Svolgimento del processo - Scuola di Formazione Ipsoa

INDICE
(a cura di ANTONIO ALBANESE)
1) COMUNIONE LEGALE, FONDO PATRIMONIALE E IMPRESA FAMILIARE:
L'AMMINISTRAZIONE DEI BENI
2) LA TUTELA DEI FAMILIARI ATTRAVERSO L'AZIONE DI ARRICCHIMENTO
3)
RASSEGNA
GIURISPRUDENZIALE
IN
MATERIA
DI
CONVENZIONI
MATRIMONIALI (IN GENERALE: ARTT. 159-166 bis) E DI RESPONSBILITÀ DELLA
COMUNIONE LEGALE (ARTT. 186 SS.)
4) LA TRASCRIZIONE DELLE CONVENZIONI MATRIMONIALI
5) AUTONOMIA PRIVATA NEL DIRITTO DI FAMIGLIA E PREDISPOSIZIONE
SUCCESSORIA
6) LA GIURISPRUDENZA RECENTE IN MATERIA DI FAMIGLIA DI FATTO
7) SENTENZE RECENTI IN MATERIA DI COMUNIONE LEGALE
8) COMUNIONE LEGALE E SUCCESSIONE DEL CONIUGE
1
COMUNIONE LEGALE, FONDO PATRIMONIALE E IMPRESA
FAMILIARE: L'AMMINISTRAZIONE DEI BENI
di Antonio Albanese
(Estratto dalla monografia Gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione
nel diritto privato, Utet, Torino, 2007).
SOMMARIO: 1. Ordinarietà e straordinarietà nell’amministrazione della comunione legale. – 2. La sorte degli atti di
straordinaria amministrazione compiuti senza il consenso dell’altro coniuge. La posizione dei terzi contraenti. – 3.
Amministrazione delegata ad uno dei coniugi ed amministrazione esclusiva di uno dei coniugi. – 4. Amministrazione
ordinaria e straordinaria nel fondo patrimoniale. – 5. La gestione straordinaria dell’impresa familiare.
BIBLIOGRAFIA: - Ricca 1973 - A. e M. Finocchiaro 1975 – Costi 1976 - Detti 1976 – De Paola e Macrì 1978 - Cendon
1979 - A. e M. Finocchiaro 1979 - Corsi 1979 - Colussi 1981 - Panuccio 1981 - Grasso 1982 - Cian e Casarotto 1982 Gabrielli 1982 - Cattaneo 1983 - De Martini 1983 - Majello 1988 - Natucci 1988 - Tanzi 1988 - Carresi 1988 - Cartoni
Moscatelli 1989 - Giusti 1989 - Jannuzzi 1990 - Oberto 1991 - Bruscuglia 1992 - Oppo 1992 – Colussi 1992 - Balestra
1996 – Panico 1997 – Mazzacane 1997 - Oberto 2003 – Albanese 2004 - Albanese 2005 - Demarchi 2005 – Bianca
2005 – Sesta 2005 - Gazzoni 2006.
34. Ordinarietà e straordinarietà nell’amministrazione della comunione legale.
LEGISLAZIONE: c.c. 144, 179, 180, 181, 184, 320, 179.
Un’esigenza primaria della Riforma del diritto di famiglia del 1975 era assicurare la
partecipazione paritaria dei coniugi all’amministrazione dei beni comuni. Questa esigenza andava
però contemperata con quella di non creare eccessivi intralci all’attività di godimento e di uso dei
beni ricadenti nella comunione.
Il contemperamento è ottenuto attraverso la distinzione tra amministrazione ordinaria e
amministrazione straordinaria. Il primo comma dell’art. 180 c.c., al fine di snellire lo svolgimento
delle operazioni più ricorrenti nella quotidianità, stabilisce che l’amministrazione dei beni della
comunione e la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa relativi spettano disgiuntamente ad
entrambi i coniugi.
Il secondo comma norma cit., per converso, in sintonia con una concezione egualitaria del
rapporto di coppia, garantisce il controllo reciproco dei coniugi, a garanzia di una gestione più
oculata, per gli atti di maggior rilievo. Il compimento degli atti eccedenti l’ordinaria
amministrazione, nonché la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti
personali di godimento e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni, spettano
congiuntamente ad entrambi i coniugi.
Riservare ogni potere decisorio in materia a una persona sola – ad esempio al marito, come aveva fatto il
legislatore francese del 1804 – significa predisporre le migliori condizioni per un’agile circolazione dei
diritti, proprio perché il terzo non dovrà preoccuparsi di accertare se anche il coniuge di colui con cui egli
stipula è d’accordo: il contratto, comunque, resta valido e produce senz’altro i suoi effetti. Domandando la
partecipazione di ambedue gli sposi, viene invece realizzata e assicurata, sul piano dinamico dell’attività
negoziale, l’ispirazione paritaria che è stata propria di una coppia al momento in cui essa ha optato,
tacitamente o espressamente, per il regime della comunione: c’è però il rischio che la necessità di ottenere un
duplice consenso, rendendo alquanto più complessa l’operazione, distolga il terzo addirittura
dall’intraprenderla, o che l’indugio si prolunghi quanto basta a far sfumare un affare conveniente (...). In
ipotesi, l’equilibrio fra i contrapposti motivi di cui s’è detto mostra ormai di realizzarsi, negli ordinamenti
moderni, ammettendo che ciascuno dei coniugi possa concludere efficacemente da solo tutti gli atti di minore
importanza, mentre è richiesto il consenso di entrambi per le iniziative destinate a incidere più
profondamente sul patrimonio della famiglia.
(Cendon 1979, 62).
Imponendo la previa valutazione di entrambi i coniugi sull’opportunità dell’atto di
straordinaria amministrazione, e la loro convergenza sulla soluzione positiva, l’art. 180 c.c. detta
una regola inderogabile, che fa dubitare della possibilità di ammettere il conferimento di procure
generali da un coniuge all’altro o dai coniugi ai terzi, ferma restando la legittimità di una procura
speciale per singoli atti. La dottrina maggioritaria ritiene però ammissibile ogni sorta di procura tra
coniugi, sia essa generale o speciale, con esclusione di quella irrevocabile, mentre più dubbia è la
questione della conferibilità a soggetti diversi dal coniuge:
Non pare invece possibile il conferimento di procura generale a terzi, in quanto provocherebbe una
spoliazione del potere di amministrazione a vantaggio di un terzo con cui l’altro coniuge si troverebbe ad
amministrare. Questa opinione non è condivisa da una parte della dottrina, la quale ammette anche il
conferimento di procura generale a terzi, sul rilievo che le norme sulla comunione legale riguardanti
l’amministrazione non prevedono limitazioni, che, d’altro canto, non possono desumersi dai principi
generali, giusta i quali l’indelegabilità è prevista esclusivamente per i diritti di natura personalissima.
(Sesta 2005, 204).
Per desumere quale atto sia “normale” con riferimento ai beni della comunione legale, non è
possibile ricorrere alle conclusioni elaborate con riguardo alla comunione ordinaria. A differenza di
quest’ultima, che ha per scopo precipuo la manutenzione e il godimento della cosa comune, qui
l’amministrazione dei beni comprende anche gli atti di disposizione. La comunione legale, poi,
riguarda un insieme di beni «in evoluzione», suscettibili di accrescimento e di sostituzione:
l’alienazione del bene comune, che nella comunione ordinaria significa estinzione della comunione,
nella comunione legale comporta la sua continuazione, in attesa che vi entrino altri beni che per
legge saranno comuni, e soggetti a quelle regole. Si parla, in proposito, di dinamismo contrapposto
allo staticismo (Detti 1976, 1221).
Sul piano degli scopi, infine, l’interesse familiare impedisce di accomunare la comunione
legale tra coniugi alla mera contitolarità di diritti sui beni.
D’altro canto, il fine dell’amministrazione nella comunione legale non è neanche un fine
produttivistico, sicché non può soccorrere il criterio vigente per le società.
Su queste basi, si è affermato che il criterio distintivo andrebbe dedotto dalla disciplina
dell’amministrazione dei beni dei figli minori da parte dei genitori esercenti la potestà; e se n’è
trovata una conferma nel fatto che anche l’art. 320 c.c., proprio come l’art. 180 c.c., esclude
dall’amministrazione ordinaria i contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di
godimento (Majello 1988, § 4.2; Detti 1976, 1221).
Ovviamente, vanno tenute in debito conto le differenze disciplinari: il criterio
dell’ordinarietà o straordinarietà dell’atto è qui l’unico da considerare, e solo al fine di capire se
l’atto rientri nell’autonomia patrimoniale di uno solo dei coniugi. Ma se così è, o se l’atto è stato
compiuto congiuntamente da entrambi i coniugi, nessuna valutazione ulteriore può trovare spazio in
ordine alla loro facoltà di azione. Essi hanno pieni poteri di amministrazione su di un patrimonio
rispetto al quale non sono terzi, ma pieni titolari a tutti gli effetti; sicché non si pone, per loro, il
limite della necessità o dell’utilità evidente dell’atto, imposto dalla legge agli amministratori dei
beni degli incapaci.
Una valutazione della necessarietà dell’atto, che, nella specie, coincide con la necessità della
famiglia, potrebbe semmai essere rimessa ad un terzo, ossia al giudice, soltanto quando un coniuge
lamenti che l’altro ha compiuto un atto di straordinaria amministrazione senza il suo consenso. Ma
la valutazione del giudice, in questo caso, non verte tanto sulla necessità (né tanto meno sull’utilità),
quanto sulla normalità dell’atto; giacché se il coniuge convenuto con l’azione di annullamento
dimostra che l’atto non eccedeva i confini di una normale gestione, il giudice dovrà confermarne
efficacia e validità nonostante il mancato preventivo consenso del coniuge impugnante. In altre
parole, tocca ai coniugi, e non al giudice, stabilire se l’atto è vantaggioso per la famiglia; al giudice
compete solo valutare se si trattava di un caso di obbligatoria amministrazione congiuntiva.
In applicazione della disciplina dei minori, e degli incapaci legali in genere, gli atti di
ordinaria amministrazione della comunione legale sarebbero quelli diretti alla conservazione, alla
normale utilizzazione e al miglioramento della cosa comune: si va quindi dalle riparazioni alla
riscossione dei frutti naturali e civili, agli atti di assicurazione, sino al pagamento dei debiti inerenti
la gestione.
Sarebbero atti di straordinaria amministrazione, per converso, quelli che presentano pericoli
per la sostanza e la consistenza del patrimonio, quelli idonei a mutare la struttura e la destinazione
dei beni: pertanto, gli atti dispositivi in genere, «le riparazioni straordinarie di una certa importanza,
la locazione, il comodato» (Detti 1976, 1222, considera senz’altro la locazione atto di straordinaria
amministrazione, indipendentemente dalla sua durata).
Pertanto, dopo aver rilevato le distinzioni intercorrenti tra comunione ordinaria e legale, la
dottrina ne deduce che il criterio distintivo non può essere il medesimo, e risolve il problema del
regime coniugale adottando i criteri formulati per gli incapaci; ma non si avvede, così facendo, che
si tratta esattamente della stessa soluzione tradizionalmente applicata alla gestione dei beni in
comunione ordinaria. È una soluzione, peraltro, che continua ad assimilare due fenomeni in realtà
contrapposti, non tenendo conto della dinamicità della gestione nel caso de quo. (Su questo aspetto
insiste Giusti 1989, 82 s.).
Affermare poi che «la straordinarietà della natura dell’atto di amministrazione è da valutarsi
in relazione alla sua rilevanza obiettiva» (Detti 1976, 1222), non fa che confermare che il discrimen
tra ordinarietà e straordinarietà dell’atto sta nella sua normalità, nella importanza delle sue
conseguenze economiche, ma nulla aggiunge verso la soluzione dei casi concreti.
Una cosa è dire che le norme di legge, tra le quali spiccano quelle sugli incapaci, fissano la
categoria dell’ordinaria amministrazione tout court e sanciscono, una volta per tutte, quali atti
sconfinano da questa categoria; altra è applicare il criterio della normalità a casi determinati facendo
rinvio ai risultati che questo criterio ha elaborato in merito al patrimonio degli incapaci. Se si
applica il criterio della normalità, non ha senso il collegamento tra situazioni diverse, perché la
riuscita dell’operazione, sta proprio nella ricerca particolare di ciò che è normale in relazione allo
scopo della norma implicata e, aggiungo, alle qualità dei soggetti e del patrimonio interessati.
Nella specie, occorre quindi comprendere cosa sia normale per il soddisfacimento delle
esigenze della famiglia: lo sono, innanzitutto, gli atti diretti alla manutenzione del patrimonio e alle
usuali necessità familiari.
Ma poiché ogni famiglia è diversa dall’altra, sia per tenore di vita sia per capacità reddituali,
si dovrà avere riguardo anche al singolo patrimonio di cui essa può disporre, perché ciò che è una
spesa eccezionale per una famiglia media può rientrare nella quotidianità di una famiglia più agiata;
ciò che altera in maniera significativa la consistenza del primo patrimonio, può lasciare
sostanzialmente immutata quella del secondo; l’atto, compiuto da uno solo dei coniugi, che incide
sulle condizioni di vita di un nucleo familiare, può risultare privo di incidente significato per un
altro, o addirittura fare parte di quella “normalità” di cui è riflesso la quotidianità o ripetitività
dell’azione.
Come si fa, dunque, a parlare di “normali esigenze” se poi queste sono identificate in astratto
e aprioristicamente in base ad un criterio oggettivo, finendo, così, per essere identiche per tutti i
consociati? È davvero questo che la legge ha voluto quando ha rinviato l’interprete ad un criterio
elastico, quello dell’amministrazione straordinaria?
Quanto, poi, alla previsione, accanto agli atti di straordinaria amministrazione, dei contratti
relativi ai diritti personali di godimento, ciò non significa affatto che detti atti rientrino, sempre e
comunque, in quella categoria. La norma ha solo il più limitato fine di imporre anche per queste
operazioni il sistema di amministrazione congiuntiva, ma non le qualifica. Anche sul piano letterale,
basti riflettere sulla dizione di cui all’art. 180, comma 2°, c.c. (atti di straordinaria amministrazione
«nonché» la stipula di detti contratti) e su quella usata dall’art. 181 c.c. (che inerisce al rifiuto del
consenso per un atto di amministrazione straordinaria «o per gli altri atti per cui il consenso è
richiesto»).
Se nell’art. 180, 2° comma, c.c. sono compresi unitariamente atti di straordinaria
amministrazione e contratti che non necessariamente esulano da una normale gestione, significa che
la necessità del consenso congiunto non trova giustificazione nell’eccezionalità (o straordinarietà)
dell’atto, ma nel fatto che queste operazioni economiche concretano scelte decisionali che
influiscono sull’indirizzo della famiglia ex art. 144 c.c. (così Jannuzzi 1990, 536).
Quanto alla sorte di questi atti, mi pare si debba distinguere. Per i contratti con i quali si
acquistano diritti personali di godimento, è testualmente previsto il sistema di amministrazione
congiuntiva; pertanto essi rimangono validi anche se compiuti disgiuntamente, con l’unica
conseguenza che le relative obbligazioni graveranno solamente a carico del coniuge che ha
partecipato al contratto. Diversamente, sono inefficaci i contratti, stipulati separatamente da un solo
coniuge, con i quali si concedono diritti personali di godimento, giacché questi coinvolgono
necessariamente il bene comune e non possono quindi prescindere dal consenso anche dell’altro
coniuge.
Il consenso congiunto dei coniugi è certamente necessario per accettare le donazioni o le
eredità provenienti da un terzo, quando nell’atto di liberalità o nel testamento è specificato che i
beni sono attribuiti alla comunione, ex art. 179, lett. b).
La comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza da quella ordinaria, è una comunione
senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di
essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei.
Ne consegue che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre
della propria quota, può tuttavia disporre dell'intero bene comune, ponendosi il consenso dell'altro
coniuge come un «negozio unilaterale autorizzativo» che rimuove un limite all'esercizio del potere
dispositivo sul bene e che rappresenta un requisito di regolarità del procedimento di formazione
dell'atto di disposizione, la cui mancanza (ove si tratti di bene immobile o di bene mobile registrato)
si traduce in un vizio da far valere nei termini fissati dall'art. 184 c.c. (Cass. 14.1.1997, n. 284, FD,
1997, 285: nella specie, un soggetto, prima dell'entrata in vigore della l. n. 151 del 1975, aveva
promesso in vendita un appartamento che non era ancora entrato nella sua proprietà. Verificatosi
l'acquisto della proprietà alcuni anni dopo, quando era ormai in vigore il nuovo regime patrimoniale
tra i coniugi, il promissario acquirente aveva convenuto in giudizio il solo promittente per ottenere,
ex art. 2932 c.c., l'esecuzione in forma specifica del contratto. Il giudice del merito, in secondo
grado, dichiarava trasferita al promissario acquirente soltanto la metà della proprietà dell'immobile,
ossia quella spettante al promittente, e non anche l'altra metà spettante al suo coniuge non
consenziente al trasferimento. La S.C., in applicazione dell'enunciato principio, ha dichiarato la
nullità delle sentenze di entrambi i gradi ed ha rinviato la causa al primo giudice, rilevando che era
stata omessa l'integrazione del contraddittorio nei confronti del coniuge del promittente venditore,
la cui posizione era inevitabilmente coinvolta in una controversia che doveva avere ad oggetto
l'immobile nel suo intero, stante l'inconcepibilità dell'ingresso di estranei nella comunione e la
conseguente impossibilità di trasferimento della sola quota del coniuge promittente).
Più recentemente, la Cassazione ha escluso che il consenso dell'altro coniuge possa essere
configurato quale negozio unilaterale autorizzativo, ma lo ha fatto, in realtà, al fine di evidenziare
che esso non è un atto attributivo di un potere, quanto piuttosto un atto che rimuove un limite
all'esercizio di un potere; sicché la soluzione non diverge nella sostanza da quella enunciata supra.
(Da tale premessa, Cass. 24.11.2000, n. 15177, FD, 2001, 211 e 385, con nota di Frascaroli Santi,
ha fatto conseguire che l'atto di disposizione del bene in comunione, posto in essere da uno solo dei
coniugi, esplica i suoi effetti anche in relazione alla "quota" di comunione spettante al coniuge che
sia eventualmente fallito, successivamente al compimento del menzionato atto, senza avere
proposto l'azione d'annullamento prevista dal comma 2 art. 184 c.c.; con l'ulteriore conseguenza che
è ammissibile l'azione revocatoria fallimentare, quale unico rimedio esperibile dalla curatela per
ottenere la declaratoria d'inefficacia dell'atto in relazione alla quota di bene spettante al fallito.
All'ammissibilità di tale azione non osta, infatti, la circostanza che il coniuge fallito non abbia
partecipato all'atto, in quanto egli, non avendo proposto la menzionata azione d'annullamento, ha
assunto, attraverso l'implicita convalida, la posizione di contraente occulto in relazione alla propria
quota).
È stato considerato atto di straordinaria amministrazione ai sensi dell'art. 180, comma 2°,
c.c., il contratto preliminare di vendita di bene immobile, osservando che esso
si pone quale momento originario di una sequenza obbligatoria e successiva il cui esito necessitato è il
trasferimento della proprietà del bene.
(Cass. 21.12.2001, n. 16177, FD, 2002, 191, RN, 2002, 980, con nota di Vocatura, SI, 2002, 525 e V NOT,
2002, 335).
Ne deriva che se il preliminare è stato stipulato da un coniuge senza la partecipazione o il
consenso dell'altro, è soggetto alla disciplina dell'art. 184, comma 1°, c.c. e non è pertanto
inefficace nei confronti della comunione, ma solamente esposto all'azione di annullamento da parte
del coniuge non consenziente, nel breve termine prescrizionale visto supra, decorrente dalla
conoscenza effettiva dell'atto, ovvero, in via sussidiaria, dalla trascrizione o dallo scioglimento della
comunione.
Nella soluzione del caso si innesta evidentemente la più ampia questione, risolta
positivamente nella sentenza citata, se oggetto della comunione legale siano anche gli atti
obbligatori. Per la Corte, l’applicazione dell’art. 184 c.c.
non va restrittivamente intesa come limitata agli atti dispositivi con effetto reale e non anche a quelli con
effetto meramente obbligatorio, non trovando tale interpretazione fondamento alla stregua né della lettera né
dell'interpretazione sistematica della norma.
Tra gli atti, riguardanti beni immobili ed eccedenti l'ordinaria amministrazione, annullabili
ex art. 184 c.c. se compiuti da un coniuge senza il consenso dell'altro, rientra certamente l'atto
comportante definitiva rinuncia alla possibilità di fare entrare nella comunione coniugale la
proprietà di un immobile per il quale era stata invocata l'usucapione, a nulla rilevando che si
trattasse di una situazione soltanto in fieri prodromica all'acquisto di un diritto reale su detto
immobile (Cass. 3.11.2000, n. 14347, GI, 2001, 1848, con nota di Piscitelli ).
Rientrerebbe nella amministrazione ordinaria, invece, il recesso dal contratto di comodato a
tempo indeterminato avente ad oggetto un bene immobile facente parte della comunione. Pertanto il
recesso, che può essere esercitato a nutum qualora sopravvenga un imprevisto ed urgente bisogno a
carico della parte comodante, non deve essere necessariamente esercitato in modo congiunto dai
coniugi (presumendosi, tra l’altro, una conforme volontà di entrambi i comodanti. (Pret. Pisa,
9.6.1999, D FAM, 2001, 628, con nota di Pulidori. Tuttavia, si è anche aggiunto che se la volontà di
comodare fu espressa unitariamente dai coniugi, anche il recesso deve corrispondere ad una volontà
unitaria: se manchi una volontà unitaria di recedere, l'atto di recesso di un solo coniuge è
insufficiente ad estinguere il rapporto di comodato).
Stessa soluzione vale per il recesso dal contratto di locazione, che può essere esercitato
anche da uno solo dei coniugi comproprietari dell'immobile locato. L'altro coniuge, tuttavia, riveste
la qualità di litisconsorte necessario nel giudizio di rilascio ed è l'unico legittimato a far valere
l'eventuale difetto di integrità del contraddittorio con intervento in causa o proponendo opposizione
di terzo (Cass. 17.8.1990, n. 8379, NGCC, 1991, I, 299).
Parimenti, non è atto di straordinaria amministrazione l'atto con il quale chi richiede il
contributo per la ristrutturazione di un immobile, si impegna a destinare l'immobile stesso ad uso
esclusivo di ricettività alberghiera per almeno otto anni. Pertanto, ai fini dell'ammissibilità della
domanda non occorre l'assenso dell’altro coniuge (T.A.R. Friuli V.G. 16.2.1999, n. 80, T.A.R.,
1999, I, 1369).
Gli atti di cui si è parlato sin qui, attengono, come ovvio, a beni in comunione legale. Se
invece uno dei coniugi compie un atto di straordinaria amministrazione che non riguarda i beni
comuni, questo atto è valido ed efficace anche se manca il consenso dell'altro coniuge. La
conseguenza si riflette però sul piano della responsabilità, giacché il coniuge agente risponde
ugualmente con i beni della comunione in via sussidiaria (nei limiti della quota su ciascun bene)
(Cfr., per un caso in cui l’atto compiuto, ritenuto dai giudici di straordinaria amministrazione, era la
prestazione di una fideiussione, Cass. 10.5.1991, n. 5244, NGCC, 1992, I, 678, con nota di Putti).
IN SINTESI – Il compimento degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, nonché la
stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento e la
rappresentanza in giudizio per le relative azioni, spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi.
Per desumere quale atto sia “normale” con riferimento ai beni della comunione legale, non
è possibile ricorrere alle conclusioni elaborate con riguardo alla comunione ordinaria, che è
caratterizzata da un’amministrazione di tipo statico, nè può soccorrere il criterio vigente per le
società, la cui gestione ha alla base un fine produttivistico. Secondo l’opinione comune, quindi, il
criterio distintivo andrebbe dedotto dalla disciplina dell’amministrazione dei beni dei figli minori
da parte dei genitori esercenti la potestà. In applicazione della disciplina dei minori, e degli
incapaci legali in genere, gli atti di ordinaria amministrazione della comunione legale sarebbero
quelli diretti alla conservazione, alla normale utilizzazione e al miglioramento della cosa comune;
sarebbero atti di straordinaria amministrazione, per converso, quelli che presentano pericoli per la
sostanza e la consistenza del patrimonio, e quelli idonei a mutare la struttura e la destinazione dei
beni.
2. La sorte degli atti di straordinaria amministrazione compiuti senza il consenso dell’altro
coniuge. La posizione dei terzi contraenti.
LEGISLAZIONE: c.c. 184, 189, 322, 377, 396, 1442, 1445 - Cost. 3, 24, 29, 42.
Quel che interessa in questa sede sono le conseguenze che l’art. 184 c.c. riconnette al
compimento di un atto di amministrazione straordinaria non autorizzato: finché l'azione di
annullamento non venga proposta, l'atto è produttivo di effetti nei confronti dei terzi.
La fattispecie dell’amministrazione nella comunione legale, è sintomatica dell’interferenza,
sul reperimento di un criterio distintivo, della problematica inerente la tutela dei terzi. Della
distinzione tra i due tipi di amministrazione, infatti, e dunque dell’esercizio disgiunto o congiunto
dell’amministrazione, sono evidenti i riflessi esterni: la qualificazione dell’atto compiuto da un solo
coniuge in un senso o nell’altro, si riflette sulla validità e sull’efficacia dell’atto nei confronti
dell’altro contraente.
Rilevanza meramente interna ha però la distinzione con riferimento agli acquisti.
L’interpretazione
prevalente,
infatti,
nega
che
gli
acquisti
rientrino
nell’ambito
dell’amministrazione congiuntiva. La conclusione si basa sulla lettera del primo comma dell’art.
180 c.c., che parla di «beni della comunione».
Non sono oggetto di comunione i diritti di obbligazione e l'art. 184 (che prevede l'annullabilità, su iniziativa
del coniuge non consenziente, degli atti compiuti senza il suo necessario consenso) disciplina solo gli atti di
disposizione dei beni comuni.
(Cass. 10.5.1991, n. 5244, NGCC, 1992, I, 678, con nota di Putti, in motivazione).
Si esclude, pertanto, che gli acquisti siano annullabili: se compiuti durante il matrimonio,
entrano sempre in comunione, anche se fatti separatamente da uno dei coniugi. Se l’acquisto è di
straordinaria amministrazione, l’atto è comunque valido; unica conseguenza del mancato consenso
di entrambi, è che le obbligazioni derivanti dalla stipulazione non graveranno sul patrimonio
comune. Pertanto il consenso di entrambi i coniugi per gli acquisti di straordinaria amministrazione
rileva solo ai fini dell’imputazione della spesa a carico del patrimonio comune. (Il primo comma
dell’art. 189 c.c. stabilisce che i beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del
coniuge obbligato, rispondono, quando i creditori non possono soddisfarsi sui beni personali, delle
obbligazioni contratte, dopo il matrimonio, da uno dei coniugi per il compimento di atti eccedenti
l’ordinaria amministrazione senza il necessario consenso dell’altro).
Le conseguenze dell’atto di straordinaria amministrazione compiuto da un coniuge senza il
consenso dell’altro (e da questo non convalidati: si ritiene che la convalida non abbia bisogno di
forma scritta: Smiroldo 1989, 725) sono sancite dall’art. 184 c.c.: l’atto è annullabile se riguarda
beni immobili o beni mobili registrati. In tal caso, l’azione di annullamento può essere proposta dal
coniuge il cui consenso era necessario, entro un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell’atto
e in ogni caso entro un anno dalla data di trascrizione.
Dubbio è se il termine annuale sia di prescrizione o di decadenza. Nel primo senso si
pronuncia la giurisprudenza.
Il termine annuale previsto dall'art. 184 c.c. per l'esercizio dell'azione di annullamento degli atti compiuti dal
coniuge in regime di comunione legale senza il necessario consenso dell'altro è di prescrizione, e non di
decadenza, al pari del termine previsto dall'art. 1442 c.c. per la generale azione di annullamento dei contratti,
dal quale si distingue solo per la diversa durata; tale termine inizia dalla data in cui il coniuge che non ha
prestato il suo necessario consenso ha avuto conoscenza dell'atto o dalla data della eventuale trascrizione di
questo atto nei registri della conservatoria. L'eccezione di annullamento del contratto è proponibile anche
dopo il termine di prescrizione dell'azione di annullamento solo dalla parte convenuta per l'esecuzione del
contratto in forma chiara ed univoca (art. 1442 comma 4 c.c.) e non può essere utilmente opposta, quindi,
dopo che il contratto ha avuto esecuzione, al fine di resistere alla domanda di accertamento della sua
esistenza e della sua efficacia neppure se, trattandosi del contratto di compravendita di un immobile stipulato
con scrittura privata non autenticata, tale domanda sia strumentale a quella di trascrizione o di condanna alla
stipulazione del contratto riproduttivo in forma pubblica».
(Cass. 19.2.1996, n. 1279, GI, 1997, I, 1, 962).
Proposta, da uno dei coniugi - in via riconvenzionale - domanda di annullamento di un negozio traslativo
relativo a bene immobile (in regime di comunione legale) posto in essere dall'altro (conferimento, in società,
d'un appartamento), l'eccezione, formulata con il ricorso per cassazione, di sospensione del termine annuale
previsto per l'esperibilità di tale azione, sotto il profilo che la prescrizione rimane sospesa, tra coniugi, è,
oltreché inammissibile - perché fatta valere, per la prima volta, in sede di legittimità - infondata, atteso che
rispetto al principio generale contenuto nell'art. 2941 n. 1 c.c. la norma di cui all'art. 184, comma 2, stesso
codice, si pone come speciale e derogativa.
(Cass. 22.7.1987, n. 6369, GC, 1988, I, 135, e D FAM, 1988, 786).
Se l’atto non è stato trascritto, e quando il coniuge non ne ha avuto conoscenza prima dello
scioglimento della comunione, l’azione non può essere proposta oltre l’anno dallo scioglimento
stesso.
Se l’atto compiuto senza il necessario consenso, invece, riguarda beni mobili, il coniuge che
lo ha posto in essere è obbligato, su istanza dell’altro, a ricostruire la comunione nello stato in cui
era prima del compimento dell’atto. Se ciò non è possibile, è obbligato al pagamento
dell’equivalente secondo i valori correnti all’epoca della ricostruzione della comunione (art. 184,
comma 3°, c.c.).
L’art. 184 c.c. ha una portata generale, giacché riguarda tutti gli atti di amministrazione,
abbiano essi natura reale o obbligatoria. (Contra, Ricca 1973, 472, il quale esclude che l’art. 184
c.c. riguardi gli acquisti e l’assunzione di obbligazioni, e ritiene che la norma operi soltanto per gli
atti di alienazione di beni diversi dal denaro).
La previsione dell’azione di annullamento quale rimedio fornito al coniuge contrario all’atto,
è stata al centro di un ampio dibattito, non del tutto sopito, perché giudicata in contrasto sia con i
principi generali della relatività del contratto sia con lo spirito della riforma, che reclamerebbe una
maggiore tutela per il coniuge debole.
Infatti, il contratto non dovrebbe poter produrre alcun effetto nei confronti dell’altro coniuge,
che rispetto ad esso si pone come terzo. Il rimedio dell’annullamento, d’altronde, è solitamente
concesso a tutela di chi è stato parte del contratto, non invece rispetto a chi, come nella specie, non
dovrebbe subirne alcuna conseguenza, salvo quella derivante dall’acquisto a non domino di bene
mobile ad opera del terzo contraente di buona fede.
Né la concessione di un’azione di annullamento potrebbe trovare più razionale spiegazione
se si ritenesse che la comunione legale è, essa stessa, un soggetto di diritti: anche in questo caso
l’atto compiuto dal non legittimato non dovrebbe essere efficace nei confronti della comunione.
La soluzione legislativa più adeguata sarebbe stata, pertanto, l’inefficacia del contratto
concluso senza il necessario consenso dell’altro coniuge.
In verità se si ritiene che il terzo acquisti a non domino, la sanzione sarebbe dovuta essere l’inefficacia.
Sarebbe peraltro erroneo dire che l’annullabilità si avrebbe solo in caso di alienazione ad opera del coniuge
intestatario nei registri immobiliari, perché se l’intestazione è congiunta o a nome dell’altro coniuge vi
sarebbe inefficacia ex art. 1478: il regime della comunione, infatti, prescinde totalmente, anche sul piano
della pubblicità, dalle formalità dei registri immobiliari, che comunque non attengono alla titolarità.
Secono altra tesi i coniugi sarebbero solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto i beni della
comunione. Nei rapporti con i terzi ciascun coniuge avrebbe il potere di disporre dei beni, perché il consenso
dell’altro non lo costituisce, ma solo rimuove un limite al suo esercizio, essendo così requisito di regolarità
per la formazione dell’atto di alienazione, la cui mancanza si traduce in un vizio dell’atto stesso. Il terzo
acquisterebbe pertanto a domino, ma con titolo viziato e quindi annullabile, con conseguenze anche sul piano
processuale, per assenza di litisconsorzio necessario, attesa la solidarietà. In tal modo, però, sembra quasi che
i beni siano di proprietà della comunione, intesa come società civile e non commerciale, e, in analogia con
l’art. 2266, solo amministrati dai coniugi. Senonché il nostro ordinamento non conosce una titolarità solidale
di diritti, analoga a quella della proprietà collettiva romana. Essa non sarebbe nemmeno assimilabile alla
comunione a mani riunite di tipo germanico, la cui disciplina è comunque diversa da quella della comunione
legale, che non dà vita ad un patrimonio di destinazione o separazione, come si desume dagli artt. 186 d),
189.
(Gazzoni 2006, 378 s.).
Sulla base di analoghe argomentazioni, è stata anche prospettata la questione di legittimità
costituzionale del primo comma dell’art. 184 c.c. in riferimento agli art. 3, 24 comma 1, 29 comma
2, 42 comma 2 cost.:
caratteristica peculiare della comunione legale, così come configurata dalla legge, è quella di dar luogo, non
soltanto ad una speciale figura di contitolarità su beni e diritti, ma anche di essere un modo di acquisto di tale
contitolarità, e cioè sostanzialmente un modo di acquisto del bene stesso, sicché il coniuge, solo per tale sua
qualità, diviene automaticamente comproprietario del bene anche se questo è stato acquistato esclusivamente
dall'altro ed egli non ha partecipato all'acquisto. La scelta operata dal legislatore di sanzionare come
annullabilità (anziché come "nullità") l'atto compiuto da un coniuge senza il consenso dell'altro non appare
quindi coerente con il sistema comportando la violazione dell'art. 42 comma 2 cost., risultandone indebolito
il diritto di proprietà del coniuge sul bene comune a scapito della famiglia, con pregiudizio della funzione
sociale della proprietà; profilandosi altresì il contrasto con il principio di eguaglianza, (non sussistendo
ragioni giustificative della deroga al regime ordinario della comunione) e con l'art. 29 cost. restando incisa la
dignità del coniuge il cui consenso è stato pretermesso, che è sempre il coniuge più debole e neppure
apparendo giustificata la compressione di tutela rappresentata dalla configurazione dell'azione come
annullabilità anziché sancire la piena inefficacia dell'atto.
(Trib. Bari 14.1.1987, G COST, 1987, II, 2, 645).
Particolarmente pertinente sembra il richiamo al principio di eguaglianza, e quindi al
contrasto dell’art. 184 c.c. con l’art. 3 Cost.: chi partecipa alla comunione legale si trova in una
situazione di svantaggio, rispetto a chi prende parte ad una comunione ordinaria, che non trova
giustificazione né in esigenze di tutela del terzo contraente, né nella protezione dell’interesse
familiare. Il partecipante alla comunione legale vede distorta la tutela giudiziale dei propri diritti,
senza che l’incongrua tutela offertagli dall’art. 184 c.c. garantisca l’eguaglianza morale dei coniugi,
giacché essa
consente al coniuge più prepotente di compiere atti giuridici in dispregio dei diritti dell’altro coniuge,
indipendentemente dall’effettivo interesse della famiglia.
(Majello 1988, § 4.4.).
È un fatto che, innanzi alle incongruenze della soluzione normativa, non si è riusciti a fornire
soluzioni alternative che abbiano approdato ad un risultato condiviso. Non ha avuto successo, ad
esempio, l’autorevole ricostruzione (Corsi 1979, 144 ss.) secondo cui l’art. 184 c.c. si riferirebbe
esclusivamente ad una delle possibili ipotesi: quella che il coniuge che ha compiuto l’atto sia il
coniuge formalmente intestatario del bene. Si può obiettare che, così facendo, si attribuisce
all’intestazione un valore anche sostanziale che non trova riscontro nel dettato normativo
La Corte costituzionale ha respinto con decisione ogni sospetto di incostituzionalità della
norma, ribadendo che gli atti di alienazione dei beni, mobili o immobili, compiuti abusivamente da
un coniuge senza il necessario consenso dell’altro non sono inefficaci, e che essi sono annullabili se
riguardano beni immobili o beni mobili registrati:
ciò in quanto la norma non può considerarsi derogatoria alla regola di inefficacia dell'atto di disposizione
della cosa comune posto in essere da un comproprietario senza la partecipazione degli altri e pertanto non
viola il principio di eguaglianza né quello alla difesa e nemmeno mortifica il diritto di proprietà del coniuge
pretermesso o l'interesse della famiglia cui sono destinati i beni della comunione, ma anzi li protegge con la
sanzione di invalidità dell'alienazione stipulata da uno dei coniugi.
(Corte Cost., 17.3.1988, n. 311, GC, 1988, I, 1388, con nota di Natucci, V NOT, 1988, 640 e RN, 1988,
1306).
Successivamente, la Cassazione ha ribadito che tutti gli atti di disposizione di beni immobili
o beni mobili registrati appartenenti alla comunione coniugale, compiuti da uno solo dei coniugi
senza il necessario consenso dell'altro, ovverosia in violazione della regola dell'amministrazione
congiunta, sono validi ed efficaci e sottoposti alla sola sanzione dell'annullamento, in forza
dell'azione proponibile dal coniuge, il cui consenso era necessario, entro i limiti previsti dall'art. 184
c.c. (Cass. 2.2.1995, n. 1252, RN, 1999, 361, con nota di De Michel; Cass. 17.12.1994, n. 10872,
GCM, 1994, fasc. 12).
L’unica spiegazione possibile sembra quella di prendere atto, allora, che il legislatore ha
concepito la facoltà di disporre dei beni della comunione legale quale potere che inerisce per
l’intero a ciascun coniuge disgiuntamente, ma abbia ritenuto di limitare questo potere prescrivendo
il necessario consenso dell’altro coniuge. Ne consegue che l’atto non è efficace, perché il coniuge
agente, che ha esercitato un diritto che gli appartiene, non è guardato dalla legge alla stregua di un
qualunque “non legittimato”. L’atto è soltanto annullabile su iniziativa dell’altro coniuge, il quale fa
così valere in giudizio il suo diritto alla partecipazione alla vita familiare, violato dal
comportamento del partner.
