Modena Lez 4 - Università degli Studi di Parma

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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Capitolo 10: Cenno alla teoria degli insiemi ed ai principi non costruttivi.
Come visto, la semantica fa intervenire pesantemente la teoria degli insiemi, e parti non
banali di essa, dato che le verifiche di validità si devono fare sulla totalità delle interpretazioni.
Viene spontaneo parlare allora dell'insieme di tutte le interpretazioni, ma si mostra ben presto
che questa scelta porta a paradossi. Così lo sforzo per ottenere una definizione rigorosa di
linguaggio e di verità, è invalidato da una teoria degli insiemi che … fa acqua.
Si è quindi alle prese con un nuovo problema didattico. La teoria degli insiemi, nella sua
accezione ingenua, la cosiddetta insiemistica, non è sufficiente per aspetti complessi come ad
esempio quelli del calcolo dei predicati. Il linguaggio in cui studiarla è caratterizzato dalla
presenza di un predicato binario, l'appartenenza, denotato da ∈. C'è bisogno di precisione
anche per gli insiemi, anzi gli insiemi non bastano più, è necessario introdurre il concetto di
classe e la distinzione tra insieme e classe.
Intuitivamente ogni collezione di oggetti determina un insieme, almeno questo viene detto
su molti testi. La collezione può essere data fornendo un elenco, caso che va bene solo per
collezioni finite, oppure fornendo una proprietà caratteristica degli elementi della collezione,
caso che va bene sia al finito sia all'infinito. Ma questo modo produce contraddizioni. Si
presenta qui una proposta, in certo senso originale e non ancora sperimentata didatticamente,
secondo la quale è bene partire con le classi, vista come ente primitivo cioè richiedere che
ogni collezione di oggetti sia una classe:
DEFINIZIONE Dicesi classe ogni collezione di oggetti ottenuta considerando
un'elencazione di oggetti, ovvero data mediante una proprietà di oggetti. Le
classi si rappresentano in due modi: per le classi date per elencazione, si esibisce la lista degli oggetti, preceduti da una parentesi graffa aperta, "{"
separati da virgole e seguiti da una parentesi graffa chiusa, "}" per quelle date
per caratteristica, fornendo cioè una proprietà che caratterizza gli oggetti, la
scrittura della classe inizia con una parentesi graffa aperta, seguita da una
lettera minuscola, con le funzioni di oggetto variabile, quindi un'indeterminata,
seguita dalla sbarra "|" e dalla condizione caratteristica applicata alla stessa lettera, e la scrittura viene conclusa da una parentesi graffa chiusa. Siano A una
classe rappresentata per elencazione ed x un oggetto. Si dirà che x appartiene
ad A, in simboli x∈A, sse x è uno degli oggetti presenti nella elencazione. In
caso contrario si scrive x∉A.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Sia A una classe rappresentata per caratteristica, ad esempio A = {x | r(x)};
se z è un elemento di essa, cioè se z∈ A, allora z soddisfa la (o gode della)
proprietà r, ciò che si esprime con la scrittura r(z). Se z non gode della
proprietà r, cioè ¬r(z), allora z∉A.
Questa definizione non è molto soddisfacente perché non fa capire che si tratta di un
postulato. Dato un elenco o una proprietà esiste la classe che è caratterizzata come detto
sopra. L'idea di elenco qui introdotta per motivi espositivi può essere evitata considerando
l'elenco sostituito da una formula costituita da una disgiunzione di eguaglianze, così facendo
però restano solo le classi definite per caratteristica. Ma non ci sono motivi logici per richiedere che esista la classe detta, se questa richiesta non viene fatta esplicitamente con un
postulato. È come dire in Geometria euclidea: Definizione. Si chiama congiungente di due
punti la retta cha passa per essi. In realtà c'è una parte definitoria: qui la dizione congiungente, ma non bisogna nascondere che non basta trovare un nome ben scelto per poter
affermare che l'ente così denominato esista. Cioè prima ci vuole un postulato che garantisca
l'esistenza e l'unicità della retta passante per due punti, poi ci potrà essere la definizione che
stabilisce il nome. Lo stesso vale per la definizione data sopra: prima bisogna garantire con
un postulato che, ad esempio, dato un elenco di oggetti esista e sia unica, la classe
caratterizzata, poi la si può rappresentare adeguatamente. Non è che nell'ultima parte della
Definizione ci sia una dimenticanza: per le classi date per elencazione c'è la locuzione sse ,
mentre quando si parla delle classi date per caratteristica abbiamo una condizione più debole,
rappresentata dalla locuzione se … allora …. Il fatto è che se si pone z∈ A sse r(z), si
provocano problemi logici, resi noti all'inizio di questo secolo, chiamati paradossi logici, che
hanno turbato l'ambiente matematico-filosofico. Per questo si va cauti.
La necessità di utilizzare classi date per caratteristica si mostra con un semplice esempio.
Se si vuole considerare la classe dei dipendenti statali italiani in servizio alle ore 10.30 del 4
novembre 1966, è possibile fare un elenco che comprenda tutti i dipendenti, ma il tempo e la
determinazione di quali fossero effettivamente in servizio è assai "costosa" in termini di
tempo e risorse. Il questo caso la proprietà detta individua, in modo semplice ed economico,
una classe data per caratteristica. Inoltre le elencazioni non sono possibili nel caso di
"elenchi" infiniti.
Il primo confronto tra classi è quello dato dalla relazione di eguaglianza. Anche in questo
caso si tratta di un concetto assai delicato, che va trattato adeguatamente, con una certa cautela.
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DEFINIZIONE. Due classi X e Y sono eguali quando hanno gli stessi elementi,
vale a dire per ogni oggetto, esso è elemento di X se e solo se è elemento di Y.
In simboli X = Y se e solo se ∀z(z∈X ↔ z∈Y). Se esiste un elemento di una
classe che non appartiene all'altra si dice che le due classi sono diverse. Per
indicare che due classi X e Y sono diverse si usa la scrittura X ≠ Y.
Un secondo tipo di confronto è dato da una relazione più "debole" dell'eguaglianza:
DEFINIZIONE. Siano A e B due classi; si dirà che A è inclusa (o contenuta) in
B, quando per ogni oggetto se esso è elemento di A allora è pure elemento di
B . In simboli si scrive A ⊆ B per l'affermazione ∀x(x∈ A → x∈ B ). La
relazione ⊆ viene detta inclusione. Vi è poi una diversa inclusione, detta
inclusione stretta o inclusione propria, identificata come l'inclusione tra due
classi diverse. In simboli si scrive A ⊂ B ( da leggersi A è propriamente inclusa
in B) per A ⊆ B e A ≠ B.
La scelta delle classi date come enti primitivi e le condizioni sull'appartenenza introdotte in
una precedente sono tali che la gestione delle relazioni di eguaglianza ed inclusione offre
problemi. Sostanzialmente si può affermare che le classi date per elencazione sono
sottoposte ad una logica classica ed estensionale, mentre le classi date per caratteristica no.
Ciò rende difficile provare le ordinarie proprietà dell'eguaglianza, diseguaglianza ed
inclusione per classi date per caratteristica.
La cosiddetta insiemistica è incentrata su alcune operazioni che vengono date tra insiemi,
ma in realtà è bene considerarle tra classi. Le operazioni fondamentali sono date dalla
seguente
DEFINIZIONE. Siano A e B due classi.
a) Si chiama unione delle due classi, denotata col simbolo A ∪ B, la classe
{x | x∈ A ∨ x∈ B }.
b) Si chiama intersezione delle due classi, denotata col simbolo A ∩ B, la
classe {x | x∈A ∧ x∈B}.
c) Si chiama complemento di A, denotata col simbolo –A, la classe {x | x∉
A}.
d) Si chiama differenza delle due classi, denotata col simbolo A - B, la classe
{x | x∈ A ∧ x∉ B }.
Come si vede le operazioni applicate a classi forniscono classi date per caratteristica. Con
le classi date per elencazione sarebbero possibili altre definizioni con contenuti più
computazionali che forniscono classi date per elencazione. Un esempio per tutti: si definisce
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l'unione di due classi date per elencazione come quella classe data per elencazione il cui
primi elemento sono quelli della prima classe. Una volta esauriti gli elementi della prima
classe si inizia con quelli della seconda, controllando però se gli elementi della seconda
classe sono stati già considerati nella prima, nel qual caso viene "saltato". In modo analogo si
procede con le altre operazioni, confrontando quindi i due elenchi, in modo opportuno per
ciascuna operazione.
Se si considerano gli elenchi come disgiunzioni di eguaglianze, la disgiunzione di due
disgiunzioni è ancora una disgiunzione. Più complessa la situazione per le altri operazioni.
La differenza sostanziale tra l'insiemistica e questa presentazione con le classi è che
valgono solo alcune delle relazioni di inclusione tra classi ottenute con le operazioni. Ad
esempio si ha solo che date le classi A , B e C tali che A ⊆ C e B ⊆ C , allora A ∪ B ⊆ C ;
inoltre A ∩ B ⊆ A e A ∩ B ⊆ B. Non si riesce però, in generale a provare che A ∪ B ⊆ A e A
∪ B ⊆ A, come pure non si può provare che se C ⊆ A e C ⊆ B, allora C ⊆ A ∪ B. Ciò si
realizzerà invece per gli insiemi.
Fin qui si sono illustrate alcune proprietà ed operazioni sulle classi, ma finora non si è
dato esplicitamente alcun esempio (almeno matematicamente significativo) di classe. C'è poi
il problema che la trattazione delle classi è assai complessa, più per motivi filosofici che
applicativi. Le cose si semplificano molto con la considerazione del concetto fondamentale e
centrale, quello di insieme che ha mostrato in questo secolo tutta l'importanza e ricchezza di
applicazioni. A parte varie anticipazioni che si possono ritrovare nello studio della
matematica e della filosofia (ad esempio Aristotele e San Tommaso d'Aquino, B.
Bolzano(1781 - 1848) ) l'enucleazione del concetto di insieme come strumento matematico
potente è dovuta a G. Cantor (1845 - 1918) che presentò tra il 1874 e il 1884 numerosi
scritti sull'argomento, rivolti soprattutto all'approfondimento del concetto di infinito in
matematica.
DEFINIZIONE. Si dice insieme ogni classe che sia elemento di un'altra classe.
In simboli Ins(A) abbrevia ∃X(A∈X).
Dunque per avere un insieme bisogna dare una coppia di classi, la prima, l'insieme appunto,
la seconda, la classe cui l'insieme appartiene. La seguente definizione, che in realtà, come
fatto anche prima, nasconde alcuni postulati, fornisce esempi di insiemi.
DEFINIZIONE. Gli insiemi, in genere, si denotano con lettere minuscole.
a) La classe priva di elementi, denotata indifferentemente con la scrittura {}
oppure ∅, è un insieme: Ins(∅).
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N
b) La classe di tutti i numeri naturali, indicata col simbolo , è un insieme:
Ins( ).
c) Ogni classe data per elencazione è un insieme.
d) Se x e y sono insiemi, anche x∪y, x∩y, x-y, {x} e {x,y} sono insiemi.
e) Se A è una classe e x è un insieme tale che A ⊆ x, allora anche A è un
insieme. In particolare è un insieme {y | y∈x ∧ ϕ(y)}, in quanto classe
contenuta in x 1.
f) Sia {x | ϕ(x)} un insieme; per ogni elemento y si ha y∈{x | ϕ(x)} sse ϕ(y).
g) Per ogni insieme a, la classe P (a) = {X | X ⊆ a}, è un insieme, detto
l'insieme delle parti di a.
N
Questi non sono tutti e soli i postulati della teoria degli insiemi, manca ad esempio un
postulato di rimpiazzamento; sono solo quelli di più frequente uso nella pratica. Come si
vede, si recuperano le ordinarie costruzioni che l'insiemistica ha messo in luce. Qui non ci si
sofferma su altri aspetti riguardanti coppie ordinate, prodotti cartesiani, relazioni, corrispondenze, funzioni, perché il loro trattamento è quello consueto.
Per gli stretti legami tra Logica e Teoria degli insiemi si riprende il punto f) della definizione precedente che merita qualche considerazione e giustificazione. Tale definizione può
essere la causa della confusione presente sui manuali (ed anche nei programmi) tra Teoria
degli insiemi e Logica.
Spesso sui manuali viene affermato che ogni proprietà individua un insieme. Entra così in
gioco la rappresentazione per caratteristica degli insiemi che è quella con la quale si
esprimono elegantemente le operazioni, quella che coinvolge più strettamente la Logica dato
che un insieme viene individuato da una "proprietà", meglio una formula del linguaggio degli
insiemi. Si parla in questo caso dell'insieme ottenuto come della estensione della formula,
mentre la formula è l'intensione dell'insieme. Questa posizione assunta acriticamente porta a
paradossi, come in parte già anticipato sopra. Qui si mostra in che modo ciò avviene.
Si accetti, per momento il Principio di astrazione, cioè l'affermazione che ogni proprietà
individui un insieme. In questa presentazione il Principio di estensionalità, afferma che due
insiemi sono eguali se e solo se le formule che li descrivono sono logicamente equivalenti.
Si pone il problema di vedere quando un oggetto è elemento di un insieme così rappresentato. Qui non ci sono elenchi da consultare per decidere dell'appartenenza. C'è però una
proprietà. Se si considera a = {x | ϕ(x)}, questa scrittura viene letta come
a è l'insieme degli x tali che ϕ(x).
1 Spesso per brevità si indica {z | z∈x ∧ ϕ(z)} con la scrittura {z∈x | ϕ(z)}.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Non interessa qui cosa dica ϕ(x). Solitamente la dicitura "a è l'insieme degli x tali che …"
viene interpretata come
a è l'insieme di tutti e soli gli x tali che…,
pertanto, se ϕ(y), allora y∈a, dato che tutti gli oggetti che soddisfano ϕ sono elementi di a.
Viceversa se z∈a, dato che gli elementi di a sono solo quelli che soddisfano α allora si ha
α(z). Riassumendo se a = {x | ϕ(x)} si ha
w∈a ↔ w∈{x | ϕ(x)} ↔ ϕ(w).
Per motivi logici, si ottiene la condizione di non appartenenza ad a si ha cioè
w∉a ↔ w∉{x | ϕ(x)} ↔ ¬ ϕ(w).
Si tratta ora il semplicissimo caso dato dalla formula x∈y. È una formula del linguaggio
degli insiemi che parla di due enti, cioè due insiemi, x e y; qui si vuole analizzare tale
formula e le sue estensioni concentrando l'attenzione ora su uno ora sull'altro degli enti
coinvolti. Il primo caso è quello della proprietà α(x) data da x∈y, in cui si considera l'indeterminata y fissa, come un parametro. Per il principio di astrazione esiste un insieme
caratterizzato da questa proprietà, {w | α(w)} = {w | w∈y}. Si ha
x∈{w | α(w)} ↔ α(x) ↔ x∈y.
Guardando al primo ed all'ultimo membro di questa catena di equivalenze si scopre che gli
insiemi y e {w | α(w)} hanno gli stessi elementi, quindi
y = {w | α(w)} = {w | w∈y}
Ciò mostra che ogni insieme può essere rappresentato per caratteristica, assumendo come
proprietà quella di appartenergli. Si neghi ora la proprietà, cioè si consideri la formula β(x)
data da x∉y, in cui, come prima, si tiene fisso il parametro y. Sempre per il principio di astrazione esiste un insieme {z | β(z)} = {z | z∉y}. Si ha
x∈{z | β(z)} ↔ β(x) ↔ x∉y;
x∉{z | β(z)} ↔ ¬ β(x) ↔ ¬(x∉y) ↔ x∈y
Guardando al primo ed all'ultimo membro di entrambe le catene di equivalenze si scopre che
gli insiemi y e {z | β(z)} sono legati tra loro dalla proprietà che un elemento appartiene all'uno se e solo se non appartiene all'altro. Questa situazione viene descritta con l'operazione
di complementazione di un insieme, dunque
Cy = {z | β(z)} = {z | z∉y}.
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Si ritornerà in seguito su questa operazione insiemistica, qui basta osservare che se y è dato
per elencazione, il suo complementare non può essere espresso con la stessa rappresentazione. Inoltre qui al complementare si attribuisce il significato dell'insieme degli insiemi
che non appartengono ad y. Per esempio se y = {a,b}, ove a,b sono a loro volta insiemi, non
ha senso dire che un elefante appartiene al complementare di y, dato che non è presente
nell'elenco di y, in quanto un elefante non è un insieme, invece ha senso affermare che
l'insieme degli elefanti africani è elemento del complementare dato che è un insieme.
Si scambino ora i ruoli di x e y. Sia γ(y) la proprietà x∈y, in cui si fissa l'indeterminata x.
Come fatto prima si considera l'insieme {t | γ(t)} = {t | x∈t} e si ha
y∈{t | γ(t)} ↔ γ(y) ↔ x∈y
y∉{t | γ(t)} ↔ ¬ γ(y) ↔ ¬(x∈y) ↔ x∉y
In questo caso non si ha una costruzione insiemistica "interessante" che serva da identificare
il caso in cui un insieme abbia o non abbia per elemento un insieme fissato.
