitalismo illuminato – smithiano – quando prevede che energia pulita, biodiversità e tecnologia del riuso illumineranno i futuri investimenti nella ricerca scientifica (p. 23 e sgg.). 253
RECENSIONI&REPORTS recensione Il “saggio” del sociologo Morin sottrae autorevolezza al Morin antropologo, dissipandosi nella datazione generosamente utopistica di un “antropocentrismo di sinistra”, trito e dozzinale, che ha fatto il suo tempo nel sentimentalizzare un messaggio ecologico come giustificazione razionale di una moralità intrinseca alla natura (tutto il naturale è morale) e che, come il reverendo William Paley, avalla una versione della teologia naturale che Morin stesso avversa. Si tratta di un conservatorismo fissista (di solidarietà e di complementarietà – per usare le sue parole) che ammicca a un neolamarckismo ottimistico e nobilitante le buone intenzioni umane, invocando vieppiù un ciclismo romantico nietzschianamente eterno che, paradossalmente, sottrae la scala temporale umana all’azione investigatrice della scienza. Ogni intervento antropico è condannato alla fallacia naturalistica, così come si atrofizza la trattabilità scientifica degli affari umani e naturali, consegnati all’iperuranica e affannosa ricerca di senso aristotelico (motore immobile), al teleologismo e alla gnosi neoplatonica. I concetti di ecosistema e di olismo‐emergentismo (Gaia) negentropici, invocati a più riprese nel testo, paiono orfani del materialismo che li sostiene, palesando un’angoscia che l’Autore malcela nell’indigeribile recisione marxiana tra spirito e ragione, che in Hegel prima è natura e poi è ragione, cioè Stato (ecco, forse, la ragione della presentazione “amministrativa”, alle Autorità, dei saggi qui raccolti). L’etica della contribuzione libertaria, la militanza proudhoniana che albeggia nella a‐metodologia moriniana scivola maledettamente nella propaganda vetero‐collettivista quando (p. 38) ad auto‐eco‐organizzazione appare possibile sostituire autodeterminazione delle cellule di produzione di stampo federativo (non importa, qui, specificare il contesto storico politico né geografico); oppure, poco prima, quando lo spirito avrà la possibilità di sviluppare la sua autonomia, prende forma uno scenario delle intrinseche capacità umane, date pedagogicamente e perequate socialmente, quasi di scuola leninista. In effetti, Morin scrive facendo finta di non conoscere la genetica di popolazione, che permette ad esempio di inquadrare gli adattamenti biocenotici (zoologici e botanici), collocandoli nel contesto delle classificazioni climatiche e nella geografia delle mutazioni paesistiche dovute a interventi antropici; fa spallucce al darwinismo (negando la natura insindacabilmente adattiva dei comportamenti animali e umani, anche quelli più inaccettabili e ignobili) e alla psicologia evoluzionistica che, dalla sua fondazione nei primi anni Ottanta, ha di molto ridimensionato (se non annientato) concetti quali 254
S&F_n. 2_2009 altruismo cooperativo, selezione di gruppo, competizione tra popolazioni, evoluzione per il bene della specie, sacrificio individuale per la sopravvivenza del collettivo, etc. Da sociologo, Morin si oppone alle argomentazioni e alle conseguenze dell’innatismo ontologico della psicologia darwiniana, che ricusa il modello standard delle scienze sociali dell’apprendimento e della cooperazione interindividuale e interspecifica, nella speranza che le neuroscienze disinneschino l’enorme appeal che questa scienza ha prodotto nel panorama filosofico, scompigliandolo. Il filosofo Morin, addirittura, enfatizza la sacralità del Bios e ridesta il principio di prudenza che pareva eclissatosi con l’implementarsi dell’impalcatura metodologica della biologia molecolare e della genomica. Con l’antropologo, però, ci sentiamo a nostro agio, comprendendo con lui quanto sottosviluppata fosse la nostra concezione dello sviluppo, e volentieri ci dotiamo di una non acritica abnegazione nella salvezza di questa Terra, ove fummo consegnati ma non avvertiti dell’agonia che avremmo dovuto affrontare (p. 56). E accogliamo, seppur francamente ideologiche, le direttive didattico‐pedagogiche consigliate, che comportano educazione al consumo consapevole, educazione all’automobile, educazione al turismo sostenibile (p. 75). Non disturba, nemmeno, la