Infatti, la Corte Suprema ha espressamente richiamato le motivazione della sent. n. 311 del
1988 della Consulta, ribadendo che
la comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza da quella ordinaria, è una comunione senza quote,
nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla
quale non è ammessa la partecipazione di estranei. Ne consegue che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge,
mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell'intero bene comune,
ponendosi il consenso dell'altro coniuge (richiesto dal comma 2 dell'art. 180 c.c. per gli atti di straordinaria
amministrazione) come un negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite all'esercizio del potere
dispositivo sul bene e che rappresenta un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell'atto di
disposizione, la cui mancanza (ove si tratti di bene immobile o di bene mobile registrato) si traduce in un
vizio da far valere nei termini fissati dall'art. 184 c.c.
(Cass. 14.1.1997, n. 284, FD, 1997, 285. Nella specie, un soggetto, prima dell'entrata in vigore della l. n. 151
del 1975, aveva promesso in vendita un appartamento che non era ancora entrato nella sua proprietà.
Verificatosi l'acquisto della proprietà alcuni anni dopo, quando era ormai in vigore il nuovo regime
patrimoniale tra i coniugi, il promissario acquirente aveva convenuto in giudizio il solo promittente per
ottenere, ex art. 2932 c.c., l'esecuzione in forma specifica del contratto. Il giudice del merito, in secondo
grado, dichiarava trasferita al promissario acquirente soltanto la metà della proprietà dell'immobile, ossia
quella spettante al promittente, e non anche l'altra metà spettante al suo coniuge non consenziente al
trasferimento. La S.C., in applicazione dell'enunciato principio, ha dichiarato la nullità delle sentenze di
entrambi i gradi ed ha rinviato la causa al primo giudice, rilevando che era stata omessa l'integrazione del
contraddittorio nei confronti del coniuge del promittente venditore, la cui posizione era inevitabilmente
coinvolta in una controversia che doveva avere ad oggetto l'immobile nel suo intero, stante l'inconcepibilità
dell'ingresso di estranei nella comunione e la conseguente impossibilità di trasferimento della sola quota del
coniuge promittente).
Sin qui si è detto della scarsa tutela che la norma offre al coniuge non consenziente, ed è su
questo punto che si appuntano, solitamente, le attenzioni degli studiosi. Ma che dire della posizione
dei terzi contraenti? Il terzo, se l’azione è esercitata nei termini, non ha possibilità di scampo,
giacché il suo acquisto cade anche se egli era in buona fede, non avendo il suo stato soggettivo, ai
fini dell’applicazione dell’art. 184 c.c., rilevanza alcuna.
Si può cogliere l’eccezione alla regola generale in materia di annullabilità: contrariamente a
quanto sancito dall’art. 1445 c.c., l’art. 184 c.c. non fa cenno alla tutela della buona fede dei terzi.
La stessa cosa accade, come visto a suo luogo, per le norme che sanciscono l’annullamento degli
atti compiuti senza autorizzazione in materia di incapacità legale (artt. 322, 377 e 396 c.c.). Nel
primo caso, la posizione dei terzi soccombe di fronte all’interesse della famiglia; nel secondo, è
l’interesse alla protezione dell’incapace a prevalere sulla tutela dei terzi.
Ma non è questa l’unica similitudine tra i due casi, incapacità e comunione legale, perché
l’analogia si spinge oltre: in entrambi si rinvia al criterio distintivo, di incidenza pratica decisiva, tra
amministrazione ordinaria e straordinaria; e, si badi anche, non è una distinzione, come spesso
accade, utilizzata dall’interprete per ragioni ricostruttive o sistematiche, ma si tratta di uno dei rari
casi nei quali alla distinzione è direttamente la legge a fare rinvio.
Anche in questo caso, valgono pertanto gli spunti ricostruttivi tentati nel corso del cap. I in
ordine alla presunzione di straordinarietà dell’atto.
Quanto alla previsione di cui al terzo comma della norma, relativa ai beni mobili (cfr.
Cendon 1979; Natucci 1988, 117), essa va interpretata nel senso che gli atti, seppure di straordinaria
amministrazione, compiuti senza il necessario consenso e aventi ad oggetto questi beni, sono a tutti
gli effetti validi ed efficaci, anche nei confronti dei terzi contraenti di mala fede, comportando
soltanto una regolamentazione interna tra i coniugi. (Di questo avviso è la dottrina prevalente: cfr.,
ex multis, Finocchiaro 1975, 565 ss.; Bruscuglia 1992, 309. Contra: Corsi 1979, 144 ss., secondo il
quale la norma trova attuazione soltanto nei casi in cui il bene è definitivamente acquistato dal terzo
per effetto della regola «possesso vale titolo» ex art. 1153 c.c.; Bianca 2005, 113).
Il coniuge che ha compiuto l’atto può essere obbligato dall’altro, con una domanda non
necessariamente giudiziale (l’art. 184, comma 3°, c.c. non parla di azione, ma di «istanza»; è
dubbio, invece, se la domanda debba avere forma scritta: per la tesi affermativa, Bianca 2005, 113,
il quale osserva che «tale domanda si configura come una costituzione in mora, e deve quindi avere
la forma scritta quale requisito formale necessario a conferirle il carattere di richiesta seria»;
diversamente, Bruscuglia 1992, 312), ad una reintegrazione in forma specifica, vale a dire a
recuperare i beni alienati; se ciò non è possibile, la reintegrazione avverrà per equivalente,
attraverso il pagamento di una somma di denaro attualizzata al valore della moneta al momento
della ricostituzione della comunione.
Il problema della tutela dei terzi contraenti, non si pone soltanto riguardo ai coniugi in
comunione legale, ma anche nel caso di coniugi in regime di separazione dei beni e di conviventi
more uxorio. Il riferimento è ai terzi che abbiano ricevuto incarichi o ordinazioni dal coniuge o dal
convivente: se il terzo che ha offerto un servizio di cui la coppia o l’intero nucleo familiare abbia
profittato, non può soddisfare il proprio credito nei confronti del partner o del familiare convivente
con cui aveva contrattato (ad esempio perché quest’ultimo è divenuto insolvente), gli istituti
pertinenti sono la gestione di affari e la rappresentanza tacita. Accanto a questi, non va poi
sottovalutato lo spazio che residua all’actio de in rem verso; con il limite ad essa intrinseco,
ovviamente, che l’interesse del terzo troverebbe soddisfazione solamente nella misura in cui il
convenuto si è giovato della prestazione: dunque, nel caso di coniugio o di convivenza more uxorio,
presumibilmente, per la metà. (Per l’operatività dell’art. 2041 c.c. in ambito familiare, cfr. Albanese
2005, 249 ss.; Oberto 1991, 573, ove ampia bibliografia; questo autore è tornato poi sul tema con
un’opera monografica: Oberto 2003. Per le difficoltà relative all’applicazione dell’azione di
arricchimento nella convivenza, v. Panico 1997, 256. Con riferimento al rimedio della ripetizione
dell’indebito: Albanese 2004, 650 ss.).
IN SINTESI – Le conseguenze dell’atto di straordinaria amministrazione compiuto da un
coniuge senza il consenso dell’altro (e da questo non convalidati) sono sancite dall’art. 184 c.c.:
l’atto è annullabile se riguarda beni immobili o beni mobili registrati.
La previsione dell’azione di annullamento quale rimedio fornito al coniuge contrario
all’atto, è stata al centro di un ampio dibattito, non del tutto sopito, perché giudicata in contrasto
sia con i principi generali della relatività del contratto sia con lo spirito della riforma, che
reclamerebbe una maggiore tutela per il coniuge debole.
3. Amministrazione delegata ad uno dei coniugi ed amministrazione esclusiva di uno dei coniugi.
LEGISLAZIONE: c.c. 177, 181-183 - c.p.c. 23, 737.
L’art. 181 c.c., prevede l’emanazione di provvedimenti autorizzativi, nell’ambito di un
procedimento non contenzioso (art. 737 e ss. c.p.c.), al fine di superare il rifiuto di consenso che
uno dei coniugi frapponga al compimento di atti di straordinaria amministrazione od alla stipula di
contratti per la concessione o per l’acquisto di diritti reali di godimento. Se uno dei coniugi rifiuta il
consenso per la stipulazione di un atto di straordinaria amministrazione o per gli altri atti per cui il
consenso è richiesto, l’altro coniuge può rivolgersi al giudice per ottenere l’autorizzazione; ottenuta
la quale, può liberamente compiere l’atto da solo senza timore di future impugnative ex art. 184 c.c.
da parte dell’altro coniuge. Si evita così che il rifiuto di un coniuge inerente un atto obiettivamente
necessario per la comunione ne paralizzi il compimento (Cartoni Moscatelli 1989, 595).
L’atto può essere autorizzato soltanto se necessario nell’interesse della famiglia o
dell’azienda di cui alla lett. d dell’art. 177 c.c., non rilevando l’utilità (Mazzacane 1997, 131;
Jannuzzi 1990, 538. Contra: A. e M. Finocchiaro 1975, 542).
Competente è il tribunale ordinario del luogo di residenza della famiglia. (Ritengono invece
A. e M. Finocchiaro 1975, III, 62, che rilevi, ex art. 23 c.p.c., il luogo dove si trovano i beni
comuni).
Lo stesso giudice è competente nel caso di lontananza o di impedimento di uno dei coniugi.
Se si verifica questa situazione, e non v’è una procura del coniuge lontano o impedito, l’altro
coniuge può compiere, previa autorizzazione del giudice e con le cautele eventualmente da questo
stabilite (tra le possibili cautele: l’accantonamento di somme di denaro, il vincolo per il loro
reimpiego, l’imposizione di una cauzione), gli atti necessari per i quali è richiesto, a norma dell’art.
180, il consenso di entrambi i coniugi (art. 182, comma primo, c.c.). (Il secondo comma della stessa
norma prevede la possibilità, per il caso di gestione comune di azienda, che uno dei coniugi sia
delegato dall’altro al compimento di tutti gli atti necessari all’attività dell’impresa. Questa
possibilità, espressione di un particolare favor per lo svolgimento dell’attività imprenditoriale, si
giustifica col fatto che il coniuge delegante può in ogni momento revocare la delega o ingerirsi nella
gestione).
Qui l’interesse della comunione prevale sull’interesse individuale, sicché un coniuge,
sebbene capace di agire, è vincolato dalla scelta dell’altro che, previa autorizzazione, acquisisce il
potere esclusivo di rappresentare la comunione per singoli atti determinati. Si parla, pertanto, di
rappresentanza legale di persone capaci.
Lontananza o impedimento devono essere tali da impedire al coniuge la prestazione del
consenso; non devono però essere necessariamente di lunga durata, perché, anche quando
temporanei, possono essere decisivi qualora l’atto da compiere abbia carattere di urgenza.
Non condivido pertanto la tesi, sostenuta da una Corte d’Appello, secondo cui
In tema di comunione legale, il compimento di atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, da parte di uno
solo dei coniugi, può essere autorizzato dall'autorità giudiziaria solo in caso di lontananza o di un
impedimento temporaneo dell'altro. Pertanto, in caso di impedimento permanente o destinato a protrarsi per
un tempo superiore a quello che può ragionevolmente essere considerato normale (nella specie, condizioni di
salute di uno dei coniugi che apparivano tali da imporre la sua interdizione), si deve far ricorso agli ordinari
mezzi di rappresentanza e non al procedimento previsto dall'art. 182 c.c.
(App. Torino 18.5.1998, GC, 1999, I, 585, con nota adesiva di M. Finocchiaro).
L'impedimento, in particolare, è generalmente inteso in senso ampio, comprensivo anche
della scomparsa e dell’incapacità di intendere e di volere conseguente a malattia (Trib. Torino
29.4.1997, GI, 1998, 62 e RN, 1998, 682. La dichiarazione di assenza, invece, scioglie la
comunione).
L’atto deve essere necessario. L’autorizzazione non riguarda tutti gli atti di amministrazione,
ma i singoli atti per i quali è stata specificamente rilasciata.
La norma ora vista riguarda casi nei quali l’impossibilità di un coniuge ad amministrare
costituisce l’ostacolo per uno o più atti determinati. Ma la legge provvede anche per il caso che la
persona non sia idonea all’amministrazione: l’art. 183, comma primo, c.c. stabilisce che se uno dei
coniugi è minore o non può amministrare ovvero se ha male amministrato, l’altro coniuge può
chiedere al giudice di escluderlo dall’amministrazione.
Si tratta di un provvedimento di volontaria giurisdizione, perché l’interesse tutelato è unico:
la corretta amministrazione dei beni della comunione (Mazzacane 1997, 132. La esclusione opera
invece di diritto riguardo al coniuge interdetto giudizialmente o legalmente). Il coniuge è privato del
potere di compiere atti di ordinaria o straordinaria amministrazione, ma può chiedere al giudice di
esservi reintegrato, se sono venuti meno i motivi che hanno determinato l’esclusione.
Il coniuge legittimato dall’autorizzazione del giudice a compiere l’atto da solo, non agisce
come rappresentante dell’altro: dell’obbligazione, pertanto, risponderanno i beni della comunione e
il patrimonio personale del coniuge autore dell’atto, ma non i beni personali dell’altro coniuge. La
responsabilità personale di quest’ultimo potrà essere coinvolta soltanto se l’atto era destinato a
soddisfare le normali esigenze di mantenimento della famiglia (Bianca 2005, 116).
IN SINTESI – Se uno dei coniugi rifiuta il consenso per la stipulazione di un atto di
straordinaria amministrazione, l’altro coniuge può rivolgersi al giudice per ottenere
l’autorizzazione a compiere l’atto da solo. L’atto può essere autorizzato soltanto se necessario
nell’interesse della famiglia o dell’azienda di cui alla lett. d dell’art. 177 c.c., non rilevando
l’utilità.
Nel caso di lontananza o di impedimento di uno dei coniugi, se non v’è una procura del
coniuge lontano o impedito, l’altro coniuge può compiere, previa autorizzazione del giudice e con
le cautele eventualmente da questo stabilite gli atti necessari per i quali sarebbe richiesto il
consenso di entrambi i coniugi.
Infine, se uno dei coniugi è minore o non può amministrare ovvero se ha male amministrato,
l’altro coniuge può chiedere al giudice di escluderlo dall’amministrazione.
4. Amministrazione ordinaria e straordinaria nel fondo patrimoniale.
LEGISLAZIONE: c.c. 167, 168, 169, 171, 183 - disp. att. c.c. 38.
I limiti posti dalla legge all’amministrazione del fondo patrimoniale derivano dalla sua
natura di patrimonio separato destinato a «far fronte ai bisogni della famiglia» (art. 167, comma 1°,
c.c.). Questo scopo, che coinvolge non solo i beni costituiti in fondo ma anche i loro frutti (art. 168,
comma 2°, c.c.) impedisce che gli atti dispositivi possano essere liberamente compiuti, e spiega
perché l’art. 169 c.c., rubricato «alienazione dei beni del fondo», distingua tra differenti ipotesi e
imponga determinate garanzie.
Prima della Riforma del diritto di famiglia, l’alienazione dei beni costituenti il patrimonio
familiare era sottoposta a una disciplina più rigorosa: l’art. 170 c.c., testo originario, richiedeva
sempre l’autorizzazione del tribunale, che la consentiva solo per necessità o utilità evidente,
disponendo le modalità di reimpiego del prezzo. Il problema del rapporto tra vecchio art. 170 c.c. e
nuovo art. 169 c.c. è stato affrontato dalla Corte Costituzionale:
non rientra nei compiti della Corte costituzionale emanare una pronunzia additiva che estenda la disciplina
del fondo patrimoniale, prevista dall'art. 169 c.c. novellato dalla l. 19.5.1975 n. 151, al patrimonio familiare
previsto dall'art. 170 c.c. e conservato in via transitoria in ossequio al principio di diritto intertemporale della
immutabilità delle convenzioni matrimoniali in precedenza stabilite; pertanto, è inammissibile la questione di
legittimità costituzionale dell'art. 227 l. 19.5.1975 n. 151, sollevata con riferimento agli art. 3 e 29 comma 2
cost., sotto il profilo che l'articolo stesso, sancendo l'ultrattività del principio dell'alienabilità del patrimonio
familiare, potrebbe essere una discriminazione fra i coniugi, che abbiano costituito un patrimonio familiare,
sotto il vigore del codice previgente, e i coniugi che abbiano successivamente costituito beni in fondo
patrimoniale, che sono inalienabili, in relazione ai reali bisogni della famiglia.
(Corte cost. 24.1.1992, n. 18, G COST, 1992, 93, GC, 1992, 859, GI, 1992, I, 1, 1404, D FAM, 1992, 497).
Una corte di merito ha affermato che
è ammissibile la trasformazione in fondo patrimoniale del patrimonio familiare, con facoltà per i coniugi di
procedere all'alienazione dei beni relativi senza autorizzazione del tribunale, compiendo gli adempimenti a
ciò finalizzati, comunque necessari
(Trib. Genova, 3.2.1989, D FAM, 1991, 580).
Precisamente, l’art. 169 c.c. sancisce che, se non è stato espressamente consentito nell’atto di
costituzione, non si possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del fondo
patrimoniale senza il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori, con l’autorizzazione
concessa dal giudice, con provvedimento emesso in camera di consiglio, nei soli casi di necessità od
utilità evidente.
La norma va coordinata con il terzo comma dell’art. 168 c.c., che rinvia alle norme sulla
comunione legale per la regolamentazione dell’amministrazione dei beni costituenti il fondo
patrimoniale.
Il rapporto tra le due norme si presta a diverse interpretazioni, ma la corretta applicazione
della lettera dell’art. 169 c.c., la quale non distingue tra amministrazione ordinaria e straordinaria,
rende operative tutte le norme relative all’amministrazione della comunione legale (artt. 180 – 185
c.c.) per ogni tipo di atti, salvo che per gli atti enunciati all’art. 169 c.c. Quella del fondo
patrimoniale è pertanto un’amministrazione speciale, modellata su quella della comunione legale,
ma che se ne differenzia per gli atti che maggiormente distoglierebbero i beni dalla loro precipua
destinazione.
Diversamente, si è anche sostenuta la suddivisione disciplinare secondo lo schema
ordinaria/straordinaria amministrazione, nel senso che l’art. 168 disciplinerebbe gli atti di gestione
normale, mentre l’art. 169 c.c. recherebbe la regola valevole per tutti gli atti di straordinaria
amministrazione (A. e M. Finocchiaro 1979, 406).
In realtà, la legge non si affida, nell’art. 169 c.c., ad un criterio distintivo elastico, ma si
limita a prescrivere che per singoli determinati atti, non si può prescindere dalle cautele
contemplate.
La conseguenza è che per tutti gli atti, ad eccezione di quelli di cui alla norma citata, vale la
regola generale: se rientranti nell’amministrazione ordinaria, possono essere compiuti
disgiuntamente; se eccedenti, occorre il consenso congiunto dei coniugi (i quali devono agire
congiuntamente anche per gli atti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di
godimento, ex art. 180 c.c.) e, in caso di rifiuto ingiustificato di uno di loro, l’atto potrà essere
compiuto dall’altro con l’autorizzazione del tribunale ordinario (art. 38, comma 2°, disp. att. c.c.).
L’assoggettamento dei beni ad una speciale disciplina di amministrazione e a limiti di
alienabilità e espropriabilità in virtù del loro vincolo funzionale, incide sulla natura stessa dell’atto
di costituzione di beni in fondo patrimoniale, che è atto di disposizione potenzialmente
pregiudizievole per i creditori (Trib. Catania 31.10.1985, BBTC, 1987, II, 613). Pertanto detta
costituzione restringe la garanzia patrimoniale generica dei creditori ed è assoggettabile ad azione
revocatoria ordinaria. Ove la costituzione dei beni in fondo patrimoniale sia stipulata da un coniuge
in favore dell'altro, il consilium fraudis può presumersi e non va provato ai fini della dichiarazione
di inefficacia relativa (Trib. Napoli 27.1.1993, BBTC, 1994, II, 580).
L’atto di destinazione di un bene al fondo patrimoniale è assoggettabile ad azione revocatoria in quanto
comporta una disposizione del patrimonio del debitore ed è potenzialmente pregiudizievole per il creditore il
quale può perdere la possibilità di agire esecutivamente su quel bene e sui relativi frutti, qualora sia
consapevole dell'estraneità ai bisogni della famiglia del credito per il quale egli agisce.
(Trib. Perugia 12.2.1987, V NOT, 1988, 604. Conformi: Trib. Catania 31.10.1985, BBTC, 1987, II, 613;
App. Milano 8.4.1986, BBTC, 1987, II, 611).
L’amministrazione dei beni del fondo spetta sempre ad entrambi i coniugi, anche qualora
solo uno dei due fosse titolare del diritto di proprietà sui beni medesimi: trova applicazione anche a
questa ipotesi, infatti, l’inderogabilità, ex art. 210 c.c., del criterio legale previsto per
l’amministrazione dei beni in comunione legale.
D’altra parte, l’affidamento dell’amministrazione ad uno solo dei coniugi, non solo
contraddirebbe la parità tra coniugi voluta dalla Riforma del ’75, ma provocherebbe
il rischio di reintrodurre sotto mentite spoglie l’istituto della dote, in spregio al divieto contenuto nell’art.
166-bis c.c. Il pericolo ricorre effettivamente, quantomeno nel caso in cui il coniuge cui venga affidata
l’amministrazione non sia anche il proprietario dei beni (poco importando, invece che sia il marito o la
moglie, posto che il divieto di costituzione dei beni in dote deve intendersi bilaterale, essendo diretto ad
attuare una piena parità dei coniugi all’interno della famiglia).
La giurisprudenza sembra orientata verso analoga posizione, ritenendo talmente grave la violazione della
regola di amministrazione comune, da farne seguire una responsabilità del notaio rogante ex art. 28 l. 16
febbraio 1913 n. 89.
(Demarchi 2005, 225, il quale richiama a conferma dell’ultima affermazione Trib. Foggia 9.6.2000, RN,
2001, 692).
Visto il rinvio alle norme sull’amministrazione della comunione legale, si potrebbe pensare
che in questo caso non si proponga il problema di enucleare, in relazione agli scopi della norma e
alle peculiarità della fattispecie, un criterio distintivo diverso da quello formulato in quella sede.
L’unica differenza, così ragionando, sarebbe nel fatto che per gli atti espressamente elencati
dall’art. 169 c.c., non sarà sufficiente il consenso congiunto normalmente bastevole per gli atti di
amministrazione straordinaria, ma occorreranno le ulteriori cautele previste dalla norma.
In effetti, chi applica il tradizionale “criterio giuridico”, non perviene a risultati differenti da
quelli adottati per la comunione legale, né, consequenzialmente, a quelli vigenti in materia di
incapaci legali: ciascuno dei coniugi può compiere da solo tutti gli atti diretti alla conservazione dei
beni, alla loro fruttificazione, alla riscossione delle rendite ed alla utilizzazione dei frutti secondo le
esigenze delle famiglia; mentre eccedono l’amministrazione ordinaria, e vanno compiuti insieme,
gli atti che alterano la consistenza del patrimonio o ne mettono in pericolo la conservazione, e che
comunque distolgono i beni dal fine cui sono destinati, nonché, stante la precisa dizione dell’art.
180 c.c., i contratti con i quali si acquistano o si concedono diritti personali di godimento e la
rappresentanza in giudizio per le relative azioni (Jannuzzi 1990, 529).
Si può obiettare che il rinvio all’art. 180 c.c. vale solamente riguardo alla disciplina
dell’agire separato ovvero congiunto dei coniugi, e quindi riguardo alla circostanza che anche qui
assume rilevanza, correlativa, la distinzione fra amministrazione ordinaria e straordinaria. Il punto
cruciale, però, non può essere risolto affidandosi a quella norma. Occorre ancora capire in base a
quale parametro vada commisurata la normalità dell’atto: ciò che è normale in relazione ad un
patrimonio di cui sono titolari coniugi in regime patrimoniale legale, non è necessariamente
coincidente con la normalità dell’attività svolta su un patrimonio soggetto ad ulteriore e più
pregnante vincolo: la destinazione dei beni e l’impiego dei relativi frutti per i bisogni della famiglia.
Il fatto stesso che per alcuni specifici atti siano prescritte garanzie diverse secondo che il bene
ricada semplicemente nella comunione legale o sia oggetto del fondo, conferma che quello di
normalità è concetto elastico, variabile in un caso rispetto all’altro.
Quanto invece all’elencazione prevista dall’art. 169 c.c., questa norma aggiunge una
categoria particolare a quelle tradizionali della ordinaria e della straordinaria amministrazione,
giacché, come visto, parla solamente di alienazione, garanzie reali e costituzione di vincoli.
La necessità, sentita nella prassi, di ampliare l’elenco, per ricomprendervi ogni tipo di atto
che comporti la definitiva uscita di utilità dei beni dal fondo, è legittima e coerente con gli scopi
della norma. Si tratta di necessità, tuttavia, che non può essere soddisfatta ricorrendo all’usuale
allargamento della griglia degli atti elencati, intendendoli, genericamente, quali atti di
amministrazione straordinaria; questo concetto, infatti, è già stato utilizzato per scriminare gli atti
che non possono essere compiuti separatamente dai coniugi, e non può essere ancora richiamato per
altri atti che vanno ulteriormente distinti da questi ultimi. Il problema va risolto, invece,
correttamente interpretando il termine “alienazione” di cui all’art. 169 c.c., che permette di far
rientrare nell’ambito operativo della norma tutti gli atti che costituiscono alienazione in senso lato:
non solo la vendita, ma anche la permuta, la divisione, la transazione, la costituzione di diritti reali
minori, la cessione di diritti, la costituzione di rendite. Tutti atti, peraltro, che, seguendo
l’espressione adottata dall’art. 169 c.c., «comunque vincolano beni del fondo patrimoniale».
In via interpretativa, l’ambigua formulazione dell’art. 169 c.c., ha dato luogo a non poche
difficoltà in punto di applicazione concreta, essendo decisivo diversificare l’indagine a seconda di
quanto si sia previsto in sede di costituzione del fondo patrimoniale:
1) Se l’atto con il quale si è costituito il fondo autorizza i coniugi a compiere ogni atto di
ordinaria e straordinaria amministrazione, essi possono compiere gli atti enunciati all’art. 169 c.c.
anche se hanno figli minori, purché li compiano congiuntamente (e salva la possibilità di ricorrere al
giudice ex art. 181 c.c. in caso di rifiuto di uno dei due coniugi).
Qualora l'atto di costituzione di beni immobili in fondo patrimoniale preveda che, anche in presenza di figli
minori, i coniugi possano concordemente, senza autorizzazione giudiziale, alienare tali beni, il tribunale deve
dichiarare il non luogo a procedere in ordine alla richiesta d'autorizzazione avanzata da entrambi i coniugi
genitori di figli minori.
(Trib. Verona 30.5.2000, D FAM, 2001, 594).
Pur in presenza di figli minori la disciplina legale sancita dall’art. 169 c.c. – e quindi la preventiva
autorizzazione del giudice alla alienazione di beni del fondo – si rende applicabile solo in mancanza di
deroga prevista nell’atto di costituzione del fondo patrimoniale.
(Trib. Roma 27.6.1979, RN, 1979, 952).
Contra, Trib. Savona 24.4.2003, FD, 2004, 67, per il quale è nulla e priva di effetto la pattuizione contenuta
nell’atto costitutivo del fondo patrimoniale escludente l’autorizzazione giudiziale richiesta dall’art. 169 c.c.
per il compimento di atti di alienazione dei beni conferiti in fondo patrimoniale in caso di presenza di figli
minori.
L’atto non può essere compiuto singolarmente neanche se chi ha costituito il fondo ha
formulato un’apposita clausola dell’atto costitutivo che concede questa possibilità: si tratta, infatti,
di un diritto inderogabile, posto a favore e a carico dei coniugi, a tutela dell’interesse della famiglia
(Jannuzzi 1990, 530, nt. 13. Contra: Grasso 1982, 395). Sebbene la formula normativa non escluda
questa eventualità, deve anche osservarsi che se una simile clausola fosse consentita alla luce
dell’art. 169 c.c., non lo sarebbe comunque al cospetto di una norma, sicuramente inderogabile,
come è l’art. 180 c.c., che pretende in ogni caso il consenso congiunto per questo genere di atti.
2) Se invece l’atto costitutivo del fondo non prevede la facoltà dei coniugi di compiere ogni
tipo di atto, occorre ulteriormente distinguere a seconda se vi siano o no dei figli minori.
2a) Se non vi sono figli minori, deve ritenersi che i genitori non possano compiere
disgiuntamente gli atti in oggetto. Ciascuno dei coniugi può invece svolgere separatamente l’attività
conservativa, nella quale rientra anche, se i beni sono fruttiferi, la disposizione delle rendite; fermo
restando l’obbligo di reimpiegarle nel soddisfacimento dei bisogni della famiglia, disatteso il quale,
il coniuge agente può essere escluso dalla gestione per cattiva amministrazione, se l’altro ne fa
istanza al giudice ai sensi dell’art. 183 c.c. (De Paola e Macrì 1978, 243. Per Gabrielli 1982, 298 s.,
oltre che la rimozione ex art. 183 c.c., i figli o in loro mancanza chiunque ne abbia interesse
potrebbero chiedere al giudice di irrogare una sanzione ai coniugi che non abbiano destinato i beni
ai bisogni della famiglia. Secondo questo autore non rientrerebbero tra i «bisogni della famiglia» le
necessità proprie di uno soltanto dei familiari). Assume decisivo rilievo, quindi, capire quando le
rendite siano state destinate alla soddisfazione dei bisogni familiari, suggerendo gli studiosi di
procedere con criterio oggettivo ponderato tenendo quindi conto della classe sociale, delle condizioni
economiche e delle abitudini di vita dei coniugi, nonché dell’indirizzo della vita familiare eventualmente
concordato fra di essi.
(Carresi 1988, § 3.1.).
Per compiere invece gli atti dispositivi elencati dall’art. 169 c.c., e dunque per «alienare,
ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del fondo patrimoniale», occorre sempre il
consenso congiunto dei coniugi, o, in sua assenza, che il giudice autorizzi uno dei due, ex art. 181
c.c., a compiere l’atto separatamente. Altrimenti, secondo alcuni, l’atto sarà soggetto ai rimedi
previsti dall’art. 184 c.c. se il coniuge non consenziente intenda provocarli (Carresi 1988, § 3.1.);
secondo altri, invece, l’atto sarà inefficace (A. e M. Finocchiaro 1979, 409 s.; Cian e Casarotto
1982, 834; Gabrielli 1982, 304 s.), ovvero nullo (De Paola e Macrì 1978, 252, secondo i quali l’atto
sarebbe invece annullabile nella diversa ipotesi in cui la possibilità di alienare fosse prevista
nell’atto costitutivo del fondo ma uno dei due coniugi abbia agito senza autorizzazione del giudice.
In giurisprudenza, Trib. Napoli 25.11.1998, in Notariato, 1999, 451: «l’atto di alienazione dei beni
del fondo patrimoniale realizzato in violazione dell'art. 169 c.c. è nullo perché illecito»).
La situazione in cui versano i coniugi senza figli minori è pertanto identica a quella, vista al
n. 1, dei coniugi con figli minori che abbiano espressamente previsto (o, per loro, il terzo
costituente) la facoltà di compiere gli atti ex art. 169 c.c.: sarà sufficiente che essi siano d’accordo
sull’opportunità di compiere l’operazione economica.
2b) Nemmeno questa comunione di intenti è però sufficiente se vi sono figli minori: in tal
caso occorrerà sempre l’autorizzazione giudiziale, che sarà concessa nei soli casi di necessità o di
utilità evidente. L’autorità competente è il tribunale ordinario, ex art. 38, comma 2°, disp. att. c.c.
La diversa tesi, peraltro, che sostiene l’idoneità di un’apposita clausola dell’atto costitutivo a
rendere superflua l’autorizzazione giudiziale anche in presenza di figli minori, finisce con attribuire
agli stessi soggetti sottoposti al controllo giudiziale il potere di esserne esentati.
Si è così affermato che
l’autorizzazione all'alienazione dell'unico bene del fondo patrimoniale, subordinata dalla legge
all'accertamento, da parte del giudice, della comprovata necessità e/o evidente utilità per il nucleo familiare,
deve essere denegata laddove non venga adeguatamente provata l'evidente utilità per la famiglia
dell'alienazione del bene e del trasferimento del vincolo di destinazione sul nuovo bene e laddove il prezzo di
acquisto dello stesso (anche in considerazione delle riparazioni ed adattamenti che il nuovo bene richiede)
contrasti con le modeste capacità reddituali della famiglia, a nulla rilevando a questo proposito il possibile
ricorso a forme di finanziamento nonché ad aiuti economici da parte dei familiari e dei conoscenti.
(Trib. Trani 3.5.1999, GC, 2000, I, 201, con osserv. di Patruno).
In sede di gravame la corte di appello (App. Bari 15.7.1999, GC, 2000, I, 200, con osserv. di
Patruno) affermava:
L’acquisto di un bene, da inserire nel fondo patrimoniale, che sia più consono alle mutate esigenze familiari
e di maggior valore è, di per sé, di evidente utilità ai sensi dell'art. 169 c.c., a nulla rilevando a tale scopo il
reddito dichiarato, in sede fiscale, dai coniugi ed essendo, peraltro, sufficiente per il giudice 'aver ottenuto da
parte degli interessati la dichiarazione di avere la possibilità economica di acquistare il bene e di provvedere
alla sua (eventuale) ristrutturazione. In caso di alienazione dell'unico bene del fondo patrimoniale, il giudice
ha il potere-dovere di disporre che la somma ricavata da tale vendita venga reinvestita nell'acquisto di un
nuovo bene sul quale trasferire il vincolo del fondo patrimoniale.
Insiste sul potere ed il dovere del giudice di ordinare il reimpiego in caso di alienazione di un bene
in presenza di figli minori, Trib. Genova 26.1.1998, NGCC, 1999, I, 215, con nota di Viotti, e V
NOT, 1999, 81, con nota di Giletta. Interessante, anche, è la parte del provvedimento in cui si
afferma che il vincolo nascente dal fondo patrimoniale non cessa per effetto dell'alienazione del
bene, ma unicamente a seguito di una delle cause indicate dall'art. 171 c.c. In proposito può
richiamarsi anche Trib. minor. Perugia 20.3.2001, RN, 2001, 1189, con nota di Viani, che sulla
medesima premessa che al di fuori dei casi tassativi previsti dagli artt. 169 c.c. e 171 c.c. non é
possibile porre fine alla destinazione impressa dalla costituzione di un fondo patrimoniale, ha
negato che sia possibile sciogliere convenzionalmente tale convenzione matrimoniale.
IN SINTESI – L’art. 169 c.c. sancisce che, se non è stato espressamente consentito nell’atto
di costituzione, non si possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del
fondo patrimoniale senza il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori, con
l’autorizzazione concessa dal giudice, con provvedimento emesso in camera di consiglio, nei soli
casi di necessità od utilità evidente. La norma va coordinata con il terzo comma dell’art. 168 c.c.,
che rinvia alle norme sulla comunione legale per la regolamentazione dell’amministrazione dei
beni costituenti il fondo patrimoniale, e dunque alla distinzione tra amministrazione ordinaria e
straordinaria. Il rapporto tra le due norme si presta a diverse interpretazioni che hanno diviso la
dottrina.
Anche l’ambigua formulazione dell’art. 169 c.c. ha dato luogo a non poche difficoltà in
punto di applicazione concreta, non essendo chiaro in quali ipotesi i coniugi siano esentati
dall’ottenere l’autorizzzione giudiziale. Sembra decisivo, in proposito, diversificare l’indagine a
seconda di quanto si sia previsto in sede di costituzione del fondo patrimoniale.
5. La gestione straordinaria dell’impresa familiare.
LEGISLAZIONE: c.c. 230 bis.
L’art. 230 bis c.c. stabilisce che «le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli
incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla
cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano alla impresa
stessa». Questa disposizione attribuisce ai partecipanti un potere di controllo sulla gestione
dell’imprenditore, che essi eserciteranno grazie alla partecipazione alle decisioni più importanti e
alle scelte programmatiche relative all’azienda. Si tratta di uno strumento che tutela i diritti
patrimoniali e la posizione di prestatore d’opera del familiare lavoratore, il quale non fruisce della
garanzia di un salario minimo e la cui partecipazione agli utili e agli incrementi è esposta al rischio
di impresa (Tanzi 1988, § 7.1.). A queste riunioni partecipano solo i familiari che collaborano
nell’impresa, non invece l’imprenditore, il quale è il destinatario delle decisioni adottate in quella
sede: l’organizzazione prevista dalla norma è «organizzazione dei collaboratori come parte
contrapposta all’imprenditore» (Oppo 1992, § 17. Diversamente, Cattaneo 1983, 150).
Il problema relativo agli atti che possono farsi rientrare nella nozione di gestione straordinaria, come tali di
competenza dei familiari, viene tradizionalmente risolto facendo ricorso alla distinzione tra atti di ordinaria
amministrazione e atti di straordinaria amministrazione.
(Balestra 1996, 274).
Per gestione straordinaria nell’ambito dell’impresa familiare, si intende l’attività di
amministrazione che è potenzialmente idonea ad alterare la consistenza dell’impresa. La dottrina
dell’impresa familiare, dopo aver premesso che la distinzione è relativa, osserva che nel caso di
specie
essa dipende dal carattere dell’attività svolta, da quanto si pratica normalmente in imprese dello stesso tipo,
dalla dimensione dell’azienda e dall’incidenza che l’atto può avere sulla consistenza del patrimonio
imprenditoriale o sulla libertà di esercizio dell’attività.
(Tanzi 1988, § 7.4.).
Tenuto conto della relatività del criterio di distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione,
occorre ricomprendere nella gestione straordinaria tutti quegli atti che in relazione alle dimensioni
dell’azienda, all’importanza patrimoniale dell’atto, alle conseguenze da esso nascenti, non assumono
carattere di normalità nell’esercizio dell’attività imprenditoriale.
(Sesta 2005, 272).
In questo ambito, pertanto, è più che mai evidente che il concetto di normalità non può non
essere riconnesso all’entità del patrimonio considerato. È indubbio che un atto che di per sé
potrebbe rientrare nella gestione ordinaria ne esula qualora comporti un investimento così
importante da porre in pericolo la stessa esistenza dell’impresa: consci, di ciò, gli studiosi si
interrogano su quali poteri decisionali abbiano i partecipanti rispetto ad un atto che «appartiene alla
gestione ordinaria per l’entità della spesa che esso comporta» (Tanzi 1988, § 7.4.), qualora
l’imprenditore se ne assuma l’intero onere. (Nega ogni rilevanza alla volontà del gruppo Oppo
1992, § 17. Diversamente, Colussi 1981, 689).
L’interpretazione della disciplina dell’amministrazione è evidentemente consequenziale alla
concezione alla base dello stesso istituto dell’impresa familiare, che non può essere approfondita in
questa sede. Basti qui notare che se si sostiene che tutti i partecipanti all’impresa siano imprenditori,
deve inferirsi che ciascuno di essi è abilitato a compiere, disgiuntamente, gli atti di ordinaria
amministrazione.
L'impresa familiare è istituto nato per apprestare una tutela giuridica minima e inderogabile a garanzia del
lavoro prestato da familiari affectionis vel benevolentiae causa, affinché la loro opera non venga più sfruttata
e sia adeguatamente valorizzata. L'attribuzione del diritto di partecipare agli utili e agli incrementi, nonché ad
alcune decisioni inerenti la gestione dell'impresa, evidenzia la natura associativa del rapporto, ragion per cui i
familiari collaboratori assumono la qualifica di imprenditori e la responsabilità per le obbligazioni contratte
per l'esercizio.