Sempre sulla base della stessa proprietà, si identificano ora le due indeterminate, si considera cioè la formula δ(x) data da x∈x. Forse questa formula può causare qualche dubbio
di carattere epistemologico. È un esempio di formula impredicativa. Solitamente si cerca di
evitare tali tipi di formule per il sospetto di circolo vizioso che portano con sé. Nella
matematica tradizionale vi sono molti casi di situazioni analoghe. 1 Per chiarire: si è detto
prima che un insieme è dato quando si esibisce una lista dei suoi elementi o si trova una
proprietà che caratterizza tutti e soli i suoi elementi. Ora porre x∈x fa nascere il sospetto di
una sorta di circolo vizioso: per dare x si devono dare prima i suoi elementi ma tra essi c'è
proprio x e quindi questa assegnazione non è possibile. Ovviamente se x è dato con una
proprietà può essere banale provare che x∈x; anzi il circolo vizioso può non apparire tale. In
questa posizione c'è una componente ontologica da discutere: se esistono solo gli insiemi
che si sanno costruire mediante formule del linguaggio adeguato, x∈x è una formula scorretta; se gli insiemi hanno una loro esistenza indipendente dalle strategie rappresentative
utilizzate, la formula x∈x rappresenta solo la descrizione di un fatto, quindi non è scorretta.
Non ci sono motivi puramente logici per escludere x∈x, anche se tale esclusione può essere
utile. Facendo riferimento all'esperienza comune, l'insieme delle seggiole contenute in un'aula
non è una seggiola, quindi non appartiene a se stesso. Verrebbe voglia di dire che non si ha
mai x∈x, ma è sempre x∉x. D'altra parte l'insieme dei concetti astratti è un concetto astratto
(ammesso che si trovi un accordo su che cosa sia un concetto astratto). Trascurando, per il
momento questi aspetti, si analizza se la considerazione della formula x∈x, può dare luogo
1 Per approfondimenti si veda Marchini C.: 1992, 'Le definizioni e le notazioni, un problema didattico' su
Marchini C. ed, Q.1 Quaderni Dip. Mat. Univ. Lecce, Seminari di Didattica A.A. 1990/91 e 1991/92, 125 - 143.
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ad inconvenienti. Come prima si considera l'insieme ottenuto per il principio di astrazione,
individuato dalla formula e sia a = {z | δ(z)} = {z | z∈z}. Si ha così, per il generico w,
w∈a ↔ w∈{z | δ(x)} ↔ δ(w) ↔ w∈w.
Le considerazioni precedenti invitano ora ad analizzare se a∈a oppure a∉a. Nel primo caso,
a∈a,
a∈a ↔ a∈{z | δ(z)} ↔ δ(a) ↔ a∈a,
ottenendo in tal modo una banalità; nel secondo caso, a∉a, si ha
a∉a ↔ a∉{z | δ(z)} ↔ ¬ δ(a) ↔ a∉a,
quindi ancora una banalità. Sarà soltanto con la richiesta esplicita di un assioma specifico
della teoria degli insiemi, l'assioma di fondazione nel sistema di Zermelo-Fraenkel, (dal
nome di E. Zermelo (1871 - 1953) che propose un sistema assiomatico per la Teoria degli
Insiemi, in seguito integrato da A. Fraenkel (1891 - 1965)) che si esclude l'esistenza di a, o
meglio si otterrà {z | z∈z } = ∅, in accordo con l'intuizione di cui si diceva prima.
Russell, in una lettera a Frege, accentrava l'attenzione sulla formula x∉x. Questa è una
proprietà più "ragionevole" almeno alla luce della discussione precedente. Ad esempio l'insieme delle seggiole gode di questa proprietà, così come l'insieme dei bambini in un'aula,
eccetera. Seguendo l'argomentazione precedente, sia ρ(x) la formula x∉x. Per il principio di
astrazione esiste un insieme r = {x | ρ(x)} = {x | x∉x}. Si ha così
y∈r ↔ y∈{x | ρ(x)} ↔ ρ(y) ↔ y∉y.
In questo caso interessa esprimere anche quando y∉r. Si ha
y∉r ↔ y∉{x | ρ(x)} ↔ ¬ρ(y) ↔ ¬(y∉y) ↔ y∈y.
La domanda che pose Russell a Frege era sostanzialmente la seguente: cosa capita se nelle
formule precedenti pongo r in luogo di y? Eseguendo la sostituzione letterale si ha:
r∈r ↔ r∈{x | ρ(x)} ↔ ρ(r) ↔ r∉r;
r∉r ↔ r∉{x | ρ(x)} ↔ ¬ρ(r) ↔ ¬(r∉r) ↔ r∈r. 1
Quindi se si assume che r∈r, si ottiene r∉r, negazione della ipotesi; se si assume r∉r, si ottiene la negazione di questa seconda ipotesi, cioè r∈r. In entrambi i casi si ottiene un assurdo,
ma i due casi r∈r e r∉r sono esaustivi, almeno secondo la logica classica. La conclusione è
1 Questa sostituzione è stata eseguita graficamente ricopiando la formula precedente e dando al calcolatore il
comando "search and replace", presente, con vari nomi in ogni word-processor. Il calcolatore non si è
"spaventato", forse il lettore sì, o meglio si è "spaventato" Frege!
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
che siamo in presenza di un paradosso, quello noto appunto col nome di Paradosso di
Russell.
Una soluzione al paradosso si ottiene non accettando il Principio di astrazione: non è vero
che ogni formula individui un insieme, ad esempio la formula x∉x non individua un
insieme, ma una classe che non è un insieme. Viene così giustificata l'esigenza della
distinzione tra classi ed insiemi. Come principio generale, quindi una formula individua una
classe. Come detto nei punti e) e f) della definizione di insieme, quando una classe è
contenuta in un insieme è a sua volta un insieme, quindi ad essa si può applicare il Principio
di astrazione.
Si mostra in modo analogo che se il complementare di un insieme è un insieme, allora si
riottengono affermazioni paradossali. Infatti si consideri l'insieme vuoto: ∅, se il suo
complementare è un insieme, ∅ = {x | x∉∅}. Ma in tal caso r = {x | x∉x} ⊆ ∅, quindi r
C
C
è un insieme, riottenendo così il Paradosso di Russell. Per evitare questa situazione si
considera il complementare di un insieme è una classe propria. Questa affermazione
contrasta con la presentazione dell'Insiemistica sui manuali. Talvolta i testi per evitare queste
difficoltà introducono il concetto di universo, concetto non precisato e che, ad un'analisi più
approfondita pone più problemi di quanti non ne voglia risolvere.
Nella presentazione delle classi per caratteristica si è data una sorta di principio di
astrazione dimezzato ponendo che se x∈{y | ϕ(y)} allora ϕ(y). Con un procedimento simile
all'argomentazione di Russell si prova che anche avendo assunto la distinzione tra insiemi e
classi, se si afferma x∈{y | ϕ(y)} sse ϕ(y), visto che gli elementi delle classi sono oggetti per
altro indeterminati, anche le classi possono essere elementi quindi si riottiene il Paradosso di
Russell. Tale contraddizione ha dunque il duplice effetto di imporre la distinzione tra classe
ed insieme e nel contempo di imporre limitazioni anche alle classi.
Il titolo di questo capitolo prevede anche un accenno ai principi non costruttivi. Essi sono
strettamente connessi alle problematiche logiche per più ragioni. Alcuni verranno evidenziati
nel seguito. Per chiarire cosa si intende per principi non costruttivi, si prenda in
considerazione la definizione-postulato dell'unione di due insiemi. Per l'unione di due
insiemi, essendo essi anche classi, esiste una classe, l'unione, definita come al solito. Il
postulato richiede che tale classe sia un insieme. Ma di questo insieme è detto quali sono gli
elementi. Lo stesso avviene, ad esempio con il postulato delle parti o con la coppia. Già alla
nascita della teoria degli insiemi i matematici utilizzavano però altri principi che venivano visti
come intuitivi. L'analisi più approfondita ha permesso di evidenziare meglio la struttura di
essi. Per alcuni si trattava di leggi logiche applicate indifferentemente sugli insiemi finiti ed
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
estese acriticamente agli insiemi infiniti, per altre si tratta di richieste di esistenza di insiemi di
cui però non si è in grado di precisare gli elementi, appunto i principi non costruttivi. Un
esempio per tutti è offerto dall'assioma di scelta; la prima individuazione che si tratti di un
principio non logico è probabilmente dovuta al matematico B. Levi (1875 - 1961) che ha
insegnato a Parma dal 1912 al 1928.
Una formulazione, una delle tante tra loro equivalenti, è la seguente: si consideri un insieme a i cui elementi siano, a loro volta, insiemi non vuoti a due a due disgiunti, allora esiste
un insieme c, tale che per ogni x∈a, c∩x è un insieme costituito da un solo elemento. Tale
insieme c viene detto insieme di scelta per a. Come si vede il postulato non indica quali sono
gli elementi di c, ma afferma solo che esistono. Questo principio ammette formulazioni
molto diverse e spesso l'equivalenza di due sue formulazioni è un fatto sorprendente.
Altre formulazioni che spesso si utilizzano in Matematica sono le seguenti: (forma moltiplicativa) se a è un insieme di insiemi non vuoti, allora esiste una funzione f: a → ∪(a)
tale che per ogni x∈a, f(x)∈x; ogni funzione suriettiva ha una inversa destra (rispetto alla
composizione di funzioni); per ogni corrispondenza esiste una funzione contenuta nella
corrispondenza che ha lo stesso dominio della corrispondenza; il prodotto topologico di
spazi topologici è uno spazio topologico compatto sse i vari spazi topologici sono compatti.
Più interessante è vedere dove tale principio si utilizza nella pratica matematica (e didattica). Un paio di esempi. Il primo che si incontra già nella scuola elementare: quando si
introducono gli insiemi si fanno quasi esclusivamente esempi di insiemi finiti. Il fatto che
siano finiti non viene messo in risalto, anche perché non si tratta di un concetto semplice.
Una strada non molto raccomandabile è affermare che un insieme è finito se ha un numero
finito di elementi. È però ovvio che in questo modo non si ottiene una definizione accettabile.
Un'altra soluzione è di enumerare gli elementi dell'insieme, utilizzando cioè numeri naturali
ordinali del metalinguaggio. Questo approccio può essere più accettabile, a patto di non
definire poi i numeri naturali come i cardinali degli insiemi finiti, ma scegliendo una strategia
diversa. Più avanti si afferma che un insieme è finito se … non è infinito. Infatti si fornisce
di solito la definizione (di Dedekind) che un insieme è infinito se è equipotente (si può
mettere in corrispondenza biunivoca) con un suo sottinsieme proprio. Quindi un insieme è
finito se non esiste un sottinsieme proprio equipotente, ovvero se ogni funzione iniettiva
dell'insieme in se è anche suriettiva. Ebbene l'equivalenza di queste due definizioni di finito
richiede l'assioma di scelta. In realtà nella letteratura matematica vi sono numerose
definizioni di insieme finito, una qualche decina, tra loro equivalenti solo se si assume
l'assioma di scelta. Anche l'affermazione che ad ogni insieme si può associare un cardinale
richiede l'assioma di scelta, anzi è ad esso equivalente.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Un secondo esempio. Una delle difficoltà didattiche maggiori degli ultimi anni di scuola
superiore (Licei Scientifici, Istituti tecnici industriali, ma con i Programmi Brocca, tutte le
scuole) è l'introduzione della funzione esponenziale (e del logaritmo). Già la definizione di
numero reale è di per se complessa e talora viene semplicemente evitata. La definizione di
potenza ad esponente naturale e poi intero viene ripresa da quella data nella Scuola Media
(per numeri razionali!). Gli esponenti razionali vengono introdotti abbastanza semplicemente
attraverso le radici ed i radicali. A questo punto il passaggio all'esponente reale si effettua per
continuità, continuità che non è ancora stata presentata, forse basandosi su una concezione
intuitiva della continuità stessa. Analizzando meglio quanto viene fatto, si rileva che è data
una funzione, ad esempio l'esponenziazione di base e, exp, definita sui razionali e una
successione di razionali g che ha per limite un numero reale x. La richiesta implicita è che la
composizione della funzione e della successione (exp°g) sia una successione che ha ancora
limite, limite indicato da exp(x). Ma questo passaggio richiede l'assioma di scelta, o meglio
richiede l'assioma di scelta in forma numerabile che garantisce, sotto le ipotesi realizzate nel
caso exp, che se f è una funzione allora per ogni successione g che converge a x, si abbia
lim (f°g) = f(lim g)
L'assioma di scelta è fortemente connesso con la Logica, dato che alcuni dei più importanti
teoremi di Logica sono dimostrabile solo in presenza di tale assioma.
È importante ribadire che il linguaggio insiemistico si offre come metalinguaggio per un
generico linguaggio del 1° ordine. Se in una "formula" sono presenti simboli insiemistici e
simboli di altra natura, non si tratta di una vera formula, tranne nel caso che il linguaggio sia
quello degli insiemi. Gli studi fondazionali a partire da Cantor in poi spesso hanno cercato di
provare che il linguaggio insiemistico e la Teoria degli Insiemi in essa svolta permettono di
"tradurre" molti concetti matematici, riguardandoli come concetti insiemistici. Ad esempio
ciò avviene per le nozioni di numero naturale, ed in generale quello di numero (intero relativo,
razionale, reale, complesso), per le operazioni tra numeri, per le funzioni, per le relazioni di
eguaglianza e di ordine. Per questi motivi molti autori ritengono che oggi il linguaggio degli
insiemi e le varie Teorie degli insiemi svolte in esso siano fondamentali per lo sviluppo della
matematica.
Da questa sistemazione rimane estranea la Geometria sintetica, a meno che non la si veda
coincidente con la Geometria cartesiana, coincidenza che cade però quando si studia la
Geometria non-euclidea.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Capitolo 11: Definizioni e teoremi dal punto di vista didattico.
Il primo tema indicato può sembrare poco stimolante, ma a mio parere è assai profondo ed
ha notevoli influenze sulla didattica in quanto la comprensione delle definizioni e delle
convenzioni influisce fortemente sull'apprendimento 1.
Inizio traendo spunto dalla conversazione con una collega 2; secondo la sua esperienza,
che per altro credo condivisa da chi insegna Matematica nei primi anni di Facoltà scientifiche, alcuni studenti pur esperti risolutori di esercizi, si trovano imbarazzati nel "gestire" i
concetti mediante definizioni ed i simboli usando le notazioni, senza giungere a comprendere
cosa farne, come giustificarne la presenza e l'uso, talvolta confondendo definizioni con dimostrazioni 3. E' troppo facile darne colpa all'insegnamento nei cicli precedenti: il problema ha
radici profonde e non ne esiste un rimedio semplice.
Le difficoltà palesate dagli studenti nascono, a mio parere, da scarsa comprensione
dell'impianto complessivo della conoscenza matematica e delle modalità di comunicazione
della conoscenza stessa. L'enfasi eccessiva sugli aspetti strumentali della Matematica, spesso
accompagnati da una acritica educazione esclusivamente algoritmica, porta a trascurare
aspetti di riflessione generale che si collocano in ambito metamatematico.
Senza dubbio una maggiore attenzione al tema eviterebbe gli errori più grossolani. Ma c'è da
chiedersi se, come e quanto è utile che i docenti "perdano tempo" per fare riflettere gli allievi
sull'argomento, vista la quantità di nozioni previste dai programmi. Certo, un'analisi delle notazioni e delle definizioni, delle modalità di introduzione e dei loro usi può avvenire solo al
termine del corso di scuola superiore, in quanto è un tipico esempio di quella richiesta,
prevista dai nuovi programmi, di riesame critico su quanto si è appreso. Per svolgere questa
attività dai forti connotati filosofici è indispensabile un'intensa sinergia tra docenti di Matematica, Lingua, Storia e di Filosofia. Mi rendo conto che si tratta di un'utopia che si scontra
con le difficoltà di linguaggio tra insegnanti di formazione diversa. Temo però che l'ostacolo
maggiore sia la disattenzione, su temi di vasto respiro, di una scuola i cui ultimi tre anni
sembrano finalizzati al superamento della prova di Maturità divenuta insufficiente per i collegi
professionali e le Università, vista la richiesta sempre più diffusa di esami di ammissione.
1 Buona parte di quanto proposto qui si ritrova in Marchini 1992,
2 La Prof. D. Monteverdi, Docente di Istitutioni di Matematica per Scienze Biologiche a Parma, che qui ringrazio
per le fruttuose discussioni sul tema.
3 Questa confusione purtroppo non è solo degli studenti. Si pensi ai manuali che per definire la potenza con
esponente zero, a0, fanno una piccola "dimostrazione" osservando che 1 = a2: a2 = a2–2 = a0.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Con questo scritto ho la presunzione di fornire qualche indicazione didatticamente utile e
stimolante.
