RECENSIONI&REPORTS recensione Mauro Ceruti e Lorena Preta (a cura di) Che cos’è la conoscenza Laterza, Bari‐Roma 1990, pp. 176, € 13,43 Alla impaziente pretesa di trovare un metodo e di catturare la «verità» dovremmo sostituire la pazienza della ricerca infinita, la capacità di dilazionare, di attendere (Corrao, p. 33) Il volume Che cos’è la conoscenza a cura di Mauro Ceruti e Lorena Preta, pubblicato dalla Laterza nel 1991, è frutto del dibattito che ha animato il Festival di Spoleto del 1989; i sette interventi (von Foerster; Gargani; Corrao; Varela; Vattimo; Morin; Ceruti) corrispondono a sette differenti prospettive sul tema e hanno come minimo comune denominatore l’esigenza di ragionare sulla conoscenza della conoscenza a partire da un approccio assolutamente trasversale e interdisciplinare. Letto a vent’anni di distanza questo testo – aldilà del valore intrinseco dei brevi saggi che lo compongono – ci offre un’istantanea, un fermo‐immagine di un passaggio topico per la storia della filosofia italiana: il momento di piena maturazione di quel pensiero debole che ha caratterizzato la riflessione di Gianni Vattimo e che, a diverso titolo, sembra investire i modelli conoscitivi proposti dagli altri studiosi riuniti a Spoleto. L’indecidibile, il dubbio, la krisis, sono le parole chiave del testo e, considerato il quadro nel quale queste riflessioni sono state elaborate, la cosa non può stupirci più di tanto: nonostante il punto di partenza individuato dagli stessi curatori sia la classica interrogazione sulla conoscenza – da intendersi come costruzione del soggetto o come rappresentazione della realtà – fin dal primo intervento, di Heinz von Foerster, vediamo come l’asse della questione ruoti su se stesso e divenga centrale non tanto stabilire quale sia il modello in grado di trovare un criterio di verità che ci orienti nel caos e di domare l’indecidibile, ma piuttosto di concepire la posizione dell’uomo di fronte a ciò che non è ordinato da regole note e definite, come una possibilità irrinunciabile per far emergere il 198 S&F_n. 3_2010 puro principio etico come criterio unico della scelta (von Foerster, pp. 8 e 9). Con la messa in discussione dei modelli e dei fondamenti del sapere (Morin, p. 70) e la presa in carico della nostra doppia ignoranza – del non sapere di non sapere – la Crisi diviene krisis nel suo senso più profondo, è giudizio, discernimento, separazione, è dunque Occasione. Quattro filosofi, un neuropsichiatra, un fisico e un biologo provano a cogliere questa occasione riabilitando il pensiero a partire da un confronto col reale che, proprio a causa della sua mancanza di stabilità e monoliticità, per essere colto, necessita dell’impiego in contemporanea di strumenti diversi, presi a prestito dalla scienza, dalla filosofia, dalla medicina, occorrono l’indagine dei dati concreti, delle rocce, degli alberi, dei sassi, ma anche dei sogni, come ci ha insegnato Freud (Corrao, p. 36); tutta una serie di elementi eterogenei, normalmente scartati in un approccio scientifico tradizionale, divengono ora centro e strumento di analisi. L’affermarsi dell’immagine di una realtà sfuggente, gassosa (Vattimo, p. 66), la moltiplicazione delle visioni del mondo, il felice connubio tra la riflessività della filosofia e l’oggettività della scienza, il trionfo dell’ermeneutica come «filosofia propria dell’epoca della scienza» (Vattimo, p. 63), ci offrono la possibilità di superare quel falso oggettivismo ideologico – denunciato da Lukàcs in Storia e coscienza di classe – che ha caratterizzato il pensiero forte nel Novecento, e che, spacciando per leggi del reale le proprie convinzioni, ha consentito che prendessero vita forme di pensiero opprimenti e totalitarie. Ma non è tutto oro quello che luccica. Liberatici del fardello della ricerca della verità a tutti i costi, ci troviamo a fare i conti col fatto che rinunciare all’onnipotenza del pensiero significa imparare a fare a meno del nostro più potente placebo, utilizzato da sempre come forma di compensazione dell’intrinseca difettività dell’uomo dal punto di vista biologico. Non ci siamo infatti contemporaneamente liberati dell’“ossessione del controllo del proprio mondo” e questa è, a maggior ragione di fronte a un esterno che si fa sempre più impalpabile e fantasmatico e che non possiamo neppure più illuderci di cogliere, «una delle ossessioni più intense e più letali dell’uomo moderno» (Ceruti, p. 102). Il versante oscuro di una riflessione sulle possibilità del pensiero di fronte a una realtà consumata (Vattimo, p. 53), dell’entusiasmante sfida data dalla co‐definizione di oggetto conosciuto e soggetto conoscente (Varela, p. 45), è quello di un oggetto di indagine che emerge come selvaggio, nemico, claustrofobico, di un reale che si sottrae e 199 RECENSIONI&REPORTS recensione si nasconde. Ma c’è di più. Non solo abitiamo un mondo che non è la nostra casa, che non ci appartiene e dal quale dobbiamo, blumenberghianamente, metterci a distanza, ma anche il nostro stesso pensiero finisce per dominarci e controllarci: una volta messe al mondo, le idee smettono di appartenerci, siamo noi a essere «posseduti dalle idee, siamo capaci di morire o di uccidere per loro» (Morin, p. 75), come l’apprendista stregone che non è più in grado di gestire le forze che ha evocato. Nonostante qui il tentativo di ragionare sulla conoscenza della conoscenza abbia indiscutibilmente una matrice e un’intenzione costruttiva, che tende a individuare nella crisi dei modelli un occasione più che uno scacco, un fondo amaro è mal celatamente presente in tutte i contributi di questo volume. Se è vero che mettere piede nel territorio del pensiero debole può fornirci la chance di rinsaldare, sia in senso ermeneutico che epistemologico, la nostra capacità riflessiva e auto‐cognitiva, è altresì significativo – per comprendere fino in fondo la nostra condizione di soggetto conoscente – che Morin immagini la costruzione di un «meta‐punto di vista [...] dal quale si possa considerare la propria posizione e, in parte, l’esterno, fino all’orizzonte» (Morin, p. 78) come l’edificazione di una torretta di osservazione da parte dei prigionieri in campo di concentramento. VIOLA CAROFALO 200