(Pret. Santhia 14.7.1986, GI, 1987, I, 2, 518).
Se al contrario, seguendo l’interpretazione dominante (Costi 1976; Colussi 1992, 173;
Cattaneo 1983, 125), si condivide che imprenditore è il familiare che ha assunto l’iniziativa ed è
titolare del patrimonio aziendale, sarà solo costui che potrà compiere ogni genere di atto, sia questo
di amministrazione ordinaria ovvero straordinaria.
Di questo secondo parere è la giurisprudenza della Suprema Corte, la quale afferma che il
potere di gestione ordinaria dell'impresa familiare spetta, ex art. 230 bis c.c., esclusivamente al
titolare della stessa, e l'eventuale esercizio di tale potere in violazione degli obblighi scaturenti dalla
norma suddetta comporta non l'invalidità degli atti posti in essere, ma unicamente l'obbligo di
risarcire i danni provocati (Cass., sez. lav., 4.10.1995, n. 10412, SI, 1996, 363. In dottrina, ex
multis: Sesta 2005, 271).
Rimane da stabilire se il fatto che la norma affidi alla maggioranza dei partecipanti le
decisioni di maggiore importanza, impedisca all’imprenditore di compiere, in piena autonomia, gli
atti inquadrabili nell’amministrazione straordinaria.
Si è giustamente notato, che poiché le decisioni relative alla gestione straordinaria (così
come quelle attinenti agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa) coinvolgono l’interesse
di tutti, è evidente che
non si sarebbe potuto tenere lontani i collaboratori partecipanti all’impresa da tali decisioni che riguardano i
frutti del lavoro e la prestazione stessa del lavoro in un’impresa che hanno concorso a costituire, a mantenere
ed a far progredire».
(Jannuzzi 1990, 558).
Tuttavia il potere di iniziativa non passa dall’imprenditore ai collaboratori. L’intervento dei
familiari ha una mera rilevanza interna, perché non attiene all’attività amministrativa quale
momento operativo ed esecutivo, ma inerisce esclusivamente al momento decisionale, esprimendosi
attraverso il diritto di voto nelle decisioni, l’attuazione concreta delle quali appartiene soltanto
all’imprenditore (cfr. Oppo 1992, § 17; Colussi 1981, 684 s.; De Martini 1983, 180).
L’impresa familiare (…) non costituisce un genus di imprenditore collettivo differenziato rispetto alle forme
societarie già tipicizzate dal codice civile, ma disciplina unicamente i reciproci diritti ed obblighi dei
partecipanti, senza rilevanza determinante nei rapporti esterni.
(Trib. Roma 17.3.1984, D FALL, 1984, II, 600).
In senso contrario si è affermato che
nell'impresa familiare le decisioni prese dai componenti del nucleo familiare hanno rilevanza esterna perché
non è concepibile che gli atti di gestione straordinaria e di cessazione dell'impresa - cui quelle decisioni si
riferiscono - possano prescindere del tutto dall'intervento di terzi estranei.
(App. Ancona 10.7.1981, NDA, 1982, 219).
Una cosa è partecipazione al voto, altra è l’amministrazione. L’imprenditore è libero di
compiere qualsiasi atto di gestione, sia essa ordinaria o straordinaria, rimanendo i suoi atti validi ed
efficaci. (Trib. Roma 17.3.1984, D FALL, 1984, II, 600; Pret. Palermo 28.1.1985, D FAM, 1985, I,
642, che dopo aver evidenziato che l’art. 230 bis c.c. attribuisce ai partecipanti all'impresa familiare
diritti e poteri specifici e predeterminati, ha concluso, tra l’altro, che in mancanza di una esplicita
previsione, deve negarsi a colui che partecipa all'impresa familiare il diritto di escludere il titolare
della stessa dall'amministrazione e di sostituirvisi, nell'ipotesi di precarie condizioni di salute o di
cattiva gestione).
Nel senso opposto, App. Ancona 10.7.1981, NDA, 1982, 219, ha affermato che
con l'estensione della disciplina dell'impresa familiare contenuta nell'art. 230 bis c.c. alla comunione tacita
familiare, questa ha finito per perdere la tradizionale struttura piramidale e ha assunto una connotazione più
democratica dal momento che tutte le decisioni di rilevante interesse per il gruppo familiare - in particolare
quelle attinenti alla straordinaria amministrazione e alla cessazione dell'impresa - sono valide e operanti solo
se adottate a maggioranza dei componenti della comunione familiare.
In un caso particolare la Cassazione ha applicato la norma sul conflitto di interessi del
rappresentato, risultandone l’annullabilità dell’atto compiuto dall’imprenditore senza attenersi alle
decisioni del gruppo:
l’istituto dell'impresa familiare, introdotto e regolato dall'art. 230-bis c.c. in via residuale o suppletiva, trova
applicazione nella mezzadria, nell'ambito della normativa previgente alla nuova disciplina di cui alla l.
3.5.1982 n. 203, con riguardo a quelle situazioni che non sono oggetto di specifiche disposizioni di detta
normativa, e, quindi, è operante con riguardo ai rapporti fra i componenti della famiglia colonica, da
individuarsi in quei membri del nucleo familiare, che, indipendentemente da enunciazioni formali e da
elementi secondari o sussidiari (quali la coabitazione nella casa colonica), prestino effettivamente la loro
opera per la normale conduzione del fondo mezzadrile, in modo continuativo e coordinato con la direzione
della azienda. Da ciò deriva che il potere di rappresentanza spettante al mezzadro nei confronti del
concedente, secondo la previsione dell'art. 2150 c.c., va coordinato con il disposto del citato art. 230-bis,
nella parte in cui tutela gli altri componenti della famiglia colonica, prescrivendo la deliberazione a
maggioranza per gli atti di gestione straordinaria, di indirizzo produttivo o di cessazione dell'impresa.
Pertanto, qualora uno di tali atti (nella specie, rinuncia al regime della proroga legale del rapporto di
mezzadria) venga posto in essere dal mezzadro, quale capo della famiglia colonica, senza detta preventiva
decisione maggioritaria, si verifica un'ipotesi di vizio della rappresentanza per conflitto d'interessi, la quale
implica, in applicazione dell'art. 1394 c.c., su impugnazione del rappresentato, l'inefficacia dell'atto stesso
ove il conflitto sia conosciuto al terzo (nella specie, del concedente).
(Cass. 13.10.1984, n. 5124, GCM, 1984, fasc. 10).
D’altra parte, il fatto che la legge non disponga nulla per il caso che non si riesca a formare
una maggioranza tra i collaboratori o per il caso che vi sia disaccordo tra i collaboratori e
l’imprenditore, depone a favore dell’autonomia operativa di quest’ultimo; così come la mancata
previsione di un sistema di pubblicità, esclude che la decisione del gruppo possa essere opposta ai
terzi che hanno contrattato direttamente con l’imprenditore, i quali non hanno modo di identificare
quali siano i familiari con diritto di partecipazione e di voto (Tanzi 1988, § 7.1.).
Parimenti, egli può rifiutarsi di compiere atti di gestione anche se questi sono stati deliberati
dalla maggioranza dei partecipanti, i quali possono, in tal caso, porre fine alla loro collaborazione
recedendo dall’impresa, ma non possono ottenere l’esecuzione coattiva della deliberazione. Sembra
però corretto ritenere che essi possano altresì agire per il risarcimento del danno se l’imprenditore
non si è uniformato alle decisioni della maggioranza, sempre che queste non siano contrarie alla
legge (Cass., sez. lav., 4.10.1995, n. 10412, SI, 1996, 363; Trib. Roma, 17.3.1984, D FALL, 1984,
II, 600; Pret. Palermo 28.1.1985, D FAM, 1985, I, 642; Panuccio 1981, 142; Costi 1976, 98; De
Martini 1983, 180).
Poiché, però, solo il proprietario può disporre dei suoi beni, egli non potrà essere chiamato a
risarcire il danno se non abbia eseguito una delibera di alienazione di un suo bene, o, in generale,
una delibera esorbitante dalle competenze del gruppo.
Se, al contrario, è egli stesso che vuole alienare i beni al di fuori della volontà del gruppo,
occore valutare se essi sono stati concessi in uso ai familiari collaboratori. Solamente in tal caso,
egli è obbligato a destinarli all’impresa finché dura il vincolo partecipativo.
IN SINTESI – L’art. 230 bis c.c. stabilisce che le decisioni inerenti alla gestione
straordinaria sono adottate dai familiari a maggioranza. Per gestione straordinaria nell’ambito
dell’impresa familiare, si intende l’attività di amministrazione che è potenzialmente idonea ad
alterare la consistenza dell’impresa. Si tratta di una distinzione relativa, che dipende, tra l’altro,
dal carattere dell’attività svolta e dalla dimensione dell’azienda.
Se, seguendo l’interpretazione dominante, si condivide che imprenditore è il familiare che ha
assunto l’iniziativa ed è titolare del patrimonio aziendale, sarà solo costui che potrà compiere ogni
genere di atto, compresi gli atti di amministrazione straordinaria. Egli può rifiutarsi di compiere
atti di gestione anche se questi sono stati deliberati dalla maggioranza dei partecipanti, i quali
possono, in tal caso, porre fine alla loro collaborazione recedendo dall’impresa, ma non possono
ottenere l’esecuzione coattiva della deliberazione. Il compimento dell’atto di gestione straordinaria
in violazione delle decisioni della maggioranza non comporta l’invalidità dell’atto posto in essere,
ma unicamente l'obbligo di risarcire i danni provocati.
2
LA TUTELA DEI FAMILIARI ATTRAVERSO L'AZIONE DI
ARRICCHIMENTO
di Antonio Albanese
(APPUNTI TRATTI DALLA MONOGRAFIA “INGIUSTIZIA DEL PROFITTO E
ARRICCHIMENTO SENZA CAUSA”, CEDAM, PADOVA, 2005)
1. Le attività a vantaggio altrui compiute nell’ambito dei rapporti di cortesia, affetto o convivenza. –
2. Segue: la restituzione come “terza via” tra donazione e obbligazione naturale. – 3. Verso un
superamento della presunzione di gratuità. – 4. La necessità di tutelare l’impoverito che abbia
riposto un legittimo affidamento nelle conseguenze del proprio sacrificio patrimoniale.
1. Le attività a vantaggio altrui compiute nell’ambito dei rapporti di cortesia, affetto o
convivenza.
Nell’esaminare il requisito della causa dell’arricchimento, va premesso che sbaglia quella
giurisprudenza che, ogniqualvolta ravvisa la volontà dell’impoverito di prendere un’iniziativa
diretta a beneficiare il terzo, ritiene che ciò sia sufficiente ad escludere l’operatività del rimedio
restitutorio.
Occorre, invece, che la volontà attributiva si identifichi specificamente con l’intenzione
liberale dell’impoverito, affinché sussista una «giusta causa» dell’arricchimento.
Inoltre, si è anche visto che può accadere che all’obbligazione restitutoria si sovrapponga,
assorbendola, la regola dell’irripetibilità delle prestazioni eseguite in adempimento di una
obbligazione naturale.
Si tratta di due regole che hanno importanti risvolti nel campo delle attività prestate
all’interno dei rapporti familiari: nell’ambito del rapporto tra coniugi conviventi, ma spesso anche
in quello di convivenza more uxorio, i giudici ravvisano una presunzione di gratuità delle
prestazioni effettuate affectionis vel benevolentiae causa.
Particolarmente complessi sembrano i problemi qualificatori legati alla convivenza more
uxorio, risolvendosi questa in una situazione caratterizzata da un complesso di rapporti unificati,
sotto il profilo personale dalla affectio coniugalis, sotto il profilo economico dall’animus donandi,
alla quale si tende a negare, nel nostro ordinamento, la configurazione di fonte di obbligazione,
«non potendo considerarsi né un fatto illecito, né un contratto e nemmeno un quasi contratto e, in
particolare, una promessa di matrimonio»1.
Dalla presunzione di gratuità che, per comune ammissione, presiederebbe a questi rapporti,
consegue che per vedere riconosciuto il proprio diritto ad agire in arricchimento si dovrà fornire la
1
Trib. Roma, 10 ottobre 1985, in Temi rom., 1985, p. 953.
prova contraria, ossia dimostrare che la prestazione è stata effettuata in conseguenza di un rapporto
di lavoro subordinato2.
Quanto alla famiglia legittima, occorre tenere conto della reciprocità del dovere di
contribuzione nella gestione della famiglia che fa capo ad entrambi i coniugi: l’azione di
arricchimento, in tale prospettiva, potrà essere accolta soltanto se sussiste «un palese squilibrio in
ordine ai contributi apportati alla vita in comune» 3.
Ma in genere in tutte le ipotesi di servizi resi amicitiae vel benevolentiae causa, i giudici
sono pervicacemente restii a concedere tutela all’impoverito.
Ritengo, però, che esista un’ampia quanto inesplorata zona d’ombra all’interno della quale
all’azione di arricchimento può essere riservato uno spazio importante: la “giusta causa” deve
essere reperita caso per caso, e non ogni prestazione resa “spontaneamente” può essere ricondotta
nell’alveo della liberalità o delle obbligazioni naturali.
La sussistenza di uno spirito di liberalità idoneo a giustificare la locupletazione non può
essere presunta, ma deve invece essere vagliata in concreto: accertando, innanzitutto, che vi sia
l’effettiva sussistenza di una comunanza di vita spirituale e materiale.
Lo stesso ragionamento vale anche per i doveri morali e sociali: se la prestazione è stata il
riflesso di un dovere morale largamente condiviso, essa non può essere ripetuta, ma se il giudice vi
scorge l’esecuzione di un dovere avvertito come tale dal solo solvens, o fondato sulla mera cortesia
o sul galateo, i rimedi restitutori non possono essere a priori esclusi.
La base da cui occorre partire è che la prestazione spontanea dell’impoverito non è di per sé
preclusiva dell’azione. Il giudice dovrà effettuare una duplice valutazione: la prima, per accertarsi
se vi sia una giustificazione giuridica dello spostamento patrimoniale: norma di legge, contratto,
liberalità, adempimento di doveri morali o sociali. Se questa prima valutazione avrà esito negativo,
2
Trib. Catania, 24 ottobre 1994, in Riv. crit. dir. lav., 1995, p. 650: «le prestazioni
lavorative fra conviventi, nell’ambito di una comunità familiare anche di fatto – nella fattispecie
l’asserito dipendente conviveva more uxorio con la figlia dell’asserito datore di lavoro
nell’abitazione di quest’ultimo – si presumono rese a titolo gratuito, dovendosi ritenere espletate al
di fuori di qualsiasi incontro di volontà contrattuale e determinate da impulsi affettivi e dalla
comunanza di interessi, che escludono il carattere oneroso del rapporto; tale presunzione di gratuità
può essere superata dalla prova rigorosa, incombente sulla parte che sostiene l’esistenza del
rapporto di lavoro, circa i requisiti della subordinazione e della onerosità della prestazione».
3
GALLO, Arricchimento senza causa e quasi contratti (i rimedi restitutori), cit., p.
213. Cfr. anche OBERTO, Impresa familiare e ingiustificato arricchimento tra conviventi «more
uxorio», nota a Trib. Torino, 24 novembre 1990, in Giur. it., 1991, I, 2, c. 573, ove ampia
bibliografia. (Questo autore è tornato sul tema, recentemente, con un’opera monografica: Le
prestazioni lavorative del convivente more uxorio, Padova, 2003). Per le difficoltà relative
all’applicazione dell’azione di arricchimento nella convivenza, v. PANICO, Sull’esperibilità
dell’azione di ingiustificato arricchimento nel caso di cessazione della convivenza more uxorio, in
Giur. it., 1997, IV, c. 256.
dovrà operare con una seconda valutazione, questa volta basata sui dati del comune sentire sociale,
al fine di qualificare la locupletazione in termini di giustizia o di ingiustizia.
Se, ad esempio, un soggetto, senza esservi tenuto e senza essere legato all’altra parte da un
rapporto personale, affettivo o parentale che possa far ravvisare la presenza di un animus donandi,
ha somministrato alimenti ad un altro soggetto confidando nella sua promessa di futura
rimunerazione, qualora sia impossibile dimostrare la promessa (e quindi la responsabilità
contrattuale dell’arricchito), sembra equo riconoscergli ristoro attraverso il rimedio restitutorio4. In
questo caso, infatti, non è ravvisabile né il carattere di liberalità dell’attribuzione, in presenza del
quale saremmo innanzi ad una liberalità d’uso ex art. 770, comma 2º, c.c., né il carattere di
doverosità dell’attribuzione che contraddistingue la fattispecie di cui all’art. 2034 c.c. Né, ancora, la
situazione potrebbe essere ricondotta all’ipotesi contemplata dal primo comma dell’art. 770 c.c.,
poiché l’attribuzione non era fatta per riconoscenza o in considerazione dei meriti del donatario o
per speciale remunerazione5. In questo caso, inoltre, occorre che i giudici, valutando tutti gli
elementi di fatto, abbiano avuto la possibilità di escludere di essere innanzi ad un caso di
arricchimento imposto.
Parimenti, non può parlarsi né di presunzione di liberalità né di obbligazione naturale nel
4
Reputo quindi corretta la decisione di Trib. S.M. Capua Vetere, 10 giugno 1957: «la
corresponsione di prestazioni continuative di viveri, da parte di chi non sia tenuto a fornire gli
alimenti, allorché manchi la pattuizione di un corrispettivo, ma sia stata effettuata nella speranza di
futuri vantaggi, non può trovare inquadramento nello schema negoziale della somministrazione di
cui all’articolo 1559 c.c., che è di spiccata natura sinallagmatica. Tuttavia è certo che il vantaggio
dal (convenuto) fruito non è stato adeguatamente remunerato, onde da una parte un ingiustificato
arricchimento, cui fa riscontro, dall’altra, un depauperamento, legati da evidente nesso di causa ad
effetto». Il Tribunale ha concesso pertanto all’attore il rimedio ex art. 2041 c.c., anche in
considerazione del fatto che egli «non è in condizioni di esercitare azione contrattuale perché
contratto non vi fu, come è pacifico, ove si eccettuino delle evanescenti promesse, naturalmente
contestate dal convenuto».
5
Senza addentrarmi nel tema specifico della distinzione tra la liberalità fatta per
riconoscenza e gli altri doveri morali e sociali ex art. 2034 c.c., mi limito a riportare le significative
conclusioni cui era giunto BARASSI, Teoria generale delle obbligazioni, II, Milano, 1948, p. 396,
secondo il quale mentre nella donazione remuneratoria l’adempimento del dovere morale è soltanto
un «motivo» che determina l’animus solvendi, nella obbligazione naturale esso è la «causa»
dell’obbligazione.
Quanto alla distinzione tra donazione remuneratoria e liberalità d’uso, v. Cass., 1° gennaio
1992, n. 1077, in Arch. civ., 1992, p. 671, in Nuova giur. civ. comm., 1992, I, p. 654, con nota di
REGINE e in Vita not., 1992, p. 604, secondo cui per la prima deve intendersi l’attribuzione gratuita
compiuta spontaneamente e nella consapevolezza di non dover adempiere alcun obbligo giuridico,
morale o sociale per compensare i servizi resi e/o promessi dal donatario, mentre per la
configurabilità della seconda si richiede non solo che l’attribuzione patrimoniale gratuita sia
effettuata per speciale apprezzamento dei servizi in precedenza ricevuti dal donante o per rispettare
l’uso che consiglia di compierla in determinate occasioni, ma anche una certa equivalenza
economica tra il valore delle cose donate e quello dei servizi ricevuti dal disponente.
soccorso prestato da una persona ad un amico che si trova in stato di indigenza, e, in generale, nelle
prestazioni effettuate al di fuori di qualsiasi comunanza di vita o di interessi6.
Ma mentre, in teoria, non dovrebbe essere particolarmente complicato scorgere la presenza
di una norma di legge o di un valido accordo che fungano da giustificazione dell’arricchimento, i
maggiori problemi sorgono proprio in relazione alle altre due ipotesi, liberalità e obbligazione
naturale, essendo radicata la convinzione che i servizi prestati spontaneamente, soprattutto se resi in
ambito familiare o di convivenza, debbano presuntivamente farsi rientrare nell’una o nell’altra7.
La difficoltà principale è poi dovuta alla facilità di sconfinamento da un concetto all’altro.
Il settore che ha salutato un’inversione di tendenza piuttosto evidente è quello della
effettuazione di elargizioni in favore della convivente more uxorio: da una qualificazione in termini
di donazione rimuneratoria, si è passati negli ultimi quaranta anni a ritenere che esse configurino
adempimento di una obbligazione naturale, svincolando così la validità dell’attribuzione
dall’obbligo di rispettare le prescrizioni formali8.
Ai nostri fini, in ogni caso, è sufficiente escludere, da un lato la sussistenza di un animus
donandi dell’impoverito9, dall’altro che egli abbia agito spontaneamente in adempimento di doveri
morali o sociali: né l’una né l’altra circostanza possono presumersi dal mero fatto della
6
A volte è l’elemento della convivenza more uxorio ad essere considerato decisivo ai
fini della presunzione di gratuità: per Trib., 2 luglio 1997, in Rass. giur. umbra, 1998, p. 423,
«qualora tra due persone vi sia stata una semplice relazione sentimentale e non una convivenza
more uxorio … non è esclusa la possibilità della ripetizione nell’ipotesi in cui uno dei soggetti abbia
effettuato delle spese a favore dell’altro».
7
Trib. Larino, 21 ottobre 1994, in Nuovo dir., 1995, p. 519, con nota di FRONTINI, ha
affermato che in una relazione di convivenza more uxorio, il convivente, che ai sensi del diritto può
essere assimilato ad un ospite, non ha diritto al pagamento di una somma corrispondente
all’incremento di valore del fabbricato in proprietà dell’altro convivente in dipendenza di lavori di
ristrutturazione ed ampliamento che egli abbia eseguiti, a meno che non provi che le sue dazioni
eccedano dall’esecuzione dei doveri morali e sociali di cui all’art. 2034 c.c.
8
Per tutti. V. CARBONE, Terminata la convivenza vanno restituiti i regali: la
cassazione «ripiomba» nel medioevo, commento a Cass., 24 novembre 1998, in Corr. giur., 1999,
p. 62: «la convivenza di fatto … fa scaturire tra i partners doveri morali e sociali, e, quindi,
obbligazioni naturali e non donazioni».
9
Affinché si possa escludere di trovarsi in presenza di una liberalità d’uso, occorre far
capo al fatto che l’attribuzione è tale solo quando caratterizzata dal fatto che colui che la compie
intende osservare un uso, cioè adeguarsi ad un costume vigente nell’ambiente sociale
d’appartenenza, costume che determina anche la misura dell’elargizione in funzione della diversa
posizione sociale delle parti, delle diverse occasioni ed in proporzione delle loro condizioni
economiche, nel senso che comunque la donazione non debba comportare un depauperamento
apprezzabile nel patrimonio di chi la compie: non può parlarsi di liberalità d’uso, ad esempio, nel
caso di un’elargizione di gioielli fatta allo scopo di consentire la prosecuzione di una convivenza
(Cass., 24 novembre 1998, n. 11894, in Guida al dir., 1998, fasc. 48, p. 32, con nota di
FINOCCHIARO).
convivenza.10
2. Segue: la restituzione come “terza via” tra donazione e obbligazione naturale.
Sempre ai nostri limitati fini basti ricordare che, per comune convinzione, l’indagine sulla
sussistenza di un’obbligazione naturale è duplice, dovendo accertarsi, da un lato, se nel caso dedotto
sussista un dovere morale o sociale in rapporto alla valutazione corrente nella società e, dall’altro,
se tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di
proporzionalità ed adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso11.
Pertanto, una prestazione può configurare esecuzione di doveri morali o sociali solo qualora
corrisponda a regole correntemente e diffusamente osservate nella collettività in determinate
contingenze12. È questo il primo punto che il giudice di merito dovrà valutare anche per reperire una
giustificazione dell’arricchimento: in presenza, ad esempio, di elargizioni di denaro effettuate da
una persona al proprio partner nel corso di una relazione sentimentale, dovrà accertare in concreto
se da tale relazione possano scaturire, a carico del solvens, doveri morali e sociali tali da indurlo alle
attribuzioni patrimoniali anzidette13.
In secondo luogo, occorrerà valutare se l’attribuzione patrimoniale, ad esempio quella
10
Sembra che il ragionamento di cui nel testo sia stato correttamente applicato da Trib.
Genova, 27 marzo 1998, in Nuova giur. ligure, 1999, fasc. 1, p. 24: «la domanda del convivente
more uxorio, il quale, avendo provveduto, in favore di una cooperativa edilizia di cui era socia la
convivente, a pagamenti in conto delle contribuzioni da quest’ultima dovute per la prenotazione di
un appartamento, chiede la restituzione da parte della convivente delle somme pagate, deve essere
accolta, dovendosi escludere: a) che si tratti di obbligazione naturale, non essendo state le
erogazioni destinate ai bisogni della vita della famiglia di fatto; b) che si tratti di liberalità d’uso,
non sussistendo una sostanziale equivalenza economica tra le dazioni del convivente e i servizi allo
stesso resi dalla beneficiaria nel corso della coabitazione; c) che si tratti di altro tipo di liberalità,
mancando la prova dell’animus donandi, che non può presumersi dal mero fatto della convivenza».
11
Cfr., tra le tante, Cass., 12 febbraio 1980, n. 1007, in Giust. civ. Mass., 1980, fasc. 2,
ove si dà anche atto della nota distinzione, contenuta nell’art. 2034 c.c., di due categorie di
obbligazioni naturali, essendo previste al comma 2º fattispecie tipiche di obbligazioni naturali (casi,
cioè, esplicitamente contemplati dalla legge di atti socialmente e moralmente leciti, che non
assurgono però a vincoli giuridici e sono quindi sforniti di azione, quali l’adempimento della
disposizione fiduciaria e il pagamento del debito prescritto e del debito di gioco) e al comma 1º con
disposizione molto più ampia, l’esecuzione spontanea di un dovere morale (o di coscienza) o
sociale. Con riferimento a tale disposizione di carattere generico, varrebbe la duplice indagine di cui
è fatto cenno nel testo.
12
La giurisprudenza non ritiene sufficiente il convincimento soggettivo del solvens ma
considera indispensabile che il dovere appaia tale, secondo i parametri comunemente recepiti nella
vita di relazione. Ciò permette, ad esempio, di escludere che costituiscano adempimento di
un’obbligazione naturale le sovvenzioni private a partiti ed uomini politici (cfr., in argomento, Trib.
Roma, 18 maggio 1982, in Foro amm., 1982, c. 1307).
13
Per un riferimento a tale accertamento v. Cass., 26 gennaio 1980, n. 651, in Giust.
civ. Mass., 1980, fasc. 1.
effettuata in favore del convivente more uxorio, risulti adeguata alle circostanze e proporzionata
all’entità del patrimonio ed alle condizioni sociali del solvens14.
Se non ricorre un rapporto di proporzionalità tra prestazione e dovere che ne è alla base,
ossia se la prestazione ha un valore sproporzionato rispetto all’obbligo morale o sociale del
comportamento, si ritiene che per l’eccedenza si ricada nell’ambito della donazione, con annesso
obbligo di ricorrere alle formalità previste dalla legge.
Questo automatismo, a parte la sua inconciliabilità con le norme sulla liberalità (in specie
quelle attinenti alla forma), non dà alcuna certezza15; così come è da rifiutare anche l’automatismo
inverso, in base al quale ogniqualvolta una attribuzione a titolo gratuito manca dei presupposti per
la configurabilità di una obbligazione naturale, si richiama in causa la figura della donazione, in
specie rimuneratoria: come avvenuto, ad esempio16, nel caso della elargizione di una somma di
denaro effettuata da una persona anziana a favore della domestica inviatale dal comune nel quadro
dell’assistenza domiciliare. Invero, la qualificazione di donazione rimuneratoria, permette
comunque al solvens di essere reintegrato della diminuzione patrimoniale subita quando la
elargizione non sia di modico valore (nella specie, si trattava di venti milioni di lire, versati su di un
libretto al portatore), poiché l’inosservanza della forma dell’atto pubblico, prescritta dall’art. 782
c.c., comporta la nullità dell’attribuzione. La considerazione del considerevole valore della
elargizione, commisurata a tutte le circostanze di fatto, dovrebbe però far riflettere sulla reale
possibilità di configurare, senza innaturali forzature, l’esistenza di un animus donandi: poiché
quest’ultimo, specie in assenza di forma, deve essere dimostrato, riterrei più corretto il ricorso alla
clausola generale ex art. 2041 c.c. in ogni ipotesi nella quale l’arricchito non ha offerto la prova
della «giusta causa» del proprio arricchimento e questo appaia ingiusto dalla rilevazione delle
circostanze di fatto.
Prima di procedere alla degiuridificazione del rapporto occorre insomma molta cautela17.
14
Cfr. App. Napoli, 5 novembre 1999, in Giur. Nap, 2000, p. 232: l’attribuzione
patrimoniale era stata effettuata a titolo di ristoro per il sacrificio della sua aspirazione ad
un’esistenza autonoma ed indipendente, nonché al fine di assicurargli un’autosufficienza economica
per il tempo successivo alla cessazione del rapporto.
15
BRECCIA, L’arricchimento senza causa, cit., p. 993, dubita che, nel silenzio della
legge, «si possa procedere alla costruzione di schemi atipici se non addirittura «astratti», i quali
portino alle stesse conseguenze di una liberalità, pur nel difetto dei rigidi presupposti a cui … sono
subordinate l’efficacia e la stabilità delle attribuzioni gratuite».
16
App. Genova, 18 gennaio 1988, in Vita not.,1988, p. 128, con nota di FONTANA.
17
Bene ha fatto quindi la Suprema Corte ad escludere la gratuità del lavoro svolto da
un soggetto in favore del proprio cugino, con la motivazione che «l’elemento che giustifica la
gratuità di prestazioni lavorative obbiettivamente riconducibili ad un rapporto di lavoro subordinato,
e quindi ad un contratto naturalmente oneroso, deve essere accertato con indagine particolarmente
rigorosa, tenendo comunque conto che il fine di acquisire particolari cognizioni può giustificare la
D’altra parte la disciplina dell’indebito ha già tracciato il solco, quale importante esempio di
superamento dell’automatismo spontaneità (assenza di errore) = liberalità. Si ricorderà infatti la
ormai acclarata ripetibilità anche del pagamento sciente dell’indebito.
3. Verso un superamento della presunzione di gratuità.
Negli ultimi anni, è in corso un progressivo superamento della presunzione di liberalità
nell’ambito dei rapporti sin qui descritti, anche per effetto dell’introduzione, ad opera della riforma
del diritto di famiglia del 1975, dell’istituto dell’impresa familiare (art. 230 bis c.c.)18.
Rimane tuttavia molto controverso, se questa lenta inversione di tendenza sia estensibile
anche alla famiglia di fatto19, posto che la stessa estensione analogica dell’art. 230 bis c.c. alla
convivente more uxorio incontra tuttora ostacoli20.
gratuità del rapporto solo nel caso di sussistenza, nel concreto svolgimento dell’attività lavorativa,
di elementi coerenti con il fine suddetto, quali una particolare perizia del datore di lavoro e la
possibilità del lavoratore di sfruttarla mediante l’insegnamento o, almeno, il lavoro in comune»
(Cass., sez. lav., 23 febbraio 1989, n. 1009, in Foro it., 1989, I, c. 1482).
18
Per un approfondimento della ratio dell’art. 230 bis c.c., con ampi riferimenti
giurisprudenziali e bibliografici, rinvio a BALESTRA, L’impresa familiare, Milano, 1996, p. 14 ss.
19
Alla considerazione in cui deve essere tenuto, anche in materia di famiglia di fatto, il
«ridimensionamento della presunzione di gratuità delle prestazioni rese anche nell’ambito della
famiglia legittima a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 230 bis c.c.» ha fatto riferimento Cass.,
13 dicembre 1986, n. 7486, in Giust. civ. Mass., 1986, fasc. 12, concludendo che il giudice «può
escludere l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato solo in presenza della dimostrazione
rigorosa di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi (famiglia di fatto), che non si
esaurisca in un rapporto meramente spirituale, affettivo e sessuale, ma, analogamente al rapporto
coniugale, dia luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, della convivente more uxorio alle
risorse della famiglia di fatto». Conforme: Pret. Sampierdarena, 26 ottobre 1987, in Dir. lav., 1991,
II, p. 373, con nota di FONTANA.
Cass., sez. lav., 29 maggio 1991, n. 6083, in Dir. lav., 1991, II, p. 373, con nota di
FONTANA, ha affermato che la prova del carattere contrattuale del rapporto (di lavoro subordinato)
incombe su chi, per avvantaggiarsene, lo invoca; mentre accertarne la sussistenza è compito del
giudice di merito, il quale è libero di formare il proprio convincimento utilizzando gli elementi
probatori ritenuti rilevanti; la sua valutazione, se adeguatamente motivata ed immune da errori
logico-giuridici, non è censurabile in sede di legittimità.
20
La giurisprudenza prevalente è infatti contraria; cfr., ad esempio, Cass., sez. lav., 2
maggio 1994, n. 4204: «l’art. 230 bis c.c., che disciplina l’impresa familiare, costituisce norma
eccezionale, in quanto si pone come eccezione rispetto alle norme generali in tema di prestazioni
lavorative ed è pertanto insuscettibile di interpretazione analogica; deve peraltro ritenersi
manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 230 bis nella parte in cui esclude
dall’ambito dei soggetti tutelati il convivente more uxorio, posto che elemento saliente dell’impresa
familiare è la famiglia legittima, individuata nei più stretti congiunti, e che un’equiparazione fra
coniuge e convivente si pone in contrasto con la circostanza che il matrimonio determina a carico
dei coniugi conseguenze perenni ed ineludibili (quale il dovere di mantenimento o di alimenti al
coniuge, che persiste anche dopo il divorzio), mentre la convivenza è una situazione di fatto
caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale ad nutum».
L’abbandono graduale della presunzione di gratuità deve essere salutato con favore ed
incentivato: una volta dimostrato che la collaborazione del convivente nell’impresa è idonea ad
incrementare il patrimonio dell’altro, i rimedi restitutori saranno i più idonei a colmare il vuoto di
tutela che per lungo tempo ha contraddistinto la materia. Basterà, come “ultimo atto”, vedere se
ricorrano gli estremi per ravvisare la sussistenza tra i due conviventi di una società di fatto; in caso
contrario, poiché l’arricchimento non trova giustificazione né nello spirito di liberalità, né in un
contratto né in una disposizione di legge (sempre che non si voglia applicare analogicamente l’art.
230 bis c.c.), il convivente “debole” potrà avere ristoro con l’azione di arricchimento.
La vigenza di un divieto generale di arricchimenti ingiustificati impone una rimeditazione
della posizione patrimoniale dei conviventi, e consente di sanare gli antichi quanto anacronistici
pregiudizi verso la famiglia di fatto incarnati dalla alternativa donazione rimuneratoria –
obbligazione naturale.
Il generale risultato cui i giudici sono nel tempo pervenuti, consistente nella affermazione di
una obbligazione naturale di mantenimento e di reciproca assistenza (paragonabile in certo senso
agli obblighi giuridici previsti per i coniugi dall’art. 143 c.c.), ha dato vita ad una prima forma di
riconoscimento dei diritti spettanti ai conviventi more uxorio; ma è la mancanza di certezza formale
e della conseguente pubblicità, che caratterizza i rapporti che si svolgono all’interno della famiglia
di fatto, esclude ogni possibilità di pretendere l’adempimento coattivo dei citati obblighi di
assistenza e mantenimento21.
Laddove gli interessati non siano intervenuti preventivamente con gli strumenti
dell’autonomia negoziale, come la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato o di un
contratto di convivenza22, le sperequazioni possono essere rimediate ex post attraverso le
obbligazioni restitutorie, proprio perché né la legge, né la volontà delle parti, hanno derogato alla
vigenza del principio dell’arricchimento senza causa: la presenza di una obbligazione naturale è
esclusa dall’assenza di proporzionalità e adeguatezza delle prestazioni; non vi è liberalità perché
l’impoverito riponeva un proprio legittimo affidamento nella stabilità della situazione di fatto
instauratasi.
Contra, Trib. Torino, 24 novembre 1990, in Giur. it., 1991, I, 2, c. 574, con nota di OBERTO,
ha statuito che le disposizioni di cui all’art. 230 bis c.c. in tema di impresa familiare sono applicabili
anche al lavoro prestato nella famiglia o nell’impresa familiare dal convivente more uxorio.
21
PIEPOLI, Realtà sociale e modello normativo nella tutela della famiglia di fatto, in
Riv. trim. proc. civ., 1972, p. 1451.
22
Sui contratti di convivenza v. FRANZONI, I contratti tra conviventi «more uxorio», in
Riv. trim. proc. civ., 1994, p. 737 ss.; ID., Le convenzioni patrimoniali tra conviventi more uxorio,
in Il diritto di famiglia, Tratt. dir. da G. Bonilini e G. Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della
famiglia, Torino, 1997, p. 463; BALESTRA, Gli effetti della dissoluzione della convivenza, in Riv.
dir. priv., 2000, p. 486; OBERTO, Convivenza (contratti di ), in Contr. e impr., 1991, p. 373.
Con particolare riguardo alla famiglia di fatto, l’azione di arricchimento innalza il livello
della tutela, troppo mortificato dal confronto con la protezione della famiglia legale, «i cui capisaldi
possono essere indicati nella comunione dei beni, nell’istituto di cui all’art. 230 bis c.c., negli
alimenti, nell’attribuzione al coniuge della qualità di legittimario», e trova ragione in fondamentali
esigenze di giustizia sostanziale: «sarebbe curioso che in nome della affectio un convivente fosse
legittimato ad appropriarsi del lavoro dell’altro e che, alla fine della convivenza, l’affectio
producesse l’effetto perverso di lasciare un convivente ancora più ricco e l’altro ancora più
povero».23
Più in generale, l’azione di arricchimento può divenire un importante strumento di
parificazione socio-economica per soggetti, quali la casalinga o chi collabora all’attività del padre o
del marito, tradizionalmente estromessi dalla tutela dei diritti di natura patrimoniale.
Quanto ai coniugi, dovrà sempre tenersi presente che essi sono reciprocamente tenuti alla
contribuzione ai bisogni della famiglia, ciascuno in proporzione alle proprie sostanze e capacità
lavorative (art. 143, comma 3º, c.c.); cosicché, per potersi parlare di arricchimento ingiustificato di
uno a carico dell’altro, dovrà previamente compiersi una valutazione globale dell’apporto che i due
coniugi hanno dato alla gestione della famiglia, per vedere se quella che a prima vista appare come
una ingiusta locupletazione non sia in realtà compensata dal maggior contributo al menage familiare
dato dal coniuge presunto arricchito.
L’azione di arricchimento, è apparsa anche come il rimedio più idoneo nei casi nei quali un
immobile intestato ad uno solo dei coniugi, sia stato in realtà acquistato col denaro di entrambi, e
non sia possibile accertarne la contitolarità24.