Lo stile con cui oggi si parla di Matematica è quello di matrice euclidea (e quindi
aristotelica) in cui il linguaggio si articola utilizzando termini definiti a partire da termini
primitivi. L'origine e le motivazioni possono essere ritrovate nel testo degli Analitici Secondi
di Aristotele 1 viene definita una Scienza deduttiva: è un insieme S di enunciati tale che:
I)
II)
III)
IV)
V)
POSTULATO DI REALTà. Ogni enunciato di S deve riferirsi ad uno specifico dominio di enti
reali.
POSTULATO DI VERITà. Ogni enunciato deve essere vero.
POSTULATO DI DEDUTTIVITà. Se certi enunciati appartengono ad S, ogni conseguenza logica
di questi enunciati deve appartenere a S.
POSTULATO DI EVIDENZA (per termini). Ci sono in S un numero (finito) di termini tali che
(a) il significato di questi termini è ovvio e non richiede ulteriori spiegazioni (termini primitivi);
(b) ogni altro termine è definibile per mezzo di questi termini.
POSTULATO DI EVIDENZA (per assiomi). Ci sono in S un numero (finito) di enunciati tali che
(a) la verità di questi enunciati è ovvia e non richiede ulteriori dimostrazioni (assiomi);
(b) la verità di ogni altro enunciato appartenente ad S deve essere stabilita mediante l'inferenza
dagli enunciati dati (teoremi).
Le scritte tra parentesi sono una mia interpolazione. E' facile criticare oggi la presentazione
di Aristotele, per la confusione tra linguaggio e metalinguaggio, per la mancata differenza tra
aspetti semantici e sintattici, per le ipotesi ontologiche sottintese e per il privilegio dato al
linguaggio, visto come strumento di conoscenza con funzione universale. Tuttavia le idee
aristoteliche sono notevoli ed hanno permeato la Scienza da allora ai giorni nostri. Non
analizzo ulteriormente cosa venga inteso per Scienza deduttiva nel suo complesso, ma mi
soffermo sui punti che mi interessano di più.
I termini primitivi (come gli assiomi) sono posti per evitare un regresso all'infinito che toglierebbe valore conoscitivo alla scienza; altrimenti per comprendere ciò di cui si parla si
deve interpretare correttamente tutto ciò che serve per giungere alla sua definizione, ma è impossibile in via di principio perché si dovrebbe avere una conoscenza infinita. Il mettere esplicitamente limiti al regresso fa pensare che, in linea di principio, attraverso il linguaggio
sarebbe possibile un procedimento infinito in cui ogni ente trova una definizione a partire da
concetti più semplici. Aristotele indica nell'evidenza (e nel buonsenso) il limite di tale analisi
all'indietro. Ciò vuol dire scegliere tra gli innumerevoli enti quelli che hanno due connotati
fondamentali: sono di significato ovvio e permettono di riottenere gli altri attraverso le definizioni. Il compito delle definizioni, in tale visione, è quella di servire come strumento per ar-
1 Tratto da Beth, 1959.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
ticolare una conoscenza già posseduta, per porre ordine ad una realtà che per altre strade è
nota. Forse sotto questo aspetto è motivata l'interpretazione di J. Barnes 1 :
«la teoria … non viene mai intesa come uno strumento per guidare o formalizzare la ricerca scientifica: riguardava solo l'insegnamento di fatti già acclarati.»
Non sono posti però limiti (e non sono neppure pensati) alla possibilità di procedere con
definizioni e deduzioni, ammettendo un modo di procedere potenzialmente infinito.
Si noti che da un punto di vista puramente platonista, il fatto che ci possano essere
definizioni di enti che ammettano un regresso all'infinito, oppure che presentino fenomeni di
circolarità, non causa problemi di sorta: gli enti hanno una loro esistenza, lo strumento
linguistico usato per descriverli è una rappresentazione degli enti e Platone, nella Repubblica,
condanna l'arte e ogni forma di rappresentazione perché non in grado di rappresentare
fedelmente la realtà delle idee. Quindi i limiti che il linguaggio rivela non hanno effetti sulla
natura degli enti.
La trattazione euclidea della Geometria, forse perché nata con intenti didattici, si conforma
largamente ai requisiti aristotelici, è però possibile rilevare un'importante differenza: le
definizioni (e i teoremi) vengono introdotti geneticamente, vale a dire in una definizione intervengono soltanto termini definiti precedentemente, non quelli definiti successivamente (risp.
vengono utilizzati nelle dimostrazioni teoremi precedentemente dimostrati) e gli assiomi e le
definizioni non vengono introdotti tutti contemporaneamente, ma solo quando non se ne può
fare a meno per far procedere la teoria.
Per mostrare con un esempio come intendere questa presentazione genetica, si consideri la
definizione di gruppo come spesso viene presentato sui testi. Un gruppo viene spesso
presentato come una struttura ⟨G,·⟩ in cui ·: (G×G) → G e vengono soddisfatti i seguenti
"assiomi":
(1) ∀x,y,z∈G (x·(y·z) = (x·y)·z)
(2) ∃e∈G∀x∈G (x·e = e·x = x)
(3) ∀x∈G (x·x-1 = x-1·x = e)
(proprietà associativa)
(elemento neutro)
(inverso).
Così presentata la definizione è scorretta e questo fa intervenire le nozioni di teoria e di
assiomi. Gli assiomi possono essere visti in due modi: assegnati prima di ogni altra
considerazione, oppure, come avviene in Euclide, la teoria, vale a dire i teoremi, vengono
ottenuti tenendo conto di una presentazione "diacronica" degli assiomi e dei teoremi.
Se si accetta la prima interpretazione, gli assiomi di gruppo non sono accettabili: nel
secondo assioma si chiede l'esistenza di un elemento che è "indifferente" rispetto alla
1 J. Barnes, Aristotle's Theory of Demonstration in Articles on Aristotle, 1. Science a cura di J. Barnes,
M. Schofield, R. Sorabji, London, Duckworth, 1975, citato da C. Cellucci La Logica fra Filosofia, Matematica e
Informatica. Notizie di Logica, anno X, n. 2/3 1991, 13 - 23
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
moltiplicazione. Il nome usato e è introdotto correttamente da un quantificatore esistenziale.
Ma un quantificatore esistenziale non basta ad un'individuazione precisa. Ad esempio,
l'affermazione ∃u∈ ∀x∈ (x ≤ x·u) è vera in , ma non è una determinazione unica di u,
N
N
N
N
dato che ogni elemento di * soddisfa la richiesta. Inoltre, data la presenza della
quantificazione esistenziale, il cambio alfabetico di e con altra lettera, ad esempio w non
muta il significato dell'assioma. Perciò ∃w ∈ G ∀ x∈ G (x·w = w·x = x) è ancora
l'affermazione che nel gruppo c'è un elemento neutro.
Nel terzo assioma la lettera e è usata come parametro, dato che non viene introdotta
mediante un quantificatore, e se il secondo assioma "parla" di w, non è banale individuare
che interpretazione assegnare a e. Se si vuole riformulare in modo corretto l'assioma
dell'inverso, si dovrebbe scrivere:
(3’)
∀x∈G ∃y∈G ∀z∈G ((x·y)·z = z·(x·y) = (y·x)·z = z·(y·x) = z).
Il fatto che molti, se non quasi tutti i testi di Algebra, dalla superiori all'università,
introducano gli assiomi come fatto prima, non è garanzia di correttezza. Se però la teoria
viene presentata geneticamente, la scorrettezza scompare. Si introduce il primo assioma, la
proprietà associativa. Si mostrano poi alcuni risultati che usano solo la proprietà associativa.
Poi si introduce l'assioma dell'elemento neutro. A questo punto si prova che l'elemento
neutro è unico, sfruttandone sostanzialmente la definizione. Solo allora ha senso denotare in
modo specifico l'elemento neutro ed utilizzarlo nella formulazione del terzo assioma. E'
questa la sostanza del procedere genetico che è strettamente associato al problema della
presentazione della teoria. Se si dovesse confrontare la teoria dei gruppi con un'altra teoria,
ad esempio quella degli anelli, bisogna assumere l'assioma dell'inverso nella forma (3’),
perché il confronto deve essere effettuato a partire dagli assiomi e non da tutto lo
svolgimento della teoria.
Da un altro punto di vista, la scelta di termini primitivi e di assiomi conferisce un significato convenzionale alla conoscenza scientifica, o almeno alla sua presentazione in forma
comunicabile. Nel convenzionalismo ricade ogni dottrina secondo cui la verità di una proposizione o di un insieme di proposizioni fisiche o matematiche dipende sempre da un precedente accordo (esplicito o tacito) stipulato da coloro che devono far uso di queste proposizioni. L'accordo può riguardare direttamente le proposizioni in questione (e ciò accade
nella scelta delle assunzioni iniziali di un sistema deduttivo, siano esse assiomi o termini
primitivi) o può riferirsi indirettamente ad esse tramite regole inferenziali opportune sulla cui
base viene accettata o rifiutata la verità delle proposizioni. Nel convenzionalismo, pur ispirato
o motivato dall'esperienza, l'esperienza stessa viene negata in modo assoluto in quanto la possibilità di decidere circa la verità della scelta di un gruppo di assiomi deve obbedire soltanto
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
al postulato di deduttività.1 Perciò il sapiente aristotelico non ha bisogno utilizzare il cannocchiale galileano perché sa, a priori, che le macchie solari non esistono, per definizione. Il
convenzionalismo non ha poi bisogno di dichiarare la propria posizione a riguardo del finito
e dell'infinito, in quanto entrambe potrebbero essere mere convenzioni.
Vengo ora ad una prima indicazione di carattere didattico: sorge spontanea la domanda se
quel patto che il convenzionalismo richiede tra coloro che devono utilizzare gli strumenti
matematici è mai stato esplicitato tra docente e studente o se è rimasto sempre tacito, da parte
del docente, ed incompreso nella sua sostanza da parte del discente. Forse solo gli aspetti
deleteri di questa posizione gnoseologica hanno trovato modo di attraversare la
comunicazione didattica.
Ad esempio il convenzionalismo inibisce l'empiria, così se un problema è mal posto o mal
compreso uno studente liceale può rispondere che qualora 10 kg di mele costino 8.000 lire,
un kg di mele costa 0,00125 lire al kg, senza svolgere un controllo sui risultati, ispirato e
sorretto all'esperienza quotidiana. Analoga attitudine si incontra anche negli utilizzatori degli
strumenti matematici, essi talvolta rifiutano i dati che non si accordano con modelli scelti a
priori, abbandonando la difficile strada di adeguare i modelli alla realtà, preferendo piegare
quest'ultima nelle strettoie di un trattamento matematico inadeguato.
Un'analisi svolta nell'ambito della filosofia medievale, in connessione col problema degli
universali, ha messo in luce due tipi di definizioni: definitio quid rei e definitio quid nominis.
Le prime sono definizioni reali, catturano parte della realtà, le seconde sono solo façon de
parler e in certo senso, rispettivamente, richiamano il realismo (S. Anselmo (1033 - 1109),
Guglielmo di Champeaux (1070 - 1121)) e il nominalismo (Roscellino (1050 - 1120)). Il
problema è posto da alcune definizioni dello stesso Euclide: «Punto è ciò che non a parti». E'
facile riconoscere in questa "definizione" l'influenza del pensiero atomistico. Ma nello
svolgimento degli Elementi, questa "definizione" non viene mai utilizzata. La teoria deduttiva
può essere svolta anche senza esplicitare tale definizione. Essa ha forse un significato didattico, come per ancorare l'intuizione a qualcosa, oppure per rispettare la richiesta di Aristotele
che il significato dei termini primitivi è ovvio.
Il problema didattico principale relativo alle definizioni presentate in modo trasmissivo da
parte del docente è di comunicare allo studente la sensibilità a non ritenere i termini introdotti
dalle definizoni come soli puri nomi, ma corrispondenti ad una realtà. Di diverso impatto
sullo studente sarebbe un percorso che riuscisse a fare capire ed apprezzare il risparmio che
si ottiene con una definizione ben scelta, per fare giungere lo studente stesso a fornire la
definizione.
1 Tratto da Enciclopedia Garzanti di Filosofia.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Tra il XIX secolo e l'inizio del successivo, J. Gergonne (1771 - 1859) e poi in un senso
più "maturo" M. Pieri (1860 - 1913), professore all'Università di Parma, hanno posto
attenzione alle definizioni implicite, di cui si dice in seguito.
Personale poi l'interpretazione, in ambito geometrico, delle definizioni data da F. Speranza
(1932 - 1998): le definizioni forniscono un lessico per esprimere fatti geometrici, ma la
scelta è dettata dalla tradizione geometrica e dalla invarianza rispetto a particolari gruppi di
trasformazioni, nel senso di Klein.
Ci avviciniamo di più ai nostri giorni presentando un'analisi, in gran parte dovuta alla
scuola filosofica polacca, S. Lésniewski (1886 - 1939) e A. Tarski (1902 - 1983), che
incentra la definizione nell'ambito logico. L'importanza di tale proposta consiste nel mostrare
che le definizioni non si collocano solo in ambito linguistico come forse si può ritenere in un
primo momento, ma in esse intervengono pesantemente aspetti sintattici 1. Il punto di
partenza è una teoria T espressa in un linguaggio L; non ha importanza se si tratta della
logica del primo ordine o di ordine superiore. Ciò che ha rilevanza è che ci si muove in un
contesto rigorosamente formalizzato. Sia k un simbolo non appartenente al linguaggio L.
Limitandosi al primo ordine, k potrebbe essere una costante individuale, oppure un simbolo
funzionale (operatore) o un predicato, ma ciò che segue si applica a tutti i casi. La richiesta
che k non appartenga a L conferma che si procede geneticamente, nel senso di cui si diceva
prima. Sia L’ il linguaggio ottenuto con l'aggiunta del nuovo simbolo così L ⊆ L’ dunque
ogni formula di L è anche formula di L’, e sia ϕ una formula di L’ contenente il nuovo
simbolo. Sia T’ la teoria che ha per assiomi quelli di T e la formula ϕ. Perché ϕ possa essere
considerata una definizione di k rispetto a T, si devono verificare le due seguenti condizioni:
(a) per ogni formula ψ di L ’ – L esiste una formula ϑ di L tale che |
∀(ψ ↔ ϑ),
T’
avendo indicato col quantificatore universale una (la) chiusura universale della formula in
parentesi;
(b) Per ogni formula α di L se |
α, allora |
α.
T’
T
La teoria T’ così ottenuta si dice estensione per definizione di T.
Tale presentazione mutua dalle idee di Aristotele il primo requisito (il punto (b) del
Postulato di evidenza per termini). Esso si interpreta come la eliminabilità della definizione
in quanto ogni formula contenente il nuovo simbolo è dimostrabilmente equivalente ad una
che in cui non compare il simbolo aggiunto. La seconda richiesta, sconosciuta nella
presentazione aristotelica, sancisce la non creatività della definizione assunta come nuovo assioma: non si dimostrano in T’ "vecchie" formule che non siano già teoremi di T. Il fatto che
si definisca volta per volta un nuovo simbolo a partire da una teoria e dal suo linguaggio è
1 Cfr. Rogers, 1971.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
garanzia di quel procedere genetico che impedisce i circoli viziosi. Una sostanziale novità è
che l'ovvietà non è più il referente privilegiato per decidere quali siano gli enti da assumere
come termini primitivi; la nozione di definizione dipende da una teoria vale a dire un insieme
qualunque di formule (o enunciati).
Vedremo tra poco come sia possibile esplicitare le richieste distinguendo tra i vari tipi di
simboli che vengono introdotti, voglio solo soffermare un attimo l'attenzione sul fatto che la
definizione è data in relazione ad una teoria; pertanto una stessa formula può essere ritenuta
una definizione rispetto ad una teoria e non rispetto ad un'altra e di ciò mostrerò un esempio.
Una definizione non è solo un fatto linguistico, in essa entra pesantemente anche l'apparato
dimostrativo, cioè le regole d'inferenza, e la scelta degli assiomi di una teoria.
Nella Logica del primo ordine si trattano separatamente i casi dei predicati, dei simboli
funzionali e delle costanti. Se si vuole definire un predicato A, n-ario, La formula ϕ da aggiungere alla teoria T per definire un predicato A, n-ario, è data da ∀ x 1 , …, xn
(A(x1,…,xn) ↔ ϑ), ove x1, …, xn sono indeterminate distinte e la formula ϑ è formula del
linguaggio L in cui sono libere, al più, solo le indeterminate x 1 , …, xn . Se si deve
aggiungere un simbolo funzionale f, m–ario ci sono due possibili modi diversi: il primo è
quello di richiedere come formula ϕ la seguente ∀x1,…,xm,y(f(x1,…,xm) = y ↔ ϑ), ove
x1,…,xm, y sono indeterminate distinte e ϑ è formula del linguaggio L in cui sono libere,
al più, solo le indeterminate x1,…, xm,y ed inoltre la formula ϑ garantisce, rispetto alla
teoria T, l'unicità, nel senso che |
∀x1,…,xm∃y∀z(z = y ↔ ϑ), con z indeterminata diverT
sa dalle altre. Il secondo modo, forse quello più utilizzato, richiede la presenza di un termine t
di L. In tal caso ϕ è la formula ∀x1,…,xm(f(x1,…,xm) = t), purché in t compaiano, al più,
le indeterminate x1, …, xm. Nel primo modo è essenziale la richiesta di unicità, altrimenti la
definizione diviene creativa. Lo si mostra con un semplice esempio. Si consideri il
linguaggio con un solo predicato binario che si scrive infisso, indicandolo col simbolo "<".