serrata critica al vivere contemporaneo che, se non fosse per la nota di collocazione temporale che apre ogni saggio, attribuiremmo alla malattia delle città di Georg Simmel e alla sua straniazione neurotica, così mirabilmente tratteggiata in La metropoli e la vita dello spirito (1903), da cui evidentemente Morin drena la fenomenologia della morbilità dello straniero (inteso anche e sopratutto in senso psichiatrico), reclamando la sanità mentale col ricorso alla categoria di anomia. Ora, però, se in Durkheim la questione dell’anomia indicava la divaricazione tra le aspettative del contratto sociale e l’inattendibilità degli strumenti posti alla sua attingibilità materiale, Morin la ritraduce nell’inappetenza alla conoscenza e alla cultura. È possibile, tuttavia, che Morin sia ora collocabile tra gli alfieri di un certo antitatcherismo e antireaganismo. Lo psicologo inglese Oliver James – ad esempio – addita la tesi dawkinsiana del gene egoista come fonte di tutti i mali dell’Occidente, senz’altro all’origine della pandemia di ansia e panico del brulicare schizofrenico e competitivo delle cosmopolite megalopoli anglosassoni post‐moderne. Di qui postula un disadattamento ambientale tra le popolazioni “anglofile”, dove i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri mentre, tra i latini, tale forbice sarebbe meno pronunciata o assente anche grazie a un miglior rapporto con il proprio territorio (O. 255
RECENSIONI&REPORTS recensione James, Il Capitalismo Egoista, Codice Ed., Torino 2009). A parte tale opinabilissima conclusione, entrambi gli Autori, a ogni modo, aggiornano questa spengleriana crisi contemporanea e la tingono di verde. Morin è, infatti, genuinamente dispiaciuto della perversione dei nostri tempi, delle aberrazioni e della crisi di civiltà che ne conseguirebbero (p. 77). Fa nuovamente capolino, cioè, l’adoperarsi per una rimoralizzazione e una normalizzazione di una natura dannata (intesa come elargizione nomologica del dover essere) che stride con gli avveduti incoraggiamenti alla sistematizzazione degli insiemi complessi delle prime pagine. I suoi strali no‐global sono i nostri, ma dissentiamo dalla stantia presa di posizione, superficiale e oscurantista che incensa pedissequamente la tradizione e demonizza qualsivoglia aggiornamento biologista (non necessariamente socio‐biologista) che contribuisca a far luce sulle dinamiche complesse del vivere contemporaneo, bollando come immorale (p. 87) lo sviluppo, intercettandone il suo deterioramento nella manifesta corruttibilità delle amministrazioni pubbliche, dimenticando che sono le risorse (limitate) in mano a “estortori” limitati che generano ruffianismo, tornacontismo utilitarista e comportamento evoluzionisticamente stabile, senza ricorrere a Malthus o ad altri preconcetti che, Darwin docet, sono alla base della cooperazione. Ammiriamo, invece, la nozione di felicità immateriale, e sposiamo la necessità di sostituire le metriche di quantificazione del “benessere” (personale e sociale, individuale e collettivo) materialistico (meramente produttivistiche e consumistiche) con la scherzosa provocazione dell’introduzione del Cupidone (p. 89), quale verseggiatura che misuri l’innamoramento (la cosa più importante per Morin) tra gli individui. Insomma, un saggio bifronte. Caloroso e appassionato nella presentazione dei problemi globali e nella genuina proposta di un viraggio comportamentale, sociale e filosofico che adotti la teoria dei sistemi dissipativi per applicarla alla sostenibilità energetica, culturale, economica, adozione che presuppone solidarietà con gli esclusi dalla festa dell’egotismo indecente neoliberista (p. 113), rispetto della morbilità procurata dal fallimento delle aspettative (come dimostrerebbe il crescente ricorso al mercato della pseudo‐
spiritualità), partecipazione, simpatia col diverso, valorizzazione e conservazione ambientale. Deludente, viceversa, la strumentazione teoretica che, disattendendo volutamente le recenti acquisizioni delle neuroscienze, della biologia evoluzionistica 256
S&F_n. 2_2009 quantitativa e della genetica molecolare, si tortura nell’assoldare un’esegesi che dia conto delle dissonanze di questi barbarici tempi moderni. ANTONIO AMODEI
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