L’azione di arricchimento (insieme con quella di ripetizione) è spesso invocata, nel caso di
rottura del matrimonio, nei confronti del coniuge che, pendente il vincolo coniugale, aveva
acquistato un immobile, risultandone unico intestatario, con denaro sborsato dall’altro coniuge.
Ma giudici ravvisano nella fattispecie una donazione indiretta tra coniugi, negando sia che
l’arricchimento sia ingiustificato, sia che il pagamento sia privo di titolo e dunque indebito: «la
mancanza di una precisa causa onerosa del pagamento, giuridicamente rilevante, nonché la
23
Così Trib. Milano, 5 ottobre 1988, in Lav. 80, 1989, p. 549. La sentenza è
commentata adesivamente da BALESTRA, L’impresa familiare, cit., p. 188-195, il quale (p. 194 s.)
sottolinea come «il rimedio dell’arricchimento senza causa … si erge a strumento di tutela del
convivente (debole) nel caso di prestazioni spontaneamente effettuate a favore del partner. Un
rimedio residuale dunque, per la tutela di una situazione che in questa prospettiva viene ad essere
relegata ai margini dell’ordinamento, non al di là perché fornita di questo strumento pur minimo di
tutela, ma pur sempre distante da quel ruolo e da quelle forme di garanzia che una parte
considerevole della dottrina e un sentimento comune sempre crescente sono orientati ad attribuirle».
24
Cfr. GALLO, Arricchimento senza causa e quasi contratti (i rimedi restitutori),
Torino, 1996, p. 214.
spontaneità del pagamento, unitamente, si pongono come sicuri indici dello spirito liberale del
pagamento effettuato, da valutarsi al momento della donazione»25.
Oltre che nei rapporti interni, tra coniugi o conviventi, infine, l’azione può giocare un ruolo
non marginale nei rapporti esterni, ossia a vantaggio dei terzi che abbiano ricevuto incarichi o
ordinazioni dal coniuge o dal convivente: se il terzo che ha offerto un servizio di cui la coppia o
l’intero nucleo familiare abbia profittato, non può soddisfare il proprio credito nei confronti del
partner o del familiare convivente con cui aveva contrattato (ad esempio perché quest’ultimo è
divenuto insolvente), ben potrebbe trovare spazio, accanto agli istituti della gestione di affari e della
rappresentanza tacita, l’actio de in rem verso; con il limite ad essa intrinseco, ovviamente, che
l’interesse del terzo troverebbe soddisfazione solamente nella misura in cui il convenuto si è giovato
della prestazione: dunque, nel caso di coniugio o di convivenza more uxorio, presumibilmente, per
la metà.
3. La necessità di tutelare l’impoverito che abbia riposto un legittimo affidamento nelle
conseguenze del proprio sacrificio patrimoniale.
La base da cui partire è che in tutti i casi in cui l’impoverito è stato spinto ad effettuare la
prestazione (o la dazione) da fini leciti e non diretti ad imporre maliziosamente un arricchimento
non voluto, se in seguito sopravvengono dei fatti imprevisti che contraddicono quei fini e
mortificano le sue legittime aspettative, non vi è ragione per escludere un ripristino dello status quo
ante che rimedi allo squilibrio ingiustificatamente venuto in essere.
Se il parente, l’amico o il convivente ha dato per anni il proprio gratuito contributo ad una
attività comune, senza esservi obbligato da uno specifico contratto ma facendo affidamento sul
duraturo rapporto affettivo con l’altra persona, e quindi sulla duratura possibilità di ricevere, da
questa, conforto e appoggio anche sotto il profilo economico, qualora il rapporto o la relazione si
concludano non è giuridicamente infondato, alla luce della vigenza del principio ex art. 2041 c.c., il
diritto di ottenere un qualche ristoro inteso al riequilibrio delle posizioni patrimoniali, con
conseguente obbligo di natura patrimoniale dell’altro soggetto.
L’art. 2041 c.c. può trovare spazio ogni volta sia possibile ravvisare il mancato rispetto delle
regole della normale remuneratività del lavoro, salvo che la deroga a quelle regole sia giustificata
dall’autonomia negoziale delle parti del rapporto o dalla gratuità dell’attribuzione, che va comunque
provata e deve fondarsi su di un titolo specifico.
Quanto in particolare alla convivenza, che è una scelta, in certo senso, di libertà nei confronti
del diritto e delle sue forme, lo squilibrio patrimoniale che, in assenza di norme morali e sociali,
25
Trib. Milano, 17 settembre 1998, riportato per esteso in ALBANESE, Il pagamento
dell’indebito, cit., p. 660 ss.
deriva dalla situazione ora descritta, non ha nulla a che vedere con i profili personali interni dei
conviventi, la cui posizione, di fronte al principio dell’arricchimento senza causa, è identica a quella
di qualsiasi altro soggetto.
Detto principio generale può essere escluso soltanto se il rapporto di convivenza (o di
amicizia, parentela, ecc.) sia stato caratterizzato da una partecipazione equa ed effettiva del soggetto
“debole” ai risultati dell’attività posta in essere: in tal caso l’arricchimento ha una adeguata
giustificazione. In caso contrario, l’attività prestata equivale ad un trasferimento patrimoniale, da un
soggetto che si impoverisce ad un altro che se ne arricchisce, non sorretto da idonea causa giuridica.
Alla luce delle considerazioni sin qui svolte è possibile pervenire, a mero titolo
esemplificativo, e in contrasto con le statuizioni giurisprudenziali, al risultato che l’azione di
arricchimento andava concessa:
a) nel caso delle prestazioni effettuate dai genitori in favore di un figlio in occasione
dell’inizio di una sua convivenza more uxorio26, qualora a seguito della rottura del rapporto fosse
risultato l’arricchimento della partner. Analoga situazione si verifica nel caso delle spese sostenute
dai genitori dei futuri sposi per l’arredamento o la ristrutturazione della casa: si ritiene che esse,
essendo dirette a rispettare il costume sociale (che prevede da parte di tali soggetti una
partecipazione economica, di regola, in proporzione delle loro sostanze), configurino le liberalità
d’uso di cui all’art. 770, comma 2º, c.c.27. In realtà, quando le spese per l’arredamento (o, ad
esempio, per la ristrutturazione dell’appartamento), come spesso accade, sono state sostenute dai
genitori di uno dei due fidanzati mentre la casa era stata messa a disposizione dall’altro partner o
dai suoi genitori, se prima del matrimonio il fidanzamento si rompe e la coabitazione non ha luogo
si verifica una palese situazione di arricchimento ingiustificato dei proprietari della casa: negare la
restituzione ai soggetti impoveriti significherebbe frustrare, con la fictio dell’intenzione liberale, un
loro legittimo affidamento nella stabilità di una comunanza di vita e di affetti.
b) nel caso di doni tra fidanzati, i quali vengono di norma considerati come vere e proprie
donazioni28 e che andrebbero pertanto sottoposti ai requisiti di sostanza e di forma previsti dal
26
Contra Trib. Ravenna, 9 marzo 1994, in GIUS, 1994, fasc. 11, p. 177, con nota di
ASTONE, Ingiustificato arricchimento senza causa, che come già visto ha affermato che le
elargizioni costituivano liberalità d’uso e non davano quindi luogo ad un’ipotesi di ingiustificato
arricchimento. L’indennizzo era invece stato concesso, in un caso analogo, da App. Venezia, 20
dicembre 1957, in Giust. civ. Mass., 1957, p. 1815. Anche in Spagna la questione è stata risolta
grazie al principio dell’arricchimento ingiustificato: S. 27 maggio 1958.
27
Trib. Napoli, 9 ottobre 1981, in Arch. civ., 1982, p. 392, in Dir. e giur., 1981, p. 880,
in Giur. it., 1982, I, 2, c. 524 e in Dir. fam. pers., 1982, p. 942.
28
Così Cass., 8 febbraio 1994, n. 1260, la quale ha invece escluso che essi siano
equiparabili alla liberalità in occasione di servizio, o alle donazioni fatte in segno tangibile di
speciale riconoscenza per i servizi resi in precedenza dal donatario, o alle liberalità d’uso.
codice. La giurisprudenza tende però a ravvisare con una certa larghezza il carattere della modicità
dell’oggetto donato (che va apprezzata, come noto, in relazione alla capacità economica del
donante) al fine di poter considerare il trasferimento legittimamente perfezionato in base alla mera
traditio. Altre volte il medesimo risultato è raggiunto, quando è evidente la impossibilità di
ravvedere una donazione di modico valore ai sensi e per gli effetti dell’art. 783 c.c., attraverso la
configurazione di una liberalità d’uso prevista dall’art. 770, comma 2º, c.c. (non costituente
donazione in senso stretto e perciò non soggetta alla forma propria di questa)29.
La soluzione da me data non deve stupire: il § 1301 BGB richiama espressamente la
disciplina dell’arricchimento senza causa con riguardo alla rottura del fidanzamento.
Il diritto di famiglia ed i rapporti di convivenza sembrano i terreni più fertili perché possa
sviluppare le proprie potenzialità la clausola generale, attraverso la quale toccherà al giudice
precisare il concetto di “ingiustizia” in relazione ai singoli casi di arricchimento. In altre parole, una
volta che il primo passaggio interpretativo si sia risolto con l’esclusione di trovarsi innanzi ad una
elargizione fatta con intenzione liberale o in esecuzione di una obbligazione naturale, il secondo e
definitivo passaggio, nell’impossibilità di dare soluzioni univoche al problema, consisterà nella
valutazione di tutte le circostanze di fatto, al fine di pervenire ad una soluzione in grado di tenere
presenti tutti gli interessi in conflitto, la loro natura e gli scopi da cui era animata l’iniziativa
dell’impoverito 30.
N.B.: In materia di diritto di famiglia, si segnala ora, per la valorizzazione del ruolo di
clausola generale dell’art. 2041 c.c., Cass., 15 maggio 2009, n. 11330, che ha concesso il
rimedio al convivente more uxorio che aveva arricchito il partner con prestazioni economiche e
lavorative esorbitanti dai limiti di proporzionalità e adeguatezza.
MASSIMA
Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2009, n. 11330, in Famiglia e Diritto, 2010, 4, 380, con nota di
GELLI: Il diritto a richiedere l'indennizzo per l'altrui ingiustificato arricchimento si prescrive in
dieci anni dal momento in cui l'arricchimento si è verificato. Nel caso in cui un convivente "more
29
Cass., 9 dicembre 1993, n. 12142, in Giust. civ. Mass., 1993, fasc. 12. Interessante la
decisione di Trib. Palermo, 3 settembre 1999, in Fam. e dir., 2000, p. 284, con nota di FERRANDO:
«l’attribuzione gratuita di alcuni gioielli a favore della convivente more uxorio costituisce
donazione di modico valore, dovendo questo essere commisurato non al valore in sé delle cose
donate, ma alle condizioni economiche del donante. Anche a voler escludere la modicità del valore,
si tratterebbe in ogni caso di liberalità d’uso, non soggetta ai requisiti formali prescritti per la
donazione».
30
Sull’importanza di detti scopi, e sulla condivisione dell’iniziativa da parte del
beneficiario, insiste BRECCIA, L’arricchimento senza causa, cit., p. 996, il quale rileva come questi
fatti, se meritevoli di tutela ed erronei o successivamente frustrati, potrebbero eliminare ogni dubbio
sulla possibilità di trovarsi innanzi ad una fattispecie di arricchimento imposto.
uxorio" presti nei confronti dell'altro rilevanti contributi economico-patrimoniali in maniera
continuativa, la prescrizione dell'azione di arricchimento decorre dalla cessazione del rapporto di
convivenza.
SENTENZA
Con citazione notificata in data 21/6/1990 A.T. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di
Milano V.R., per sentirla condannare al pagamento delle somme percepite e/o prelevate dai beni
ereditari del padre dell'attrice, A.S., deceduto senza lasciare testamento il (OMISSIS).
La convenuta, costituendosi in giudizio, contestava la domanda e, precisato che aveva convissuto
con A.S. more uxorio sin dal 1952, chiedeva, in via riconvenzionale, di accertare e dichiarare il
proprio diritto di comunione in ragione del 50% su tre appartamenti e relativi accessori e pertinenze,
siti tutti a (OMISSIS) - e, precisamente, in Via (OMISSIS) e Via (OMISSIS) - che assumeva essere
stati acquistati da A. S. durante il lungo periodo di convivenza con il proprio determinante
contributo economico; in subordine, chiedeva di accertare e dichiarare l'arricchimento senza giusta
causa di A. S. in misura pari al 50% del valore di detti immobili, con la condanna degli eredi al
pagamento del relativo indennizzo.
Integrato il contraddittorio con l'intervento dell'altra erede e coniuge dell' A., G.A., la causa era
istruita con prova orale e documentale e decisa con sentenza in data 16/1/2003, con la quale l'adito
Tribunale rigettava sia la domanda principale che quella riconvenzionale, compensando interamente
le spese di lite tra le parti.
In particolare - per quanto qui interessa - il Tribunale, precisato che le risultanze istruttorie
comprovavano la convivenza more uxorio protrattasi nel tempo tra A.S. e la convenuta, nonchè il
contributo lavorativo ed economico da quest'ultima fornito al convivente sino al momento della sua
morte, riteneva prescritta l'azione di arricchimento, avuto riguardo alla data dell'ultimo acquisto
immobiliare, avvenuto il (OMISSIS).
La sentenza di primo grado era gravata da appello da parte della sola V., cui nelle more succedeva
D.G.P., intervenuto nel giudizio quale unico erede testamentario.
Con sentenza non definitiva in data 8-2/25-7-2005, la Corte di appello, in parziale riforma, così
provvedeva: dichiarava e accertava l'avvenuto indebito arricchimento conseguito da A. S. nel
periodo di convivenza trascorso con V.R. a fronte del rilevante contributo lavorativo ed economico
allo stesso fornito dalla V. nei lunghi anni di convivenza e sino al momento del decesso dell' A.;
dichiarava tenute e condannava le appellate A.T. e G.A., nella loro qualità di eredi legittime di A.S.,
a corrispondere, in via solidale tra loro, a V.R. un congruo indennizzo determinato nella misura del
50% del valore di mercato alla data del decesso di A.S. dei tre appartamenti, individuati in atti,
acquistati dal loro dante causa nel corso della convivenza, secondo l'accertamento da effettuarsi nel
prosieguo del giudizio.
La Corte di appello riteneva che la prescrizione fosse stata dichiarata di ufficio e, comunque, che
non fosse decorsa al momento della domanda riconvenzionale, nonchè fondata la pretesa di
pagamento dell'indennizzo ex art. 2041 c.c., di cui fissava i criteri di determinazione nei termini in
dispositivo.
Proposta riserva di impugnazione da parte delle appellate, nel successivo iter processuale veniva
espletata una c.t.u. e, all'esito, con sentenza in data 12/27-6-2007, la Corte di appello di Milano
condannava A.T. e G.A. al pagamento in favore di D.G.P. della somma di Euro 118.293,62 oltre
rivalutazione monetaria secondo indici ISTAT dal 16/4/1988 alla data della sentenza e oltre
interessi legali sulla somma rivalutata per il prosieguo; con condanna delle appellate al pagamento
delle spese di entrambi i gradi.
Hanno proposto ricorso per cassazione G.A. e A. T., svolgendo sei motivi e chiedendo di cassare,
eventualmente senza rinvio, la sentenza non definitiva e quella definitiva.
Ha resistito D.G.P., depositando tempestivo controricorso.
Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo parte ricorrente censura la sentenza non definitiva nel punto in cui ha
affermato l'inconferenza della spontaneità delle elargizioni effettuate dalla V. in favore del suo
convivente A.S..
1.1. Le ricorrenti denunciano violazione dell'art. 2041 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3,
osservando che la motivazione, molto succinta in parte qua, si risolve nella generica affermazione
della sussistenza dei presupposti dell'azione di arricchimento, nonchè nella considerazione che la V.
"confidava legittimamente, dopo un'intera vita trascorsa col convivente ed al suo esclusivo servizio,
in una sistemazione matrimoniale sempre promessa (...), ma mai mantenuta" (pag. 8 della sentenza
non definitiva); sottolineano che quest'ultima argomentazione non smentisce il rilievo che si trattava
di prestazioni patrimoniali rese all'interno della coppia di conviventi more uxorio, con la
conseguenza che esse andrebbero inquadrate nell'ambito delle obbligazioni naturali, costituendo un
semplice dovere morale e sociale, e non giuridico, quello di fornire all'altro convivente i mezzi per
vivere.
A parere delle ricorrenti la decisione si collocherebbe al di fuori dei parametri che governano
l'arricchimento senza giusta causa e in contrasto con un orientamento costante nell'escludere
l'azione di cui all'art. 2041 c.c., nell'ambito della convivenza more uxorio, trattandosi di prestazioni
rese affectionis vel benevolentiae causa e caratterizzate dalla spontaneità dell'adempimento; il che
dovrebbe escludere l'arricchimento, quali che siano, per ciascuno degli interessati, le conseguenze
economiche vantaggiose o svantaggiose, in quanto causate dalla libera e concorde determinazione
delle loro volontà. 1.2. Il motivo è infondato.
Innanzitutto occorre osservare che l'affermazione, contenuta nella sentenza non definitiva,
dell'inconferenza della riconducibilità eziologica del danno subito alla volontà della depauperata
risulta complementare al precedente rilievo della sussistenza, nel caso all'esame, di tutti gli elementi
costitutivi dell'istituto di cui all'art. 2041 c.c., e, in specie, del requisito dell'assenza di una "giusta
causa" della locupletazione dell'uno in danno dell'altro convivente, id est dell'assenza di una
giuridica giustificazione, che, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, ivi incluso il
rapporto di convivenza tra le parti, giustificasse lo spostamento economico-patrimoniale tra le
stesse. Del resto l'argomentazione sopra testualmente riportata, su cui si appunta la censura di parte
ricorrente, non esaurisce la sua portata nel rilievo dell'aspettativa di una "sistemazione
matrimoniale" della depauperata, ma appare, piuttosto, incentrata nella considerazione della diretta
dipendenza causale dell'arricchimento dell' A. dall'"esclusivo servizio" ad esso prestato nel corso di
tutta la convivenza dalla V. e va letta unitamente ai ripetuti riferimenti, contenuti nel corpo della
stessa sentenza, alla provenienza della provvista per gli acquisti immobiliari del primo "anche e
soprattutto" dai proventi del lavoro della seconda (pag. 6 della sentenza non definitiva) e all'assenza
di una giusta causa del "rilevante contributo economico e lavorativo" fornito dalla V. per gli
acquisti effettuati dall' A. durante tutto il periodo di ultratrentennale convivenza (pagg. 8 e 9 della
stessa sentenza).
In sostanza - precisato che il motivo all'esame non attiene alla congruità della motivazione,
denunciando, piuttosto, violazione di legge - ciò che emerge dal complesso argomentativo della
sentenza non definitiva (non particolarmente brillante nell'esposizione, ma, comunque, esaustivo e
non censurabile in questa sede) è che l'arricchimento dell' A. è stato conseguente alla conversione a
suo esclusivo profitto, mediante l'acquisto di proprietà immobiliari ad esso solo intestate, di
contributi economici e lavorativi della V., resi in assenza di un titolo (neppure gratuito) che
giustificasse lo spostamento patrimoniale e tali - per rilevanza, continuità e unilateralità degli
apporti - da non costituire adempimento dei doveri morali, conseguenti all'instaurazione del
rapporto di convivenza.
1.3. Così individuati i presupposti della pretesa indennitaria, ritiene il Collegio che la decisione
impugnata si colloca correttamente nell'ambito normativo dell'arricchimento senza giusta causa.
Valga considerare che l'art. 2041 c.c., costituisce una norma di chiusura della disciplina delle
obbligazione, concedendo uno strumento di tutela, esperibile in tutti i casi in cui tra due soggetti si
verifica uno spostamento patrimoniale (c.d. utiliter versum), tale che uno subisca danno e l'altro si
arricchisca, "senza una giusta causa" e, cioè, senza che sussista una ragione che, secondo
l'ordinamento, giustifichi il profitto o il vantaggio dell'arricchito.
L'azione ha carattere generale, perchè è esperibile in una serie indeterminata di casi, in quanto
espressione del principio per cui non è ammissibile l'altrui pregiudizio patrimoniale, senza una
ragione giustificativa; ha, inoltre, carattere sussidiario, perchè è esercitabile solo quando al
depauperato non spetti nessun'altra azione, basata su un contratto, su un fatto illecito o su altro atto
o fatto produttivo dell'obbligazione restitutoria o risarcitoria (art. 2042 c.c.). Invero se
l'arricchimento costituisce la conseguenza di un contratto o di un rapporto compiutamente regolato,
non è dato invocare la mancanza o l'ingiustizia della causa, almeno fino a quando il rapporto o il
contratto mantengano la loro efficacia obbligatoria (cfr. Cass. n. 2312 del 2008; Sez. Unite, n.
14215 del 2002).
Da quanto sopra precisato risulta chiaro che nella formula "senza una giusta causa" di cui all'art.
2041 c.c., rientrano, anche, i casi di arricchimento senza la volontà del depauperato, risolvendosi la
mancanza di volontà in un'ipotesi di mancanza di causa; e, tuttavia, la non volontarietà dello
spostamento patrimoniale non costituisce il tratto esclusivo dell'istituto in questione. Invero
l'arricchimento/depauperamento deve avere una giustificazione giuridicamente valida (secundum
ius), intendendosi per tale un titolo legale o negoziale idoneo a sorreggere sia l'incremento, sia la
connessa diminuzione patrimoniale. Al contrario l'arricchimento risulterà "senza una giusta causa",
quando non ha tale giustificazione e, cioè, quando è correlato ad un impoverimento non remunerato,
nè conseguente ad un atto liberalità e neppure all'adempimento di un'obbligazione naturale; e ciò in
quanto l'ordinamento esige che ogni arricchimento dipenda dalla realizzazione di un interesse
meritevole di tutela.
E' il caso di puntualizzare - per quanto qui ci occupa - che il riferimento ad esigenze di tipo
solidaristico non è di per sè sufficiente a prefigurare una "giusta causa" dello spostamento
patrimoniale, giacchè ai fini dell'art. 2034 c.c., comma 1, occorre allegare e dimostrare non solo
l'esistenza di un dovere morale o sociale in rapporto alla valutazione corrente nella società, ma
anche che tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di
proporzionalità e adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso (cfr. Cass. n. 1007 del
1980).
1.4. Ciò premesso in via di principio, ritiene il Collegio che l'assunto di parte ricorrente, tendente a
prefigurare una sorta di inconciliabilità logico-giuridica tra la convivenza more uxorio e l'azione di
arricchimento senza giusta, sul presupposto dell'inquadramento delle prestazioni rese dai conviventi
nell'ambito concettuale dell'obbligazione naturale, postula che le prestazioni stesse trovino la loro
giustificazione, per l'appunto, nel rapporto di convivenza e, cioè, che sì tratti di prestazioni rese
nell'adempimento dei doveri di carattere morale e civile di solidarietà e reciproca assistenza che,
avuto riguardo alle condizioni sociali e patrimoniali delle parti, devono presiedere alla famiglia di
fatto; mentre quando risulti - come nel caso all'esame - che le prestazioni rese da un convivente e
convertite (in tutto o in parte) a vantaggio dell'altro esorbitano dagli indicati limiti di
proporzionalità e adeguatezza, allora è configurabile una mera operazione economico-patrimoniale,
comportante un ingiustificato arricchimento del convivente more uxorio con pregiudizio dell'altro.
1.5. E' appena il caso di aggiungere che, nella descritta situazione, non è neppure estensibile la
presunzione di gratuità, propria delle prestazioni lavorative svolte nell'ambito di comunità familiari,
la quale avrebbe richiesto la rigorosa dimostrazione di una comunanza spirituale ed economica
analoga a quella inerente al rapporto coniugale (cfr. Cass. n. 3012 del 1978). Peraltro siffatta
presunzione - da ritenersi operante nella famiglia di fatto nei limiti di cui all'art. 230 bis c.p.c. (cfr.
Cass. n. 5803 del 1990) - potrebbe riferirsi solo alla collaborazione data per le esigenze del nucleo
famigliare ovvero alla gestione dell'azienda dalla quale la famiglia stessa tragga i mezzi di
sostentamento; il che non è dato ravvisare nel caso in esame, per quanto emerge dal testo della
decisione impugnata. Invero la tesi delle ricorrenti in ordine alla gratuità delle prestazioni rese dalla
V. e alla loro riferibilità causale all'adempimento del "dovere di fornire all'altro convivente all'altro
convivente i mezzi per vivere" - prima ancora che alternativa rispetto a quella adottata in sede di
merito - risulta riduttiva ed è, anzi, contraddetta dalle riferite risultanze fattuali.
2. I successivi tre motivi di ricorso verranno esaminati congiuntamente attesa la loro stretta
connessione, riguardando, tutti, la questione della prescrizione dell'azione di arricchimento.
2.1. La Corte di appello ha ritenuto che la prescrizione fosse stata dichiarata dal Tribunale di
ufficio, in quanto la relativa eccezione, solo accennata nella comparsa di intervento volontario in
data 14/3/1991 della G., non risultava ribadita nelle conclusioni contenute nella stessa comparsa e,
soprattutto, non era stata richiamata nelle conclusioni definitive precisate dall'interventrice e
dall'originaria attrice, di modo che, quand'anche si ritenesse formulata, l'eccezione doveva,
comunque, ritenersi abbandonata.
In ogni caso la Corte territoriale ha precisato che il dies a quo della prescrizione non era costituito
(come ritenuto dal Tribunale) dalla data del (OMISSIS) dell'ultimo acquisto immobiliare, ma
andava individuato in quello della morte dell' A. e, cioè, nella data di cessazione del rapporto di
convivenza, posto che (come, peraltro, rilevato anche dal primo giudice) la V. aveva fornito il
proprio rilevante contributo economico e lavorativo, di cui si era avvantaggiato il convivente, fino
al momento della morte di quest'ultimo.
In particolare la Corte di appello, da un lato, ha escluso che fosse configurabile l'inerzia del
creditore, ritenendo che prima del decesso dell' A. non vi era motivo (nè la volontà e la
determinazione) da parte della V. di pretendere la cointestazione degli immobili, anche per le
ripetute rassicurazioni provenienti dal primo (secondo cui "tutto ciò che era suo era anche della
Sa.") e, dall'altro, ha evidenziato che l'impoverimento della V. si protrasse oltre la data del
(OMISSIS) e fino alla morte del convivente, se non oltre, avendo la stessa continuato a pagare le
rate di mutuo contratto per l'acquisto in comunione di un appartamento in (OMISSIS) e a
"tamponare" altri impegni assunti dal suo convivente, tra cui quelli derivanti da cambiali emesse per
L. 5.904.000 in relazione all'acquisto dell'appartamento in via (OMISSIS) e da un'iscrizione
ipotecaria per L. 17.000.000 a favore di noto usuraio per l'acquisto dell'appartamento in via
(OMISSIS).
2.2. Con il secondo motivo parte ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e
falsa applicazione dell'art. 189 c.p.c., per avere la Corte di appello illegittimamente ritenuto
rinunciata l'eccezione di prescrizione, avanzata dalla interveniente con riferimento all'azione di
indebito arricchimento proposta in via riconvenzionale dalla V..
In particolare le ricorrenti lamentano che la decisione sia frutto di una concezione formalistica del
disposto dell'art. 189 cit., ed osservano che l'eccezione di prescrizione ritualmente formulata in
giudizio, non può ritenersi rinunziata, pur in presenza di conclusioni genericamente formulate in
termini di rigetto della domanda, in assenza di una condotta processuale incompatibile con la
volontà di mantenere ferma l'eccezione di prescrizione.
2.3. Con il terzo motivo parte ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, contraddittorietà
della motivazione in punto di decorrenza del termine di prescrizione dell'azione di indebito
arricchimento, ritenuto coincidente, non già con l'ultima acquisizione patrimoniale, ma con la
cessazione della convivenza.
A tal riguardo le ricorrenti rilevano che la stipula del contratto ventennale di mutuo relativo
all'immobile in (OMISSIS) e l'adempimento delle conseguenti obbligazioni non costituivano
ragione per spostare la decorrenza della prescrizione dalla data dell'arricchimento dal (OMISSIS) a
quella della morte dell' A.; denunciano, dunque, l'intrinseca contraddizione derivante dal fatto di
ritenere un atto pacificamente privo di danno per la V. - qual era l'acquisto dell'appartamento di
(OMISSIS), avvenuto in comproprietà tra la medesima e il suo convivente - come generativo di
onerose obbligazioni future che, per contro, dovevano necessariamente gravare su entrambi gli
acquirenti comproprietari; lamentano, infine, l'ulteriore erroneo riferimento alla sussistenza di mere
ragioni di opportunità ai fini dello spostamento dei termine prescrizionale alla morte del convivente.
2.4. Con il quarto motivo parte ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2935
c.c., per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto che la prescrizione dell'azione di
arricchimento decorra dalla morte del preteso arricchito e non già dall'ultimo atto di arricchimento
del beneficiario e della correlativa diminuzione patrimoniale dell'altra parte.
In particolare le ricorrenti deducono che, a mente dell'art. 2935 c.c., il corso della prescrizione
dell'azione di indebito arricchimento è impedito dall'impossibilità legale di far valere il proprio
diritto e osservano che tale non è il perdurare della convivenza successivamente al compimento
dell'atto che si assume aver determinato l'arricchimento. Di conseguenza la Corte di appello avrebbe
errato ad escludere la rilevanza dell'inerzia della V. sino alla data della cessazione del rapporto di
convivenza.
2.5. Nessuna dei suesposti motivi coglie nel segno.
Innanzitutto le censure delle ricorrenti non investono il punto della sentenza impugnata in cui si
afferma che l'eccezione di prescrizione doveva intendersi, non già abbandonata, ma neppure
proposta, atteso il non concludente riferimento contenuto nella memoria di intervento.
Si rammenta a tal riguardo che l'interpretazione di qualsiasi domanda, eccezione o deduzione di
parte da luogo a un giudizio di fatto, riservato al giudice del merito.
E', poi, dirimente la considerazione che i giudici di appello si sono pronunciati sull'eccezione,
ritenendola infondata, con argomentazioni che non si esauriscono nella valutazione dell'opportunità
o meno dell'inerzia della V. a fronte delle specifiche rassicurazioni del convivente, ma contengono
anche precisi riferimenti fattuali ad erogazioni effettuate dalla stessa in favore dell' A.
successivamente alla data individuata dal primo giudice come dies a quo della prescrizione. Invero ribadito che il diritto a richiedere l'indennizzo per ingiustificato altrui arricchimento si prescrive in
dieci anni dal momento in cui l'arricchimento si è verificato occorre dire che la decisione impugnata
non si pone in contrasto con detto principio, giacchè essa poggia sulla considerazione della
continuità dei rilevanti contributi economico- patrimoniali resi dalla V. in tutto il corso del rapporto
di convivenza e, quindi, della definitività del corrispondente arricchimento dell' A. solo alla
cessazione di siffatto rapporto.
Inoltre il riferimento al pagamento da parte della V. di rate di mutuo relative all'acquisto
dell'appartamento in (OMISSIS) (l'unico, acquistato in comproprietà dai due conviventi) non
introduce alcun elemento scardinante dell'Iter argomentativo, dal momento che la sentenza continua
ad avere il suo supporto motivazionale nella parte non contestata, relativa agli altri impegni, che la
V. continuò a "tamponare", conseguenti all'acquisto (da parte del solo A.) dei due appartamenti in
(OMISSIS) e, più in generale, nel rilievo, condiviso da entrambi i giudici di merito, del perdurante
apporto economico e lavorativo della V. con indebita locupletazione del convivente sino alla morte
di questi.
4. Il quinto e il sesto motivo (erroneamente individuati in ricorso con i numeri romani 4^ e 5^) si
incentrano nella critica del criterio seguito per la determinazione e quantificazione dell'indennizzo
per l'ingiustificato arricchimento.
4.1. L'indennizzo è stato parametrato, con la sentenza non definitiva, alla misura del 50% del valore
di mercato, alla data del decesso dell' A., degli immobili dallo stesso acquistati durante il periodo di
convivenza, considerando, da un lato, il dato temporale della lunghezza del periodo di convivenza
tra le parti e, quindi, la conseguente durata, oltre che la rilevanza, del contributo lavorativo ed
economico fornito dalla V. all' A. e, dall'altra, la quantità e il valore delle acquisizioni patrimoniali
(tre appartamenti in (OMISSIS)) che in tal modo il secondo era riuscito a procurarsi, a fronte della
modestia degli introiti di appartenente al corpo di Polizia (pag. 9 sentenza non definitiva).
4.2. Con il quinto motivo parte ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e
falsa applicazione dell'art. 2041 c.c..
A parere delle ricorrenti, il pregiudizio indennizzabile in base alla norma cit. sarebbe,
esclusivamente, il danno patrimoniale emergente, mentre la Corte di appello avrebbe riconosciuto
l'indennizzo sulla base di un "danno generico e indeterminato, in quanto non quantificato in termini
economici, costituito dal mancato o ridotto godimento delle proprie risorse economiche da parte del
soggetto che si assume impoverito e/o dal maggiore impiego delle proprie risorse umane da parte
del medesimo soggetto nel rapporto di convivenza in concomitanza dell'arricchimento del soggetto
convivente che si assume arricchito". Inoltre la determinazione dell'indennizzo sarebbe stata
erroneamente effettuata con criterio forfetario, facendo esclusivo riferimento al valore complessivo
del vantaggio economico conseguito dal soggetto arricchito e prescindendo dall'effettiva
dimostrazione della partecipazione dell'impoverito al conseguimento di detto vantaggio economico.
4.2. Infine con il sesto motivo le ricorrenti denunciano, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, omessa o
insufficiente motivazione sulla quantificazione dell'indennizzo per ingiustificato arricchimento. In
particolare rilevano l'insufficienza della motivazione consistente in un mero richiamo alla durata
della convivenza e al contributo di lavoro prestato dalla V., neppure approssimativamente indicato,
a fronte del riconoscimento di un così cospicuo indennizzo; lamentano, quindi, l'omessa
considerazione di altri dati determinanti ai fini del decidere - quali i proventi delle locazioni di altri
beni di cui era pacificamente proprietario l' A. prima dell'inizio della convivenza e la cointestazione
al 50% dell'appartamento di (OMISSIS) - di guisa che la pretesa sperequazione tra le risorse di
ciascuno dei conviventi e l'effettivo contributo della V. si risolverebbe in mere presunzioni prive di
riscontro nelle risultanze processuali.
4.3. Anche i suddetti motivi, che per l'affinità delle questioni si esaminano congiuntamente, sono
infondati.
Invero costituisce ius reception che la nozione di arricchimento di cui all'art. 2041 c.c., va intesa,
indifferentemente, sia in senso qualitativo che in senso quantitativo e può consistere tanto in un
incremento patrimoniale, quanto in un risparmio di spesa e, più in generale, in una mancata perdita
economica; correlativamente il depauperamento può consistere tanto in erogazioni di un'entità
pecuniaria, quanto in attività o prestazioni di cui si avvantaggia l'arricchito (cfr. ex plurimis, Cass.
n. 21292 del 2007). E poichè l'indennizzo previsto dall'art. 2041 c.c., è finalizzato a reintegrare il
patrimonio del depauperato, esso va commisurato all'arricchimento, riconoscendo, in via sostitutiva,
al depauperato un quid monetario "nei limiti" dello stesso arricchimento (perchè, altrimenti, si
verificherebbe un arricchimento nel senso inverso).
Ciò posto e precisato che, nella specie, gli immobili acquistati in via esclusiva dall' A. durante il
periodo di convivenza costituivano parametro di valutazione, oltre che limite massimo della
liquidazione, al fine di desumerne l'incremento patrimoniale e/o il risparmio di spesa, dallo stesso
conseguito per effetto del rilevante contributo economico-lavorativo della V., ritiene il Collegio che
la Corte di appello non si è affatto discostata dal criterio normativo, pervenendo a quantificare
l'indennizzo in misura corrispondente al valore del 50% degli immobili in questione. Gli elementi
assunti ai fini di siffatta determinazione (sproporzione delle capacità economiche delle parti,
prevalenza degli apporti della V. a fronte delle numerose acquisizioni patrimoniali fatte in via
esclusiva dall' A.) risultano correttamente individuati e la valutazione, necessariamente equitatativa
in relazione ai parametri enunciati, è valutazione di stretto merito e, come tale, non sindacabili in
questa sede.
Le ricorrenti deducono che la corretta determinazione dell'indennizzo sarebbe stata impedita dalla
mancata considerazione di risultanze processuali ad essi favorevoli, quali l'esistenza di altre entrate
dell' A. e l'acquisizione in comproprietà dell'immobile in (OMISSIS). Senonchè l'efficacia di tale
difesa - a prescindere dalla carenza di autosufficienza - deve confrontarsi con l'altro dato oggettivo
emergente dalla sentenza impugnata della prevalenza del contributo lavorativo ed economico
fornito dalla V. a fronte dell'esclusiva acquisizione da parte dell' A. di ben tre appartamenti in
(OMISSIS). Sotto questo profilo le doglianze delle ricorrente si risolvono in censure di merito,
peraltro assolutamente generiche, sull'accertamento compiuto dai giudici di appello.
In definitiva il ricorso va rigettato.
Si ravvisano giusti motivi, attesa la natura delle questioni trattate, per compensare interamente le
spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di Cassazione.
Così deciso in Roma, il 3 aprile 2009.
Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2009.
IN MATERIA, V. ANCHE Cass. civ. Sez. II, 13 marzo 2003, n. 3713, in Guida al Diritto,
2003, 18, 49:
Nell'ambito dei rapporti di convivenza more uxorio la presunzione di gratuità delle prestazioni rese
da una parte in favore dell'altra viene meno allorché risulti che la prestazione stessa esula dai doveri
di carattere morale e civile di mutua assistenza e collaborazione, in relazione alle qualità e
condizioni sociali delle parti e si configuri come mera operazione economica patrimoniale che abbia
determinato un inspiegabile e illogico arricchimento del convivente con proprio ingiusto danno.
(Nella specie in costanza dì convivenza more uxorio la convenuta aveva acquisto un terreno e
l'attore, acquistando i materiali e lavorando tutto il suo tempo libero aveva costruito sia la casa di
abitazione che altro edificio di tre piani, al grezzo oltre ai locali accessori. Proposta domanda ex
articolo 936 del c.c. e accolta questa in sede di merito, la convenuta aveva proposto ricorso per
cassazione deducendo che nulla competeva a controparte trattandosi di adempimento, da parte sua,
di un dovere morale, atteso il rapporto di convivenza. La Suprema corte ha rigettato la deduzione in
considerazione dei principi sopra esposti).