La teoria T è data dagli assiomi di un ordine stretto totale e il simbolo (di operazione) "♥" è
"definito" con la formula ∀x,y,z(x♥y=z ↔ x<z ∧ y<z). Per l'unicità si deve provare in T
la formula ∀x,y∃w∀z(z=w ↔ x<z ∧ y<z) che non è un teorema di T in quanto che nel
modello di T sui numeri naturali si ha 2<6 ∧ 3<6 e pure 2<5 ∧ 3<5, da cui 2♥3 = 6 e
2♥3 = 5, quindi 5 = 6. Di più, si prova che la teoria T’ ottenuta aggiungendo a T la formula
ϕ, è contraddittoria, quindi in essa si possono dimostrare tutte le formule, anche quelle di L
che non sono teoremi di T, pertanto la definizione è creativa.
Nel caso della definizione di una costante si possono seguire due strade, come per i simboli funzionali. Nel primo modo si usa una formula ϕ del tipo ∀y(c=y ↔ ϑ), ove y è l'unica
indeterminata libera eventualmente presente in ϑ, formula del linguaggio L; bisogna però
∃y∀z(z = y ↔ ϑ), con z indeterminata diversa da y. Il
richiedere l'unicità nella forma |
T
secondo modo, solitamente più utilizzato, richiede che esista un termine t di L, in cui non
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
compaiono indeterminate libere e la formula ϕ è data da c = t. Il primo modo è quello usato
nella presentazione dell'elemento neutro di un gruppo visto prima.
Per gli assiomi di una teoria ci si può chiedere se alcuni sono dipendenti da altri, problema
che, come sappiamo, applicato sul problema del postulato delle parallele ha portato allo
sviluppo delle Geometrie non euclidee. L'indipendenza di un assioma ϕ di una teoria T, si
prova mostrando un modello di T ed un modello in cui sono veri tutti gli assiomi di T tranne
ϕ.
Una situazione simile vale per la definibilità: dato un simbolo k di un linguaggio L ed
una teoria T in L, ci si può chiedere se k è definibile in T. Ciò avverrà se c'è in T una formula che possa essere utilizzata come una definizione di k, rispetto alla teoria T – {k}, cioè
quella che si ottiene nel linguaggio privato di k, e senza gli assiomi in cui interviene k.
Analogo è il problema di determinare quando un simbolo del linguaggio non è definibile, affrontato e risolto da A. Padoa (1868 - 1937) nel 1901: il simbolo k non è definibile in T se
esistono due modelli di T che differiscano solo per l'interpretazione di k. Dall'analisi del
principio di Padoa, E.W. Beth (1908 - 1964) ha tratto poi il suo famoso teorema del 1953.
Per introdurlo 1 devo premettere cosa si intende per definibilità implicita ed esplicita. Tratto,
per brevità, solo il caso dei predicati. Siano dati una teoria T espressa in un linguaggio L,
un predicato n-ario A di L ed una formula α di L in cui compare il predicato A. Si dice
che α definisce implicitamente il predicato A, rispetto alla teoria T, se considerato un
predicato nuovo A’ che non appartenga a L e considerata la teoria T nel linguaggio ampliato
L’ sia α’ la formula ottenuta sostituendo in α tutte le occorrenze di A con A’, si ha α∧α’ |T
∀x1,…,xn(A(x1,…,xn) ↔ A’(x1,…,xn)), ove x1, …, xn sono indeterminate distinte e
non sono libere nella formula α. Si dice invece che α definisce esplicitamente il predicato A,
rispetto alla teoria T, se esiste una formula β di L in cui compaiono libere le indeterminate
∀x1,…,xn(A(x1,…,xn) ↔ β). Ebbene il teorema di
di α e pure x1,…,xn tale che α |
T
Beth è l'affermazione che ogni simbolo implicitamente definibile è esplicitamente definibile.
Il tema della definibilità implicita ha però una dimensione epistemologica rilevante. Come
detto in precedenza, dell'argomento si sono interessati, con diverso approccio Gergonne in
un lavoro del 1818. In esso egli propone un calcolo simile a quello dei sistemi algebrici,
mediante il quale si proponeva di determinare parole di senso non noto mediante altre ad
esse legate di senso invece noto. Ad esempio se sono note le parole triangolo, quadrilatero,
convesso, ma non diagonale, la frase "ciascuna delle due diagonali divide un quadrilatero
convesso in due triangoli" può essere vista come una definizione implicita di diagonale. La
1 Tratto da Hermes , 1969.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
sua proposta era di considerare per le definizioni il rapporto tra implicito ed esplicito come
quello che sussiste tra una equazione f(x) = 0 non risolta e la soluzione della stessa.
In parte la sua proposta è stata ripresa e sviluppata in contesto booleano da W. Jevons
(1835 - 1882).
Per Pieri, invece, gli assiomi sono da considerarsi come definizioni implicite dei termini
primitivi. Ad esempio gli assiomi di Peano sono definizioni implicite dei numeri naturali,
dello zero e del passaggio al successivo. Allo stesso modo, gli assiomi della Geometria sono
le definizioni implicite dei termini primitivi: punto, retta, incidenza, ecc. Ciò ha maggior senso
se gli assiomi sono categorici, vale a dire permettono di individuare proprietà caratteristiche,
nel senso che l'oggetto matematico che viene descritto dagli assiomi scelti è unico, a meno di
ovvie biezioni.
Questa posizione di Pieri dava in qualche modo una nuova definizione dei concetti
"portanti" della matematica e associava una natura convenzionale agli enti stessi.
Una breve riflessione, dovuta a P. Bernays (1888 - 1977), mostra che in Matematica non
ci si comporta sempre allo stesso modo. E' ben nota la definizione di gruppo, data mediante
una presentazione assiomatica. Credo che sia modo di intendere comune che gli assiomi di
gruppo forniscono la definizione esplicita del gruppo, non la definizione implicita di cosa sia
un elemento di un gruppo, un elemento neutro, l'operazione binaria, l'inverso. Assumere che
gli assiomi di Peano siano la definizione implicita dei termini primitivi dell'Aritmetica è frutto
di una tradizione culturale e filosofica incentrata su un tema metafisico: la natura del numero.
Ma in realtà gli assiomi di Peano sono la definizione esplicita di cosa sia l'algebra libera nel
tipo ⟨0,1⟩, sull'insieme vuoto, grazie al Teorema di ricursione di Dedekind ed alle riflessioni
di Lawvere. Allo stesso modo gli assiomi della Geometria, ad esempio nella formulazione
(più corretta) di Hilbert, sono la definizione esplicita di spazio tridimensionale euclideo.
Quindi ha senso chiedersi cosa sia il punto o il piano, tanto quanto ha senso chiedersi cosa
sia un elemento di un gruppo.
In questo senso è facile rispondere alle domande "critiche": cosa è un numero ?, cosa è un
punto ?, ecc.
Alcuni importanti risultati di Logica, ad esempio i teoremi di L. Löwenheim (1878 - 1957),
di T. Skolem (1887 - 1963) e di Tarski mostrano che la categoricità è una caratteristica assai
"rara" per i sistemi formali di importanza in Matematica.
Ritorno brevemente alle richieste di eliminabilità e non creatività delle definizioni. Sul piano logico questi requisiti sono essenziali, ma dal punto di vista epistemologico tale posizione
è troppo riduttiva. Si possono giustificare le definizioni e le notazioni come strumenti
suggeriti per realizzare economia di pensiero. Invece di ricordare e di utilizzare lunghe
sequenze di simboli, si trattano gli stessi enti in modo compatto e sintetico risparmiando
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
tempo, carta, energia, ma soprattutto memoria. Perciò le definizioni e le notazioni svolgono il
ruolo di una sorta di stenografia del pensiero. Ma se il compito fosse solo questo, sarebbe
poca cosa. Quando una definizione o una notazione sono ben scelte, esse rendono accessibili
alla nostra intuizione intere aree del sapere matematico. Ne è un esempio clamoroso la
definizione di gruppo introdotta da Galois per risolvere equazioni algebriche e che successivamente ha trovato applicazioni in quasi tutti i rami della Matematica ed anche al di fuori,
come ben sanno i cristallografi e gli strutturisti chimici. Così pure si fa risalire alla notazione
posizionale dei numeri naturali lo sviluppo della Matematica dal Rinascimento in poi. In conclusione, le definizioni sono logicamente non creative ed eliminabili, ma il contributo che
danno alla conoscenza è enorme ed insostituibile, sono dunque creative e non eliminabili.
Le definizioni sono state spesso criticate perché hanno una implicita richiesta ontologica.
Che senso avrebbe infatti dare una definizione se essa non fosse la descrizione di un qualche
oggetto matematico che la definizione "descrive"?.
Ciò è motivo d'innesco di una polemica da tempo in atto tra scuole diverse di pensiero
filosofico. La discussione si può riassumere nella domanda se la Matematica sia una scoperta o una invenzione. Sul tema fino ad oggi non ci sono risultati così chiari e conclusivi
che facciano propendere per una posizione piuttosto che l'altra. Una verifica indiretta è data
dal "successo" dei due approcci.
La Matematica cosiddetta classica è pensata come scoperta; in essa le definizioni sono
semplicemente descrizioni di enti che esistono di per sé e delle mutue relazioni tra essi, anche
se il linguaggio usato per descriverli può essere manchevole. Pertanto sono logicamente
possibili definizioni impredicative che per altri motivi, lasciano abbastanza perplessi. Dice H.
Poincaré «Le definizioni impredicative sono definizioni mediante una relazione tra l'oggetto da definire e
tutti gli oggetti di una certa specie della quale lo stesso oggetto da definire è supposto far parte (o almeno da
alcuni oggetti che dipendono per la loro definizione dall'oggetto che deve essere definito».
Un esempio è
l'insieme di tutti gli insiemi: per costruirlo bisogna avere costruito tutti gli insiemi e quindi
anche l'insieme cui tutti appartengono. Si tratta di un esempio centrale nell'analisi dei paradossi matematici proposta da Poincaré (ed anche da Russell col cosiddetto principio del
circolo vizioso): nelle antinomie di Burali-Forti, di Cantor e nel paradosso di Russell si
applica l'astrazione a formule impredicative.
Un esempio di impredicatività è fornito dalla definizione di estremo superiore di un
insieme di numeri reali. Si dice maggiorante di un insieme A di numeri reali un numero
a∈R tale che per ogni x∈A, x ≤ a. Si dice estremo superiore di un insieme A di numeri
reali il minimo dell'insieme dei maggioranti. Nella definizione compaiono un elemento, chiamiamolo b, ed un insieme, chiamiamolo B, cui b appartiene e la definizione di b richiede la
conoscenza di B che si ha solo se sono noti tutti gli elementi di B, ma tra essi c'è proprio lo
- 179 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
stesso b. Nella stessa condizione è la definizione di elemento neutro del gruppo. C'è una
specie di circolo vizioso che rende la definizione concettualmente poco chiara e
scientificamente poco affidabile. Ma la nozione di estremo superiore è centrale nella teoria
dei numeri reali: l'assioma di continuità dei reali si può formulare asserendo che ogni
insieme superiormente limitato di numeri reali ha estremo superiore.
Se la Matematica si inventa, prima di "inventare" b devo avere "inventato" B cioè devo
avere "chiamato all'esistenza" tutti i suoi elementi, tra cui b e ciò ha l'aspetto di un circolo
vizioso. I risultati tradizionalmente insegnati nelle scuole superiori sui numeri reali, su
derivate ed integrali sono tutti (o quasi) da scartare perché basati sulla continuità. Le ricostruzioni dell'Aritmetica e dell'Analisi in forma predicativa mostrano quanto sia difficile
evitare trappole del genere, in agguato in vari contesti tradizionali. D'altra parte il sistema formale di teoria degli insiemi proposto da Von Neumann, Bernays e Gödel assume come uno
dei principi fondamentali l'astrazione limitata alle formule predicative e questa limitazione è
fruttuosa perché si può provare che il sistema è finitamente assiomatizzabile 1. Si ricostruisce
buona parte della Matematica in tale ambito, il che mostra come sia possibile fare a meno
delle definizioni impredicative.
Se invece la Matematica si scopre, non c'è nulla di male nell'usare le formule impredicative
2, in quanto il ricorso alla totalità per definirne un elemento, come nella definizione di
estremo superiore, dipende solo dalla incapacità umana di trovare altre definizioni che non
incorrono nel "difetto" della impredicatività.
Il ruolo della definizione cambia drasticamente secondo la scuola di pensiero che si adotta.
Nella Matematica classica la definizione serve a identificare con un nome un concetto
importante di per sé, già esistente. Non tutte le definizioni hanno però la stessa "potenza"
conoscitiva: la definizione ben scelta è come la chiave che permette di aprire nuove stanze nel
palazzo iperuranio in cui hanno sede i concetti. «D'altra parte il nome non è meno importante della
cosa. Il nome, dice Wittgenstein significa l'oggetto e l'oggetto è il suo significato; e nella proposizione il
nome è il "rappresentante dell'oggetto"» 3.
Per coloro che ritengono che la Matematica si inventi, il primo momento ed anche più importante dell'invenzione è la nascita di una definizione che in un qualche senso deve con-
1 Invece il sistema formale proposto Morse e Mostowski, che differisce da quello di Von Neumann, Bernays e
Gödel solo perché ammette l'astrazione anche sulle formule non predicative, non è finitamente assiomatizzabile.
2 Ad esempio affermando che in una riunione "(esiste) la persona più anziana dei presenti" si usa una definizione
impredicativa che sicuramente non porta a contraddizioni. Tuttavia se si vogliono evitare le definizioni
impredicative bisogna distinguere tra i significati di "tutti": in senso cumulativo o in senso distributivo: "tutti i
gatti di Carlo sono consanguinei" usa "tutti" in senso cumulativo, "tutti i gatti di Carlo sono neri" usa tutti in
senso distributivo. E questo lo si realizza facilmente sostituendo "tutti" con "ciascuno". "Ciascun gatto di Carlo è
consanguineo" è priva di senso, "ciascun gatto di Carlo è nero" è una frase sinonima della precedente che parlava di
gatti neri.
3 Da Bajini, 1991.
- 180 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
tenere (nella sua chiusura convessa) i risultati che si possono poi dimostrare a partire da
essa.
In quanto precede c'è una risposta al quesito sulle differenze tra definizioni e notazioni.
Una notazione è limitata al fatto linguistico, una definizione ha dietro di sé una teoria logica,
possibile traduzione di un concetto matematico. L'approccio qui esposto è volutamente e necessariamente grossolano e qualche esempio mi permetterà di chiarire meglio.
Solitamente le definizioni e le notazioni per le relazioni (predicati) si presentano nella forma definiendum ↔ definiens. Le operazioni (simboli funzionali) e le costanti vengono
introdotte secondo lo schema collaudato: definiendum = definiens. Nella scrittura compare
un simbolo di eguaglianza che solitamente e giustamente ci si affretta a dire che non è una
∆
eguaglianza 1. Ciò viene messo in mostra con simboli diversi: = def, :=, =
. Invece che
un'eguaglianza si tratta di una sostituibilità; il simbolo va letto: tutte le volte che mi serve
posso sostituire una scrittura con l'altra. Pertanto la relazione = non è un'eguaglianza perché
non è riflessiva, né transitiva. Non è neppure simmetrica nel senso stretto: si sostituisce una
scrittura con un'altra solo in certi contesti dimostrativi. Ribadisco che ciò vale sia per le
definizioni che per le notazioni, sicché le differenze non appaiono evidenti in questo
contesto.
Un esempio. L'equazione ax2 + bx + c = 0 sarà risolubile nei reali se
(*)
∆ = b2 – 4ac ≥ 0.
Così scrivendo abbiamo introdotto il discriminante dell'equazione, che viene generalmente
indicato con la lettera ∆. Lo schema definitorio è quello detto sopra, a sinistra c'è il simbolo
nuovo, a destra l'espressione, meglio il termine, scritto con i simboli che compaiono in
precedenza. Per essere super pignoli, bisogna osservare che ∆ è una funzione dei
coefficienti: bisognerebbe scrivere ∆(a,b,c). Adesso si può decidere se si tratta di una
notazione o di una definizione. Se si tratta di una notazione, non ci sarebbe bisogno di
utilizzare un nome proprio per denotare tale differenza. Basterebbe il simbolo. E' questo il
sentire degli studenti che nel risolvere l'equazione parlano del delta. Dunque per essi la (*)
non è una definizione, ma una notazione, non è un ente di una qualche importanza, solo uno
strumento per la risoluzione. Quando l'insegnante propone ed insiste sul termine preciso di
discriminante, il suo puntiglio non viene compreso, lo studente cerca di accontentarlo con lo
stesso stato d'animo con cui si condiscende alle richieste di una persona non sana di mente.