SENTENZA
Con atto di citazione 22 giugno 1987, Antonio Atzori, premesso che aveva convissuto "more
uxorio" per oltre 13 anni con Lucia Sanna; che durante tale periodo la Sanna aveva acquistato un
terreno sito in agro di Quartucciu con denari da lui messi a disposizione; che su tale terreno esso
attore, muratore di professione, aveva costruito, acquistando i materiali e lavorando tutto il suo
tempo libero, la casa di abitazione ed altro edificio adiacente di tre piani al grezzo, oltre dei locali
accessori; che dopo tanti anni di convivenza la Sanna gli aveva intimato di lasciare la casa di
abitazione ed aveva pubblicato su un giornale locale l'offerta di vendita dell'intero edificio; che in
tale comportamento della Sanna andava ravvisato il "periculum in mora" che giustificava il
sequestro conservativo autorizzato dal Presidente del Tribunale il 16 maggio 1987, regolarmente
eseguito; tutto ciò premesso convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Cagliari, la Sanna al fine
di ottenere la convalida del sequestro conservativo, e, nel merito, la condanna della Sanna al
rimborso dei denari messi a sua disposizione per l'acquisto del terreno, nonché alla restituzione del
valore dei materiali e della mano d'opera impiegati nella costruzione degli immobili su detto fondo,
ovvero al pagamento dell'aumento di valore arrecato al fondo, nella misura di L. 120.000.000 o di
altra somma, anche eventualmente a titolo di ingiustificato arricchimento.
Costituitasi, la Sanna chiese il rigetto della domanda.
Espletata l'istruttoria, anche mediante c.t.u., il Tribunale inquadrò la fattispecie nell'ambito dell'art.
936 c.c.; ritenne l'Atzori terzo ai sensi della citata norma in quanto aveva costruito in assenza di
alcun vincolo giuridico che gli attribuisse la facoltà di edificare; escluse che la costruzione potesse
ritenersi adempimento da parte del convivente "more uxorio" di un'obbligazione naturale nei
confronti della famiglia di fatto; liquidò il "quantum" per impiego dei materiali e mano d'opera nella
somma complessiva, compresa la rivalutazione, di L. 62.726.397; non liquidò gli interessi perché
non richiesti; rigettò tutte le altre istanze; convalidò il sequestro conservativo e pose a carico della
Sanna le spese del giudizio.
La Corte d'appello di Cagliari, con sent. n. 77/01 del 01 dicembre 2000/27 febbraio 2001, accolse
per quanto di ragione l'appello principale dell'Atzori e, in parziale riforma della sentenza del
Tribunale, che confermò nel resto, condannò la Sanna a corrispondere all'Atzori gli interessi legali
sulla suddetta somma di L. 62.726.307 dalla data della domanda alla data della decisione, nonché
sulla stessa somma ulteriori interessi dalla data della notifica dell'atto di appello al saldo; rigettò
l'appello incidentale della Sanna; dispose lo svincolo della cauzione di L. 10.000.000 e ne dispose la
restituzione all'Atzori; condannò la Sanna al pagamento delle spese del grado.
La Corte cagliaritana ritenne infondata la tesi della Sanna, secondo cui sussistendo tra lei e l'Atzori,
conviventi "more uxorio", una famiglia di fatto, tutte le prestazioni reciprocamente eseguite
nell'ambito di tale rapporto avevano natura di obbligazioni naturali, con conseguente irripetibilità di
quanto dato e prestato reciprocamente. Osservò che ai fini dell'adempimento dell'obbligazione
naturale, nel rapporto di convivenza "more uxorio", si richiedeva che vi fosse un rapporto di
proporzionalità tra le somme sborsate e i doveri morali e sociali assunti reciprocamente dai
conviventi. Nel caso specifico tale rapporto di proporzionalità non sussisteva, anzi non poteva
neppure parlarsi di adempimento di un dovere morale, dato che la prestazione dell'Atzori non si era
esaurita nel procurare alla famiglia di fatto un'abitazione dignitosa e confortevole, ma aveva avuto
come effetto l'arricchimento esclusivo della Sanna, che era diventata proprietaria, in base al
principio dell'accessione, non solo della casa ma anche di un fabbricato di tre piani e di tre locali.
La Corte d'appello escluse che l'Atzori avesse rinunziato a far valere il suo credito, perché dalla
scrittura del 31 maggio 1987 emergeva soltanto che l'Atzori e la Sanna avevano diviso tra loro i
beni mobili, senza manifestare alcuna volontà abdicativa in relazione agli altri beni. A tal riguardo
la prova per testi dedotta dalla Sanna era inammissibile perché irrilevante, risultando anzi dal suo
contenuto e dalla dichiarazione agli atti di Chiara Luisa Muscas il contrario, cioè che l'Atzori non
intendeva affatto rinunciare a chiedere alla Sanna quanto dovutogli per la costruzione degli
immobili. Rilevò, inoltre, che il diritto dell'Atzori non poteva venir meno per il fatto che la Sanna
avesse dato un rilevante contributo economico per il soddisfacimento delle necessità della famiglia
di fatto, donde l'irrilevanza sul punto della prova dedotta.
Infine la Corte territoriale, ritenuto per ferma la qualificazione giuridica dell'azione promossa
dall'Atzori, inquadrata dal Tribunale nell'ambito dell'art. 936 c.c., per non essere stato proposto al
riguardo uno specifico motivo di appello, nonché per la stessa ragione il "quantum" liquidato dal
Tribunale, osservò che l'Atzori aveva chiesto il rimborso dei materiali e della mano d'opera ovvero
il corrispettivo dell'aumento di valore del fondo con rivalutazione e interessi sino alla data della
liquidazione, per cui aveva diritto agli interessi che il primo giudice aveva omesso di attribuirgli.
Contro tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Sanna deducendo quattro motivi di
annullamento.
L'Atzori ha resistito con controricorso.
Motivi della decisione
A fondamento dell'impugnazione la ricorrente deduce:
1) Omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalla parte e
rilevabile d'ufficio in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5 oltreché violazione e falsa applicazione
dell'art. 936 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3.
Sostiene la ricorrente che la Corte d'appello avrebbe inquadrato la fattispecie nell'ambito dell'art.
936 c.c. sull'erroneo presupposto che la decisione del Tribunale, sul punto, non sarebbe stata
investita da uno specifico motivo di impugnazione, senza considerare che, invece, con l'atto di
appello incidentale era stata proposta la questione riguardante l'inapplicabilità dell'art. 936 c.c.,
posto che la Sanna aveva dedotto che l'Atzori non poteva essere considerato terzo nei suoi confronti
"visto il rapporto di convivenza tra di loro esistente", all'epoca dei fatti di causa, e che trattandosi di
"un vero e proprio rapporto giuridico" occorreva, nella fattispecie, fare riferimento non già alla
disciplina contenuta nell'art. 936 c.c. ma al "regime della famiglia di fatto" nell'ambito del quale il
contributo dato da uno dei "partner" nell'opera edificatoria doveva qualificarsi come adempimento
di una obbligazione naturale.
Aggiunge la ricorrente che, in ogni caso, l'art. 936 c.c. non poteva trovare applicazione e nessun
indennizzo era dovuto all'Atzori perché le opere erano state da lui realizzate abusivamente tanto che
essa ricorrente aveva dovuto subire un procedimento penale ed aveva dovuto chiedere la sanatoria
edilizia. Inoltre vi era stata prevalenza della mano d'opera fornita dall'Atzori rispetto al valore dei
materiali impiegati, il cui importo non era superiore a L. 1.800.000. Infine l'Atzori aveva eseguito
non una costruzione "ex novo", ma solo opere di ristrutturazione di un precedente edificio, per cui
anche sotto tale profilo erroneamente la Corte d'appello aveva ritenuto applicabile l'art. 936 c.c.,
anziché l'art. 1150 c.c. riguardante le addizioni migliorative, norma quest'ultima che neppure poteva
trovare applicazione, essendo da escludere l'indennizzo nell'ipotesi di costruzione abusiva, anche se
successivamente sanata.
2) Motivazione insufficiente circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti e
rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5 oltreché violazione e falsa applicazione
dell'art. 116 c.p.c., dell'art. 2729 c.c. e dell'art. 3 Cost., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3.
Assume la ricorrente che la sentenza impugnata ha erroneamente escluso che le opere realizzate
dall'Atzori fossero state eseguite in adempimento di un'obbligazione naturale, ritenendo che non
ricorrevano i requisiti di adeguatezza e proporzionalità, senza considerare che la prestazione del
convivente era stata effettuata in adempimento dell'obbligo di assicurare alla famiglia di fatto
un'abitazione sicura e dignitosa, e l'impegno economico sostenuto a tal fine non era certo
sproporzionato rispetto a quello che sarebbe stato normale pretendere; inoltre la sentenza impugnata
erroneamente ha ritenuto irrilevante il contributo della Sanna alle necessità domestiche e alla cura
della casa, pur risultando dai documenti e dalla prova testimoniale il suo apporto economico alle
attività del convivente e all'acquisto di una motozappa da questi utilizzata per i propri lavori di
campagna. Anche dalla complessità delle opere realizzate si doveva trarre per presunzioni il
convincimento che esse avevano richiesto l'attività di più persone, per cui l'apporto dell'Atzori
avrebbe dovuto essere ridimensionato e conseguentemente la sua prestazione, da ritenere
proporzionata e adeguata, essere considerata come adempimento di un'obbligazione naturale.
In ogni caso, il lavoro svolto dall'Atzori nell'opera edificatoria, qualora non fosse stato inquadrabile
nello schema dell'obbligazione naturale, era da ritenere soggetto alla presunzione di gratuità che è
tipica delle prestazioni di lavoro effettuate nell'ambito dei rapporti interfamiliari, ivi compresi quelli
di convivenza "more uxorio". Erroneamente la corte d'appello ha attribuito all'Atzori il diritto
all'indennizzo in base al medesimo principio che, nella stessa situazione, tale diritto è riconosciuto a
favore del coniuge (che abbia costruito su suolo di proprietà dell'altro), senza considerare la
differenza che sussiste tra il rapporto coniugale e quello "more uxorio", che non possono essere
trattati allo stesso modo senza violare il principio costituzionale di uguaglianza.
3) Omessa o, almeno, insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia
prospettato dalle parti e rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5 oltreché violazione e
falsa applicazione dell'art. 345 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3.
Sostiene la ricorrente che, una volta chiarito, in base al motivo precedente, che la fattispecie andava
inquadrata nell'ambito del regime giuridico tipico delle obbligazioni naturali, la sentenza impugnata
avrebbe dovuto ammettere la prova testimoniale intesa a dimostrare l'apporto economico della
Sanna alle esigenze della famiglia di fatto e la rinuncia dell'Atzori a far valere il diritto azionato.
Né, riguardo a tale rinuncia, la prova del contrario poteva essere desunta, come ritenuto dalla Corte
d'appello, dalla dichiarazione del 6 giugno 1988 sottoscritta da Chiara Luisa Muscas, né, comunque,
tale dichiarazione poteva essere di preclusione alla prova testimoniale.
4) Omessa o, almeno, insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia prospettato
dalla parte e rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5 con violazione e falsa
applicazione dell'art. 112 c.p.c. e conseguente nullità della sentenza ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 4
Deduce la ricorrente che la sentenza impugnata erroneamente ha ritenuto che la domanda di
pagamento degli interessi era stata proposta sia per le somme relative all'aumento di valore arrecato
al fondo sia per il rimborso del valore dei materiali e della mano d'opera, mentre in effetti la
domanda si riferiva soltanto al primo aspetto della vicenda. Correttamente il Tribunale non aveva
liquidato gli interessi per il secondo aspetto perché non richiesti. La Corte d'appello, al contrario,
violando il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, ha liquidato anche tali
interessi.
1.1. Il primo motivo è infondato sotto tutti i profili.
La Corte d'appello ha ricondotto la pretesa dell'Atzori nell'ambito dell'art. 936 c.c., confermando la
qualificazione giuridica data dal Tribunale, dopo aver esaminato ed escluso la fondatezza dei
contrari rilievi della Sanna diretti a sostenere che le opere realizzate dal convivente erano state
eseguite in adempimento di un'obbligazione naturale.
Ed in effetti la Sanna, con il suo appello incidentale (il quale conteneva indistintamente, all'interno
di un unico corpo argomentativo, formato da una serie di proposizioni progressivamente numerate
(da 1 a 35) sia l'esposizione dei fatti sia i motivi di gravame) aveva sostanzialmente dedotto che il
Tribunale erroneamente aveva fatto riferimento all'art. 936 c.c., quando nella specie doveva trovare
applicazione il "regime della famiglia di fatto" e conseguentemente la disciplina dell'obbligazione
naturale.
La Corte d'appello doveva, quindi, occuparsi essenzialmente del problema attinente la sussistenza o
meno di un'obbligazione naturale nell'ambito dei rapporti di convivenza "more uxorio" tra le parti,
per verificare se la fattispecie concreta fosse riconducibile alla disciplina dell'art. 2034 c.c., la cui
eventuale applicabilità avrebbe conseguentemente condotto a negare il diritto alla ripetizione
dell'indennizzo di cui all'art. 936 c.c. Ed una volta esclusa, con adeguata e congrua motivazione la
sussistenza di un'obbligazione naturale in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, ivi
compresi i rapporti tra le parti nell'ambito della famiglia di fatto, non vi era alcuna ragione per cui la
Corte d'appello doveva esaminare altre questioni attinenti ai presupposti di applicabilità dell'art. 936
c.c. non specificamente sottoposte al suo esame.
Pertanto, correttamente, la Corte d'appello, dopo aver escluso che le prestazioni dell'Atzori fossero
conducibili all'adempimento di un'obbligazione naturale, ha ritenuto di dover confermare la
qualificazione giuridica dell'azione proposta dall'Atzori, inquadrata dal Tribunale nell'ambito
dell'art. 936 c.c., non essendo stati proposti, al riguardo, specifici motivi di doglianza.
1.2. Né può trovare ingrosso l'ultima parte della doglianza perché con essa vengono sollevate
questioni nuove, relative sia alla sussistenza dell'illecito edilizio e successiva sanatoria sia alla
prevalenza della mano d'opera impiegata dall'Atzori rispetto ai materiali dallo stesso forniti, sia alla
consistenza e tipologia dell'opera realizzata, mai dibattute tra le parti e mai sottoposte all'esame dei
giudici di merito. Questioni che presuppongono nuovi accertamenti e indagini sicuramente riservati
al giudice di merito e preclusi in sede di legittimità (v. fra le tane: Cass. 19 marzo 1996 n. 2294),
dovendo i motivi del ricorso per cassazione investire, a pena di inammissibilità, questioni che
abbiano formato oggetto del "thema decidendum" come fissato dalle impugnazioni e dalle richieste
delle parti (cfr. "ex plurimis": Cass. 29 ottobre 2001 n. 13403).
2.1. Anche il secondo motivo è infondato.
Ed invero, riaffermato il principio di diritto (peraltro non contestato dalla ricorrente) che
un'attribuzione patrimoniale a favore del convivente "more uxorio" può configurarsi come
adempimento di un'obbligazione naturale allorché la prestazione risulti adeguata alle circostanze e
proporzionata all'entità del patrimonio e alle condizioni sociali del "solvens", va detto che con il
motivo si tende a sollecitare un riesame dei fatti di causa e delle risultanze probatorie, peraltro sulla
base di considerazioni ipotetiche ed elementi presuntivi.
Trattasi in altri termini di doglianza di merito tendente alla rivalutazione dei dati processuali, non
deducibile in sede di legittimità, se non nei limiti della mancanza, insufficienza o contraddittorietà
di motivazione, che nel caso specifico non ricorre avendo i giudici di merito correttamente
giustificato il loro convincimento, circa la non configurabilità della prestazione dell'Atzori come
adempimento di un'obbligazione naturale, allorché hanno rilevato che, in base alle prove acquisite e
alla c.t.u., non sussisteva un rapporto di proporzionalità tra l'opera edificatoria realizzata dall'Atzori
e l'adempimento dei doveri morali e sociali da lui assunti nell'ambito della convivenza di fatto.
La sentenza impugnata ha anche evidenziato come non era neppure da parlarsi di adempimento di
un dovere morale in relazione alle prestazioni dell'Atzori, dato che queste non si erano esaurite nel
procurare alla famiglia di fatto un'abitazione dignitosa e confortevole, ma avevano avuto come
effetto l'arricchimento esclusivo della Sanna, per effetto dell'accessione, non solo della proprietà di
un appartamento di circa mq. 175, ma anche di un fabbricato di tre piani di circa mc. 860 non
ultimato, autonomamente utilizzabile con destinazione commerciale o residenziale, nonché tre
locali di sgombero di mc. 154.
L'indagine sulla sussistenza di un dovere morale e sociale e lo stabilire se una prestazione abbia il
carattere della adeguatezza e della proporzionalità si risolve in accertamento di fatto, riservato al
giudice di merito, incensurabile in Cassazione se sorretto da motivazione sufficiente e immune da
vizi logici e da errori di diritto.
Inammissibilmente, pertanto, la ricorrente pretende disattendere tale accertamento e sostenere, sulla
base di un discutibile dato presuntivo costituito dalla rilevante mole dell'opera realizzata, che
l'attività edificatoria non sarebbe il frutto del lavoro di una sola persona, per inferirne, anche in
considerazione del suo contributo economico, un ridimensionamento dell'apporto dato dall'Atzori
nella costruzione dei fabbricati.
2.2. Quanto all'assunto della ricorrente che, qualora la prestazione dell'Atzori non possa inquadrarsi
nello schema concettuale dell'obbligazione naturale, la prestazione stessa dovrebbe presumersi
gratuita, essendo stata resa nell'ambito dei rapporti di convivenza "more uxorio", va osservato che
ciò, nel caso specifico, non può trovare applicazione. Invero la presunzione di gratuità è da ritenere
che venga meno quando risulti che la prestazione esuli dai doveri di carattere morale e civile di
mutua assistenza e collaborazione, in relazione alle qualità e condizioni sociali delle parti, e si
configuri come mera operazione economico-patrimoniale, che abbia determinato un inspiegabile e
illogico arricchimento del convivente "more uxorio", con proprio ingiusto danno.
2.3. Pertanto, correttamente la Corte d'appello ha riconosciuto all'Atzori il diritto all'indennizzo, che
non può essere contestato in base a ipotetica violazione dei principi costituzionali (in particolare
quello di uguaglianza).
3.1. Il terzo motivo è, nella prima parte, superato dalla qualificazione dell'azione come ipotesi
dell'art. 936 c.c., e non come obbligazione naturale; ed è infondato nella restante parte avendo la
Corte d'appello giustificato l'inammissibilità della prova orale perché irrilevante ed escluso la
rinuncia dell'Atzori a far valere il suo diritto sia in base al contenuto della scrittura del 31 maggio
1987 sia in base alla deposizione di Chiara Luisa Muscas.
Per il resto è sufficiente ricordare che la valutazione delle risultanze processuali nonché della prova
testimoniale insieme al controllo sulla loro concludenza - come la scelta, fra le varie risultanze
probatorie di quelle ritenute più idonee a sorreggere la decisione - involgono apprezzamenti di fatto
riservati al giudice di merito, il quale, nel porre a fondamento della sua decisione una fonte di prova
ad esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio
convincimento, senza essere peraltro tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le
deduzioni avverse ("ex plurimis": Cass. 8 novembre 1996 n. 9744; 6 settembre 1995 n. 9384; Cass.
14 aprile 1994 n. 3498); onde la sentenza impugnata non è suscettibile di cassazione per il solo fatto
che gli elementi considerati dal giudice di merito siano, secondo l'opinione del ricorrente, tali da
consentire una diversa valutazione, conforme alla tesi da lui sostenuta.
4.1. Il quarto motivo è destituito di fondamento.
La Corte d'appello ha chiarito che l'Atzori aveva chiesto in primo grado gli interessi sia sul valore
del materiale e della mano d'opera sia sull'aumento del valore arrecato al fondo e che tale richiesta
si riferiva alternativamente all'uno o all'altro titolo. Sul punto vi era stata omissione da parte del
Tribunale, per cui andavano riconosciuti gli interessi sulla somma liquidata.
In base alle considerazioni svolte, il ricorso va, quindi, rigettato con condanna della ricorrente al
pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di
cassazione, che liquida in complessivi € 140,00, oltre € 2.000,00 per onorario.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 2ª Sezione Civile, il 4 dicembre 2002.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 13 MAR. 2003
3
RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE A CURA DI ANTONIO
ALBANESE (tratta dal Comm. Giuffrè dir. da Cesare Ruperto)
CAPO VI
Del regime patrimoniale della famiglia
Bibliografia: In termini generali, in tema di regime patrimoniale della famiglia: BUSNELLI, Convenzione
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costituzionali, PQM 2004, f. 1, 55; AUTORINO STANZIONE, Autonomia negoziale e rapporti coniugali, Rass. dir.
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legale tra coniugi, Tratt. Cicu, Messineo, Milano, 2010.
Sezione I. Disposizioni generali.
Art. 159.
Del regime patrimoniale legale tra i coniugi.
Il regime patrimoniale legale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione stipulata a norma
dell'articolo 162, è costituito dalla comunione dei beni, regolata dalla sezione III del presente capo.
Sommario: 1. Fondamento delle nuove norme, in materia patrimoniale, introdotte dalla l. 19 maggio 1975 n. 151. — 2. Natura
giuridica della « comunione legale tra coniugi ». Caratteristiche. — 3. Incapacità a testimoniare del coniuge in regime di comunione
legale dei beni. Questione di legittimità costituzionale, non fondatezza. — 4. Coniuge comproprietario del veicolo, in regime di
comunione legale e assicurazione obbligatoria della responsabilità civile. — 5. Regime di comunione legale e deducibilità delle spese
mediche sostenute per il coniuge titolare di autonoma posizione contributiva. Esclusione. — 6. Coniugi di diversa cittadinanza. — 7.
Cessazione del regime legale per separazione dei coniugi e decorrenza dei relativi effetti. Rinvio. Riconciliazione dei coniugi
giudizialmente separati e ripristino della comunione dei beni. — 8. Nuovo regime patrimoniale familiare e convivenza more uxorio. —
9. Segue: prestazioni lavorative, svolte nell'ambito di una convivenza more uxorio. — 10. Segue: rapporti patrimoniali tra conviventi e
arricchimento senza causa: posizione della dottrina. — 11. Segue: la restituzione come “terza via” tra donazione e obbligazione
naturale: una recente pronuncia della Cassazione. — 12. Segue: Verso un superamento della presunzione di gratuità. — 13. Segue:
richiami di dottrina, sulle famiglie di fatto.
1. Fondamento delle nuove norme, in materia patrimoniale, introdotte dalla l. 19 maggio 1975 n. 151.
— Il regime patrimoniale dei coniugi (o della famiglia, come sovente detto, ma con espressione senz'altro meno
appropriata) costituisce il regime patrimoniale secondario, così denominato per distinguerlo dal regime
patrimoniale primario racchiuso nelle disposizioni di cui agli artt. 143, 147 e 148 c.c. Il regime patrimoniale
primario è caratterizzato da una funzione “contributiva”, dal bisogno della famiglia e dal correlato dovere di
solidarietà dei suoi componenti, sicché suoi connotati sono, anche qualora i coniugi abbiano adottato il regime di
separazione dei beni, il potere di ciascuno di essi di impegnare il patrimonio comune e il patrimonio dell'altro per i
bisogni del gruppo e la responsabilità solidale per le obbligazioni assunte nell'interesse della famiglia (Cass. 7
luglio 1995 n. 7501, Giust civ. 1996, I, 142; Dir. famiglia 1996, 95; Famiglia e diritto 1996, 140; Studium Juris
1996, 229; Cass. 25 luglio 1992 n. 8995, Dir. famiglia 1993, 91; Vita not. 1993, 219; Giur. it. 1993, I, 1, 1512;
Nuova giur. civ. comm. 1994, I, 26; Cass. 28 aprile 1992 n. 5063, Foro it. 1992, I, 3000; Dir. famiglia 1992, 997).
Il regime patrimoniale secondario, al contrario, è connotato da una funzione “distributiva” e il suo fondamento,
per la giurisprudenza di poco successiva alla Riforma (Trib. Vigevano, 20 febbraio 1979, Riv. dir. agr. 1980, II,
92, in motivazione), risiede nell'intenzione di « esaltare l'apporto costruttivo di ciascun coniuge nell'accrescimento
del patrimonio familiare » e di « sostituire l'istituto della dote con il regime della comunione legale dei beni ».
In dottrina, tra gli altri, in senso sostanzialmente diverso, SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, il
regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1983, 27-28, secondo cui la nuova normativa tende alla distribuzione,
fra i coniugi, d'una certa parte della ricchezza prodotta nel corso della convivenza matrimoniale, nonché a favorire
la collaborazione dei coniugi. In termini parzialmente diversi, BARBIERA, Trattato di diritto privato, diretto da
RESCIGNO, Torino 1982, 406, per il quale la comunione legale, tra coniugi, mira alla realizzazione della parità
sostanziale tra i coniugi (in questo senso, altresì, RUSSO, L'autonomia privata nella stipulazione di convenzioni
matrimoniali, Vita not. 1982, 488 ss., in part. 490). Criticamente, su tali affermazioni — peraltro ricorrenti nella
dottrina che si è interessata al nuovo regime patrimoniale tra i coniugi — CORSI, Il regime patrimoniale della
famiglia, Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da CICU, MESSINEO e MENGONI, Milano 1979, 55, che
esclude che la nuova normativa abbia inteso attuare il principio di parità di cui all'art. 29 Cost. e che la stessa
abbia, quale scopo, quello di assicurare una retribuzione alla donna « casalinga ». Sempre nel senso che il regime
patrimoniale legale della comunione dei beni non ha, affatto, inteso valorizzare, e retribuire, il lavoro domestico
della donna, CATAUDELLA, « Ratio » dell'istituto e « ratio » della norma nella comunione legale tra coniugi,
Diritto di famiglia, Raccolta di scritti in onore di R. Nicolò, Milano 1982, 299 ss., in part. 302. V. ora,
ampiamente, OBERTO, La comunione legale tra coniugi, Tratt. Cicu, Messineo, Milano, 2010, 1 ss.
Ampio spazio, peraltro, la Riforma riserva all’autonomia privata, perché la comunione vige soltanto « in
mancanza di una diversa convenzione stipulata a norma dell'art. 162 » (in dottrina, tra gli altri: ANGELONI,
Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997; CEROLINI, Comunione legale e
autonomia privata, Giur. it. 2004, 283; DELL'UTRI, Autonomia familiare e tutela dei terzi (parte I), Familia 2006, 483;
DI GREGORIO, Programmazione dei rapporti familiari e libertà di contrarre, Milano 2003; FRANZONI, I contratti tra
conviventi more uxorio, Riv. trim. dir. proc. civ. 1994, 737; OBERTO, L'autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali
tra coniugi (non in crisi), Familia 2003, 617). Sebbene la convenzione matrimoniale (v. anche sub art. 162) consista
di norma nell'accordo dei coniugi, e quindi in un negozio bilaterale, essa può essere costituita, da un lato, da un
negozio complesso (come avviene quando vi partecipa il terzo costituente nel caso del fondo patrimoniale),
dall'altro in un negozio unilaterale (come accade per la dichiarazione unilaterale del coniuge di cui all'art. 228,
comma 1°, l. 19 maggio 1975, n. 151, o per il fondo patrimoniale istituito da uno solo dei coniugi o dal terzo per
testamento: v. ROPPO, Convenzioni matrimoniali, Enc. Giur., IX, Roma, 1988, 2). La dottrina è divisa
sull'applicazione della disciplina contrattuale in via diretta ovvero soltanto in via analogica: la soluzione riflette la
qualificazione delle convenzioni matrimoniali, rispettivamente, come veri e propri contratti (MOSCARINI,
Convenzioni matrimoniali in generale, in BIANCA (a cura di), La comunione legale, II, Milano, 1989, 1003;
GABRIELLI, CUBEDDU, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997, 236), o invece come negozi autonomi e
funzionalmente differenti dal contratto.
2. Natura giuridica della « comunione legale tra coniugi ». Caratteristiche. — La comunione legale fra i
coniugi, come regolata dagli artt. 177 ss., costituisce un istituto che prevede uno schema normativo non
finalizzato, come quello della comunione ordinaria regolata dagli artt. 1100 ss., alla tutela della proprietà
individuale, ma alla tutela della famiglia attraverso particolari forme di protezione della posizione dei coniugi nel
suo ambito, con speciale riferimento al regime degli acquisti, in relazione al quale la ratio della disciplina, che è
quella di attribuirli in comunione ad entrambi i coniugi, trascende il carattere del bene della vita che venga
acquisito e la natura reale o personale del diritto che ne forma oggetto (Cass. 9 ottobre 2007, n. 21098, Famiglia
dir. 2008, 5, che da tale premessa, ha tratto la conclusione — che anche i crediti, così come i diritti a struttura
complessa come i diritti azionari — in quanto beni ai sensi degli artt. 810, 812 e 813 sono suscettibili di entrare
nella comunione, ove non ricorra una delle eccezioni alla regola generale dell'art. 177 poste dal successivo art.
179).
In dottrina, adesivamente in margine a Cass. 9 ottobre 2007, n. 21098, cit., RIMINI, Cadono in comunione i
diritti di credito acquistati durante il matrimonio, Famiglia e dir., 2008, 8.
In termini generali, da parte di un giudice di merito si è affermato — ancora — che la comunione legale dei
beni tra i coniugi, a differenza da quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono
solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la
partecipazione di estranei (Trib. Ferrara 15 novembre 2005, Redazione Giuffrè 2006).
Sempre sulla questione specifica della compatibilità con il regime della comunione legale dei diritti di
obbligazione, v. infra, sub art. 177 nn. 1 e ss.
Sullo specifico tema della natura giuridica della « comunione legale tra coniugi », da parte di un giudice di
merito si è affermato che « la comunione fra i coniugi rende possibile la formazione di un patrimonio distinto dai
patrimoni personali, costituito ope legis dagli acquisti (compresi i crediti) compiuti da un solo coniuge o da
entrambi, vincolato all'interesse della famiglia, sul quale i coniugi vantano poteri uguali e complementari » (Trib.
Ivrea 27 giugno 1978, Riv. dir. ipotec. 1979, 66).
« La comunione come patrimonio vincolato — prosegue la ricordata pronuncia — può essere plasticamente
rappresentata da un serbatoio con saracinesca di entrata manovrabile da uno o da entrambi i coniugi, e da un
serbatoio d'uscita manovrabile soltanto da entrambi congiuntamente ».
Occorre, peraltro, avvertire che giusta la tesi sopra richiamata (che ripete, pressoché acriticamente, quanto
sostenuto, in dottrina, da MAZZOLA e RE, Proposta per un diverso modo d'intendere la comunione dei beni tra
coniugi, Riv. not. 1978, 757 ss.) « prima dello scioglimento della comunione ciascun coniuge, quand'anche sia
l'acquirente esclusivo di un bene entrato a formare il patrimonio distinto, non è titolare di un diritto reale, bensì di
un'aspettativa a conseguire un valore pari al 50% del patrimonio in comunione; per effetto dello scioglimento
della comunione, quest'aspettativa diviene diritto ad una ripartizione contabile che non implica necessariamente lo
spostamento della precedente titolarità dei beni » (Trib. Ivrea 27 giugno 1978, cit., in motivazione).
In margine alla detta ricostruzione, in dottrina, in termini critici, oltre M. FINOCCHIARO, in A. e M.
FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, Milano 1984, 854-861; MATTIACE, Riv. dir. ipotec. 1979, 72 ss.; CORSI, Il
regime patrimoniale della famiglia, Milano 1979, 68, in nota, nonché la pressoché totalità degli interventi sulla
tavola rotonda Natura giuridica della comunione legale fra coniugi: contitolarità o vincolo?, Riv. not. 1980, 405
ss.
Sempre in dottrina, nel senso che la comunione legale non costituisca affatto un « patrimonio separato » o «
distinto » o, comunque, vincolato in qualche modo agli scopi della famiglia e della prole: SANTOSUOSSO, Delle
persone e della famiglia, il regime patrimoniale della famiglia, cit., 28-30; RAGUSA MAGGIORE, Presunzione
muciana e riforma del diritto di famiglia, Banca, borsa, tit. cred. 1981, I, 98 ss., in part. 100; DI MAJO, Doveri di
contribuzione e regime dei beni nei rapporti patrimoniali tra coniugi (in una prospettiva comparatistica), Diritto
di famiglia, Raccolta di scritti in onore di R. Nicolò, Milano 1982, 311 ss. in part. 347; RUSSO, L'autonomia
privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, Vita not. 1982, 488 ss., in part. 491; SACCO, Commentario
al diritto italiano della famiglia, III, Padova 1992, 3 ss.
3. Incapacità a testimoniare del coniuge in regime di comunione legale dei beni. Limiti. Questione di
legittimità costituzionale, non fondatezza. — In tema di incapacità del coniuge in regime di comunione legale a
testimoniare nelle controversie in cui sia parte l'altro coniuge, non è configurabile, nell'ordinamento vigente, un
generale divieto di testimonianza, dovendosi invece verificare di volta in volta la natura del diritto oggetto della
controversia, avuto anche riguardo al carattere di norme di stretta interpretazione delle disposizioni sulla
incapacità a testimoniare, che introducono una deroga al generale dovere di testimonianza.
Deriva da quanto precede, pertanto, che nella controversia concernente l'accertamento della responsabilità
civile a seguito di sinistro stradale, in cui sia convenuto uno dei coniugi in regime di comunione legale, trattandosi
di una obbligazione di natura extracontrattuale e personale, della quale, in linea di principio, la comunione legale
non dovrebbe rispondere, la corresponsabilità della stessa è ipotizzabile solo ai sensi dell'art. 2054, comma 3,
sempre che risulti che il veicolo coinvolto nel sinistro non sia di proprietà, o nella disponibilità, esclusiva di uno
dei coniugi; sicché, in presenza dell'accertamento che detto veicolo era condotto dal proprietario, non è sufficiente
invocare il regime patrimoniale di comunione legale dei coniugi per inferirne la sussistenza di un interesse del
coniuge del convenuto idoneo a legittimare la sua partecipazione al giudizio, e, quindi, la sua incapacità a deporre,
ai sensi dell'art. 246 c.p.c. (Cass. 9 febbraio 2005, n. 2621).
Per altri riferimenti, in particolare con riguardo al rilievo che il coniuge in regime di comunione legale non è
incapace a testimoniare nelle controversie in cui sia parte l'altro coniuge, ove esse abbiano ad oggetto crediti
derivanti dall'esercizio dell'impresa di cui sia titolare esclusivo l'altro coniuge, Cass. 5 marzo 2004 n. 4532, infra
sub art. 178. Cui altresì il rilievo che tale incapacità sussiste, qualora il credito non sia sorto nell'esercizio di
impresa (Cass. 22 aprile 2008, n. 10398).
Sempre in tema, da parte del S.C. si è osservato, altresì, — comunque — che se oggetto di una controversia è
la violazione della disciplina delle distanze di una costruzione dal confine, il coniuge del convenuto, in regime di
comunione legale dei beni con questi, non è incapace di testimoniare (art. 246 c.p.c.), perché l'incremento
eventuale del patrimonio comune non è strettamente connesso e dipendente dall'oggetto della lite, e perciò
l'interesse del coniuge escusso è di mero fatto, influente sulla valutazione della sua attendibilità, ma inidoneo a
legittimare la sua partecipazione al giudizio (Cass. 9 ottobre 1997 n. 9786).
La situazione dei coniugi in comunione di beni e quella dei coniugi in regime di separazione dei beni non
sono omogenee: in particolare, la comunione dei beni fra i coniugi determina la legittimazione di un coniuge a
partecipare ai giudizi, nei quali sia parte l'altro coniuge, dai quali possano derivare incrementi o decrementi del
patrimonio comune.
Ne deriva — si è ritenuto, pertanto — che non è fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt.
159 c.c. e 246 c.p.c., sollevata, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., sotto il profilo che mentre per i primi
sussiste il divieto di testimonianza, in cause relative a beni che possono essere incrementati o decurtati in
dipendenza del giudizio in cui è parte in causa l'altro coniuge, per i secondi invece tale possibilità è aperta, in
seguito alla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 247 c.p.c. pronunziata con sentenza 23 luglio 1974 n. 248
della Corte costituzionale (Corte cost. 24 febbraio 1995 n. 62, Giust. civ. 1995, I, 1141; Giur. it. 1995, I, 537;
Foro it. 1996, I, 83; Dir. famiglia 1996, 9; Cons. Stato 1995, I, 268; Giur. cost. 1995, 530).
4. Coniuge comproprietario del veicolo, in regime di comunione legale e assicurazione obbligatoria
della responsabilità civile. — È manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalità dell'art. 4, lett. a) l. 24
dicembre 1969 n. 990, nella formulazione precedente all'art. 28 l. 19 febbraio 1992 n. 142, perché l'esclusione del
coniuge comproprietario del veicolo dalla copertura assicurativa derivava dalla sua corresponsabilità per il sinistro
(art. 2054 c.c.), ostativa alla sua qualità di terzo (Cass. 6 febbraio 1998 n. 1292, Famiglia e diritto 1998, 278).
In materia di assicurazione della responsabilità civile automobilistica, ai sensi dell'art. 4 l. n. 990 del 1969, nel
testo sia anteriore (che faceva richiamo all'art. 2054, comma 3) sia posteriore (da tale momento essendo il coniuge
considerato, in relazione ai danni alla persona — biologico e morale — come terzo trasportato coperto da
assicurazione) alla novella introdotta dall'art. 28 l. n. 142 del 1992, in caso di incidente stradale a bordo di
autovettura facente parte del regime patrimoniale di comunione legale, i danni subiti dal coniuge trasportato e
imputabili alla condotta di guida dell'altro coniuge debbono essere risarciti per l'intero (seppure nei limiti del
massimale da parte dell'assicuratore), non essendo al riguardo configurabile alcuna limitazione nemmeno in
ragione della contitolarità dell'autovettura tra i coniugi scaturente dal regime di comunione legale, giacché
essendo la comunione dei beni tra i coniugi pro indiviso, il diritto di ciascuno di essi investe l'intera cosa o —
qualora non si tratti di diritto reale — l'intera titolarità soggettiva (Cass. 15 gennaio 2003 n. 487).
5. Regime di comunione legale e deducibilità delle spese mediche sostenute per il coniuge titolare di
autonoma posizione contributiva. Esclusione. — In tema di imposte sul reddito, l'art. 10, comma 1, lett. b,
d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, il quale prevede la deducibilità delle spese mediche necessarie nei casi di grave e
permanente invalidità dei soggetti a carico del contribuente, ivi compreso il coniuge, a condizione che gli stessi
non siano a loro volta titolari di reddito, detta una norma specifica, che, escludendo l'applicabilità della disciplina
civilistica relativa alla comunione legale dei beni tra i coniugi, già derogata in via generale dalla previsione di
dichiarazioni distinte da parte dei coniugi che siano autonomi soggetti d'imposta, non consente di portare in
deduzione, sia pure pro quota, le spese mediche sostenute dal coniuge che, indipendentemente dal regime
patrimoniale di comunione legale eventualmente in atto, sia titolare di un'autonoma posizione impositiva (Cass. 23
ottobre 2006, n. 22789).
6. Coniugi di diversa cittadinanza. — Qualora le rispettive leggi nazionali dei coniugi siano insuscettibili di
un'applicazione cumulativa, deve applicarsi, per analogia, la norma, dettata in materia di rapporti personali tra
coniugi, di cui all'art. 18 delle preleggi, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 19 delle
preleggi, nella parte che stabiliva l'applicazione della legge nazionale del marito al tempo della celebrazione del
matrimonio; pertanto, anche i rapporti patrimoniali tra coniugi devono, al pari dei rapporti personali, intendersi
regolati dall'ultima legge nazionale che sia stata loro comune durante il vincolo matrimoniale. Nella specie, la
legge nazionale della moglie, cittadina italiana, prevedeva quale regime patrimoniale legale la comunione dei
beni, mentre la legge nazionale del marito, cittadino austriaco, prevedeva, quale regime patrimoniale legale, la
separazione dei beni; durante il matrimonio, il marito era divenuto cittadino italiano (Cass. 24 gennaio 2007, n.