Forse per il docente la (*) è da ritenersi una definizione, in quanto fa riferimento alla teoria
dei numeri reali e gli è noto che in ogni equazione algebrica il discriminante è un risultante
1
Cfr. Barnaba et al, 1992 e 1998.
- 181 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
della equazione e dell'equazione "derivata" 1. La teoria T cui si fa riferimento è la teoria dei
numeri reali, argomento irto di difficoltà.
Da questo esempio si può cogliere la differenza tra notazione e definizione. La notazione
resta a livello linguistico, non fa intervenire la teoria e i concetti che invece sono sottostanti la
definizione. Una notazione ha aspetti particolari, ha un che di temporaneo in quanto serve in
un certo contesto, ma nulla vieta che un simbolo introdotto con una notazione possa essere
riutilizzato in seguito con altro significato. La definizione assume un aspetto più definitivo e
tratta concetti universali: la si può ritenere una descrizione di un ente matematico che si
manifesta all'attenzione dello studioso.
Raramente si riflette sulla strada che ha portato da una notazione ad una definizione ed è
un'occasione didattica sprecata. La storia delle definizioni sarebbe molto interessante. Un
esempio per tutti. All'inizio del calcolo differenziale col simbolo di integrale si denotava
l'operazione inversa della derivazione (Barrow). L'approfondimento successivo del calcolo
integrale ha trasformato la notazione in una definizione e questa nel teorema fondamentale
del calcolo.
Inoltre la forma di intuizione che suggerisce una notazione è solitamente più superficiale e
formale, meno sostanziale. Le notazioni sono suggerite dall'uso e richiedono che si sappia
cogliere in varie occasioni una parte costante nelle scritture, spesso facendo uso della
1 Ricordo che dati due polinomi p(x) e q(x), si dice risultante dei due polinomi una funzione razionale dei loro
coefficienti, di grado minimo, che si annulla se e solo se essi hanno una radice in comune. Tale funzione è
determinata a meno di un fattore di proporzionalità. Se si scrivono i polinomi come p(x) = a0+a1x+a2x2+…+a nn-1+a xn, q(x) = b +b x+b x2+ …+ b
m-1 +b xm un loro risultante è ottenibile col metodo dialitico di
1x
n
0 1
2
m-1x
m
Sylvester dal determinante di ordine n+m
0
0
…
an
0
0
…
bm
0
0
…
an–1
0
0
…
bm-1
…
…
…
…
…
…
…
…
0
0
…
a1
…
…
…
b0
0
an
…
a0
0
0
…
0
an
an-1
…
0
0
bm
…
0
an-1
…
…
0
bm
bm-1
…
…
…
a1
…
…
bm-1
…
…
…
a1
a0
…
0
…
b0
…
0
a0
0
…
0
b0
0
…
0
Questo procedimento lo si applica alle equazioni. E' facile vedere che se il polinomio p(x) ammette radici
multiple, allora esse sono anche radice del polinomio p’(x) ottenuto facendo la derivata prima di p(x). Per trovare se
p(x) le radici multiple basta considerare un risultante tra p(x) e p’(x). Ad esempio se p(x) = ax2 + bx + c, il
polinomio derivato è dato da p’(x) = 2ax + b, per cui un risultante si ottiene dal seguente determinante di ordine 3
 a b c
 0 2 a b
2a b 0
Sviluppando il determinante si ha 2ab 2 – 4a2 c – ab2 = a⋅(b 2 – 4ac) = a⋅∆ che a meno del fattore di proporzionalità non nullo a è la solita espressione. Dato che a ≠ 0, il determinante è nullo se e solo se b 2 – 4ac = 0,
b
quindi l'annullarsi di questa espressione porta all'esistenza di radici coincidenti, date da x = –
.
2a
- 182 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
capacità di eseguire sostituzioni inverse, cioè quelle in cui si richiede il codice 1. Si ha quindi
ancora a che fare con l'eguaglianza e le sue proprietà. Per la definizione bisogna essere in
grado di padroneggiare oltre alla parte formale, anche la parte concettuale.
La distinzione tuttavia non è così grossolana come è qui presentata. Ci sono ambiti in cui
solo una scelta opportuna di notazioni permette di procedere, prima fra tutti la già ricordata
notazione posizionale per i numeri naturali. Per un altro esempio considero la 6-pla ordinata
⟨1,2,4,0,6,7⟩ e ad essa associo la 6-upla ordinata ⟨1,0,2,6,4,7⟩; considero poi la 9-pla
ordinata ⟨1,3,5,4,2,6,8,9,7⟩ e ad essa associo la 9-pla ordinata ⟨1,4,8,3,2,9,5,6,7⟩. Il
problema è quello di trovare un'unica espressione della legge che mi fa passare da ciascuna
n-pla ordinata a quella ad essa associata. La risposta è più semplice di quanto non appaia a
124
prima vista: invece di scrivere sotto forma di n-ple ordinate scrivo sotto forma di matrici: a 0 6 7
 1 4 8
 1 3 5
 1 0
corrisponde  2 6 ; a  4 2 6 corrisponde  3 2 9 ; con tali notazioni è chiaro che
 5 6 7
 8 9 7
 4 7
l'operazione cercata è la trasposizione, cioè lo scambio delle righe con le colonne. La
scrittura in forma di matrice, che in questo contesto è solo una convenzione, permette di
risolvere semplicemente il problema. Ma le matrici, solitamente introdotte come uno schema
di numeri, quindi come una notazione, hanno altre ragioni che le fanno ritenere un concetto
da definire e non una semplice stipulazione.
Prima di lasciare l'argomento della differenza tra definizioni e notazioni, voglio osservare
che quando si deve definire un'operazione non sempre le definizioni assumono la forma
definiendum = definiens. L'esempio tratto dal lavoro Barnaba, Barnaba, Peluso, Russo già
citato, è quello del logaritmo:
(
logab = c se e solo se ac = b.
Si definisce il logaritmo (ed è una definizione perché il concetto è importante nel resto della
Matematica, in quanto si tratta di un isomorfismo di ⟨ +,·⟩ in ⟨ , +⟩), mediante il primo
R
R
modo previsto dalla trattazione di Lésniewski. Viene a mancare una prova di unicità, legata
alla formula ac = b. Lo stesso accade per il concetto di limite 2. Il fatto che log e lim si
presentino in detta forma, non sarà forse uno dei motivi delle difficoltà di apprendimento
delle definizioni che traducono questi concetti ?
In entrambi i casi della definizione e della notazione il linguaggio gioca un ruolo di rilievo.
E spesso una delle difficoltà dei discenti è quella di avere distinto tra i codici linguistici del
linguaggio comune e quello della Matematica. Se la differenza non è fatta propria, l'uso di
1 Per questi aspetti sulle sostituzioni si veda ad esempio Marchini, 1990 oppure Margiotta 1991 e in questo
testo nel Capitolo X.
2 Devo l'esempio al Prof. D. Lenzi di Lecce. Per il limite, solitamente si prova un teorema di unicità, che invece
manca per il logaritmo.
- 183 -
)
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
esempi per chiarire una definizione può risultare controproducente 1. Quando l'insegnante
usa senza troppa attenzione locuzioni come "in parole povere" oppure "in pratica", scivola su
un piano linguistico diverso da quello formale e matematico. E non è detto che lo studente
sappia poi rielaborare in termini formali la "suggestione, fornitagli mediante considerazioni
più intuitive, riconoscendo in essa la definizione data dall'insegnante.
Molto spesso gli sforzi dei docenti per far comprendere lo scopo di notazioni e definizioni
portano lo studente a pensare: «Come sarebbe bello lasciar perdere alcuni degli ammassi di parole che
ho imparato a scuola - imparato perché anche gli insegnanti devono pur vivere, suppongo» 2. Ci si può
chiedere quale sia la strategia migliore per favorirne l'apprendimento. Forse il docente che
legge queste note penserà che tra i molti concetti importanti che la sua materia introduce, una
meta-riflessione su come presentare i concetti mediante le definizioni sia un "lusso" che ci si
può permettere solo in condizioni eccezionali. Ma ciò che propongo è così usuale e banale
che forse riuscirà sorprendente. Lo strumento che suggerisco potrebbe essere indicato col
nome di strategia della stanchezza. Credo si tratti di una tecnica poco usata, data la cronica
carenza di tempo per svolgere il programma. Essa consiste nel non praticare "sconti",
offrendo sempre esercizi che si risolvono… da soli, tanto sono ben congegnati. Inoltre il docente non dovrebbe anticipare i tempi, proponendo prima la soluzione dei problemi da ripetere come schema esercitativo, ma, nell'ottica del problem-solving, far giungere alle soluzioni.
Soltanto ciò che si conquista con fatica è destinato a permanere. Se lo studente tocca con
mano che l'introduzione di nuovi simboli permette semplificazioni al suo lavoro, apprezza e
comprende l'uso delle definizioni e notazioni che gli si propongono, «avviando via via i giovani
a lavorare da sé, a ricercare da sé da scoperta delle verità, anziché porgerne loro la semplice notizia;
aiutandosi, ove occorra, con qualche illustrazione storica per chiarire il senso dei problemi e dei metodi.» 3.
Diversamente tutto quanto gli viene proposto assume la stessa importanza, che spesso è
quella di superare in modo soddisfacente la prossima interrogazione programmata.
Un esempio, in cui intervengono delle notazioni ben … note. Si debba calcolare il prodotto
di 8,25 e 7,75, oppure 42⋅38, ci si accorge che 8,25⋅7,75 = 63,9375 = 64–0,0625 =
( 8 + 0 , 2 5 ) ⋅ ( 8 – 0 , 2 5 ) e 4 2 ⋅ 38
=
1596
=
1600–4
=
= (40+2) ⋅(40–2) e da questi ed altri esempi comprendere l'importanza dell'eguaglianza
a2–b2 = (a + b)⋅(a – b),
1 Cfr. Sacks, 1972 p. 4: «As a rule examples are presented by authors in the hope of clarifying universal concepts,
but all examples of the universal, since they must of necessity be particular and so partake of the individual, are
misleading» (Di regola gli esempi sono presentati dagli autori nella speranza di chiarire i concetti universali, ma
tutti gli esempi dell'universale, poiché di necessità devono essere particolari e così prendono parte dell'individuale,
sono fuorvianti)
2 Pensiero di C.H. Hinton riportato su Rucker, 1991.
3 Citazione dal R.D. 6 maggio 1923 n. 1054, in cui vengono presentati i programmi della scuola superiore
riformata dal ministro G.Gentile.
- 184 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Solo "smontando" i pezzi delle definizioni e delle notazioni, mediante contromodelli che
ne facciano capire l'esigenza, è possibile affinare il linguaggio. Un semplice esempio. Se si
vuole definire la relazione d'ordine stretto nei numeri naturali usando l'addizione, si potrebbe
dire n < m sta per ∃p(m = n+p), sbagliando. La frase "sta per" è la doppia implicazione
presente nella trattazione di Lésniewski per la definizione di un predicato. La teoria che
interviene è l'Aritmetica con l'operazione di addizione. Il contromodello è offerto immediatamente considerando che tra i numeri naturali c'è anche 0, per cui dalla eguaglianza 0 = 0+0
si ottiene 0 < 0. Per questo controesempio è indispensabile "complicare" la scrittura del
definiens ponendo n < m sta per ∃p(p ≠ 0 ∧ m = n+p).
Nonostante la banalità, è assai frequente riscontrare errori del genere, sia negli studenti che
nei libri di testo, errori originatisi da una specie di horror vacui che colpisce il numero 0. Si
incontra ad esempio, su certi manuali, che 0 è un numero naturale, poi però si "definisce" il
minimo comune multiplo di due numeri (ma anche di due polinomi) dicendo: mcm(p,q) è il
più piccolo multiplo comune di p e q, senza specificare che qui "piccolo" non si riferisce
all'ordine naturale, ma a quello della divisibilità, in cui 0 è il massimo (idem per i polinomi
introducendo il grado). Ciò forse è originato da un malinteso senso di analogia con il massimo comune divisore: MCD(p,q) è il massimo dei divisori comuni, sia che "massimo" si
interpreti con l'ordine naturale, sia con la divisibilità e questa è una "fortuna" non
sufficientemente apprezzata. Passando a mcm, viene spontaneo ripetere, mutatis mutandis, la
definizione, cadendo così nel tranello teso da 0.
Avevo osservato nel primo paragrafo che una formula può essere una definizione rispetto
ad una teoria e non esserlo rispetto ad un'altra. Qui ne abbiamo un esempio. Se si considera
la formula n < m ↔ ∃p(p ≠ 0 ∧ m = n+p) rispetto all'Aritmetica si ha la definizione di <,
se si considera la stessa formula rispetto la teoria dei numeri interi relativi con le loro
proprietà, non si ottiene il consueto ordine: –6 = 2 + (–8), –8 ≠ 0, ma non si ha 2 < –6.
C'è grande differenza tra chi ha capito i motivi di una definizione e chi l'ha imparata a memoria solo per i motivi scolastici del momento. Questi due atteggiamenti si colgono immediatamente analizzando il linguaggio con cui lo studente risponde ad una domanda di
chiarimento su una definizione. Chi la possiede è capace di ripeterla con i termini appropriati
usati al posto ed al momento giusto, richiesto di esemplificazioni, è in grado di fornirne
alcune diverse da quelle apprese dal docente. Chi è ancora lontano dalla comprensione usa
termini che al più possono avere significati sinonimici, intercala spesso con l'avverbio "praticamente", perché quello che sa fare è usare la definizione "in pratica" negli esercizi standard, scambia spesso i ruoli dei soggetti con quelli dei predicati e sovente utilizza pezzi del
definiens per esplicitare il definiendum, non sa fornire esempi propri. Se tale "patologia"
viene riscontrata dal docente, passare sopra al problema porta alle situazioni lamentate
all'inizio.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Nella scuola elementare si usano esercizi di definizione. Essi potrebbero utilmente essere
ripresi alla scuola superiore. Gli esercizi sono del seguente tipo: un gruppo di bambini è
incaricato di dare un nome una forma geometrica inconsueta. Viene poi invitato a spiegare ad
un altro gruppo di bambini come disegnare la figura geometrica, senza però mostrarla. Il
nome viene accettato se il disegno del secondo gruppo corrisponde alla forma geometrica in
esame. Esercizi di questo genere si possono svolgere anche con argomenti diversi dalla
Geometria.
Alle superiori l'esercizio potrebbe essere ripetuto proficuamente. Ad esempio il concetto di
funzione si presta assai bene ad un'attività didattica per tentativi ed errori, che sostanzialmente
ripercorra le tappe che hanno portato alla definizione attuale; in tal caso la storia sarebbe
veramente maestra e porterebbe anche a capire come non si tratti di un concetto
"sedimentato" da lungo tempo, ma ancora in fase di sviluppo. Un possibile itinerario
didattico è quello che passa attraverso le operazioni, ad esempio l'addizione sui naturali, con il
primo addendo fissato, vista come "macchina" che associa ad un numero un altro. E' però
bene introdurre contemporaneamente un controesempio ottenuto considerando la relazione
"è divisore di". Si possono analizzare in parallelo queste due situazioni in modo che gli
studenti colgano nell'unicità del corrispondente di un elemento in una funzione il carattere distintivo tra le due corrispondenze. Passando al grafico cartesiano delle corrispondenze, consiglio di studiarne l'andamento. E' possibile estrapolare la situazione precedente passando alla
operazione di addizione pensata come funzione binaria. Ripetendo gli esempi di funzione e
di non-funzione, si può introdurre il concetto con una definizione giustificata dalle esperienze; bisogna però, come l'avvocato del diavolo, avere sempre pronti gli esempi (controesempi)
che servano per mettere in discussione parti della definizione che possano sembrare banali.
Un percorso siffatto potrebbe avvalersi degli "errori" dei matematici del passato, motivati dal
loro modo di concepire l'argomento e dallo sviluppo dello strumento linguistico disponibile.
Un procedimento del genere è analogo a quello esplicitato Lakatos I.: 1979, Dimostrazioni e
confutazioni. La logica della scoperta matematica, Feltrinelli, Milano.
Ed ancora prima di introdurre le derivate si possono trovare esempi di rapporti incrementali di funzioni in Geometria, in Fisica, ecc. Studiandone le proprietà più semplici dei rapporti
e dei loro limiti si può giungere alla definizione di derivata, apprezzandone le ragioni.
Ovviamente più i concetti sono astratti, più difficile è l'opera di concettualizzazione e di
apprendimento da parte degli studenti.