1609, Dir. famiglia 2007, 1136).
7. Cessazione del regime legale per separazione dei coniugi e decorrenza dei relativi effetti. Rinvio.
Riconciliazione dei coniugi giudizialmente separati e ripristino della comunione dei beni. — Sulla cessazione
del regime di comunione legale dei beni tra i coniugi, a causa della pronuncia di separazione personale dei coniugi
stessi e sulla decorrenza degli effetti dello scioglimento, ampiamente, infra, sub art. 191.
Si è precisato, da parte del S.C., che la riconciliazione, intervenuta tra coniugi separati, fa cessare con effetto
ex nunc tutti gli effetti della separazione, sia personali che patrimoniali, con il conseguente ripristino del regime
della comunione dei beni esistente in origine tra i coniugi, venuto meno in seguito al provvedimento di
separazione (Cass. 12 novembre 1998 n. 11418, Giust. civ. 1999, I, 1033, Corr. giur. 1999, 190; Famiglia e diritto
1999, 185; Studium Juris 1999, 195; Dir. famiglia 1999, 582; Foro it. 1999, I, 1953; Riv. not. 1999, 686).
Si è osservato, al riguardo, a sostegno di una tale conclusione tra l'altro:
— nella disciplina dettata dalla legge di riforma del diritto di famiglia, ispirata al canone sovraordinato della
parità delle posizioni dei coniugi, la comunione legale dei beni costituisce puntuale applicazione del principio
fondamentale di uguaglianza, idonea a riempire il concetto formale di contenuto sostanziale, mentre la
separazione dei beni non è più il regime legale, ma l'effetto di una apposita convenzione degli stessi coniugi, che
da un lato ne esprime l'intenzione di evitare commistioni di patrimoni, dall'altro, su un piano economico-sociale,
tende a ricollegarsi statisticamente ad una situazione fattuale in cui entrambi i coniugi dispongono di proprie e
distinte fonti di reddito;
— la riconciliazione disciplinata quanto agli effetti dagli artt. 154 e 157, consiste nella ricostituzione del
consorzio familiare nell'insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali, animata dal proposito di dare nuova vita al
vincolo coniugale, ponendo fine allo stato di separazione in atto;
— l'evento riconciliativo si configura come vicenda diretta a rimuovere detto stato [di separazione], tanto che
ai sensi dell'art. 157 cpv. possono essere presi in esame, quali unici fatti e comportamenti potenzialmente
determinanti una nuova separazione, solo quelli successivi alla riconciliazione;
— appare del tutto aderente al sistema delineato dal legislatore della riforma che, posta nell'art. 191 la
separazione personale come causa dello scioglimento della comunione dei beni, si ripristini automaticamente tra
le parti, una volta rimossa con la riconciliazione la causa di scioglimento della comunione, quel regime di
comunione originariamente adottato, esclusa ovviamente ogni retroattività per gli acquisti effettuati durante il
periodo di separazione;
— non appare condivisibile la tesi di quegli Autori che ritengono debba distinguersi nell'ambito degli effetti
della sentenza di separazione, ai fini dell'art. 157, tra quelli permanenti (come l'autorizzazione a vivere separati,
l'affidamento dei figli o l'attribuzione dell'assegno destinati a cessare con la riconciliazione, e quelli istantanei
come appunto la cessazione del regime legale dei beni che in quanto usciti dalla disponibilità delle parti non
sarebbero più caducabili, argomentando a sostegno di tale distinzione che la separazione dei beni conseguente alla
separazione personale non è un effetto proprio della sentenza, o quanto meno non ne è un effetto diretto e
immediato, in quanto discende non dalla sentenza, ma direttamente dalla legge, che lo ricollega alla sentenza;
— l'ampia formulazione dell'art. 157 e la mancanza di qualsiasi indicazione in termini limitativi della sua
operatività inducono a ravvisare in detta disposizione un principio generale — peraltro in piena coerenza con la
natura e la portata del fatto determinativo — secondo il quale con la riconciliazione vengono meno tutti gli effetti
della separazione; né vale in contrario rilevare che dagli artt. 162 e 163 si desume che le convenzioni nel corso del
matrimonio dirette a modificare il regime esistente devono essere stipulate con atto pubblico, atteso che
nell'ipotesi di riconciliazione il regime di riferimento per la sua eventuale variazione non si identifica con quello
di separazione derivante ex lege dalla separazione personale ed ormai travolto dalla riconciliazione, bensì in
quello scelto all'atto del matrimonio (Cass. 12 novembre 1998 n. 11418, cit.).
In dottrina, in margine alla ricordata pronunzia, in termini critici, M. FINOCCHIARO, La mancanza di qualsiasi
forma di pubblicità pregiudica le esigenze di tutela dei terzi, Guida dir. 1998, f. 46, 26, nonché P. SCHLESINGER,
Famiglia separazione dei coniugi ed effetti della riconciliazione sulla comunione legale, Corr. giur. 1999, 190;
M. FOCOSI, Comunione legale e riconcilaizione successiva alla separazione personale dei coniugi, Riv. not. 1999,
686 e A. DI SAPIO, Effetti della riconciliazione sul regime patrimoniale della famiglia: … dalle staccionate alle
bandierine, passando da Cadmo ad Armonia, Dir. famiglia 1999, 582.
Sempre in margine a Cass. 12 novembre 1998 n. 11418, cfr., altresì, in vario senso, RENGA, Giust. civ. 1999,
I, 1033; A. NICOLUSSI, Riconciliazione e comunione dei beni, Foro it. 1999, 1953; R. DE MICHEL, Rapporti
patrimoniali tra coniugi; riconciliazione fra coniugi separati e regime patrimoniale della famiglia, Famiglia e
diritto 1999, 252; PARENTE, Dir. famiglia 1999, 1059.
Sempre sulla questione specifica — in termini sostanzialmente opposti — in sede di merito, peraltro, si è
affermato:
— l'avvenuta riconciliazione dei coniugi ritualmente separati spiega effetti soltanto interni alla coppia e non
può operare esternamente al fine di travolgere atti dispositivi compiuti da uno dei coniugi in favore di terzi di
buona fede, l'asserita riconciliazione dei coniugi in regime di separazione omologata non può essere opposta agli
acquirenti di un bene immobile dalle mani del coniuge che si è dichiarato legittimato a disporne, dopo che
l'avvenuta separazione aveva sciolto il precedente regime di comunione legale (Trib. Palermo 29 marzo 1997, Dir.
famiglia 1998, 985);
— l'eventuale carattere simulatorio del verbale di separazione consensuale omologata non può, ex art. 1415,
essere opposto ai terzi, e l'eventuale rinconciliazione dei coniugi ritualmente separati può spiegare effetti soltanto
interni alla coppia, non potendo rilevare al fine di travolgere atti dispositivi compiuti da uno dei coniugi in favore
di terzi di buona fede, né l'asserita simulazione della separazione, né l'asserita riconciliazione dei partners dopo
l'omologa possono essere opposte agli acquirenti di un bene immobile dalle mani di un coniuge legittimato a
disporne per avere acquistato il bene dopo l'omologa della separazione, che aveva sciolto il precedente regime di
comunione legale (Trib. Bologna 28 gennaio 1998, Dir. famiglia 1998, 1047, con nota adesiva di M. CONTE,
Sull'opponibilità ai terzi della riconciliazione di coniugi ritualmente separati);
— qualora sia stata annotata a margine dell'atto di matrimonio l'avvenuta separazione personale dei coniugi,
il tribunale, ritualmente richiesto, deve ordinare l'annotazione dell'avvenuta riconciliazione delle parti, a tutela dei
terzi, che hanno interesse a conoscere sia la separazione, costituente causa di scioglimento della comunione legale
dei beni, sia la riconciliazione (Trib. S. Maria Capua V. 2 maggio 1997, Dir. famiglia 1998, 1469, ricordata infra,
sub art. 162, n. 2);
— il contratto di compravendita, quando ne sia oggetto un bene acquistato successivamente al passaggio in
giudicato della sentenza di separazione personale (o alla omologazione della separazione consensuale), non è
annullabile (art. 184), pur se i coniugi, che avevano adottato con il matrimonio la comunione legale, abbiano
ripreso a convivere, in quanto, pronunciata la separazione, la successiva riconciliazione di fatto (art. 157) non
comporta l'automatica reviviscenza del regime patrimoniale della comunione legale (art. 191), se essi non abbiano
dato alcuna pubblicità, di diritto o di fatto, alla riconciliazione (Trib. Napoli 21 dicembre 1998, Foro nap. 1999,
246).
8. Nuovo regime patrimoniale familiare e convivenza more uxorio. — Da parte di un giudice di merito si è
osservato che « sulla base delle più attuali acquisizioni sociologiche fatte proprie dal legislatore in materia di
famiglia, che ravvisano negli incrementi patrimoniali del gruppo il risultato di una collaborazione dei suoi
componenti » deve escludersi — in una fattispecie, peraltro, completamente esauritasi anteriormente all'entrata in
vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151 — che possa ritenersi simulata l'intestazione di un immobile in favore di
una donna, ad opera del suo convivente more uxorio, o, comunque, in qualche modo rilevante la dichiarazione
scritta, di debito, rilasciata dalla donna all'uomo, per la parte di prezzo relativo, contestualmente all'intestazione
medesima (Trib. Bari 21 gennaio 1977, Dir. famiglia 1979, 1186, con nota adesiva di BESSONE, « Favor
matrimonii » e regime del convivere in assenza di matrimonio, che, dopo aver esposto i requisiti, perché una
libera convivenza possa qualificarsi « famiglia di fatto » e rilevato che, in realtà, la Costituzione riconosce come
società naturale la famiglia semplicemente naturale, quanto al punto specifico, oggetto di contestazione tra le
parti, segnala « la concisa chiarezza degli argomenti » esposti in motivazione. Criticamente, in dottrina, in
margine a tale pronuncia, FINOCCHIARO M., in A e M. FINOCCHIARO, op. cit., 719-721, nonché GAZZONI, Dal
concubinato alla famiglia di fatto, Milano 1983, 126 ss.
La dottrina, ad ogni modo, esclude che gli artt. 159 ss. possano essere applicati, in via diretta o analogica, alle
convivenze more uxorio. Nel senso che nell'intenzione del legislatore deve escludersi sia ravvisabile la volontà di
un pieno riconoscimento giuridico della convivenza more uxorio quanto ai rapporti patrimoniali tra gli stessi, tra
gli altri, FARENGA, In tema di rapporto « more uxorio », famiglia di fatto e impresa familiare, Dir. fall. 1980, II,
611 ss., in part. 613; ALAGNA, La famiglia di fatto ad un bivio: rilevanza delle singole fattispecie o
riconoscimento generalizzato di un fenomeno?, Giust. civ. 1982, II, 25 ss., in part. 38 (nonché Vita not. 1981, 492
ss., in part. 514); JEMOLO, La c.d. famiglia di fatto, Diritto di famiglia, Raccolta di scritti in onore di R. Nicolò,
Milano 1982, 45 ss., in part. 56-57; SANTOSUOSSO, op. cit., 21-22. (In senso diverso, peraltro, e, in particolare, per
l'affermazione che la comunione legale è applicabile anche in caso di coniugi di fatto, PROSPERI, La famiglia non
fondata sul matrimonio, Napoli 1980, 286 ss.. Detto autore ravvisa infatti negli artt. 159 ss. un possibile punto di
riferimento anche per disciplinare le situazioni patrimoniali della famiglia di fatto: ad es., con riguardo alla regola
della pari dignità giuridica, nell'ambito della comunità familiare, del lavoro casalingo e di quello professionale.
Per una affermazione giurisprudenziale che « la famiglia di fatto » è « una formazione sociale », tutelata dagli
artt. 2 e 30 Cost., tra le altre, Pret. Genova 17 luglio 1979, Dir. famiglia 1981, 203 (riformata, sul punto, da Trib.
Genova, 17 dicembre 1979, ivi 1981, 159) che ha ritenuto la nullità della clausola di un fondo di mutua assistenza
ove interpretata nel senso di non estendere alla convivente dell'iscritto al fondo medesimo il diritto all'assistenza
ed alla previdenza sociale esplicitamente riconosciuto in favore della moglie).
9. Segue: prestazioni lavorative, svolte nell'ambito di una convivenza more uxorio. — Al fine di stabilire
se le prestazioni lavorative svolte nell'ambito di una convivenza more uxorio diano luogo ad un rapporto di lavoro
subordinato oppure siano riconducibili ad una diversa relazione, dalla quale esuli il requisito della subordinazione,
il giudice — specie nella considerazione del ridimensionamento della presunzione di gratuità delle prestazioni
rese anche nell'ambito della famiglia legittima, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 230-bis — può escludere
l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato solo in presenza della dimostrazione rigorosa di una comunanza di
vita e di interessi tra i conviventi (famiglia di fatto), che non si esaurisca in un rapporto meramente spirituale,
affettivo e sessuale, ma, analogamente al rapporto coniugale, dia luogo anche alla partecipazione, effettiva ed
equa, della convivente more uxorio alle risorse della famiglia di fatto (Cass. 13 dicembre 1986 n. 7486).
Sempre in argomento, cfr., altresì, Cass. 17 febbraio 1988 n. 1701, Foro it. 1988, I, 2306, con nota di CALÒ:
la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese tra persone conviventi more uxorio può essere vinta
solo dalla prova rigorosa, a carico di chi l'assume, dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato ed oneroso,
prova che non può consistere né nella sola corresponsione di vitto ed alloggio o di ulteriori utilità dirette al
soddisfacimento di altre esigenze di ordine materiale nell'ambito della normale solidarietà affettiva e materiale dei
componenti della famiglia di fatto, né nella circostanza che le prestazioni lavorative, anziché svolgersi nello
stretto ambito familiare, attengano all'esercizio di una impresa ove questa sia organizzata e gestita con criteri
prevalentemente familiari, richiedendosi l'accertamento in concreto che vi sia un'equa ed effettiva partecipazione
dei componenti alle risorse della famiglia di fatto.
10. Segue: rapporti patrimoniali tra conviventi e arricchimento senza causa: posizione della dottrina.
— Da ultimo in dottrina, specie per i profili patrimoniali dei rapporti di convivenza more uxorio, è stato
richiamato l’istituto dell’arricchimento senza causa (cfr. ampiamente ALBANESE, Ingiustizia del profitto e
arricchimento senza causa, Padova, 2005, 249 ss.). Il ripristino dello status quo ante, attuato, in particolare, per
mezzo del richiamo al divieto generale di arricchimenti ingiustificati, sembra costituire, per elasticità applicativa,
la soluzione più idonea alla soluzione di numerose ipotesi concrete [OBERTO, Impresa familiare ed ingiustificato
arricchimento tra conviventi more uxorio, Giur. it. 1991, I, 2, 577; CALÒ, La giurisprudenza come scienza
inesatta (in tema di prestazioni lavorative in seno alla famiglia di fatto), Foro it. 1988, I, 2306; MASUCCI,
Subordinazione e gratuità: quale tutela per il convivente di fatto nell’impresa familiare?, Giur. it. 1995, I, 1,
2113], sebbene alla concessione del rimedio ex art. 2041 c.c. sia pregiudiziale il previo accertamento della
mancanza di una “giusta causa” dell’attribuzione patrimoniale.
Infatti, come noto, accanto alla legge, altra causa idonea a giustificare l’altrui arricchimento è normalmente
considerata la volontà dell’impoverito. La “volontà” di attuare uno spostamento patrimoniale può realizzarsi
secondo modalità diverse. Innanzitutto, le parti possono avere stipulato un contratto tra loro: nella specie, un
contratto di convivenza. In questo caso, se il contratto è valido, esso è certamente idoneo a costituire la “giusta
causa” dell’attribuzione (TRABUCCHI, Arricchimento (Azione di ) (Diritto Civile), Enc. dir., III, Milano, 1959, 67
s. Sul punto c’è concordia in giurisprudenza: v., tra le tante, Cass. 30 marzo 2001, n. 4722, Giust. civ. Mass. 2001,
634) e dottrina, se escludiamo, per quest’ultima, BARCELLONA, Note critiche in tema di rapporti fra negozio e
giusta causa dell’attribuzione, Riv. trim. dir. proc. civ. 1965, I, 21). Al contrario, non può parlarsi di “giusta
causa” dell’arricchimento nei casi in cui esso risulti prodotto per effetto dell’esecuzione di contratti invalidi o
inefficaci. Può infine accadere che nessun contratto sia intervenuto tra le parti e che l’impoverito non abbia posto
in essere alcun atto unilaterale. Anche in questi casi si continua a sostenere che la prestazione volontaria escluda
l’arricchimento, perché l’intenzione di produrre il trasferimento patrimoniale, o comunque il consenso da parte
dell’impoverito, “giustifica” l’arricchimento. La dottrina più recente ha però osservato che la volontà, di produrre
un arricchimento in capo al patrimonio altrui, può essere suffragata dalle motivazioni più varie. Non sarebbe
quindi corretto sostenere, come sovente accade, che ogni attività compiuta in vantaggio altrui al di fuori di un
contratto, e senza corrispettivo, sia sorretta da spirito di liberalità: quando vi è la volontà di porre in essere una
liberalità, l’arricchimento è fornito di una giusta causa; ma dare per assodato lo spirito di liberalità in ogni ipotesi
di volontario arricchimento di un altro soggetto equivale ad una finzione, perché non tiene conto di quella vasta
zona d’ombra ove coabitano ipotesi in cui l’arricchimento non ha la sua causa né nello scambio né nello spirito di
liberalità. Una cosa è la volontà della prestazione, altro è la volontà dell’arricchimento.
Proprio osservando il campo dei rapporti familiari, è agevole rendersi conto che non sempre la volontà di
prendere un’iniziativa diretta a beneficiare il terzo vale ad escludere le esigenze sottese al divieto generale di
arricchimento ingiustificato. Nell’ambito, in genere, dei rapporti di affetto, di amicizia o di cortesia, capita di
continuo di porre in essere degli “arricchimenti” in favore dell’amico, del conoscente o del familiare. Un esempio
particolarmente suggestivo è quello del fidanzato che esegue lavori di ristrutturazione nella casa dei futuri suoceri
ove prevede di andare a vivere con la futura sposa. Non pare che in questo caso si possa parlare di un soggetto che
agisce (o che agisce soltanto) perché spinto dalla volontà di porre in essere un atto di liberalità: se il fidanzamento
si rompe, sarebbe ingiusto negargli qualsivoglia ristoro. Nel senso opposto è però andato un giudice di merito, in
un caso molto simile a quello appena esemplificato (Trib. Ravenna 9 marzo 1994, Gius 1994, 178). A ragione del
fatto che gli oneri per la ristrutturazione erano stati sopportati dai genitori del ragazzo in funzione della sua
intrapresa convivenza more uxorio con la figlia dei convenuti, detto giudice ha concluso che «tale dazione di
denaro … deve essere sussunta nella fattispecie della liberalità d’uso prevista dall’art. 770, comma 2°, c.c., di cui
riveste tutte le caratteristiche, a cominciare dalla già precisata occasione in cui avvenne, per finire alla conformità
della stessa agli usi sociali ad alla proporzione dell’entità della dazione alle condizioni economiche degli attori».
La corte ha ritenuto pertanto che la effettuazione di prestazioni d’opera senza corrispettivo da parte degli attori
costituisse una liberalità d’uso, la quale aveva la propria causa «nell’intento di compiere la liberalità in favore del
proprio figliolo», causa che di per sé esclude ogni possibilità di agire in arricchimento.
I maggiori problemi sorgono proprio in relazione alla sussistenza di una liberalità o di una obbligazione
naturale, essendo radicata, in giurisprudenza, la convinzione che i servizi prestati spontaneamente, soprattutto se
resi in ambito familiare o di convivenza, debbano presuntivamente farsi rientrare nell’una o nell’altra. Trib. Larino
21 ottobre 1994, Nuovo dir. 1995, 519, con nota di FRONTINI, ha affermato che in una relazione di convivenza
more uxorio, il convivente, che ai sensi del diritto può essere assimilato ad un ospite, non ha diritto al pagamento
di una somma corrispondente all’incremento di valore del fabbricato in proprietà dell’altro convivente in
dipendenza di lavori di ristrutturazione ed ampliamento che egli abbia eseguiti, a meno che non provi che le sue
dazioni eccedano dall’esecuzione dei doveri morali e sociali di cui all’art. 2034 c.c.
La difficoltà principale è poi dovuta alla facilità di sconfinamento da un concetto all’altro. Il settore che ha
salutato un’inversione di tendenza piuttosto evidente è proprio quello della effettuazione di elargizioni in favore
della convivente more uxorio: da una qualificazione in termini di donazione rimuneratoria, si è passati negli ultimi
quaranta anni a ritenere che esse configurino adempimento di una obbligazione naturale, svincolando così la
validità dell’attribuzione dall’obbligo di rispettare le prescrizioni formali. Cass., 24 novembre 1998, n. 11894, in
Guida al dir. 1998, f. 48, 32, con nota di FINOCCHIARO, ha affermato: «La convivenza di fatto fa scaturire tra i
partners doveri morali e sociali, e, quindi, obbligazioni naturali e non donazioni».
Ai fini dell’azione restitutoria, in ogni caso, è sufficiente escludere, da un lato la sussistenza di un animus
donandi dell’impoverito, dall’altro che egli abbia agito spontaneamente in adempimento di doveri morali o
sociali: né l’una né l’altra circostanza possono presumersi dal mero fatto della convivenza. Affinché si possa
escludere di trovarsi in presenza di una liberalità d’uso, occorre far capo al fatto che l’attribuzione è tale solo
quando caratterizzata dal fatto che colui che la compie intende osservare un uso, cioè adeguarsi ad un costume
vigente nell’ambiente sociale d’appartenenza, costume che determina anche la misura dell’elargizione in funzione
della diversa posizione sociale delle parti, delle diverse occasioni ed in proporzione delle loro condizioni
economiche, nel senso che comunque la donazione non debba comportare un depauperamento apprezzabile nel
patrimonio di chi la compie: non può parlarsi di liberalità d’uso, ad esempio, nel caso di un’elargizione di gioielli
fatta allo scopo di consentire la prosecuzione di una convivenza. Sembra che il ragionamento ora descritto sia
stato applicato da Trib. Genova 27 marzo 1998, Nuova giur. ligure 1999, 24: «la domanda del convivente more
uxorio, il quale, avendo provveduto, in favore di una cooperativa edilizia di cui era socia la convivente, a
pagamenti in conto delle contribuzioni da quest’ultima dovute per la prenotazione di un appartamento, chiede la
restituzione da parte della convivente delle somme pagate, deve essere accolta, dovendosi escludere: a) che si
tratti di obbligazione naturale, non essendo state le erogazioni destinate ai bisogni della vita della famiglia di fatto;
b) che si tratti di liberalità d’uso, non sussistendo una sostanziale equivalenza economica tra le dazioni del
convivente e i servizi allo stesso resi dalla beneficiaria nel corso della coabitazione; c) che si tratti di altro tipo di
liberalità, mancando la prova dell’animus donandi, che non può presumersi dal mero fatto della convivenza».
Una volta che il primo passaggio interpretativo si sia risolto con l’esclusione di trovarsi innanzi ad una
elargizione fatta con intenzione liberale o in esecuzione di una obbligazione naturale, il secondo e definitivo
passaggio, nell’impossibilità di dare soluzioni univoche al problema, consisterà nella valutazione di tutte le
circostanze di fatto, al fine di pervenire ad una soluzione in grado di tenere presenti tutti gli interessi in conflitto,
la loro natura e gli scopi da cui era animata l’iniziativa dell’impoverito. Sull’importanza di detti scopi, e sulla
condivisione dell’iniziativa da parte del beneficiario, insiste BRECCIA, L’arricchimento senza causa, Trattato di
diritto privato, diretto da RESCIGNO, IX, Obbligazioni e contratti, tomo I, Torino, 1984, 996, il quale rileva come
questi fatti, se meritevoli di tutela ed erronei o successivamente frustrati, potrebbero eliminare ogni dubbio sulla
possibilità di trovarsi innanzi ad una fattispecie di arricchimento imposto.
11. Segue: la restituzione come “terza via” tra donazione e obbligazione naturale: una recente
pronuncia della Cassazione. — Sempre ai nostri limitati fini basti ricordare che, per comune convinzione,
l’indagine sulla sussistenza di un’obbligazione naturale è duplice, dovendo accertarsi, da un lato, se nel caso
dedotto sussista un dovere morale o sociale in rapporto alla valutazione corrente nella società e, dall’altro, se tale
dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità ed adeguatezza
in relazione a tutte le circostanze del caso. Pertanto, una prestazione può configurare esecuzione di doveri morali
o sociali solo qualora corrisponda a regole correntemente e diffusamente osservate nella collettività in determinate
contingenze (La giurisprudenza non ritiene sufficiente il convincimento soggettivo del solvens ma considera
indispensabile che il dovere appaia tale, secondo i parametri comunemente recepiti nella vita di relazione. Ciò
permette, ad esempio, di escludere che costituiscano adempimento di un’obbligazione naturale le sovvenzioni
private a partiti ed uomini politici).
Come è possibile desumere da Cass. 26 gennaio 1980, n. 651, è questo il primo punto che il giudice di merito
dovrà valutare anche per reperire una giustificazione dell’arricchimento: in presenza, ad esempio, di elargizioni di
denaro effettuate da una persona al proprio partner nel corso di una relazione sentimentale, dovrà accertare in
concreto se da tale relazione possano scaturire, a carico del solvens, doveri morali e sociali tali da indurlo alle
attribuzioni patrimoniali anzidette.
In secondo luogo, occorrerà valutare se l’attribuzione patrimoniale effettuata in favore del convivente more
uxorio, risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio ed alle condizioni sociali del
solvens. Cfr. App. Napoli 5 novembre 1999, Giur. Nap. 2000, 232: l’attribuzione patrimoniale al convivente era
stata effettuata a titolo di ristoro per il sacrificio della sua aspirazione ad un’esistenza autonoma ed indipendente,
nonché al fine di assicurargli un’autosufficienza economica per il tempo successivo alla cessazione del rapporto.
Se non ricorre un rapporto di proporzionalità tra prestazione e dovere che ne è alla base, ossia se la
prestazione ha un valore sproporzionato rispetto all’obbligo morale o sociale del comportamento, si ritiene che per
l’eccedenza si ricada nell’ambito della donazione, con annesso obbligo di ricorrere alle formalità previste dalla
legge. Questo automatismo, a parte la sua inconciliabilità con le norme sulla liberalità (in specie quelle attinenti
alla forma), non dà alcuna certezza; così come è da rifiutare anche l’automatismo inverso, in base al quale
ogniqualvolta una attribuzione a titolo gratuito manca dei presupposti per la configurabilità di una obbligazione
naturale, si richiama in causa la figura della donazione, in specie rimuneratoria: come avvenuto, ad esempio (App.
Genova 18 gennaio 1988, Vita not. 1988, 128), nel caso della elargizione di una somma di denaro effettuata da
una persona anziana a favore della domestica inviatale dal comune nel quadro dell’assistenza domiciliare. Invero,
la qualificazione di donazione rimuneratoria, permette comunque al solvens di essere reintegrato della
diminuzione patrimoniale subita quando la elargizione non sia di modico valore (nella specie, si trattava di venti
milioni di lire, versati su di un libretto al portatore), poiché l’inosservanza della forma dell’atto pubblico,
prescritta dall’art. 782 c.c., comporta la nullità dell’attribuzione.
La considerazione del considerevole valore della elargizione, commisurata a tutte le circostanze di fatto,
dovrebbe però far riflettere sulla reale possibilità di configurare, senza innaturali forzature, l’esistenza di un
animus donandi. La Suprema Corte ha così escluso la gratuità del lavoro svolto da un soggetto in favore del
proprio cugino, con la motivazione che «l’elemento che giustifica la gratuità di prestazioni lavorative
obbiettivamente riconducibili ad un rapporto di lavoro subordinato, e quindi ad un contratto naturalmente oneroso,
deve essere accertato con indagine particolarmente rigorosa, tenendo comunque conto che il fine di acquisire
particolari cognizioni può giustificare la gratuità del rapporto solo nel caso di sussistenza, nel concreto
svolgimento dell’attività lavorativa, di elementi coerenti con il fine suddetto, quali una particolare perizia del
datore di lavoro e la possibilità del lavoratore di sfruttarla mediante l’insegnamento o, almeno, il lavoro in
comune» (Cass., sez. lav., 23 febbraio 1989, n. 1009, Foro it. 1989, I, 1482).
12. Segue: Verso un superamento della presunzione di gratuità. — Negli ultimi anni, è in corso un
progressivo superamento della presunzione di liberalità nell’ambito dei rapporti sin qui descritti, anche per effetto
dell’introduzione, ad opera della riforma del diritto di famiglia del 1975, dell’istituto dell’impresa familiare (art.
230 bis c.c.).
Rimane tuttavia molto controverso, se questa lenta inversione di tendenza sia estensibile anche alla famiglia
di fatto. Alla considerazione in cui deve essere tenuto, anche in materia di famiglia di fatto, il «ridimensionamento
della presunzione di gratuità delle prestazioni rese anche nell’ambito della famiglia legittima a seguito dell’entrata
in vigore dell’art. 230 bis c.c.» ha fatto riferimento Cass. 13 dicembre 1986, n. 7486, Giust. civ. Mass. 1986,
concludendo che il giudice «può escludere l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato solo in presenza della
dimostrazione rigorosa di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi (famiglia di fatto), che non si
esaurisca in un rapporto meramente spirituale, affettivo e sessuale, ma, analogamente al rapporto coniugale, dia
luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, della convivente more uxorio alle risorse della famiglia di
fatto». Conforme: Pret. Sampierdarena 26 ottobre 1987, Dir. lav. 1991, II, 373, con nota di FONTANA. Cass., sez.
lav., 29 maggio 1991, n. 6083, Dir. lav. 1991, II, 373, con nota di FONTANA, ha affermato che la prova del
carattere contrattuale del rapporto (di lavoro subordinato) incombe su chi, per avvantaggiarsene, lo invoca; mentre
accertarne la sussistenza è compito del giudice di merito, il quale è libero di formare il proprio convincimento
utilizzando gli elementi probatori ritenuti rilevanti; la sua valutazione, se adeguatamente motivata ed immune da
errori logico-giuridici, non è censurabile in sede di legittimità.
La stessa estensione analogica dell’art. 230 bis c.c. alla convivente more uxorio incontra tuttora ostacoli. La
giurisprudenza prevalente è infatti contraria; cfr., ad esempio, Cass., sez. lav., 2 maggio 1994, n. 4204: «l’art. 230
bis c.c., che disciplina l’impresa familiare, costituisce norma eccezionale, in quanto si pone come eccezione
rispetto alle norme generali in tema di prestazioni lavorative ed è pertanto insuscettibile di interpretazione
analogica; deve peraltro ritenersi manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 230 bis nella
parte in cui esclude dall’ambito dei soggetti tutelati il convivente more uxorio, posto che elemento saliente
dell’impresa familiare è la famiglia legittima, individuata nei più stretti congiunti, e che un’equiparazione fra
coniuge e convivente si pone in contrasto con la circostanza che il matrimonio determina a carico dei coniugi
conseguenze perenni ed ineludibili (quale il dovere di mantenimento o di alimenti al coniuge, che persiste anche
dopo il divorzio), mentre la convivenza è una situazione di fatto caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità
unilaterale ad nutum».
Contra, Trib. Torino, 24 novembre 1990, Giur. it. 1991, I, 2, c. 574, con nota di OBERTO, ha statuito che le
disposizioni di cui all’art. 230 bis c.c. in tema di impresa familiare sono applicabili anche al lavoro prestato nella
famiglia o nell’impresa familiare dal convivente more uxorio.
Cfr. amplius sub art. 230 bis.
I giudici di merito, negli ultimi anni, hanno preso atto che, con particolare riguardo alla famiglia di fatto,
l’azione di arricchimento innalza il livello della tutela, troppo mortificato dal confronto con la protezione della
famiglia legale, «i cui capisaldi possono essere indicati nella comunione dei beni, nell’istituto di cui all’art. 230
bis c.c., negli alimenti, nell’attribuzione al coniuge della qualità di legittimario», e trova ragione in fondamentali
esigenze di giustizia sostanziale: «sarebbe curioso che in nome della affectio un convivente fosse legittimato ad
appropriarsi del lavoro dell’altro e che, alla fine della convivenza, l’affectio producesse l’effetto perverso di
lasciare un convivente ancora più ricco e l’altro ancora più povero» (Trib. Milano 5 ottobre 1988, Lav. 80 1989,
549).
Quanto ai coniugi, dovrà sempre tenersi presente che essi sono reciprocamente tenuti alla contribuzione ai
bisogni della famiglia, ciascuno in proporzione alle proprie sostanze e capacità lavorative (art. 143, comma 3º,
c.c.); cosicché, per potersi parlare di arricchimento ingiustificato di uno a carico dell’altro, dovrà previamente
compiersi una valutazione globale dell’apporto che i due coniugi hanno dato alla gestione della famiglia, per
vedere se quella che a prima vista appare come una ingiusta locupletazione non sia in realtà compensata dal
maggior contributo al menage familiare dato dal coniuge presunto arricchito.
L’azione di arricchimento, è apparsa anche come il rimedio più idoneo nei casi nei quali un immobile
intestato ad uno solo dei coniugi, sia stato in realtà acquistato col denaro di entrambi, e non sia possibile
accertarne la contitolarità. L’azione di arricchimento (insieme con quella di ripetizione) è spesso invocata, nel
caso di rottura del matrimonio, nei confronti del coniuge che, pendente il vincolo coniugale, aveva acquistato un
immobile, risultandone unico intestatario, con denaro sborsato dall’altro coniuge. Ma i giudici ravvisano nella
fattispecie una donazione indiretta tra coniugi, negando sia che l’arricchimento sia ingiustificato, sia che il
pagamento sia privo di titolo e dunque indebito: «la mancanza di una precisa causa onerosa del pagamento,
giuridicamente rilevante, nonché la spontaneità del pagamento, unitamente, si pongono come sicuri indici dello
spirito liberale del pagamento effettuato, da valutarsi al momento della donazione» (Trib. Milano, 17 settembre
1998, riportato per esteso in ALBANESE, Il pagamento dell’indebito, Padova, 2004, 660).
Di recente, si è segnalata all'attenzione degli interpreti una importante pronuncia della Corte di legittimità.
Cass. 15 maggio 2009, n. 11330, Famiglia e Diritto 2010, 380, con nota di GELLI, ha riconosciuto il diritto a
richiedere l'indennizzo per l'altrui ingiustificato arricchimento ad una convivente more uxorio che aveva prestato
nei confronti dell'altro rilevanti contributi economico-patrimoniali in maniera continuativa, e sino al momento del
decesso del partner.
La Corte ha quindi condannato le eredi legittime del partner defunto a corrispondere, in via solidale tra loro,
al partner superstite, un congruo indennizzo determinato nella misura del 50% del valore di mercato alla data del
decesso dell'altro, di tre appartamenti che erano stati acquistati nel corso della convivenza.
Le eredi avevano richiamato l'orientamento che esclude l'applicazione dell'azione di cui all'art. 2041 c.c.
nell'ambito della convivenza more uxorio, trattandosi di prestazioni rese affectionis vel benevolentiae causa e
caratterizzate dalla spontaneità dell'adempimento; il che dovrebbe escludere l'arricchimento, quali che siano, per
ciascuno degli interessati, le conseguenze economiche vantaggiose o svantaggiose, in quanto causate dalla libera e
concorde determinazione delle loro volontà.
La Suprema Corte, al contrario, ha ritenuto tale motivo è infondato; ha obiettato, in particolare, che
l'arricchimento del convivente defunto era stato conseguente alla conversione a suo esclusivo profitto, mediante
l'acquisto di proprietà immobiliari ad esso solo intestate, di contributi economici e lavorativi della partner, resi in
assenza di un titolo (neppure gratuito) che giustificasse lo spostamento patrimoniale e tali - per rilevanza,
continuità e unilateralità degli apporti - da non costituire adempimento dei doveri morali, conseguenti
all'instaurazione del rapporto di convivenza. Ha ritenuto il Collegio che l'assunto di parte ricorrente, tendente a
prefigurare una sorta di inconciliabilità logico-giuridica tra la convivenza more uxorio e l'azione di arricchimento,
sul presupposto dell'inquadramento delle prestazioni rese dai conviventi nell'ambito concettuale dell'obbligazione
naturale, postuli che le prestazioni stesse trovino la loro giustificazione, per l'appunto, nel rapporto di convivenza
e, cioè, che sì tratti di prestazioni rese nell'adempimento dei doveri di carattere morale e civile di solidarietà e
reciproca assistenza che, avuto riguardo alle condizioni sociali e patrimoniali delle parti, devono presiedere alla
famiglia di fatto; mentre quando risulti - come nel caso all'esame - che le prestazioni rese da un convivente e
convertite (in tutto o in parte) a vantaggio dell'altro esorbitano dai limiti di proporzionalità e adeguatezza, allora è
configurabile una mera operazione economico-patrimoniale, comportante un ingiustificato arricchimento del
convivente more uxorio con pregiudizio dell'altro.
Infine, diversamente da quanto aveva ritenuto il Tribunale, e d'accordo, invece, con i giudici di secondo
grado, la Cassazione afferma che il dies a quo della prescrizione dell'azione di arricchimento non era costituito
dalla data dell'ultimo acquisto immobiliare, ma andava individuato in quello della morte del convivente e, cioè,
nella data di cessazione del rapporto di convivenza, posto che fino a quel momento l'altra partner aveva fornito il
proprio rilevante contributo economico e lavorativo. Peraltro, da un lato, andava escluso che fosse configurabile
l'inerzia del creditore, perché prima del decesso del convivente non vi era motivo (né la volontà e la
determinazione) di pretendere la cointestazione degli immobili, anche per le ripetute rassicurazioni provenienti dal
partner; dall'altro lato, andava evidenziato che l'impoverimento della convivente superstite si protrasse fino alla
morte del convivente, se non oltre, avendo la stessa continuato a pagare le rate di mutuo contratto per l'acquisto in
comunione di un appartamento e a "tamponare" altri impegni assunti dal suo convivente, tra cui quelli derivanti da
cambiali emesse in relazione all'acquisto di altro appartamento e da un'iscrizione ipotecaria a favore di noto
usuraio per l'acquisto di un ulteriore appartamento.
13. Segue: richiami di dottrina, sulle famiglie di fatto. — Da ultimo in dottrina specie per i profili
patrimoniali dei rapporti di convivenza more uxorio v., M. BRONZINI, Convivenza a scopo assistenziale fra
uomini, Nuovo dir. 1988, 321; F. D'ANGELI, Profili della famiglia di fatto: la fattispecie, Rass. civ. 1988, 225; A.