Il nodo è dunque qui: l'abito formale imposto alle definizioni, spesso il solo che viene
malamente appreso e ritenuto, non è un capriccio degli insegnanti, «perché anche gli insegnanti devono pur vivere», ma è l'esito di un processo che ha portato a tradurre concetti in parole, in
formule di un opportuno linguaggio. Capire i limiti e la valenza del linguaggio, in una parola
impadronirsi di una definizione, può essere fatto solo da chi ha fatto esperienza personale con
- 186 -
C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
i concetti sottintesi e ne ha fatto applicazione anche perché «Una Nozione Matematica definita
esplicitamente non può essere compresa in tutte le sue … sfaccettature dalla frase o dalla sequenza di frasi che
si usano nella sua definizione» 1.
La comprensione avverrà solo quando l'ente il cui nome è dato
mediante definizione, viene utilizzato con le sue proprietà senza bisogno di eliminarne la
definizione. Basti pensare cosa succederebbe del sapere matematico se ogni volta che si
applicano enti definiti si dovesse fare all'indietro il procedimento che li ha generati per
b
giungere al livello dei termini primitivi: si provi ad esprimere l'eguaglianza, banale, ∫f(x)dx =
a
a
– ∫f(x)dx applicando le definizioni degli integrali, dei limiti, delle funzioni, dei numeri reali e
b
delle operazioni e delle relazioni su essi, dei numeri razionali e delle operazioni e delle
relazioni su essi, per fermarsi ai numeri naturali ed alle loro proprietà. Il tempo per arrivare a
scrivere questa eguaglianza eliminando le definizioni penso supererebbe abbondantemente il
numero di ore da dedicare in un anno all'intero programma. Ma anche ci si riuscisse, verrebbe senza dubbio perduta la banalità della relazione divenendo anzi un difficile compito
dimostrativo.
La dialettica sulla Matematica come scoperta o come invenzione, presentata sopra, non va
sottovalutata. Essa è un vero e proprio nodo che può ostacolare la comprensione. Non credo
che gli allievi abbiano la capacità di analizzare le cause delle difficoltà che incontrano con le
definizioni; questo compito spetta al docente che non dovrebbe sfuggire alla presentazione di
temi di filosofia della Matematica sull'argomento, visto che essi forniscono un aiuto all'apprendimento. Purtroppo è frequente l'impostazione della lezione "frontale" come strumento di trasmissione del sapere: l'insegnante enuncia concetti, li fa seguire da spiegazioni
ed esempi, poi assegna gli esercizi sull'argomento e sul loro svolgimento valuta gli allievi. E'
una tecnica didattica che ha grandi vantaggi, soprattutto di economia di tempo, ma nelle aule
se ne vedono i limiti. Sovente i concetti non vengono analizzati dal punto di vista del loro
sviluppo storico, delle possibili alternative, del loro inquadramento in ambito fondazionale, né
vengono visti come risposta ad un bisogno ad un'indagine dai connotati filosofici.
Ma passiamo ora ai Teoremi. Dove e quando gli studenti incontrano i teoremi? O forse,
meglio, dove e quando gli studenti incontrano la parola Teorema e quelle ad essa collegate,
Proposizione, Corollario, Lemma, Dimostrazione, chiamate esplicitamente per nome?
Forse il primo è il Teorema di Pitagora, visto alla scuola media. Ma si tratta di un approccio “nominale” perché a quell'età non avrebbe neppure senso cercare di entrare nel
sottile gioco sintattico che porta ad un teorema. Il teorema in questione viene "dimostrato"
1 cf. Avantaggiati, 1991.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
facendo ricorso ad esempi e verifiche. Bisogna poi aspettare vario tempo passando attraverso
i Principi, Leggi o Criteri (Principio di identità dei polinomi, Principi di equivalenza delle
equazioni e dei sistemi di equazioni, Legge di annullamento del prodotto, Criteri di
similitudine dei triangoli, a volte visti come assiomi, altre volte visti come proprietà da
provare. Alcuni studenti secondari che seguono i programmi Brocca nelle sperimentazioni in
atto, familiarizzano col Principio di induzione). Nelle scienze diverse dalla Matematica, le
Leggi sono più frequenti dei Teoremi o degli Assiomi, anche se spesso il ruolo delle leggi
nella presentazione didattica è proprio quello di assiomi. Questo fa dubitare che il significato
di Principio o Legge nelle cosiddette Scienze della natura non sia lo stesso usato in
Matematica, oppure se queste omonimie non siano cause di confusione degli studenti.
Forse è più frequente incontrare Teorema e la sua “famiglia” nell’ambito geometrico,
ammesso che venga svolta quella parte della Geometria sintetica che richiede una esplicita
individuazione di termini primitivi e assiomi, trattazione che per altro pare in disuso o molto
ridotta nella pratica della didattica italiana e straniera.
In Geometria analitica si dimostrano vari risultati, ma in dipendenza dallo stile espositivo
del testo utilizzato, spesso non è evidenziato che sono Teoremi. Più di frequente i risultati
sono visti o presentati come regole, da imparare a memoria: ad esempio, due rette di
equazione y = mx + q e y = m’x + q’ sono parallele se e solo se m = m’. Anche in Algebra
le “regole” sostituiscono i teoremi: ad esempio le soluzioni dell’equazione di secondo
grado ax2+ bx + c = 0, che nel caso di discriminante positivo sono ottenute come
x12 = =
b2 - 4ac
-a + √

,
2a
usando cioè la formula risolutiva. Analoghe situazione si hanno in Trigonometria con le
formule di bisezione o di prostaferesi. In questi casi l'apparato deduttivo che porta al
risultato, strumento indispensabile per riottenere le formule per chi non ha memoria, spesso
non viene messo in evidenza.
Non so quanti studenti, dopo avere incontrato il Teorema di Pitagora incontrano poi altri
Teoremi, forse devono attendere l'Analisi coi Teoremi di Rolle, Lagrange e forse L’Hôpital
(su alcuni testi chiamato regola). Ho intervistato un giovane studente di superiori che non ha
ancora visto l'Analisi chiedendo di nominarmi un Teorema, la sua risposta: “Pitagora”, vale
a dire il Teorema per antonomasia, poi, scavando un poco sono apparsi i risultati sui triangoli
visti in Geometria. La loro permanenza nella memoria è sicuramente inferiore anche perché
non hanno un nome specifico che ne aiuti il ricordo. Questa intervista mi ha dato da pensare:
credo che sia un atteggiamento abbastanza diffuso, non specifico dello studente intervistato.
Forse l'uso di nomi, anche di "fantasia" per i risultati che vengono via via provati, potrebbe
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
essere un sussidio didattico per facilitare l'individuazione e l'applicazione succesiva dei
teoremi.
Il tipo di presentazione riduttiva che preferisce principi, regole, formule e quant'altro,
continua anche nei corsi universitari di Matematica, cosiddetti di servizio. Una disabitudine
così prolungata rischia di portare docenti e allievi a ritenere i teoremi e le loro dimostrazioni
come qualcosa al di fuori della portata degli studenti stessi. Quando l’insegnante è costretto
o sceglie di utilizzare un Teorema, spesso col nome di un insigne studioso, il suo pubblico lo
guarda con un certo imbarazzo sentendo estraneo l’argomento usato e non comprendendone
le motivazioni.
Dovevano sentirsi così gli antichi spettatori di commedie e tragedie quando in presenza di
un groviglio inestricabile di situazioni, salutavano con soddisfazione l’intervento risolutore
del dio, calato sul palcoscenico da artifici scenici, la machina.
Questo è un ruolo mitologico che il Teorema svolge ancora oggi e i teoremi, come gli dei
antichi, vengono così collocati, nell'immaginario degli allievi, in un mondo inaccessibile e
forse anche "irreale".
Il fatto poi che la comunicazione tra docente e studente si svolga sul piano verbale più che
su quello fattuale, aumenta, se possibile, questi aspetti mitologici. La parola mito deriva da
un'analoga parola greca che in Omero significa "parola" o "discorso" e secondo certi esegeti
avrebbe originariamente indicato la parola nel senso antico, coincidente con l'essere. Solo in
età classica, mito ha assunto il significato di racconto attorno a dei, esseri divini, eroi discesi
nell'aldilà. Nell'ambito filosofico mito assume il significato di discorso che non richiede o
non prevede dimostrazione, contrapposto a logos, nel senso di argomentazione razionale, cfr.
Vattimo, 1986.
Se questo è il “contratto” che si instaura tra disciplina e studente, l’insegnante dovrebbe
avere le stesse doti di affabulatore che avevano gli antichi bardi e non so quanti insegnanti
siano "attrezzati" per svolgere questa funzione.
Una riprova di questa dimensione mitologica si ha quando un docente “affascina” l'uditorio in incontri di orientamento per la scelta dell'Università, trattando di idee e non di risultati espliciti e dimostrati in modo rigoroso. Nell'animo degli studenti è dunque presente
un'aspettativa classificabile nella barocca teoria degli affetti come "meraviglia". E' basandosi
su tale aspettativa che a volte si invogliano gli studenti ad iscriversi ad un corso di laurea. La
stessa "meraviglia" è usata talora dai divulgatori di risultati e discipline scientifiche.
Ma c'è anche una magia dei Teoremi, se per magia si intendono gli atteggiamenti mentali e
le pratiche rituali tendenti a dominare e a controllare la realtà quando ciò non è possibile farlo
concretamente, o nei confronti di "potenze" non note, cfr. Vattimo, 1986. Il giovane vede
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
l'insegnante destreggiarsi tra le difficoltà di risoluzione di problemi, muovendosi con
disinvoltura e attingendo da insospettati "cassetti" della sua scrivania mentale, risultati vari e
apparentemente non correlati tra loro per comporli poi in una trattazione che intuisce
organica, anche se non giunge immediatamente ad apprezzarla. Di fronte a ciò lo studente
prova nei confronti del docente una sorta di rispetto o timore analoghi a quelli possono
provare "clienti" di fattucchiere e maghi. E non per nulla si parla di formula magica.
Sia che i Teoremi vengano visti nella dimensione mitologica, sia che ottengano timore e
rispetto come riti magici, il risultato è lo stesso: lo studente non può imporre a queste entità
al di fuori di se stesso alcun controllo. I teoremi si accettano, ma non si costruiscono e
tantomeno si dimostrano.
Anzi in certi casi si rifiutano o si rimuovono. Sì, perché i Teoremi possono essere visti
come una sorta di imposizione autoritaria che non tiene conto di attese o aspettative del
giovane, cfr. Hanna, 1997. Anzi è raro, ma talora avviene, vedere che anche se un Teorema ha
provato che una certa relazione tra enti matematici non può sussistere, lo stesso si fanno
prove e verifiche per determinare improbabili controesempi. E' per questo che ci sono tuttora
alcuni che dimostrano il postulato delle parallele a partire dagli altri assiomi euclidei, altri
prediligono la quadratura del cerchio con riga e compasso, e così via.
In questa ottica il docente è il braccio della autorità che impone i propri standard ai giovani. Ne conseguono manifestazioni di insofferenza reciproca e, come si diceva sopra, di
rifiuto sul piano dei contenuti, rifiuto che può anche estendersi sul piano personale. In
questo caso i teoremi vengono appresi a memoria, destino che spesso hanno anche le dimostrazioni che li accompagnano.
La macchietta del professore (o meglio della professoressa) di Matematica come un non
più giovane, occhialuto e arcigno giudice delle prestazioni, risente di questi aspetti, ed è assai
diffusa nell'immaginario collettivo.
Vediamo quando e come sono nati i Teoremi. Si diceva prima del Teorema di Pitagora
(570 - 490 a.C.). Forse ancora più antico potrebbe essere il Teorema di Talete (VII-VI sec.
a.C.). Non è però sicuro che possa essere così: ci sono papiri egiziani, che riportano esempi
di applicazione del Teorema di Pitagora, non visto come Teorema, ma come proprietà di
alcune figure. Lo sviluppo storico della matematica greca è bene narrata dal cosiddetto
Riassunto o Elenco dei geometri, che si trova nel Commento al I libro degli Elementi di
Euclide di Proclo (410 - 485). Qui se ne riportano brani, nella traduzione di Frajese, 1963:
“ Poiché conviene considerare gli inizi delle arti e delle scienze nel periodo attuale, diciamo che molti
narrano che la geometria sia stata trovata dapprima dagli Egiziani, prendendo origine dalla misura dei terreni.
Era infatti necessario ciò, a causa della piena del Nilo, che cancellava i confini spettanti a ciascuno. E non vi
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
è da meravigliarsi se dalla necessità (pratica) sorse l'invenzione di questa scienza e delle altre, poiché tutto ciò
che “diviene” procede dall'imperfetto verso il perfetto: è verosimile dunque che il passaggio sia avvenuto
dalla sensazione al ragionamento, e da questo all'intelligenza (pura). Dunque, come presso i Fenici per il
commercio e le relazioni di affari ebbe principio l'esatta conoscenza dei numeri, così presso gli Egiziani
sorse la geometria per la causa suddetta”.
Segue una elencazione di nomi, alcuni ancora "famosi" oggi, anche a studenti di scuola
superiore, altri meno noti ed altri ancora noti solo a specialisti di storia, e di cui purtroppo
non sono rimaste opere. Riprendendo Proclo,
“Talete, per primo, essendo andato in Egitto, portò in Grecia questa scienza (la geometria), ed egli stesso
trovò molte cose, e di molte indicò i princìpi a coloro che vennero dopo di lui, di alcune cose trattando in
modo più generale, di altre in modo più sensibile”.
In queste parole è indicato un modo di procedere nell'ambito geometrico: trovare, non
inventare, ma (se la traduzione è corretta) da Proclo, filosofo neoplatonico sarebbe ben
strano ritenere che la Matematica si costruisca 1. Da notare il fatto che alcuni risultati di
Geometria vengano proposti in forma generale, altri in forma sensibile, vale a dire alcuni "dimostrati", altri "ostensi". Segue un elenco, in ordine quasi cronologico di nomi:
“Mamerco, [...] ricordato per il suo amore per la geometria e Ippia di Elide [che] si procurò fama in
questa Scienza. Dopo di loro Pitagora trasformò questo studio in una forma di insegnamento liberale, investigando dall'alto i suoi principi, e indagando i teoremi astrattamente e intellettualmente: egli scoprì il
fatto degli irrazionali e la costruzione delle figure cosmiche. […] Anassagora di Clazomene si occupò di
molte questioni di geometria, [...] Enopide di Chio, […] dei quali Platone fece menzione […] come di
persone aventi (buona) fama in queste scienze. Dopo di lui Ippocrate di Chio, che scoprì la quadratura della
lunula, e Teodoro di Cirene divennero celebri nella geometria. Ed anzi Ippocrate [...] fu il primo che scrisse
gli Elementi. Platone, venuto dopo di costoro, fece prendere il massimo incremento alle altre scienze
(matematiche) ed alla geometria, il (suo) grande amore verso di esse: ciò è manifesto poiché riempì i suoi
scritti di considerazioni matematiche e dovunque destò ammirazione per questa scienza in coloro che studiano
filosofia. In questo tempo vissero Leodamante di Taso, Archita di Taranto e Teeteto di Atene, dai quali
furono accresciuti i teoremi e fatti progredire verso un insieme più scientifico. Neoclide, più giovane di
Leodamante, e il suo allievo Leone, aggiunsero molte nozioni a quelle (possedute prima di loro: così Leone
compose Elementi migliori per quantità e necessità delle cose dimostrate e trovò i diorismi, cioè quando il
problema in questione è possibile e quando è impossibile. Eudosso di Cnido, […] per primo aumentò il
numero dei teoremi detti generali e alle tre proporzioni ne aggiunse altre tre: fece inoltre progredire gli studi
sulla sezione […]. Poi Amicla di Eraclea […] e Menecmo e […] Dinostrato, ancora perfezionarono l'insieme
della geometria. Teudia di Magnesia […] compose anche buoni Elementi; rese inoltre più generali alcune
1 Ma d'allora non molto è cambiato: in una intervista a M. Emmer, E. De Giorgi affermava che i teoremi si
scoprono, le dimostrazioni si inventano!
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
cose (particolari). Così pure Ateneo di Cizico, […] divenne celebre per la Matematica in generale e
specialmente nella geometria. […] Ermotimo di Colofone […] trovò molte cose degli Elementi, e scrisse
intorno ai luoghi. Filippo di Mende […] fece ricerche […].”
Questo lungo brano, una sorta di bibliografia ragionata sull'argomento, presenta, oltre
all'interesse storico, una possibile risposta al quesito posto sulla nascita dei teoremi e delle
dimostrazioni. E' strana l'esclusione di Democrito che avrebbe scritto un testo sugli Elementi,
circa un secolo prima di Euclide (cfr. Enriques, 1987). Forse il primo teorema degno di tal
nome è quello di Pitagora. Nell'elenco di Proclo, almeno nella traduzione di Frajese, è assai
interessante il passo relativo a Pitagora che per primo si pose il problema dell'insegnamento
ed è forse a tale esigenza che si deve il tentativo di rendere accessibile anche ad altri la
comprensione delle proprietà geometriche mediante la dimostrazione. Ad esempio Platone
nell'Eutidemo dice
“Nessun'arte cacciatrice va oltre il cacciare e il prendere, e dopo che i cacciatori e i pescatori hanno preso
ciò che hanno cacciato (o pescato), non possono servirsene, ma lo consegnano ai cuochi. Così i geometri,
gli astronomi e i calcolatori sono anch'essi cacciatori: non creano essi le figure, ma trovano quelle esistenti.
E poiché non sanno servirsene, ma soltanto scovarle, le consegnano ai dialettici perché si servano di ciò che
essi han trovato: almeno quelli tra loro che non son del tutto privi di senno.”
cfr. Frajese, 1963.
Come visto prima si deve alla cultura greca la "invenzione" dei Teoremi e il Riassunto di
Proclo fa ben comprendere come tale nozione si sia evoluta nel tempo, e nell'ambito di
applicabilità, evoluzione che continua, si può dire, fino ad oggi. Nei Dialoghi di Platone si
trovano esempi di complessi ragionamenti, sia in ambito puramente logico che in contesti
aritmetici o geometrici. Se tali tipi di argomentazione sono lo specchio di ciò che veniva
provato dagli studiosi citati da Proclo, si può dire che la parola Teorema e quella collegata
Dimostrazione vanno intesi in modi diversi da quelli intesi oggi.
Nel Menone di Platone si presenta la costruzione di un quadrato di area doppia di quello
dato. Nel Carmide si ha un esempio di ragionamento per assurdo basato su una relazione
d'ordine, nel Teeteto la presenza delle radici quadrate e cubiche, nell'Ippia maggiore il
risultato della somma di due numeri irrazionali.
La forma più matura di queste argomentazioni si trova negli Elementi di Euclide. Lo stile
espositivo di questo famoso testo, a lungo ritenuto un capolavoro di rigore, ha condizionato
la presentazione dei risultati della Matematica.
Ma anche in questo caso forse è bene distogliere un attimo l'attenzione dai risultati matematici per cercarne le fonti. Sulle "origini" matematiche è assai esplicito Proclo, pur dimenticando Democrito, attribuendo alcuni risultati contenuti negli Elementi di Euclide a
Ermotimo di Colofone, senza con questo sminuire l'importanza di Euclide, sia pure come
sistematore di una gran mole di materiale in un corpus organico.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Si può confrontare la presentazione dell'opera di Euclide con gli Analitici secondi di Aristotele (cfr. Beth, 1959).
Secondo Clairaut l'adozione dello stile aristotelico è dovuto all'esigenza di Euclide di
convincere sofisti ostinati che si facevano una gloria di rifiutare le verità più evidenti, cfr.
Enriques, 1987. Val la pena di ricordare che Aristotele nacque nel 384 e morì nel 322 a.C.,
mentre Euclide fu attivo in Alessandria d'Egitto attorno al 300 a.C.; ciò mostra come lo
strumento prescelto da Euclide fosse, per i tempi, assai aggiornato sulle ultime "novità"
filosofiche.
L'opera di Euclide ci è pervenuta in gran parte attraverso la redazione di Teone di Alessandria, padre della matematica Ipazia (morta nel 415 d.C.), ed anche da altri manoscritti
quali un Codice Vaticano che secondo alcuni esegeti fa riferimento ad una fonte anteriore
alla redazione di Teone, cfr. Enriques, 1923.
E' sicuramente assai interessante osservare come negli Elementi si approdi ad un'importante sintesi tra aspetti di ascendenza platonica e aristotelica. In Euclide si può riscontrare
quello che Enriques, 1987, chiama un “ingenuo realismo” di ascendenza platonica, da cui
discende una manchevolezza nella teoria della definizione, soprattutto nelle celate pretese
ontologiche che sono presupposte nel significato dei termini. D'altra parte l'impianto, si
ribadisce, è quello di Aristotele, dato che
“Anzitutto è da dire il soggetto e lo scopo di questo studio: il soggetto è la dimostrazione e lo scopo è la
scienza dimostrativa” (Aristotele, Analitici primi, citato in Enriques, 1987).
In questo Euclide è un precursore, visto che la fusione esplicita di Accademia e Liceo
avverrà solo molto più tardi nell'opera dei neoplatonici: Ammonio Sacca (prima metà del III
sec. d.C.) e soprattutto Plotino (205 - 270).
La sintesi euclidea è ancora oggi operante. Molti matematici sono realisti in senso platonico, ma la presentazione dei loro risultati di natura deduttiva si conforma alla impostazione
aristotelica, facendo convivere così due tesi filosofiche che al tempo della loro formulazione
parevano inconciliabili.
Ma come per Pitagora anche per Aristotele l'aspetto didattico è essenziale. Questa
conclusione può essere confermata da un passo degli Analitici secondi in cui Aristotele
afferma:
“Ogni conoscenza razionale, sia insegnata, sia acquistata, deriva sempre da conoscenze anteriori.” cfr.
Enriques, 1987.
Tale interpretazione rafforza l'ipotesi che lo strumento dimostrativo sia un habitus prescelto per scopi di comunicazioni dai dialettici, sia ciò uno strumento didattico.
A ben guardare sotto alla presentazione degli Analitici secondi è nascosta quella che
potrebbe essere la vera ragione dell'opera di Aristotele: il bisogno di "evitare" l'infinito,
tenendo conto che l'accettazione dell'infinito stesso è causa di paradossi, da Zenone in poi. I
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
termini primitivi (come gli assiomi) sono posti per evitare un regresso all'infinito che toglierebbe valore conoscitivo alla scienza; altrimenti per comprendere ciò di cui si parla si
deve interpretare correttamente tutto ciò che serve per giungere alla sua definizione
(dimostrazione), ma è impossibile in via di principio perché si dovrebbe avere una conoscenza infinita, mentre il compito delle definizioni e dei teoremi, in tale visione, è quella di servire
come strumento per articolare una conoscenza già posseduta, per porre ordine ad una realtà
che per altre strade è nota. E' per questo che l'impianto dimostrativo e quello definitorio
vengono ad essere fondati su una "realtà" esterna alla teoria, quali il buon senso o l'evidenza.
In tal modo la costruzione assiomatica porta in sé una componente esperienziale. Questo
ricorso all'empiria ha notevoli connotati didattici, e viene tuttora utilizzato nelle aule
scolastiche.
Spesso persino nella formulazione dei teoremi si cerca di nascondere l'infinito: ad
esempio il Teorema di Pitagora si trova su molti testi espresso come “In un triangolo rettangolo…” invece che “In ogni triangolo rettangolo…”. Sembra forse una forma solo diversa nell'apparato linguistico, ma bisogna chiedersi se lo studente della scuola media interpreta “In un… ” come in uno generico invece che in uno specifico, visto che poi il testo
mostra spesso un solo triangolo rettangolo. Alcuni manuali presentano (forse per motivi di
semplicità tipografica) un solo triangolo rettangolo isoscele! E' chiaro che di fronte
all'affermazione che una certa proprietà vale in ogni triangolo, ben presto ci si rende conto
che non è possibile una verifica dei singoli casi. Lo stesso avviene per relazioni aritmetiche
che andrebbero provate per infiniti esempi numerici. Credo che questo ruolo dei teoremi
andrebbe messo in ampio risalto didattico.
D'altra parte anche le definizioni svolgono in questo contesto un ruolo ben preciso.
Tralasciando il problema se le definizioni siano motivate quid rei o quid nominis, cfr. Borga
e Palladino, 1997, esse vengono "costruite" dal basso partendo dai termini primitivi e se dal
punto di vista logico sono non creative ed eliminabili, dal punto di vista epistemologico son
creative e ineliminabili.
Non è però vero che tutte le dimostrazioni "nascondano" l'infinito. In certi casi sarebbe
possibile una dimostrazione ottenuta come verifica su un numero finito di casi. Ma quando
tale numero è elevato (si pensi al teorema dei quattro colori) la ricerca di una dimostrazione
che esprima in termini finiti, oppure dominabili intellettivamente, piuttosto che la verifica,
viene preferita. Per meglio chiarire si consideri il gruppo D5 delle isometrie del piano che
lasciano fisso un pentagono regolare, con la composizione di isometrie, e si voglia provare
che comunque presi x,y,z,t elementi di tale gruppo, si ha (x°y)°(z°t) = (x°(y°z))°t. Il gruppo
D5 ha 10 elementi; è quindi possibile provare l'asserto verificando 104 eguaglianze, oppure
dimostrandola sfruttando la proprietà associativa dell'operazione che è "parte integrante"
della definizione di gruppo.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Sotto questa luce andrebbe chiarito che la presentazione occasionale di risultati matematici
sotto il nome di teoremi, non inseriti però in un tutto organico, cambia sostanzialmente il
ruolo dei teoremi stessi e delle relative dimostrazioni ed è proprio l'occasionalità che rende
difficile accettare momenti di "rigore" inseriti in contesti per altro lasciati all'intuizione ed
all'ostensione. Inoltre venendo spesso a mancare definizioni precise non risulta ben chiaro di
quali oggetti e relazioni si stia parlando. D'altra parte sono le definizioni stesse che hanno
bisogno di un ambito sintattico e teorico.
Mi rendo conto che una presentazione dei risultati matematici che servono ad un giovane
(sulla base dei programmi scolastici) non può svolgersi solo in ambito di una impostazione
ipotetico - deduttiva, ma spesso si avvale di procedimenti semantici che forniscono talvolta
l'occasione di "abbreviare" mediante l'evidenza i passaggi. Ma questo deve fare riflettere che
il ruolo didattico dei risultati dimostrati non è quello di fissare alcuni capisaldi conoscitivi,
ma quello di presentare esempi di un processo sintattico che, per forza di cose, non chiarisce
appieno i suoi punti di partenza. Si può parlare di teoremi locali in un duplice significato,
anche se forse è più corretto attribuire loro il significato di argomentazioni. I teoremi
presentati sono locali, perché non inseriti in modo coerente ed organico all'interno di una
teoria deduttiva. Si parla però di teoremi locali anche per indicare momenti e fasi sintattiche
nell'apprendimento. In ogni caso non è sempre ben chiaro il ruolo dei processi semantici e di
quelli sintattici, visto che non c'è nella tradizione scolastica italiana attenzione a questi due
ambiti. Il processo deduttivo è tipico anche delle argomentazioni, una volta chiariti gli
strumenti inferenziali utilizzati. Alcuni di questi aspetti sono trattati in Marchini, 1987.
Costruire definizioni, dimostrare teoremi, spiegare le dimostrazioni e fare apprendere come
dimostrare teoremi e in base a quali criteri dare delle definizioni, sono problemi diversi che
hanno tempi e modi differenti. Credo comunque che il primo passo sia quello di fare
comprendere l'esigenza di definizioni e dimostrazioni. Si potrebbe dire che questa esigenza è
la natura stessa della Matematica. Solo con un'azione didattica di questo tipo si possono
togliere i teoremi dall'ambito magico o mitologico e le definizioni dalla "pignoleria"
matematica, per farli divenire una attività tipicamente umana. Se non si chiarisce questo
rapporto tra la conoscenza e il discente ci sono poche speranze che si instauri un vero
apprendimento. L'ipotesi che invogliando gli studenti a "creare" prima congetture e poi
teoremi sia una strada per fare apprendere questa modalità è ancora sotto il vaglio della
sperimentazione, anche se i risultati paiono incoraggianti, ma richiede forse una nuova e più
ampia definizione di dimostrazione. Infatti i protocolli mostrati da Garuti (cfr. Garuti, 1998)
nella sessione del Seminario nazionale di ricerca in didattica della Matematica tenutasi a Pisa
nel dicembre 1998, difficilmente sarebbero accettati da quelli che Griffiths, 1998 chiama
TPM (Theorem-proving Mathematicians) come effettive dimostrazioni: alla congettura
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
(suggerita) che intende analizzare se due bastoni possono avere ombre parallele, uno
studente dopo averla elaborata, giunge alla seguente "dimostrazione"
“Se il sole vede il bastone diritto e quello inclinato paralleli è come se ci fosse un altro bastone
verticale alla base del bastone inclinato. Se questo bastone è davanti al bastone inclinato la sua
ombra copre quella del bastone inclinato. Queste ombre sono sulla stessa linea, quindi le ombre del
bastone inclinato e di quello verticale sono parallele”
Credo che a partire da questi risultati che mostrano la presenza di un ragionamento spaziale anche evoluto, resti comunque strada da fare per giungere agli standard dimostrativi dei
TPM e non è detto che il cammino venga facilitato, dato che è abbastanza invalsa l'abitudine
degli studenti ad accontentarsi di esiti anche se solo parzialmente positivi.
Non so se l'ambito geometrico che per altro ha una lunga tradizione, sia il migliore e se
non basti quello aritmetico, una volta precisata una teoria dei numeri (naturali o razionali),
comprensiva delle definizioni, in cui muoversi. Un piccolo (e ben noto, ma non a chi lo
prova) risultato provato in modo originale da uno studente sicuramente è più motivante
dell'apprendimento a memoria di un risultato più famoso. La comprensione dell'importanza
di una costruzione che avviene con la proposta di una definizione, e l'analisi se la definizione
proposta è adeguata al concetto da definire, è un momento importante di crescita intellettuale.
Le "ovvie" proprietà dell'eguaglianza fornirebbero ampio spazio per dimostrazioni di
semplici risultati. E se le tecniche non sono "perfette" egualmente la cosa è importante sul
versante della soddisfazione personale.
In questo senso si favorisce l'apprendimento della Matematica come processo. Più spesso
nelle aule scolastiche si privilegia la Matematica come strumento e mancando spesso
l'applicazione immediata, può venire a mancare la comprensione delle ragioni di certe scelte;
non basta infatti la "garanzia" del docente che prima o poi si applicheranno le cose da lui
esposte. In un certo senso si opera così un'espropriazione del contenuto della matematica,
evitando la precisazione delle definizioni, l'enunciazione dei teoremi e soprattutto le loro
dimostrazioni. Come dice Fischbein 1998, l'evidenza (eventualmente acquisita con
l'esperienza matematica) spinge ad accettare senza una dimostrazione certe affermazioni sulla
base dell'intuizione. Ma vi sono forti ragioni per non trascurare la parte dimostrativa anche in
quelle situazioni intuitivamente evidenti: il fatto che in matematica ogni proprietà, ogni
affermazione deve essere assunta o come assioma o come proprietà dimostrata dato che la
Matematica è un sistema formale e che l'evidenza non è utilizzabile come giustificazione
matematica.
La Matematica classica ha privilegiato l'approccio ipotetico-deduttivo, desunto e modellato
sull'opera di Euclide, privilegiando quindi l'aspetto razionale. Tale presentazione si basa
sull'evidenza, come fonte ultima di validazione delle scelte di termini primitivi, assiomi e
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
postulati, come nei Postulati IV e V della Scienza deduttiva di Aristotele. In un certo senso
tale scelta è basata sulla esperienza e l'opportunità. Tuttavia è presente nelle teorie ipoteticodeduttive un costante richiamo al contenuto, senza porre mai il problema della esistenza degli
enti di cui si parla. Raramente poi il problema dell'esistenza si pone in ambito scolastico
come se valesse un postulato sottaciuto che esiste tutto ciò di cui si parla in classe, sulla base
forse del fatto che l'insegnante non "imbrogli".
La presentazione di Hilbert della Geometria muta completamente il punto di vista. Per il
matematico tedesco il problema dell'esistenza degli enti è centrale; egli lo risolve rinviandolo
alla coerenza del sistema. Il problema dell'esistenza non è presente nei manuali scolastici che
sembrano poco interessati anche alla questione della coerenza.
L'esigenza della coerenza ha dato origine ad un chiarimento approfondito del significato
degli strumenti usati da sempre: teoremi e formule deducibili da altre, dimostrazioni,
deduzioni 1, definizioni. La necessità di precisare questi aspetti ha portato alla nozione di
linguaggio formale che ha recuperato diverse problematiche del logicismo secondo Frege; è
nata così la Logica matematica, (Borga e Palladino, 1997), almeno nella sua accezione
moderna.
Hilbert propone uno studio della coerenza interno alla teoria stessa, senza riferimenti alla
"realtà" o ai "modelli"; così facendo trasforma i teoremi da strumenti logici in oggetti
matematici da studiare essi stessi ancora con strumenti matematici. Il ricorso all'esperienza
quindi può perdere di significato dato che il criterio di evidenza perde la sua efficacia. Se si
privilegia la coerenza la scelta delle definizioni non può più essere basata sulla comprensione
immediata, ma deve essere giustificata su altre basi.