DE CUPIS, I progetti di legge sulla disciplina della famiglia di fatto, Giur. it. 1988, IV, 276; C. DORE, Prova della
simulazione da parte del legittimario che agisca per ottenere la riduzione di donazioni, Rilevanza giuridica della
c.d. famiglia di fatto e diritti del convivente, Riv. giur. sarda 1988, 50; P. PERLINGIERI, La famiglia senza
matrimonio tra l'irrilevanza giuridica e l'equiparazione alla famiglia legittima, Rass. civ. 1988, 601; A.
TRABUCCHI, Morte della famiglia o famiglie senza famiglia?, Riv. civ. 1988, 1, 19; A. TRABUCCHI, Verrà
disciplinata la famiglia « non fondata sul matrimonio »? (Rassegna di dottrina e giurisprudenza), Corr. giur.
1988, 866; G. ALPA, La famiglia di fatto: profili attuali, Giur. it. 1989, IV, 401; M. DOGLIOTTI, Due progetti di
legge per la famiglia di fatto, Giust. civ. 1989, II, 328; G. FERRI, Convivenza « more uxorio », Studi patrim. famil.
431; F. GAZZONI, Commento alle proposte di legge: Disciplina della famiglia di fatto. Nuove norme in materia di
diritto di famiglia, Rass. dir. civ. 1989, 239; E. MASCHIO, Prime considerazioni sulla proposta di legge
riguardante la famiglia di fatto, Dir. famiglia 1988, 1179; G. NAPPI, Riconoscimento e limiti della famiglia di
fatto nel rispetto del diritto vigente, Dir. famiglia 1988, 1818; A.M. PUNZI NICOLÒ, Famiglia di fatto e
riconoscimento di diritto, Iustitia 1989, 135; A. ARCERI, Famiglia di fatto e giurisprudenza penale, Giust. pen.
1990, I, 307; M.E. CASELLATI ALBERTI, Convivenza di fatto e famiglia legittima: disparità di trattamento
patrimoniale, Studi Chiesa Stati, 183; M.G. CUBEDDU, Il rapporto di convivenza, Giur. civ. comm. 1990, II, 323;
G. FUÀ, Il legislatore ed il giudice di fronte alla famiglia di fatto, Dir. famiglia 1989, 775; P.A. PILLITU, La tutela
della famiglia naturale nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo, Riv. dir. internaz. 1989, 793; G.
SERVETTI, Brevi appunti sullo stato della giurisprudenza in tema di c.d. famiglia di fatto, Dir. famiglia 1989, 873;
L. F. MELONI, I rapporti familiari, evoluzione della giurisprudenza civile e penale ed innovazioni normative,
Resp. civ. e prev. 1991, 3; A.M. PUNZI NICOLÒ, Profili civilistici della famiglia di fatto. Dalla riforma del diritto
di famiglia alla proposta di legge Cappiello, Iustitia 1990, 406; P. SORDI, Il lavoro nella famiglia di fatto, Nuovo
dir. 1990, 945; P. VENTURA, Famiglia di fatto, famiglia legittima e giusta familiarità, Iustitia 1990, 415; V.
VITALONE, C. ZAFFIRI, La famiglia di fatto, Giust. civ. 1991, II, 303; FRANZONI, I contratti tra conviventi more
uxorio, Riv. trim. dir. proc. Civ. 1994, 737; BALESTRA, La famiglia di fatto, Padova, 2004; ASPREA, La famiglia
di fatto, 2ª ed., Milano, 2009; MURITANO, PISCHETOLA, Accordi patrimoniali tra conviventi e attività notarile,
Milano, 2009; AA.VV., Codice della famiglia, a cura di M. Sesta, 2ª ed., Milano, 2009; BALESTRA, Attività
d'impresa e rapporti familiari, Padova, 2009; BARBIERA, Le convivenze: diritto civile nazionale e orientamenti
europei, Bari, 2010.
Art. 160.
Diritti inderogabili.
Gli sposi non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del
matrimonio.
Bibliografia: DE ROSA, Sulla validità degli accordi circa il cognome della moglie separata, Giur. it. 1957, I, 2; RUSSO, L'autonomia
privata nella stipulazione delle convenzioni matrimoniali, Le convenzioni matrimoniali e altri saggi sul diritto di famiglia, Milano,
1983; SACCO, sub art. 160, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; FERRARI, Gli accordi relativi ai diritti e doveri reciproci
dei coniugi, Rass. DC 1994; ANGELONI, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997; ZATTI, I
diritti e i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, Tratt. Rescigno, 3, II, 2ª ed., Torino, 1997; QUADRI,
Autonomia negoziale e regolamento tipico nei rapporti patrimoniali tra coniugi, Giur. it. 1997; PATTI, Sulla modificabilità del regime
patrimoniale dei coniugi, Nuova giur. it. comm. 1998, II; ZACCARIA, Possono i coniugi optare per un regime patrimoniale "atipico"?,
Studium Juris 2000; NATALI, L'indisponibilità del diritto al mantenimento da parte dei coniugi separati e l'invalidità della prestazione
una tantum: due limiti, forse eccessivi, all'autonomia coniugale, Arch. Civ. 2004, 494.
Sommario: 1. Diritti inderogabili: diritto-dovere di assistenza ex art. 143 c.c. Conseguenze. Richiami di dottrina. — 2. Transazione, tra
i coniugi, per porre fine o per prevenire l'insorgenza di una lite tra le parti. Ammissibilità, condizioni. — 3. L'applicazione
giurisprudenziale dell'art. 160 c.c. ai patti di separazione. — 4. Accordi tra i coniugi anteriori o successivi alla separazione (giudiziale o
consensuale) e non omologati. Validità. Limiti, condizioni. — 5. Patto, anteriore alla separazione, col quale i coniugi si riconoscono un
reciproco diritto di prelazione sugli immobili di proprietà esclusiva e comune. Validità. — 6. Patti di separazione stipulati al di fuori di
accordi omologati. — 7. Patti modificativi degli accordi di separazione. — 8. Accordi, in sede di separazione, sul futuro regime
giuridico del divorzio. Nullità, limiti.
1. Diritti inderogabili: diritto-dovere di assistenza ex art. 143 c.c. Conseguenze. Richiami di dottrina. —
Si discute, in dottrina, se i diritti e doveri nascenti dal matrimonio, contemplati dalla presente norma, siano anche i
diritti di natura personale (RUSSO, L'autonomia privata nella stipulazione delle convenzioni matrimoniali, in Le
convenzioni matrimoniali ed altri saggi sul nuovo diritto di famiglia, Milano, 1983, 195) o esclusivamente quelli
di natura patrimoniale (MAIORCA, Regime patrimoniale della famiglia. Disposizioni generali, Noviss. Dig. it., I.,
app., VI, Torino, 1986, 472). A favore di questa seconda soluzione, depongono la possibilità di evincere
l’inderogabilità dei diritti di natura personale dall’art. 1322 c.c. (senza bisogno di ricorrere all’art. 160), nonché la
natura contrattuale delle convenzioni matrimoniali, che quindi non possono avere ad oggetto che rapporti
patrimoniali. In particolare, domina l’idea che l’art. 160 voglia riferirsi ai doveri, di natura patrimoniale, sanciti
nel capo IV: il dovere di contribuzione (art. 143, comma 3°); l'obbligo di mantenimento dei figli (art. 148).
Espressamente nel senso che l'art. 160 si riferisca, unicamente, ai doveri di contribuzione di cui agli artt. 143 e
148 c.c., GRASSO, Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, 3, Torino 1982, 377. Non diversamente, sempre
nel senso che la disposizione in parola, tra l'altro, rende indisponibile, nei rapporti tra coniugi, il dovere di
contribuzione di cui agli artt. 143, 148 e 433, PACIA DEPINGUENTE, Autonomia dei coniugi e mutamento del
regime patrimoniale legale, Riv. dir. civ. 1980, II, 518 ss., in part. 573.
Ampiamente sull'art. 160 a seguito della novella del 1975, SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, il
regime patrimoniale della famiglia, Torino 1983, 46; M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di
famiglia, Milano 1984, 722-725; SACCO, Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di CIAN G., OPPO
G., TRABUCCHI A., III, Padova 1992, 15-19.
La Suprema Corte ha riconosciuto piena validità ed efficacia alla transazione indirizzata a regolare i reciproci
rapporti patrimoniali fra i coniugi consensualmente separati (avente ad oggetto anche il trasferimento della
proprietà di beni immobili), stabilendo che la transazione può intervenire tra i coniugi per disciplinare il rapporto
patrimoniale oggetto di possibile od attuale controversia, a patto che essa non abbia ad oggetto diritti indisponibili
dei contraenti (Cass. 9 luglio 2003, n. 10794, Dir. famiglia 2004, 81).
Ha natura inderogabile, ai sensi dell'art. 160, il diritto-dovere d'assistenza, tra i coniugi, di cui al precedente
art. 143 (Cass. 22 aprile 1982, n. 2481, secondo cui i patti modificativi delle condizioni economiche previste in
sede di separazione consensuale sono validi ed efficaci, anche senza l'omologazione del tribunale purché non
siano lesivi del diritto di mantenimento o di alimenti, che è riconducibile nel diritto-dovere di assistenza, avente,
appunto, ai sensi dell'art. 160, natura inderogabile. Non diversamente, Cass. 24 febbraio 1993, n. 2277).
È nulla, pertanto (appunto ai sensi dell'art. 160), la rinuncia al pagamento dell'assegno fissato per la moglie ed
i figli in sede di separazione consensuale omologata, sia pure limitata agli arretrati, ove l'assegno medesimo abbia
natura alimentare. Tale nullità può essere fatta valere dalla madre affidataria della prole anche per la quota di
spettanza dei figli diventati maggiorenni, attesa la legittimazione della prima a richiedere il pagamento delle
somme dovute per tale titolo per i secondi (Cass. 21 maggio 1984, n. 3115).
2. Transazione, tra i coniugi, per porre fine o per prevenire l'insorgenza di una lite tra le parti.
Ammissibilità, condizioni. — Anche nella disciplina dei rapporti patrimoniali tra i coniugi è ammissibile il
ricorso alla transazione per porre fine o per prevenire l'insorgenza di una lite tra le parti, sia pure nel rispetto della
indisponibilità di talune posizioni soggettive (Cass. 12 maggio 1994, n. 4647, Giust. civ. 1995, I, 202; Vita not.
1994, 1357; Dir. famiglia 1995, 105; Nuova giur. civ. comm. 1995, I, 882, con nota critica di D. BUZZELLI,
Contratto di transazione e rapporti di famiglia).
Al riguardo — si è precisato sempre nella stessa occasione — è configurabile, altresì, la distinzione tra
contratto di transazione novativo e non novativo, realizzandosi il primo tutte le volte che le parti diano luogo ad
un regolamento d'interessi incompatibile con quello preesistente, in forza di una previsione contrattuale di fatti o
di presupposti di fatto estranei al rapporto originario (Cass. 12 maggio 1994 n. 4647, cit.: nella specie, la S.C. ha
confermato la decisione di merito che ha ritenuto novativa e, quindi, non suscettibile di risoluzione per
inadempimento, a norma dell'art. 1976, la transazione con la quale il marito si obbligava espressamente, in vista
della separazione consensuale, a far conseguire alla moglie la proprietà di un appartamento in costruzione, allo
scopo di eliminare una situazione conflittuale tra le parti).
Sempre in quest'ordine di idee, in altra occasione, ancora, si è osservato che poiché, ciascuno dei coniugi ha il
diritto di condizionare il proprio consenso alla separazione personale ad un soddisfacente assetto dei propri
interessi economici, sempre che in tal modo non si realizzi una lesione di diritti inderogabili, si è ritenuta la
validità di un contratto preliminare con il quale uno dei coniugi, in vista di una futura separazione consensuale,
prometteva di trasferire all'altro la proprietà di un immobile, anche se tale sistemazione dei rapporti patrimoniali
era avvenuta al di fuori di qualsiasi controllo da parte del giudice che provvede alla omologazione della
separazione, purché tale attribuzione non fosse lesiva delle norme relative al mantenimento e agli alimenti (e ciò a
prescindere dalle condizioni economiche del coniuge beneficiario, una volta che il diritto al mantenimento di
quest'ultimo fosse stato così riconosciuto dal coniuge obbligato) (Cass. 5 luglio 1984 n. 3940, Dir. famiglia 1984,
922).
3. L'applicazione giurisprudenziale dell'art. 160 c.c. ai patti di separazione. — Nonostante gli accordi di
separazione non siano qualificabili come convenzioni matrimoniali, la giurisprudenza, in contrasto con parte della
dottrina, applica anche a tali accordi, ed ai patti modificativi degli stessi, la norma in commento (cfr. Cass. 9 aprile
2008, n. 9174; Cass. 28 luglio 1997, n. 7029; Cass. 18 settembre 1997, n. 9287, Vita not. 1998, 217; Giust. civ.
1997, I, 2383). Qualora i coniugi, manifestando l'intenzione di procedere alla loro separazione ed impegnandosi,
altresì, ad iniziare successivamente il relativo giudizio, stipulino un accordo, da essi chiamato impropriamente
quietanza, in base al quale vengono regolati non solo i loro rapporti patrimoniali fino alla instaurazione di una
rituale procedura, ma anche i loro rapporti patrimoniali dopo la separazione, un accordo siffatto è privo, ex art.
160, di validità, in quanto l'assetto patrimoniale e personale dei coniugi separati è regolato dalla legge e dal
giudice, avanti al quale le parti devono manifestare la loro intenzione ex nunc di separarsi, intenzione certamente
non collegabile ad un precedente obbligo convenzionale in tal senso.
La nullità di una parte del negozio stipulato dalle parti provoca, peraltro, la nullità, ex art. 1419, dell'intero
negozio familiare atipico, costituendo la futura separazione consensuale la causa determinante di tutti i
trasferimenti patrimoniali progettati nella convenzione de qua (Trib. Tivoli 11 dicembre 2007, Dir. famiglia 2008,
1373).
Sempre al riguardo, da parte del S.C., si è evidenziato che in tema di separazione consensuale, il regolamento
concordato fra coniugi ed avente ad oggetto la definizione dei loro rapporti patrimoniali, pur trovando la sua fonte
nell'accordo delle parti, acquista efficacia giuridica solo in seguito al provvedimento di omologazione, al quale
compete l'essenziale funzione di controllare che i patti intervenuti siano conformi ai superiori interessi della
famiglia.
Deriva, da quanto precede, che, potendo le predette pattuizioni divenire parte costitutiva della separazione
solo se questa è omologata, secondo la fattispecie complessa da cui dà vita il procedimento di cui all'art. 711 c.p.c.
in relazione all'art. 158, comma 1, c.c., in difetto di tale omologazione le pattuizioni convenute antecedentemente
sono prive di efficacia giuridica, a meno che non si collochino in una posizione di autonomia in quanto non
collegate al regime di separazione consensuale (Cass. 9 aprile 2008, n. 9174, che ha enunciato il principio in
questione con riguardo ad un accordo, avente ad oggetto la rinuncia alla comproprietà immobiliare da parte di un
coniuge a favore dell'altro, ritenuto parte di un progetto di separazione consensuale non andato a buon fine,
essendo intervenuta tra i coniugi separazione giudiziale con addebito).
Cass. 6 febbraio 2009, n. 2997, Nuova giur. civ. comm., 2009, 791, ha statuito che qualora una coppia decida
di sottoscrivere una scrittura privata per regolare i rapporti economici in caso di futura separazione, l'esecuzione
integrale di tale accordo non può essere condizionata alla sola separazione consensuale.
Nella specie, la Corte ha respinto il ricorso del marito contro la sentenza della Corte di Appello, la quale
aveva ritenuto che la scrittura privata non fosse sottoposta alla condizione della separazione consensuale dei
coniugi. Lo scopo dell'accordo, infatti, era quello di regolare i rapporti economici più importanti della coppia,
prima di rivolgersi al giudice della separazione, eliminando così le controversie su questioni non strettamente
attinenti alla fine dell'unione. Ma non solo, l'intento della scrittura privata era anche quello di definire i rapporti
economici con i figli maggiorenni che con la separazione non avevano nulla a che vedere. Pertanto, la Corte di
merito ha escluso che la separazione consensuale costituisse il presupposto della scrittura privata.
4. Accordi tra i coniugi anteriori o successivi alla separazione (giudiziale o consensuale) e non
omologati. Validità. Limiti, condizioni. — In tema di separazione consensuale, le modificazioni pattuite dai
coniugi successivamente all'omologazione, trovando fondamento nell'art. 1322, devono ritenersi valide ed
efficaci, anche a prescindere dallo speciale procedimento disciplinato dall'art. 710 c.p.c., quando non varchino il
limite di derogabilità consentito dall'art. 160 c.c. (Cass. 24 febbraio 1993 n. 2270, Giust. civ. 1994, I, 213, con
nota adesiva, specie nella parte in cui viene riconosciuta validità ad un accordo non omologato, nei limiti in cui
riguardi i soli rapporti patrimoniali tra i coniugi e non contravvenga ai limiti inderogabili di cui all'art. 160, di M.
SALA, Accordi di separazione non omologati: un importante riconoscimento dell'autonomia negoziale dei
coniugi; Dir. famiglia 1994, 554 con nota parzialmente critica di G. DORIA, Autonomia dei coniugi in occasione
della separazione consensuale ed efficacia degli accordi non omologati, che auspica un intervento chiarificatore
delle Sezioni Unite, al fine di superare le perplessità poste dal coordinamento di tale pronuncia con la
giurisprudenza di legittimità anteriore in senso parzialmente diverso).
Per contro, alle pattuizioni convenute dai coniugi prima del decreto di omologazione e non trasfuse
nell'accordo omologato, può riconoscersi validità solo quando assicurino una maggiore vantaggiosità all'interesse
protetto dalla norma (ad esempio concordando un assegno di mantenimento in misura superiore a quella
sottoposta ad omologazione), o quando concernano un aspetto non preso in considerazione dall'accordo
omologato e sicuramente compatibile con questo in quanto non modificativo della sua sostanza e dei suoi
equilibri, o quando costituiscano clausole meramente specificative dell'accordo stesso, non essendo altrimenti
consentito ai coniugi incidere sull'accordo omologato con soluzioni alternative di cui non sia certa a priori la
uguale o migliore rispondenza all'interesse tutelato attraverso il controllo giudiziario di cui all'art. 158 (Cass. 24
febbraio 1993 n. 2270, cit.).
I principi enunciati da Cass. 24 febbraio 1993 n. 2270, cit., sono stati sostanzialmente confermati dalla
successiva Cass. 22 gennaio 1994 n. 657, secondo cui in tema di separazione consensuale, mentre le clausole
concordate tra i coniugi successivamente all'omologazione della separazione stessa (e non soggette al vaglio
giudiziario) incidono senz'altro sull'accordo omologato, col solo limite posto dall'art. 160, le clausole anteriori o
contemporanee al procedimento di omologazione sono operanti soltanto se si collocano in posizione di non
interferenza rispetto all'accordo omologato (come le clausole concernenti un aspetto della separazione, non
disciplinato nell'accordo formale), oppure in posizione di conclamata e incontestabile maggior rispondenza
rispetto all'interesse tutelato (come, ad esempio, allorché l'assegno di mantenimento sia stato preconcordato in
misura superiore a quella sottoposta ad omologazione) (Cass. 22 gennaio 1994 n. 657, Giust. civ. 1994, I, 912;
Dir. famiglia 1994, 868; Nuova giur. civ. comm. 1994, I, 710, con nota adesiva di M. FERRARI, Ancora in tema di
accordi fuori dal verbale di separazione; Famiglia e diritto 1994, 139, con nota informativa di V. CARBONE,
L'autonomia ed il diritto di famiglia; Giur. it. 1994, I, 1, 1476; Vita not. 1995, 126, con nota informativa di M.
CURTI, sullo stato della dottrina e della giurisprudenza anteriori; Dir. eccl. 1995, I, 148; Foro it. 1995, I, 2984),
nonché da Cass. 28 luglio 1997 n. 7029; 18 settembre 1997 n. 9287, Vita not. 1998, 217; Giust. civ. 1997, I, 2383,
con osservazione parzialmente critica, su altra parte, di G. GIACALONE, Sul dovere di fedeltà dei coniugi dopo la
separazione, e Cass. 11 giugno 1998 n. 5829.
Sempre nella stessa ottica della giurisprudenza sopra ricordata, si è osservato in sede di merito, che emerge
dall'art. 160, non già il divieto, per i coniugi, di far valere, anche nella materia familiare, la propria autonomia (che
trova la propria fonte nel diritto-dovere di autorganizzare la propria vita di coppia e che sussiste anche quando tra
i coniugi stessi vige una situazione di separazione personale) ma solo il divieto di porre in essere accordi che
deroghino ai diritti ed ai doveri previsti dalla legge.
Ne segue che, in presenza di un accordo consacrato nel verbale di separazione personale consensuale dei
coniugi, che preveda la corresponsione, in favore di uno di essi, di una determinata somma mensile, è valida la
scrittura coeva, tra gli stessi intervenuta, che preveda la corresponsione di una somma maggiore, ancorché non
omologata dal Tribunale (App. Brescia 16 aprile 1987, Giur. merito 1987, 843. Non diversamente, Pret. Cavalese
21 gennaio 1987, ivi 1987, 843).
Da parte di altro giudice giudice di merito si è osservato, ancora, altresì, che poiché gli accordi tra coniugi,
successivi all'omologazione della loro separazione consensuale, concernenti materie non interferenti col contenuto
tipico del negozio di separazione, vale a dire non riguardanti direttamente le condizioni della separazione, bensì
collocabili nell'area del libero potere negoziale delle parti di meglio disciplinare i loro rapporti non riconducibili al
novero degli obblighi e dei diritti, patrimoniali e non, discendenti dalla separazione, devono considerarsi sottratti
all'esercizio della giurisdizione ex artt. 710 e 711 c.p.c., non vi è luogo a provvedere in ordine al ricorso col quale i
coniugi, dopo l'omologazione della loro separazione, chiedano l'inserimento nel negozio di separazione di una
clausola che preveda il trasferimento dall'uno all'altro dei coniugi dell'alloggio popolare che venisse assegnato al
primo (Trib. Marsala 23 dicembre 1994, Dir. famiglia 1995, 246, con nota adesiva di M. CONTE, Accordi
modificativi successivi alla separazione omologata e controllo giurisdizionale: tra moglie e marito non metter…
l'omologa, nonché ivi 1995, 1488 con altra nota, adesiva di M. SALA, Accordi successivi all'omologazione della
separazione ed autonomia negoziale dei coniugi).
Parte della dottrina, invece, si mostra contraria alla suddescritta estensione, alla fase patologica del
matrimonio, dell’ambito operativo della norma in commento. Si è sostenuto, in particolare, che l’art. 160 sarebbe
inadeguato a regolare gli accordi di separazione, gli accordi per la corresponsione dell'assegno di divorzio in
un’unica soluzione e gli accordi dei coniugi sottostanti alla domanda congiunta di divorzio (DE PAOLA, Il diritto
patrimoniale della famiglia coniugale. Il regime patrimoniale della famiglia, II, Milano, 2002, 48; OBERTO, Le
convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, Famiglia e diritto 1995, 601. Interessanti osservazioni
in BARGELLI, BUSNELLI, Convenzione matrimoniale, Enc. dir., agg., IV, Milano, 2000, 458, i quali considerano
l'art. 160, invece, come una specificazione, nell’ambito coniugale, della clausola generale di ordine pubblico).
5. Patto, anteriore alla separazione, col quale i coniugi si riconoscono un reciproco diritto di prelazione
sugli immobili di proprietà esclusiva e comune. Validità. — I patti anteriori alla separazione consensuale con i
quali i coniugi si riconoscono un reciproco diritto di prelazione sugli immobili di proprietà esclusiva e comune,
pur se privi di omologazione — si è affermato da parte di un giudice di merito — sono validi ed efficaci in quanto
compatibili con le condizioni contenute nel verbale di separazione omologato (Trib. Bologna 25 gennaio 1995,
Gius 1995, 1421).
6. Patti di separazione stipulati al di fuori di accordi omologati. — Anche se la separazione consensuale
fra coniugi acquista efficacia con l'omologazione, non è peraltro preclusa ai medesimi la possibilità di stipulare
pattuizioni fra loro, anche al di fuori di accordi omologati.
Tali accordi possono essere sia posteriori all'omologazione, purché non varchino il limite di derogabilità dei
diritti e doveri nascenti dal matrimonio, fissati dall'art. 160, sia anteriori o contemporanei all'accordo omologato,
purché tali pattuizioni non ledano il contenuto minimo indispensabile del regime di separazione e non
interferiscano con esso, ma si configurino in termini di maggior rispondenza all'interesse della famiglia (in quanto,
ad esempio, perché volte ad incrementare la misura dell'assegno di mantenimento o concernano altro aspetto non
incluso nell'accordo omologato e compatibile con esso) (Cass. 30 agosto 2004, n. 17434, Riv. not. 2005, 795).
Sempre in argomento — sostanzialmente nella stessa ottica — in altre occasioni la S.C. ha evidenziato,
ancora:
— da un lato, che tali pattuizioni (nella specie: convenute dai coniugi prima del decreto di omologazione e
non trasfuse nell'accordo omologato) si configurano come contratti atipici, aventi presupposti e finalità diversi sia
dalle convenzioni matrimoniali che dagli atti di liberalità, nonché autonomi rispetto al contenuto tipico del
regolamento concordato tra i coniugi, destinato ad acquistare efficacia giuridica soltanto in seguito al
provvedimento di omologazione: ad esse, pertanto, può riconoscersi validità solo in quanto, alla stregua di
un'indagine ermeneutica condotta nel quadro dei principi stabiliti dagli art. 1362 ss., risultino tali da assicurare una
maggiore vantaggiosità all'interesse protetto dalla norma (ad esempio prevedendo una misura dell'assegno di
mantenimento superiore a quella sottoposta ad omologazione), ovvero concernano un aspetto non preso in
considerazione dall'accordo omologato e sicuramente compatibile con questo, in quanto non modificativo della
sua sostanza e dei suoi equilibri, o ancora costituiscano clausole meramente specificative dell'accordo stesso, non
essendo altrimenti consentito ai coniugi incidere sull'accordo omologato con soluzioni alternative di cui non sia
certa a priori la uguale o migliore rispondenza all'interesse tutelato attraverso il controllo giudiziario di cui all'art.
158 (Cass. 8 novembre 2006, n. 23801, Foro it. 2007, I, 1189);
— dall'altro, che le pattuizioni intervenute tra i coniugi anteriormente o contemporaneamente al decreto di
omologazione della separazione consensuale, e non trasfuse nell'accordo omologato, sono operanti soltanto se si
collocano, rispetto a quest'ultimo, in posizione di “non interferenza” — perché riguardano un aspetto che non è
disciplinato nell'accordo formale e che è sicuramente compatibile con esso, in quanto non modificativo della sua
sostanza e dei suoi equilibri, ovvero perché hanno un carattere meramente specificativo — oppure in posizione di
conclamata e incontestabile maggiore o uguale rispondenza all'interesse tutelato attraverso il controllo di cui
all'art. 158 (Cass. 20 ottobre 2005, n. 20290 che, in applicazione di tale principio, ha ritenuto correttamente
motivata la sentenza impugnata, che aveva escluso l'invalidità dell'accordo intervenuto tra i coniugi per
l'alienazione della casa coniugale, di proprietà esclusiva del marito ed assegnata alla moglie, e per la ripartizione
del ricavato tra loro, in quanto la perdita dell'abitazione da parte del coniuge assegnatario era giustificata
dall'intenzione di quest'ultimo di trasferirsi in un'altra città, ed era comunque compensata dal beneficio economico
derivante dall'attribuzione di parte del corrispettivo, che avrebbe consentito alla moglie di far fronte più
largamente alle proprie esigenze ed a quelle della figlia a lei affidata);
—che la scrittura privata indirizzata a regolare i reciproci rapporti patrimoniali fra i coniugi consensualmente
separati, avente ad oggetto, fra gli altri, anche il trasferimento della proprietà di beni immobili, può configurarsi
come transazione ed ha piena validità ed efficacia. La transazione, infatti, può intervenire tra i coniugi per
disciplinare il rapporto patrimoniale oggetto di possibile od attuale controversia, beninteso senza che essa possa
avere ad oggetto diritti indisponibili dei contraenti. La libertà negoziale riconosciuta dalla legge ai coniugi
contraenti è funzionale alla autonoma scelta della migliore soluzione delle controversie sorte in relazione alla
separazione, ed in questo senso non merita censure pur in considerazione di una nozione alquanto ampia di «
legittimo accordo patrimoniale » (Cass. 9 luglio 2003, n. 10794, Dir. Famiglia 2004, 81).
7. Patti modificativi degli accordi di separazione. — In tema di patti modificativi degli accordi di
separazione tra coniugi, si è affermato da parte di un giudice di merito, è nullo per contrasto con l'art. 160
applicabile anche ai contratti della crisi familiare, l'accordo con il quale gli stessi decidano, con rinuncia ad
ulteriori pretese da parte di un solo soggetto, di definitivamente esonerare per il futuro il coniuge onerato dalla
corresponsione dell'assegno di mantenimento a favore del coniuge più debole a fronte di un unico versamento una
tantum (Trib. Piacenza 6 febbraio 2003, Arch. Civ. 2004, 494).
Sempre in argomento, da parte di altro giudice di merito, si è affermato che risponde ad una ottimale, anche
perché incondizionata ed integrale, tutela della prole, e va perciò consentito il trasferimento, con atto formale, da
un coniuge all'altro, a modifica del regime di separazione personale (o di divorzio) precedentemente instaurato, di
taluni beni immobili con il vincolo erga omnes di cui all'art. 2645-ter, allo scopo di garantire ai figli minori un
adeguato e sicuro mantenimento (Trib. Reggio Emilia 26 marzo 2007, Dir. famiglia 2007, 1726, ivi 2008, 194 con
nota critica di FREZZA, Sull'effetto distintivo e non traslativo, della separazione ex art. 2645-ter c.c.).
8. Accordi, in sede di separazione, sul futuro regime giuridico del divorzio. Nullità, limiti. — Gli accordi
con i quali i coniugi fissano in sede di separazione il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio devono
considerarsi invalidi per illiceità della causa, sia nella parte riguardante i figli, sia in quella concernente l'assegno
spettante all'ex coniuge, in forza della indisponibilità preventiva dei diritti patrimoniali conseguenti allo
scioglimento del matrimonio (In termini, ad esempio, Cass. 20 marzo 1998 n. 2955, Foro it. 1999, I, 1306, con
nota di OBERTO; Contratti 1998, 472, con nota di BONILINI; Giur. it. 1998, 217).
Sempre in questa ottica, in altre occasioni, si è osservato che gli accordi economici intervenuti fra i coniugi al
momento della separazione non possono spiegare efficacia preclusiva alla determinazione giudiziale dell'assegno
di divorzio, atteso che, ove la causa di tali accordi fosse la liquidazione preventiva e forfettaria dell'assegno di
divorzio, essi sarebbero nulli, sia per l'indisponibilità dell'assegno di divorzio (rafforzata dalla l. n. 74 del 1987,
che ha conferito al suddetto assegno natura eminentemente assistenziale), sia per illiceità della causa (avendo tali
accordi sempre l'effetto di condizionare il comportamento delle parti nel giudizio concernente uno status) (Cass.
11 giugno 1997 n. 5244, Studium Juris 1997, 122; Giur. it. 1998, 218; Vita not. 1997, 848). Analogamente nel
senso che gli accordi in questione sono nulli perché diretti a circoscrivere la libertà di difendersi dal coniuge più
debole, la cui domanda di assegno di divorzio potrebbe essere paralizzata, Cass. 12 febbraio 2003 n. 2076,
Famiglia e diritto 2003, 344, con nota adesiva di PICCALUGA, Rapporti patrimoniali tra coniugi e divorzio.
In altre occasioni, ancora, essendo sottratto alla disponibilità delle parti il potere di regolare in via preventiva
ed autonoma gli effetti patrimoniali del divorzio, la S.C. ha dichiarato l'irrilevanza, ai fini del riconoscimento
dell'assegno di divorzio, dell'accordo intervenuto tra i coniugi al momento della separazione con il quale essi
abbiano regolato ogni loro rapporto patrimoniale e dichiarato di non avere l'un l'altro, alcunché a pretendere (Cass.
7 settembre 1995 n. 9416, Dir. famiglia 1996, 931; Studium Juris 1996, 232), o abbiano, quantificato ora per
allora la misura dell'assegno di divorzio (Cass. 4 giugno 1992 n. 6857, Giur. it. 1993, I, 1, 338, con nota di
DALMOTTO. Analogamente, Cass 10 aprile 1992 n. 4391, secondo la quale attesa la « struttura » del divorzio e la «
indisponibilità » dei diritti patrimoniali che ne derivano è nullo per illiceità della causa, l'accordo fra coniugi
separati, con cui si preveda la persistente operatività di patti aventi contenuto economico anche in regime di
divorzio).
Come evidenziato sopra, gli accordi con i quali i coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico
— patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio sono invalidi per illiceità della causa, perché stipulati in
violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale, espresso
dall'art. 160.
Tale principio, peraltro, si è precisato, non trova applicazione né nell'ipotesi in cui la nullità del precedente
accordo sia invocata non dal coniuge avente diritto all'assegno, ma dall'altro, che avrebbe potuto essere onerato di
detto assegno né qualora il giudice del merito accerti che l'accordo — intervenuto in occasione della loro
separazione personale e parzialmente recepito nel verbale di separazione — aveva la funzione di porre fine ad
alcune controversie di natura patrimoniale tra i coniugi senza alcun riferimento, esplicito o implicito, al futuro
assetto dei rapporti economici tra i coniugi conseguenti all'eventuale pronuncia di divorzio (Cass. 14 giugno 2000
n. 8109, Guida dir. 2000, f. 24, 40, con nota critica di FINOCCHIARO M., Sull'assetto dei rapporti patrimoniali tra
coniugi una « rivoluzione » annunciata solo dalla stampa; Giust. civ. 2000, I, 2217, con osservazione informativa
di GIACALONE, Sugli accordi in sede di separazione relativi al regime giuridico del divorzio; ivi, 2001, I, 457, con
nota critica di GUARINI M., La Cassazione conferma la nullità dei « patti » anteriori al divorzio; Contratti 2001,
45, con nota di DELLACASA, Accordi stipulati in previsione del divorzio, giudizio di liceità della causa e tecnica
dell'integrazione; Foro it. 2001, I, 1318, con nota di RUSSO, Il divorzio « all'americana »: ovverossia l'autonomia
privata nel rapporto matrimoniale, e di CECCHERINI, I contratti tra coniugi in vista del divorzio: regole operative
e limiti di liceità; Familia 2001, 243, con nota di FERRANDO, Crisi coniugale e accordi intesi a definire gli aspetti
economici; Corr. giur. 2000, 1021, con nota di BALESTRA, Gli accordi in vista del divorzio: la Cassazione
conferma il proprio orientamento; Famiglia e diritto 2000, 429, con nota di CARBONE, Accordi patrimoniali
deflattivi della crisi coniugale; Nuova giur. civ. comm. 2000, I, 704, con nota di BARGELLI, Accordi in vista del
divorzio, revirement incompiuto della Cassazione; Dir. e giust. 2000, f. 24, 6, con nota di DOSI, L'accordo è nullo,
la transazione no).
Di tali accordi non può tenersi conto non solo quando limitino o addirittura escludono il diritto del coniuge
economicamente più debole al conseguimento di quanto è necessario per soddisfare le esigenze della vita, ma
anche quando soddisfino pienamente dette esigenze, per il rilievo che una preventiva pattuizione — specie se
allettante e condizionata alla non opposizione al divorzio (nella specie era stabilito che se la moglie si fosse
opposta alla domanda di divorzio sarebbe stata obbligata al rilascio dell'immobile entro 10 giorni dalla richiesta)
— potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione degli effetti civili del matrimonio (Cass. 18 febbraio 2000
n. 1810, Corr. giur. 2000, 1021, con la già ricordata nota di BALESTRA, Gli accordi in vista del divorzio: la
Cassazione conferma il proprio orientamento; Vita not. 2000, 890).
Art. 161.
Riferimento generico a leggi o agli usi.
Gli sposi non possono pattuire in modo generico che i loro rapporti patrimoniali siano in tutto o in
parte regolati da leggi alle quali non sono sottoposti o dagli usi, ma devono enunciare in modo
concreto il contenuto dei patti con i quali intendono regolare questi loro rapporti.
Art. 162.
Forma delle convenzioni matrimoniali.
Le convenzioni matrimoniali debbono essere stipulate per atto pubblico a pena di nullità.
La scelta del regime di separazione può anche essere dichiarata nell'atto di celebrazione del
matrimonio.
Le convenzioni possono essere stipulate in ogni tempo, ferme restando le disposizioni dell'articolo
194 (1).
Le convenzioni matrimoniali non possono essere opposte ai terzi quando a margine dell'atto di
matrimonio non risultano annotati la data del contratto, il notaio rogante e le generalità dei contraenti,
ovvero la scelta di cui al secondo comma.
(1) Comma così modificato dall'art. 1 l. 10 aprile 1981 n. 142.
Art. 34-bis (Disp. att. e trans.).
Il notaio rogante deve, nel termine di 30 giorni dalla data del matrimonio o dalla data dell'atto pubblico di modifica delle
convenzioni, ovvero di quella dell'omologazione nel caso previsto dal secondo comma dell'articolo 163 del codice, richiedere
l'annotazione a margine dell'atto di matrimonio della convenzione matrimoniale dell'atto di modifica della stessa. Nello stesso
termine deve richiedere l'annotazione di cui all'ultimo comma dell'articolo 163 del codice.
Bibliografia: ANDRINI, Convenzioni matrimoniali e pubblicità legale nel nuovo diritto di famiglia, Riv. not. 1975; BONIS, La nuova
disciplina della pubblicità immobiliare con la riforma del diritto di famiglia, Il nuovo diritto di famiglia. QRN, 4, Milano, 1975; DE
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Una revisione che si impone, Riv. dir. civ.1976, I; PALERMO, La disciplina della pubblicità nella riforma del diritto di famiglia, Riv.
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Considerazioni in ordine alla forma della dichiarazione di scelta del regime di separazione dei beni nel matrimonio concordatario,
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Sommario: 1. Convenzioni matrimoniali e loro forma. Indicazioni di dottrina. — 2. Identificazione delle convenzioni matrimoniali. —
3. Presenza dei testimoni, ai « contratti di matrimonio », irrinunciabilità. — 4. Tempo delle convenzioni matrimoniali. — 5. Modifica
delle convenzioni matrimoniali, successivamente al matrimonio. Previa autorizzazione giudiziale. Limiti. — 6. Obbligo, per il notaio,
di chiedere l'annotazione a margine dell'atto di matrimonio della convenzione stipulata a suo ministero. Termini, decorrenza. — 7.
Pubblicità del regime patrimoniale della famiglia: in particolare, annotazione, a margine dell'atto di matrimonio, del decreto che ha
omologato la separazione consensuale o della sentenza che ha pronunciato quella giudiziale. Ricostituzione del regime di comunione,
rinvio. — 8. Adempimenti dell'ufficiale di stato civile, ai sensi dell'art. 162 ult. comma c.c. Richiami di dottrina. — 9. Costituzione di
beni in fondo patrimoniale e pubblicità ex art. 162 c.c.: rinvio. — 10. Il confronto dottrinale e giurisprudenziale in ordine alla
trascrizione delle convenzioni matrimoniali. Problemi comuni alle varie ipotesi previste dall'art. 2647 c.c. — 11. Segue: i rapporti tra
trascrizione ed annotazione. — 12. Segue: il problema della trascrizione «a carico». — 13. Segue: rinvii alle singole fattispecie. — 14.