In queste considerazioni, però, si parla di teoremi dal punto di vista del matematico interessato alla loro scoperta o costruzione. Nella ricerca didattica i teoremi hanno avuto alterne
"fortune". Oggi si riconosce loro importanza formativa e si pongono problemi relativi alle
modalità di insegnamento-apprendimento del sapere teorico che essi sottintendono. I teoremi
sono tuttavia un argomento complesso da giustificare e ancor più le loro dimostrazioni sono
difficili da comunicare e da fare apprendere. Questa constatazione, pur nella sua banalità, può
essere una controprova dell'inesistenza di una logica della mente, come afferma JohnsonLaird, 1980; ma forse può essere una riprova che il processo dimostrativo elaborato nei
secoli non è perfettamente adeguato a quello mentale, oppure è solo frutto di convenzione
socialmente condivisa. Certamente se il procedere matematico fosse l'esplicitazione della
1 L'uso dei termini teorema e dimostrazione, invece che formula deducibile e deduzione nasconde un fatto
importante: le conoscenze ottenute con un teorema e la sua dimostrazione sembrano dipendere meno da ipotesi di
quanto non avvenga con una deduzione di una formula deducibile da premesse che svolgono appunto il ruolo delle
ipotesi. Si comunica in questo modo che la Matematica fornisce un sapere certo, invece che una conoscenza
ipotetica. Duemila e più anni di storia, cioè da Euclide in poi, sono difficili da scalzare, anche se ormai sono note
sia le Geometrie non euclidee, sia le incompletezze dei sistemi assiomatici (sufficientemente potenti).
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
logica mentale, l'apprendimento ne sarebbe facilitato. Invece lo studente si trova nella fase di
apprendimento in una situazione di conflitto tra la "realtà" e la "astrazione". Tale conflitto ha
una lunga storia potendolo far risalire a Parmenide ed alla corrente razionalista del pensiero
occidentale. E' però importante osservare che questa esigenza di razionalità non è una
esclusiva della cultura originatasi dalla matrice greca. Anche altre culture hanno elaborato
indipendentemente l'attenzione verso i procedimenti razionali. E' nota, ad esempio, una
"dimostrazione" cinese del Teorema di Pitagora e nella cultura indiana è stata elaborata una
complessa e raffinata teoria del sillogismo, nya–ya (I sec. d.C.), a riprova di un'esigenza
dell'intero genere umano e quindi in parte contrastando la tesi di Johnson-Laird, 1980.
Per i teoremi e le dimostrazioni vale una sorta di Tesi di Church: ciò che può essere
"provato" argomentando in vario modo (l'analogo della computabilità) deve avere una
dimostrazione (l'analogo di una derivazione ricorsiva).
Le idee di Hilbert sono entrate poco o nulla nella scuola odierna e il problema della coerenza, messo al centro della ricerca da parte dello studioso tedesco, non ha oggi adeguato
risalto didattico. Anzi si è avuta una sorta rifiuto di considerare i Teoremi come strumenti per
apprendere, ma solo oggetti conoscitivi. Motivo di ciò può essere il grande numero di
risultati che sono stati dimostrati partendo dall'antichità greca, cioè dai Teoremi di Talete e di
Pitagora in poi. Di fronte a tanta ricchezza di risultati non è facile, soprattutto per
l'"apprendista" muoversi con facilità.
Questa è una caratteristica tipica della Matematica: la ricchezza di risultati non serve per
"scartare" teorie "vecchie" in favore di risultati "nuovi", ma "vecchio" e "nuovo" convivono.
Ciò avviene sia in ambiti di ricerca avanzata, sia in ricerche di carattere fondazionale.
Verrebbe da dire che la conoscenza matematica procede in due direzioni, rispetto al punto di
vista dell'osservatore: avanti e indietro (dipende ovviamente da che parte si guardano i
processi di crescita). Se era relativamente semplice per gli antichi greci avere uno sguardo
d'assieme della Matematica, oggi è di fatto impossibile. A riprova di ciò ci sono le numerose
voci (e pagine) in cui vengono recensiti gli articoli di Matematica sui volumi più recenti di
Mathematical Reviews. Muoversi in questo "albero" ramificato e radicato non è semplice
oggi, né per uno studente, né per un ricercatore.
Le scelte fatte dai programmi scolastici sono indicazione di percorsi motivati per le valenze
formative o applicative degli argomenti, ma un giovane preparato oggi spazia su un numero
di argomenti, forse meno approfonditi, ma incomparabilmente maggiore rispetto a quelli noti
ai matematici greci.
D'altra parte anche nella recente epistemologia il ruolo di teoremi e definizioni ed i loro
rapporti con la conoscenza sono assai modificati. La presenza di risultati che per loro natura
richiedono dimostrazioni così lunghe da non poter essere gestite se non con l'uso di
calcolatori, ha portato problemi su diversi aspetti introducendo anche una variabile di "costi"
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
della dimostrazione, sicuramente assente nella Matematica greca, cfr. Hanna 1997 e la
bibliografia ivi citata. Vopenka, 1979 afferma che il potere di convincere di un teorema
decresce all'aumentare della lunghezza della sua dimostrazione.
La sessione del seminario nazionale di ricerca in didattica della Matematica tenutasi a Pisa
nei giorni 3 - 5 dicembre 1998 ha affrontato la problematica dell'insegnamento-apprendimento dei teoremi. In tale sessione hanno presentato lavori Boero e Bartolini Bussi e
loro collaboratori (cfr. Bartolini Bussi e Boero 1998, Garuti, 1998, Bartolini Bussi et al.,
1998, Parenti et al., 1998) trattando per lo più esempi geometrici che fanno riferimento a
esperienze svolte nella scuola dell'obbligo. Sono stati mostrati anche esempi in campo aritmetico con studenti di vari segmenti scolastici, fino all'università.
Punti caratteristici della ricerca proposta sono l'importanza assegnata alla dimostrazione e
la sua valorizzazione nell'ambito dell'insegnamento e questo è un aspetto qualificante, dato
che in Mammana e Villani 1998, vengono presentate, relativamente alla Geometria, posizioni
diverse ed anche variamente differenziate, cfr. ad esempio Griffiths 1998.
Altro punto di forza della proposta di Boero e Bussi è che nello studio dei teoremi è importante la mediazione dell'insegnante. Non si può pretendere cioè che questo tipo di presentazione delle conoscenze evolva naturalmente. Si tratta quindi di un apprendimento che ha
connotati culturali innegabili, ed altrettante innegabili difficoltà. Resta il problema di come
fare a motivare gli studenti; la proposta è quella di procedere dai problemi alle congetture e di
qui ai teoremi. Interessante la proposta presentata a Pisa da Garuti di individuare lo snodo
dalla produzione di una congettura e la costruzione (tentata) di una sua dimostrazione, snodo
chiamato col nome di unità cognitiva. Si tratta cioè di verificare la presenza di continuità o
discontinuità nel passaggio tra congettura ed argomentazione per renderla convincente, alla
dimostrazione. Viene inoltre prestata attenzione alla forma della consegna. Si avanza l'ipotesi
che una presentazione procedurale piuttosto che relazionale, dovrebbe facilitare l'innesco
della ricerca della dimostrazione. Come esempio di consegna di questi tipi di consegne, viene
presentato lo stesso quesito nella forma
Un numero e il suo successivo non hanno divisori comuni eccetto 1 (enunciato relazionale)
Se tu aggiungi 1 a un numero, tutti i suoi divisori cambiano, eccetto 1 (enunciato procedurale).
Altra tesi ritenuta importante da Bussi e Boero è che la forma della congettura rende facile
la riflessione produttiva se viene messa in luce la struttura condizionale della frase, mediante
il connettivo se…, allora. Ma andrebbe approfondita l'influenza della forma retorica e le sue
interazioni con la "logica mentale", sulla base anche di quanto affermato in Johnson-Laird,
1980.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Un breve commento a queste posizioni. Mi sembra che negli esempi mostrati l'insegnante
non è solo un mediatore della conoscenza, ma anche colui che fornisce o indirizza fortemente
alla proposizione di congetture con la consegna. Forse questo dipende dal materiale esibito.
In esso il gioco dell'insegnante diviene scoperto, anche se forse è inevitabile che sia così. Nel
contratto didattico stabilito in classe gli studenti sanno che anche se la forma linguistica
proposta è "aperta", in realtà sotto si nasconde un unico e ben preciso risultato che
l'insegnante stesso vuole sia raggiunto. Avendo esperienza con le classi forse ci si convince
che questa è l'unica via didatticamente efficace. Viene però a mancare una fase esplorativa
personale, dettata dalla curiosità, che porti alla produzione spontanea di congetture. In questo
forse ha buon gioco la fase induttiva che pare avere una rilevanza anche tra studenti della
scuola dell'obbligo come procedimento che facilita la generalizzazione.
Anche su questo tema mi pare ci sia da prestare attenzione ad un fatto secondo me sottovalutato, la rilevanza personale o storica del risultato. Mi spiego con un esempio. Nell'ambito scientifico, quello dei TPM, una delle caratteristiche richieste per la pubblicazione di
un articolo contenente un teorema è che esso sia "nuovo" cioè non presente nella letteratura
scientifica o che sia una "nuova" dimostrazione di un risultato già noto. Ma non credo che
verrà mai pubblicato un articolo che rechi il risultato della divisione tra duemilasettecentodiciassette e duecentonove, pur essendo quasi certo che questo risultato ( o un altro
analogo) manchi nella letteratura, e neppure verrà pubblicato il risultato della divisione fra gli
stessi numeri scritti usando le cifre arabiche e la scrittura posizionale. Ciò perché tali teoremi
aritmetici mancano di rilevanza, cioè una caratteristica che non è facile chiarire, ma è lasciata
al consenso sociale dei TPM, in base alla quale certi risultati sono rilevanti ed altri no.
Il grado di rilevanza cambia con l'età personale e storica. Ad esempio per uno scolaro
elementare oggi può essere indispensabile conoscere il risultato della divisione tra 2717 e
209 e questo per due motivi: uno pratico che è quello di rispondere ad un quesito di un problema, l'altro per mettere alla prova il procedimento standard per il calcolo della divisione,
quando il divisore ha tre cifre, una delle quali è 0. Il risultato della divisione tra
MMDCCXVII e CCIX, meglio ancora il procedimento per ottenerlo, avrebbe potuto essere
di grande rilevanza nell'anno 1000 dato che la tecnica di divisione non era ben consolidata e
forse anche oggi avrebbe un qualche interesse storico.
Nella produzione di congetture c'è quindi una fase preliminare che consiste nello scartare a
priori le "banalità" cioè quei risultati che non soddisfano il criterio di rilevanza, perché basati
su processi o algoritmi ben consolidati. Ma, come mostrato sopra e come si può riscontrare
dai libri universitari, il livello di banalità è variabile anche a livello personale e, per la stessa
persona, nel tempo.
Un altro aspetto che mi sembra significativo della ricerca presentata a Pisa ed anche dei
contributi di Mammana e Villani 1998, è la non chiara distinzione tra i livelli morfologico,
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
sintattico e semantico. Vedere il teorema (e la congettura) come un enunciato vero (in un
contesto spesso non ben precisato) non mette in evidenza il ruolo della dimostrazione basata
su regole corrette come l'individuazione delle ragioni della verità, come detto in Harel e
Sowder, 1998 o come detto da Lakatos, 1985, la retro-trasmissione della falsità. D'altra parte
i fondamentali risultati di Gödel e di Tarski degli anni '30 del secolo XX mettono in luce che
la confusione tra verità e dimostrabilità è da evitare, viste le polemiche sorte all'inizio del
secolo sui criteri di esistenza degli enti ed anche per il significato generale che la
dimostrazione permette di raggiungere.
Un punto delicato che si aggancia a quanto detto prima è la differenza tra ruoli e funzioni
del connettivo di implicazione, della relazione di deducibilità e dell'operatore di conseguenza
logica che non possono essere confusi dall'insegnante, se non rischiando di compromettere
la comprensione dell'allievo.
Si viene così a mettere in evidenza uno dei ruoli proposti da Duval, 1998, cfr. anche
Hershkowitz 1998, quello del ragionamento visto come strumento di esplorazione, dato che
quanto provato con il ragionamento, un teorema suggerito da caso particolare (un modello)
lo si può estendere a tutti i modelli, anche a quelli più impensati.
Alle altre funzioni che Duval riconosce al ragionamento, cioè quello di provare e di
spiegare, bisogna aggiungere una funzione di risparmio concettuale.
Non so se questo tipo di osservazione si incontra anche nella scuola dell'obbligo con la
stessa frequenza che capita di rilevare all'Università. Quando vengono assegnati esercizi che
richiedono di applicare teoremi già provati, alcuni studenti che non padroneggiano bene
l'argomento, cercano di risolvere quello che per loro è un problema mettendo in atto strategie
che li portano ad argomentazioni assai lunghe o a calcoli complessi, laddove l'applicazione
dei teoremi richiesti condurrebbe alla conclusione con pochi passaggi e con eleganza. In altri
casi gli allievi non si rendono conto che la dimostrazione di un certo risultato offre loro uno
strumento applicabile e quindi non è necessario inventare un nuovo algoritmo per la
risoluzione di un'ampia classe di problemi. In questo senso il ragionamento su aspetti
generali offre uno strumento di economia di pensiero che quando viene compreso dagli
studenti, viene anche da essi largamente apprezzato.
Ad esempio nella scuola media, in connessione col Teorema di Pitagora si potrebbe
svolgere un'attività preliminare di misurazioni effettive e di calcolo di lunghezze dei lati ed
aree dei quadrati per preparare il terreno alla scoperta che questi aspetti sperimentali vengono
tutti assorbiti dal risultato e mettendo così in luce che la dimostrazione evita il calcolo
effettivo. Probabilmente questo tipo di attività sarebbe più indicata con altri risultati, ad
esempio il Teorema di Talete, per restare alla Geometria.
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C. Marchini - Appunti per la Didattica della Logica Matematica
Ritengo di avere così dimostrato che il problema della natura della Matematica entra
pesantemente nell'insegnamento, per esempio, attraverso il problema delle definizioni e dei
teoremi. I docenti della nostra materia hanno l'obbligo di rendersi conto che trasferiscono
assieme ai concetti anche le loro idee filosofiche: «la posizione epistemologica degli insegnanti (ne
siano più o meno coscienti) interviene, quasi spontaneamente, nella pratica dell'insegnamento» 1. Ciò
traspare da come svolgono la lezione, da quali esercizi scelgono, dall'importanza che
attribuiscono ad una parte piuttosto che ad un'altra. Gli studenti assorbono senza sapere
questi aspetti e così si tramanda una non chiarita idea sulla natura della Matematica, frutto di
un tacito contratto epistemologico. Ma non tutti gli allievi accettano a livello inconsapevole
quanto viene loro implicitamente proposto. Nascono così delle incomprensioni e delle difficoltà che possono essere causate dalla mancata condivisione di specifici concetti oppure di
tutto il quadro generale. I laureati in Matematica che si dedicano all'insegnamento, negli anni
di studio universitari dovrebbero iniziare riflessioni di sapore epistemologico che contribuiscono all'impostazione di una corretta programmazione didattica. Un docente conscio
di quanto è nascosto anche negli aspetti più semplici della nostra materia, è in grado di proporre lo stesso argomento da angolazioni diverse, per trovare quelle più idonee all'apprendimento, inoltre può offrire un quadro interpretativo assai discosto dal dogmatismo e dal
"calcolismo" imperanti.
Ma tale curriculum universitario si realizza assai raramente: attualmente la riflessione su
temi di epistemologia della Matematica trova poco spazio, se non nullo, nella preparazione
del laureato in Matematica; non c'è dunque da stupirsi che i rischi ed i difetti di questo
sistema si scoprano ogni giorno nelle aule universitarie ed in quelle in cui si celebrano i riti
dell'esame di maturità. Le scuole di specializzazione, che dovrebbero essere deputate a questo
tipo di riflessioni, per motivi di varia natura, quali sovrapposizione di concorsi vari, lavoro
nella scuola, ecc. rischiano di non contribuire sufficientemente a questo tipo di riflessioni.
Il motivo sostanziale è che per accostarsi a tale analisi è necessaria una salda cultura matematica, un'approfondita conoscenza dei metodi e dei linguaggi della Logica Matematica,
coniugati ad una riflessione sui Fondamenti, non disgiunti da un'attitudine filosofica. Detti
argomenti trovano poco spazio nei corsi universitari ed anche nelle successive
specializzazioni. Ma la causa più importante è che la società scientifica italiana non ha forse
capito fino in fondo l'urgenza di un mutamento di prospettiva, anche se non mancano
accorati appelli contro l'eccessiva specializzazione su ristretti temi di ricerca.
Concludo augurandomi che il mio intervento possa fare qualcosa per smuovere, almeno
nella scuola secondaria, uno stato di stagnazione. La situazione attuale è forse la causa
principale di un paradosso che si vive in questi giorni: nei corsi di laurea scientifici vi è un
1 Tratto da Sitia, 1983.
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crescente fabbisogno di strumenti matematici nelle applicazioni e nei piani di studio per
conseguire le lauree scientifiche si assiste ad una costante contrazione delle ore dedicate alla
nostra materia, perché mal intesa.
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