Segue: acquisto separato, da parte di uno dei coniugi, durante la vigenza del regime di comunione legale. — 15. Atto di matrimonio
contratto all'estero da cittadini stranieri residenti in Italia. Trascrizione (ai fini del regime patrimoniale). — 16. Omessa indicazione nel
registro dello stato civile della scelta del regime patrimoniale compiuta innanzi al parroco. Conseguenze. — 17. Annotazione delle
convenzioni matrimoniali sul solo registro di matrimonio tenuto dal comune (e non anche sull'originale diretto al procuratore della
Repubblica). Sufficienza. — 18. Separazione personale dei coniugi e loro riconciliazione. Effetti ai fini del regime patrimoniale.
Rinvio. — 19. Acquisto di un solo bene in regime di separazione da parte di coniugi soggetti alla comunione: convenzione
matrimoniale derogatoria del regime. Necessità. — 20. Accordo tra i coniugi per la definizione dei loro rapporti economici, con
attribuzione di beni da uno all'altro. Non è una convenzione matrimoniale. — 21. Convenzione matrimoniale che preveda la immediata
caduta in comunione dei proventi dell'attività separata. Effetti ai fini Irpef, esclusione.
1. Convenzioni matrimoniali e loro forma. Indicazioni di dottrina. — In dottrina, in termini generali, sulle
convenzioni matrimoniali, ex artt. 162 e s., tra gli altri: CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, 2, cit., 1 ss.;
DE CUPIS, Il diritto di famiglia, cit., 94-95; DOGLIOTTI, Il regime patrimoniale di famiglia, Riv. dir. civ. 1984, II,
198; RAGAZZINI, La revocatoria delle convenzioni matrimoniali, Rimini 1986; RAZZA, Considerazioni in tema di
simulazione delle convenzioni matrimoniali, Giur. merito 1987, 814; M. FINOCCHIARO in A. e M. FINOCCHIARO,
Diritto di famiglia, I, cit., 725 ss.; L.V. MOSCARINI, Convenzioni matrimoniali in generale, La comunione legale,
a cura di C.M. BIANCA, Milano 1989, II, 1003-1032; IEVA, Le convenzioni matrimoniali, Tratt. Zatti, III, Milano,
2002; RUSSO, Le convenzioni matrimoniali, Comm. Schlesinger, Milano, 2004; CARNEVALI, Le convenzioni
matrimoniali, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, 2ª ed., Torino, 2007.
Sulla ratio dell'art. 162, comma 1 (quanto, cioè, alla necessità, a pena di nullità, che le convenzioni
matrimoniali siano stipulate per atto pubblico), SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, Il regime
patrimoniale della famiglia, Torino 1983, 60, che fa riferimento alla circostanza che con l'intervento del notaio si
ottiene un controllo sull'esattezza dei patti destinati a regolare i rapporti patrimoniali di tutta la vita familiare,
nonché si riducono al minimo le eventuali influenze sulla volontà delle parti.
2. Identificazione delle convenzioni matrimoniali. — Devono essere stipulate, per atto pubblico, a pena di
nullità, le convenzioni matrimoniali, nonché le convenzioni con le quali i coniugi, già soggetti al regime della
comunione legale, intendano derogarvi e deve escludersi che abbia natura di atto pubblico, ai sensi e per gli effetti
di cui all'art. 162, il verbale di comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale ai sensi dell'art. 711
c.p.c., dovendosi escludere che rientri tra le competenze del cancelliere rogare convenzioni matrimoniali (e una
dichiarazione dei coniugi, in sede di separazione consensuale, di « voler sciogliere la comunione legale dei beni
tra loro esistente e di passare al regime di separazione dei beni » è, comunque, esuberante, atteso che la
separazione consensuale è di per sé causa di scioglimento della comunione dei beni ex art. 191) (Trib. Bergamo 16
marzo 1978, Giur. merito 1978, I, 503, con nota adesiva di M. FINOCCHIARO, Forme e modifiche delle
convenzioni matrimoniali, che, sul punto, osserva: non qualsiasi accordo con cui i coniugi definiscono o regolano
i propri rapporti patrimoniali può definirsi « convenzione matrimoniale »; non è stato oggetto di modifica nel
corso degli anni, l'art. 48 della l. 16 febbraio 1913 n. 89, ordinamento del notariato, il quale prevede, come
irrinunciabile, nella stipulazione dei contratti di matrimonio, la presenza dei testimoni; nello svolgimento delle
proprie attribuzioni il notaio non può ricevere atti « se essi sono espressamente proibiti dalla legge, o
manifestamente contrari al buon costume o all'ordine pubblico » mentre tali limiti non sussistono per il cancelliere
il quale, nel verbalizzare le dichiarazioni rese dalle parti, non può, e non deve, valutare la conformità delle stesse
alla legge).
In senso parzialmente diverso App. Trieste 16 marzo 1979 (Notaro 1979, 54; Vita not. 1979, 176, con nota
critica di DE RUBERTIS, Brevi considerazioni in tema di pubblicità del regime patrimoniale della famiglia) « a
revoca od a totale modifica » di Trib. Trieste 20 gennaio 1979 (inedita) ha autorizzato una coppia di coniugi,
successivamente all'omologa da parte del tribunale della loro separazione personale, « alla stipula della
convenzione relativa alla mutata scelta del regime patrimoniale legale della famiglia, da quello della comunione
legale dei beni — venuta meno per effetto della, tra loro intercorsa, separazione personale — a quello della
separazione dei beni ».
In altra occasione, infine, con riguardo — peraltro — ad un caso di specie da parte della S.C. si è osservato
che l'accordo intercorso, prima della riforma del diritto di famiglia del 1975, tra coniugi in regime di separazione
dei beni, con il quale questi si obbligavano a versare in un unico conto corrente i proventi delle rispettive attività
professionali, costituendo esercizio della privata autonomia, è soggetto alle norme ordinarie e non costituisce
convenzione matrimoniale da stipularsi conatto pubblico a pena di nullità, con la conseguenza che tale accordo
può essere provato anche a mezzo di testimoni (Cass. 18 agosto 1993 n. 8758).
L'art. 162 — si è precisato da parte di un giudice di merito — attiene esclusivamente ai contratti con i quali i
futuri coniugi danno, dal lato patrimoniale, e per tutta la durata del matrimonio, un regolamento certo alla futura
famiglia: di qui la necessità della forma solenne (App. Bologna 29 gennaio 1980, A.G.M.).
Ne segue, si è precisato nella stessa occasione, pertanto, che nel caso di separazione personale nulla vieta ai
coniugi di regolare anche verbalmente, e in deroga al provvedimento del giudice, i loro rapporti patrimoniali, e
cioè l'ammontare dell'assegno destinato al mantenimento della moglie e dei figli [v. art. 160, n. 1].
Analogamente, l'atto con cui un coniuge si obbliga a trasferire gratuitamente all'altro determinati beni,
successivamente all'omologazione della loro separazione personale consensuale ed al dichiarato fine della
integrativa regolamentazione del relativo regime patrimoniale, non configura una convenzione matrimoniale ex
art. 162, postulante il normale svolgimento della convivenza coniugale ed avente riferimento ad una generalità di
beni anche di futura acquisizione, né un contratto di donazione, avente come causa tipici ed esclusivi scopi di
liberalità (e non l'esigenza di assetto dei rapporti personali e patrimoniali dei coniugi separati), bensì un diverso
contratto atipico, con propri presupposti e finalità, soggetto per la forma alla comune disciplina e, quindi, se
concernente immobili, validamente stipulabile con scrittura privata, senza necessità di atto pubblico (art. 1350)
(Cass. 11 maggio 1984 n. 2887).
La convenzione tra i coniugi, che esprime l'opzione per la cessazione della comunione legale e per il
correlativo passaggio alla separazione dei beni, esaurisce in se stessa quell'incidenza sul regime dei rapporti
patrimoniali tra i coniugi che la qualifica come convenzione matrimoniale modificativa, ai sensi e per gli effetti di
cui all'art. 163 e la rende come tale soggetta ai requisiti di forma costitutiva di cui all'art. 162.
Tale non è, invece, considerabile la convenzione in virtù della quale avviene il passaggio dalla situazione
potenziale di divisibilità (conseguente al pregresso scioglimento) all'attualità (derivante dal compimento della
divisione) dell'attribuzione a ciascuno dei coniugi dell'esclusiva titolarità di uno o più diritti o cespiti
precedentemente comuni. Questa divisione non incide, infatti, su una situazione giuridica di comunione legale
speciale (alla quale soltanto è riferibile la disciplina degli artt. 162 e 163), che non esiste più nel momento in cui
viene posta in essere la divisione convenzionale, alla quale, perciò, torna applicabile la disciplina di forma e di
sostanza che regola la divisione ordinaria (Cass. 11 novembre 1996 n. 9846, Giust. civ. 1997, I, 2220; Dir.
Famiglia 1997, 1323, con nota informativa di T. MONTECHIARI, In tema di forma e contenuto delle convenzioni
matrimoniali modificative; Famiglia e diritto 1997, 169; Notariato 1997, 523, con nota di C. SCOZZOLI, Sulla
forma dei patti aggiunti alle convenzioni matrimoniali: nella specie, i coniugi procedevano, con atto pubblico, allo
scioglimento della comunione dei beni tra loro esistente; successivamente, con scrittura privata, il marito
rinunciava ad ogni sua pretesa su un'azienda commerciale acquistata nel vigore del regime di comunione e,
corrispettivamente, la moglie si obbligava a versargli una somma di denaro. La S.C., in applicazione
dell'enunciato principio di diritto, ha affermato la validità della seconda convenzione, che, non avendo carattere
modificativo del regime patrimoniale vigente tra i coniugi, non necessitava della forma pubblica).
Sempre in questo senso, Cass. 28 novembre 1996 n. 10586, Foro it. 1997, I, 95; Riv. not. 1997, 405 (con nota
informativa di D. MIGLIORI JR., Il regime della proprietà comune successivamente allo scioglimento della
comunione legale tra coniugi): il negozio con cui, a seguito dello scioglimento della comunione legale, i coniugi
procedono alla attribuzione a uno di essi della titolarità esclusiva di uno o più cespiti (nella specie: un'azienda) ha
natura giuridica di divisione ordinaria e non di convenzione matrimoniale, non esistendo più una situazione
giuridica di comunione legale.
Sempre nell'ottica della giurisprudenza ricordata sopra, in altra occasione, da parte del S.C. si è precisato,
ancora, che l'atto stipulato tra i coniugi separati di fatto e con il quale, al fine di disciplinare i reciproci rapporti
economici, un coniuge s'impegna a trasferire gratuitamente all'altro determinati beni, non configura una
convenzione matrimoniale ex art. 162, postulante lo svolgimento della convivenza coniugale ed il riferimento ad
una generalità di beni, anche di futura acquisizione, ma un contratto atipico, con propri presupposti e finalità,
soggetto per la forma alla comune disciplina e, quindi, se relativo a beni immobili, validamente stipulabile con
scrittura privata senza necessità di atto pubblico (Cass. 12 settembre 1997 n. 9034, Famiglia e diritto 1998, 81,
ove il rilievo, altresì che una « convenzione matrimoniale » ex art. 162 postula lo svolgimento della convivenza
coniugale ed il riferimento ad una generalità di beni, anche di futura acquisizione).
3. Presenza dei testimoni, ai « contratti di matrimonio », irrinunciabilità. — A mente dell'art. 48 della
legge notarile (l. 16 febbraio 1913 n. 89) la presenza dei testimoni, all'atto pubblico, è irrinunciabile, ove questo
abbia ad oggetto, tra l'altro, « i contratti di matrimonio ».
È controverso, tra i giudici di merito, se le attuali convenzioni matrimoniali rientrino, o meno, nella
previsione di cui alla detta disposizione.
La circostanza è stata, in particolare, esclusa da Trib. Pesaro 14 ottobre 1981, Vita not. 1982, 381, sul rilievo
che le convenzioni matrimoniali successive alla l. 19 maggio 1975 n. 151 « non contengono alcuna attribuzione
patrimoniale a titolo gratuito o di liberalità e non sono vincolate ad alcuna prescrizione di forma ».
In senso opposto Trib. Napoli 30 giugno 1980, AGM (nella specie con riferimento ad una convenzione ai
sensi dell'art. 228, comma 2, l. 19 maggio 1975 n. 151, con la quale, due coniugi, già uniti in matrimonio alla data
di entrata in vigore delle nuove norme, avevano convenuto che i beni acquistati anteriormente fossero assoggettati
al regime della comunione legale), nonché App. Napoli 23 aprile 1981, Vita not. 1982, 381, sul rilievo che la
natura giuridica delle convenzioni matrimoniali regolate dall'ordinamento in vigore non è affatto diversa da quella
dei « contratti di matrimonio » previsti dal codice 1865: l'espressione « convenzioni matrimoniali », infatti, « è
sostanzialmente coincidente, anche se meno corretta sul piano sistematico, della locuzione “contratti di
matrimonio”, usata dal legislatore del 1865 ».
In dottrina (pur se con riferimento alla dichiarazione di cui all'art. 228, comma 1, l. 19 maggio 1975 n. 151),
nel senso che la presenza dei testimoni fosse irrinunciabile, ZICHICHI, Il comma 1 dell'art. 228 della l. n. 151.
Formule e note, Notaro 1976, 50 (che rileva come trattavasi, in concreto, di negozio avente « carattere
matrimoniale »): contra, CALÍ, La rinuncia all'assistenza dei testimoni nella dichiarazione ex art. 228 comma 1
della l. 19 maggio 1975 n. 151, ivi 104 (osservandosi, da parte di quest'A., che trattavasi, in realtà, di una « scelta
», cioè di un atto unilaterale).
4. Tempo delle convenzioni matrimoniali. — Giusta la testuale previsione di cui all'art. 162, comma 3 (sub
art. 43 l. 19 maggio 1975 n. 151), le convenzioni matrimoniali possono essere stipulate in ogni tempo.
Tale principio, pacificamente, si riferisce non solo a quanti abbiano contratto matrimonio successivamente
alla data di entrata in vigore della nuova disciplina, ma anche a coloro che alla detta data erano già coniugati
(espressamente, in questo senso, in giurisprudenza, App. Firenze 16 ottobre 1978, Riv. not. 1979, 645, che ha
rigettato il reclamo, proposto dal p.m., avverso decreto del tribunale che aveva autorizzato due coniugi — che non
avevano reso alcuna dichiarazione ex art. 228 l. n. 151 del 1975 — a stipulare una convenzione matrimoniale in
deroga al regime legale (anteriormente alla l. 10 aprile 1981 n. 142), sul rilievo che i già coniugati alla data di
entrata in vigore della nuova normativa potessero concludere convenzioni matrimoniali solo sino al 15 gennaio
1978, e, in dottrina, DE RUBERTIS, Problemi di diritto transitorio in tema di rapporti patrimoniali tra persone già
coniugate all'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151, Dir. giur. 1981, 680 ss., in part. 686-687, in nota,
nonché M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., 733 ss.
5. Modifica delle convenzioni matrimoniali, successivamente al matrimonio. Previa autorizzazione
giudiziale. Limiti. — Il comma 3 dell'art. 162 c.c. — nella formulazione di cui all'art. 43 l. 19 maggio 1975 n.
151 — disponeva, all'ultima alinea [le convenzioni matrimoniali], « dopo la celebrazione del matrimonio possono
essere mutate soltanto previa autorizzazione del giudice ».
Essendo sorto, nei primi anni di applicazione della nuova normativa, un profondo contrasto, tra i giudici di
merito, e in seno alla dottrina che s'era interessata al problema, se dovessero, o meno, munirsi di autorizzazione
giudiziaria i coniugi che, soggetti al regime della comunione legale — per non aver stipulato anteriormente alle
nozze alcuna convenzione matrimoniale, o per non aver reso nell'atto di celebrazione del matrimonio, la
dichiarazione di cui al comma 2 dell'art. 162 — intendevano derogarvi e, sciolta la comunione, aderire al regime
della separazione dei beni (cfr. M. FINOCCHIARO, Un bilancio sulla « comunione legale » a cinque anni dalla l. 19
maggio 1975 n. 151 (osservazioni « de iure condito » e « de iure condendo »), Vita not. 1980, 17 ss., in part. 23;
ID., Ancora sull'art. 162, comma c.c.: « usque tandem »?, Giur. merito 1981, 41 ss.) con l. 10 aprile 1981 n. 142 il
detto ultimo inciso è stato abrogato.
Pare, per l'effetto, superfluo riportare, di seguito, le pronunce, e la dottrina, anteriori alla l. 10 aprile 1981 n.
142 (su cui, in particolare, tra gli altri, BOERO, La nuova discipilna della stipulazione delle convenzioni
matrimoniali, Foro it. 1981, V, 121 ss.; MARMOCCHI, Modifiche delle convenzioni matrimoniali, Riv. not. 1981,
354; GABRIELLI, PACIA DEPINGUENTE, Nuove leggi civ. 1981, 854 nonché, per una ragionata rassegna, M.
FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., 739-741, in nota) formatasi in margine all'art. 162, comma 3.
Deve evidenziarsi, peraltro, che seppure, nella pressoché totalità delle pronunce edite, la necessità
dell'autorizzazione giudiziale, per poter aderire, successivamente al matrimonio, al regime della separazione dei
beni, era ricavata da una lettura « sistematica » della norma ora abrogata, da parte di qualche giudice di merito
l'autorizzazione in parola aveva il proprio fondamento in altre disposizioni di legge (non toccate dalla l. n. 142 del
1981 e che, pertanto, in tesi, richiederebbero tuttora la previa autorizzazione giudiziale per l'adesione al regime
della separazione dei beni in epoca successiva alla celebrazione del matrimonio).
Così, in particolare, Trib. Lucca 28 giugno 1978, Riv. not. 1979, 644 secondo cui la necessità della previa
autorizzazione in parola deriva dall'art. 54 del regolamento di esecuzione della legge notarile che « impone la
necessità dell'autorizzazione tutte le volte che le parti intendono stipulare una convenzione matrimoniale »
(Criticamente, in dottrina, in margine e tale pronuncia, M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., 742,
in nota).
Si è precisato, successivamente alla l. 10 aprile 1981 n. 142, che nessuna autorizzazione giudiziale è
necessaria, in tema di convenzioni matrimoniali (e di loro modifica):
— nell'ipotesi in cui — con riferimento al testo dell'art. 162, comma 3, previgente all'entrata in vigore della l.
10 aprile 1981 n. 142 — le parti, soggette al regime di comunione legale, convengano di derogarvi, a mezzo di
convenzione matrimoniale (la norma, infatti, fa esclusivo riferimento all'eventualità in cui, perfezionata, prima o
dopo il matrimonio, una convenzione matrimoniale, le parti intendano procedere ad una modifica di questa) (Trib.
Reggio Emilia 17 dicembre 1984, Riv. not. 1985, 440);
— nel caso in cui i coniugi, anziché stipulare una convenzione per i futuri acquisti, si siano limitati a mettere
in comunione i beni posseduti da ciascuno alla data del matrimonio. (Nell'ipotesi, cioè, in cui, ex art. 228, comma
2, l. 19 maggio 1975 n. 151, i coniugi abbiano convenuto la messa in comunione dei beni acquistati anteriormente
alla data di entrata in vigore della nuova normativa e, successivamente — sotto il vigore dell'art. 162, comma 3,
come modificato dalla l. 10 aprile 1981 n. 142 — intendano stipulare una nuova convenzione matrimoniale) (Trib.
Lucca 29 ottobre 1984, Giur. merito 1986, 69, con nota critica di LENZI, In margine ad un caso di necessità
dell'autorizzazione giudiziale ex art. 2 della l. 10 aprile 1981 n. 142);
— per passare dal regime di comunione legale di beni (estesa, con atto stipulato nel regime transitorio di cui
all'art. 228 l. n. 151 cit., agli acquisti effettuati prima della l. n. 151 medesima) al regime di separazione dei beni,
non potendosi considerare vera e propria convenzione l'atto predetto: il giudice adito per l'autorizzazione deve
pertanto dichiarare che non v'è luogo a provvedere (Trib. Genova 1 giugno 1994, Dir. famiglia 1997, 177 con nota
adesiva di G. LAGOMARSINO, Mutamento del regime patrimoniale della famiglia ed autorizzazione ex art. 2 l. n.
142 del 1981).
Reciprocamente è stata affermata la necessità della previa autorizzazione giudiziale (ai sensi dell'art. 2, l. 10
aprile 1981 n. 142), in altra occasione, con riguardo alla convenzione per il passaggio al regime di comunione
legale da quello di separazione dei beni, vigente in virtù di dichiarazione unilaterale ex art. 228, comma 1, l. n.
151 del 1975, atteso che il termine « convenzioni matrimoniali » deve ritenersi comprensivo di ogni atto
impeditivo del sorgere del regime legale ex art. 159 (Trib. Udine 17 aprile 1986, Riv. not. 1987, 136).
Con riguardo al regime anteriore alla l. n. 142 del 1981, Vedi altresì, Corte cost. 31 marzo 1988 n. 385, Giur.
cost. 1988, I, 1705: è manifestamente infondata, in riferimento all'art. 3 comma 1 Cost. la questione di legittimità
costituzionale esaminata per la prima volta, dell'art. 162 comma 3 nel testo vigente prima dell'entrata in vigore
della l. 10 aprile 1981 n. 142 (anche considerato in relazione all'art. 2 della legge suddetta) nella parte in cui non
dispone che per le convenzioni matrimoniali con le quali venga istituito il regime di separazione dei beni in luogo
del preesistente regime di comunione, sia necessaria l'autorizzazione del giudice.
In dottrina cfr. R. SACCO, Attuazione di fatto di un regime patrimoniale diverso da quello corrispondente a
diritto, Studi patrim. famil., cit., 83.
6. Obbligo, per il notaio, di chiedere l'annotazione a margine dell'atto di matrimonio della convenzione
stipulata a suo ministero. Termini, decorrenza. — Il termine di 30 giorni, entro il quale il notaio rogante deve
richiedere l'annotazione, a margine dell'atto di matrimonio, della convenzione matrimoniale stipulata a suo
ministero, a norma dell'art. 34-bis disp. att. c.c. sub art. 206 l. 19 maggio 1975 n. 151, decorre, si è avvertito in
giurisprudenza, dalla data dell'atto o da quella del matrimonio, nel caso in cui questo sia successivo o, infine, dalla
data dell'omologazione, nel caso in cui questa sia richiesta dalla legge (Trib. Bergamo 16 novembre 1981, Giur.
merito 1982, 516, in motivazione).
In dottrina, sull'art. 34-bis disp. att. c.c. (art. 216 l. 19 maggio 1975 n. 151), tra gli altri: AVANZINI,
Problematica delle convenzioni matrimoniali, Notaro 1975, 90; BOTTINO, Forma, limiti e pubblicità delle
convenzioni matrimoniali e loro modificazioni, Comitato regionale fra Consigli notarili del Piemonte e della Valle
d'Aosta, Relazioni svolte nella giornata di studio del 20 settembre 1975, 34 ss. (della relazione); M. FINOCCHIARO,
in A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, cit., II, 759-761; GERVASIO, Alcune considerazioni sulla l. 19
maggio 1975 n. 151, Notaro 1975, 107; L. GIACOBBE, L'attività notarile di fronte alla nuova legge sul diritto di
famiglia 19 maggio 1975 n. 151, Riv. not. 1975, 827 ss., in part. 840-841; RASI-CALDOGNO, Commentario alla
riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo, Trabucchi, cit., I, 2, 926-933; ZACCARIA, La pubblicità
del regime patrimoniale della famiglia: le posizioni della dottrina, cit., 422.
7. Pubblicità del regime patrimoniale della famiglia: in particolare, annotazione, a margine dell'atto di
matrimonio, del decreto che ha omologato la separazione consensuale o della sentenza che ha pronunciato
quella giudiziale. Ricostituzione del regime di comunione, rinvio. — A norma dell'art. 162, ultimo comma « le
convenzioni matrimoniali non possono essere opposte ai terzi quando a margine dell'atto di matrimonio non
risultano annotati la data del contratto, il notaio rogante e le generalità dei contraenti, ovvero la scelta di cui al
comma 2 ».
Poiché, da tale principio, si è tratta la conclusione che i coniugi non possano opporre, ai terzi, di vivere
secondo un regime patrimoniale diverso da quello legale, ove manchi qualsiasi annotazione, a margine dell'atto di
matrimonio, è sorto, in giurisprudenza, e in dottrina, il problema del quomodo rendere opponibili, ai terzi,
l'esistenza, tra i coniugi, del regime patrimoniale della separazione dei beni conseguente all'omologa della
separazione consensuale o alla pronuncia di separazione giudiziale.
Per Trib. Firenze 21 gennaio 1981, Dir. famiglia 1981, 552; Riv. not. 1981, 179, è onere delle parti chiedere,
all'ufficiale di stato civile, l'annotazione del decreto che ha omologato la separazione consensuale, o della sentenza
che ha pronunciato quella giudiziale.
Si osserva, infatti, a fondamento d'una tale conclusione, che in caso di deroga convenzionale al regime legale
l'onere di richiedere l'annotazione della convenzione incombe sul notaio, in tutti gli altri casi di scioglimento della
comunione, invece, è sempre la parte che ha l'onere di richiedere l'annotazione del titolo, posto che solo per le
sentenze di divorzio e di annullamento del matrimonio è espressamente stabilita la trasmissione della sentenza
all'organo amministrativo da parte del giudice che l'ha emessa.
Non diversamente, da parte di altri giudici, si è rilevato che a mente dell'art. 133 r.d. 9 luglio 1939 n. 1238,
ordinamento dello stato civile, a margine degli atti di matrimonio è possibile fare unicamente le annotazioni ivi
tassativamente indicate, anche se « è fatta salva ogni altra annotazione prevista dalla legge, ovvero ordinata
dall'autorità giudiziaria ».
Si è pervenuti, per l'effetto, alla conclusione che è necessario, perché l'ufficiale di stato civile provveda
all'annotazione del provvedimento in esame, che i coniugi (o uno solo di essi) chieda al tribunale, ai sensi dell'art.
742-bis c.p.c. che impartisce un ordine in tal senso (Trib. Como 11 dicembre 1979, Notaro 1980, 6; Trib.
Bergamo 20 marzo 1982, Vita not. 1982, 1330).
In altra occasione, si è osservato, invece, che è compito del giudice che pronuncia la separazione giudiziale (o
omologa quella consensuale) ovviare all'omissione del legislatore (quanto alla non prevista pubblicità di tale causa
di scioglimento della comunione), emanando un provvedimento che sia titolo idoneo a essere annotato nei registri
dello stato civile (« Tale provvedimento trova la sua fonte nell'art. 453 c.c., per il quale nessuna annotazione può
essere fatta sopra un atto già iscritto nel registro dello stato civile, se non è disposta per legge ovvero non è
ordinata dall'autorità giudiziaria, e nell'art. 153 r.d.l. 9 luglio 1939 n. 1238 che, dopo aver elencato le varie
annotazioni che devono essere apposte in margine all'atto di matrimonio dispone, all'ultimo comma, essere “fatta
salva ogni altra annotazione prescritta dalla legge ovvero ordinata dall'autorità giudiziaria”… L'ordine all'ufficiale
di stato civile di provvedere alle suddette annotazioni non viola il principio della tipicità delle annotazioni stesse,
in quanto lo stesso legislatore, nella novella del 1975, ha introdotto per tutti i casi di scioglimento della comunione
legale tra i coniugi proprio il principio dell'annotazione a margine dell'atto di matrimonio, salvo per quanto
riguarda i due casi sopra esaminati, di cui quello che ci riguarda, è sicuramente uno dei più frequenti e dei più
ricorrenti… L'interpretazione estensiva delle norme sulla pubblicità instaurata dalla legge del 1975 non è soltanto
opportuna, ma doverosa nell'interesse delle parti e dei terzi. La loro tutela, infatti, non può prescindere da un
siffatto modo interpretativo della legge, che è il solo rispondente alla vera volontà del legislatore ed alla
rispondenza della verità formale a quella sostanziale… ») (Trib. Milano 22 maggio 1985, Dir. famiglia 1985, 974,
con nota adesiva di NAPPI, Osservazioni in merito allo scioglimento della comunione legale dei beni tra coniugi).
Siccome non prevista da alcuna norma di legge — si è osservato in termini opposti, da parte di altro giudice
di merito — va rigettata l'istanza di annotazione a margine dell'atto di matrimonio del provvedimento di
omologazione della separazione consensuale tra coniugi: in caso di acquisto di immobile, da parte di coniuge
separato, infatti, per opporre all'altro contraente lo stato di separato, non soggetto al regime di comunione legale, è
sufficiente esibire copia del titolo della separazione, facendone fare menzione nell'atto di vendita (Trib. Monza 8
marzo 1984, Giust. civ. 1984, I, 3456, con nota critica di M. FINOCCHIARO, « Scioglimento » della comunione
legale per effetto della separazione personale dei coniugi e opponibilità ai terzi del nuovo regime patrimoniale
della « famiglia »; Foro it. 1985, I, 1202; Dir. famiglia 1984, 179. Sempre nello stesso senso, altresì, App.
Genova 22 novembre 1985, Giur. merito 1987, 63, con nota sostanzialmente adesiva di LENZI, Sulla ammissibilità
della annotazione a margine dell'atto di matrimonio della cessazione della comunione legale per separazione
personale dei coniugi; Foro it. 1986, I, 776).
In dottrina, tra gli altri: SEGNI, Gli atti di straordinaria amministrazione del singolo coniuge sui beni
immobili della comunione, Riv. dir. civ. 1980, I, 598 ss., in part. 614-615 (secondo cui se devono annotarsi le
modifiche « convenzionali » al regime legale, a maggior ragione devono essere oggetto di annotazione — su
istanza delle parti — i fatti modificativi che operano ope legis); SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, il
regime patrimoniale della famiglia, cit., 41 e 86; ZATTI e MANTOVANI, La separazione personale, Padova 1983,
294; COSCIA, Regime patrimoniale legale tra coniugi ed effetti della separazione personale: riflessi sullo stato
civile e sulla tenuta dei registri, Stato civ. it. 1981, 273, nonché GALBIATI, Riforma del diritto di famiglia,
orientamenti di dottrina e giurisprudenza. Interventi legislativi, Vita not. 1980, 968 ss., in part. 984-985 (ove
l'auspicio d'un intervento del legislatore); M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., 763-769.
Al momento il problema deve ritenersi superato per effetto dell'art. 23, comma 1, l. 6 marzo 1987 n. 74,
secondo cui « fino all'entrata in vigore del nuovo testo del codice di procedura civile, ai giudizi di separazione
personale dei coniugi si applicano, in quanto compatibili, le regole di cui all'art. 4 della l. 1 dicembre 1970 n. 898,
come sostituito dall'art. 8 della presente legge « che prevede appunto, al comma 2 l'obbligo, per il cancelliere, di
dare comunicazione del ricorso [per divorzio e quindi, anche per separazione] » all'ufficiale di stato civile del
luogo dove il matrimonio fu trascritto per l'annotazione in calce all'« atto ».
Per la opponibilità ai terzi degli effetti dello scioglimento della comunione legale dei beni tra coniugi,
derivante dalla separazione personale dei coniugi stessi, relativamente all'acquisto di beni immobili o mobili
registrati, avvenuto con dichiarazione del coniuge acquirente dello stato di separazione, è sufficiente la
trascrizione nei registri immobiliari (dell'atto di acquisto recante la detta dichiarazione) e non è richiesta, altresì,
l'annotazione del provvedimento di separazione personale dei coniugi a margine dell'atto di matrimonio (Cass. 28
novembre 1998 n. 12098, Giust. civ. 1999, I, 2373, con nota adesiva di M. FINOCCHIARO, La pubblicità nel «
nuovo » regime patrimoniale della famiglia. Un'altra rivoluzione tradita).
Con riferimento alla eventualità i coniugi, già separati, si riconcilino, un giudice di merito ha affermato,
peraltro, che qualora sia stata annotata a margine dell'atto di matrimonio l'avvenuta separazione personale dei
coniugi, il tribunale, ritualmente richiesto, deve ordinare l'annotazione dell'avvenuta riconciliazione delle parti, a
tutela dei terzi, che hanno interesse a conoscere sia la separazione, costituente causa di scioglimento della
comunione legale dei beni, sia la riconciliazione (Trib. S. Maria Capua V. 2 maggio 1997, Dir. famiglia
1998,1469).
Tuttavia, si è precisato sempre nella stessa occasione, mentre, ai sensi dell'art. 23 l. n. 74 del 1987, che
dichiara applicabile alle ipotesi della separazione la normativa di cui all'art. 4 l. n. 898 del 1970, l'ufficiale di stato
civile può ritenersi legittimato ad annotare la separazione a prescindere da un ordine in tal senso della competente
autorità giudiziaria, per l'annotazione della riconciliazione, che non è prevista da alcuna norma, l'ufficiale di stato
civile può, ai sensi dell'art. 453, procedere solo a seguito di un ordine del tribunale, anche se il diritto
all'annotazione derivi dal mero verificarsi di un evento certo e non irrilevante (Trib. S. Maria Capua V. 2 maggio
1997, cit.).
Sul problema — connesso al precedente — se per effetto della riconciliazione, intervenuta tra coniugi
separati, vengano — o meno — a cessare con effetto ex nunc tutti gli effetti della separazione, sia personali che
patrimoniali, con il conseguente ripristino del regime della comunione dei beni esistente in origine tra i coniugi,
venuto meno in seguito al provvedimento di separazione anche nei confronti dei terzi, a prescindere da ogni
pubblicità a margine dell'atto di matrimonio, V. la giurisprudenza (in vario senso) ricordata retro, sub art. 159, n.
3.
8. Adempimenti dell'ufficiale di stato civile, ai sensi dell'art. 162 ult. comma c.c. Richiami di dottrina.
— Sugli adempimenti dell'ufficiale di stato civile ai sensi dell'art. 162, ultimo comma, a seguito della riforma del
diritto di famiglia, in dottrina, da ultimo: ARENA, Convenzioni matrimoniali. Risultanze emerse. Quadro completo
dei compiti dell'ufficiale di stato civile, Stato civ. it. 1977, 323; BARBIERI, Disposizioni in materia di regime
patrimoniale coniugale. Adempimenti dell'ufficiale di stato civile, ivi 1976, 364 ss.; BONARDI, Il regime
patrimoniale della famiglia e l'ufficiale di stato civile, ivi 1976, 168 ss.; BRUNI, Pubblicità degli atti sui registri
dello stato civile, Notaro 1975, 90; CACCIN, Il regime dei rapporti patrimoniali tra coniugi e le annotazioni sugli
atti di matrimonio, Stato civ. 1977, 331; CACCIN, Ancora sul regime dei rapporti patrimoniali tra coniugi e le
annotazioni degli atti di matrimonio, Nuova rass. 1977, 1328; CHIARDIA, Il regime patrimoniale familiare e
adempimenti di stato civile, Stato civ. 1976, 360; COSCIA, Rapporti matrimoniali tra coniugi e compiti
dell'ufficiale dello stato civile nel nuovo diritto di famiglia, Amm. it. 1975, 1370; FIORE, Il regime patrimoniale
del nuovo diritto di famiglia, Nuova rass. 1977, 898; GIACOMINI, Le convenzioni matrimoniali e le annotazioni a
margine, Stato civ. it. 1976, 302; LUCCHESINI, Annotazioni a margine di atto di matrimonio civile relativa alla
scelta di cui al comma 2 dell'art. 162, ivi 1977, 657; SALVO, Le convenzioni matrimoniali nel nuovo diritto di
famiglia e gli adempimenti dell'ufficiale di stato civile, ivi 1975, 626; SALVO, La mancata trascrizione del
matrimonio contratto all'estero e le implicazioni in ordine al regime patrimoniale nel nuovo diritto di famiglia, ivi
1976, 564; SALVO, Le convenzioni matrimoniali previste nel nuovo diritto di famiglia, loro opponibilità, funzione
di certificazione, ivi 1978, 199; SACCO, Commentario di diritto italiano della famiglia, III, cit. 26-36; CECCHINI,
Il regime pubblicitario delle convenzioni matrimoniali, Lessico dir. famiglia. Centro Studi giuridici sulla persona,
Roma, 2000.
9. Costituzione di beni in fondo patrimoniale e pubblicità ex art. 162 c.c.: rinvio. — La costituzione del
fondo patrimoniale, prevista dall'art. 167, e comportante un limite alla disponibilità di determinati beni, con
vincolo di destinazione per fronteggiare i bisogni familiari, va compresa tra le convenzioni matrimoniali e,
pertanto, è soggetta alle disposizioni dell'art. 162, circa le forme delle convenzioni medesime, ivi incluso il
comma 3, che ne condiziona l'opponibilità ai terzi all'annotazione del relativo contratto a margine dell'atto di
matrimonio. Sulla questione, ampiamente, infra, sub art. 167.
10. Il confronto dottrinale e giurisprudenziale in ordine alla trascrizione delle convenzioni
matrimoniali. Problemi comuni alle varie ipotesi previste dall'art. 2647 c.c. — Prima della Riforma del diritto
di famiglia, stante la vigenza del regime legale di separazione dei beni, l'art. 2647 c.c. si dava carico di predisporre
un sistema atto a dare adeguata pubblicità alle convenzioni con le quali si sceglieva di adottare il regime di
comunione, che rispetto a quel sistema legale costituiva una deroga. Divenuta la comunione, a seguito della
Riforma, il regime patrimoniale legale dei coniugi, l'art. 2647 c.c. è radicalmente mutato: oggi si limita a
disciplinare la pubblicità degli atti (inerenti a beni immobili) costituenti eccezioni al regime di comunione, e
quindi: della costituzione del fondo patrimoniale, delle convenzioni matrimoniali che escludono beni dalla
comunione, degli atti o provvedimenti che sciolgono la comunione, degli acquisti di beni personali ex art. 179 c.c.
(lett. c, d ed f). Non v’è più bisogno, invece, di dar pubblicità al regime di comunione. Cfr. infatti Cass. 15 marzo
1990, n. 2104, Giust. civ. Mass. 1990, 468: «L'opponibilità ai terzi della comunione degli utili e degli acquisti,
costituita prima della riforma del diritto di famiglia …, è condizionata soltanto all'annotazione a margine dell'atto
di matrimonio, prevista dall'art. 162 c.c., per le convenzioni matrimoniali, senza che sia richiesta la trascrizione
della relativa convenzione a norma dell'art. 2647 c.c., atteso che l'art. 227 della legge n. 151 del 1975 non ha
previsto l'ultrattività delle precedenti norme per tale comunione, come invece ha disposto per le doti e i patrimoni
familiari»). La comunione legale, quale regime vigente in assenza di specifiche convenzioni contrarie, è oggetto
quindi di una “pubblicità negativa”.
Tuttavia, a seguito della modifica, apportata dalla l. 28 febbraio 1985/52, all’art. 2659 c.c., il regime
patrimoniale dei coniugi che intervengono negli atti ha anche una forma di pubblicità positiva, essendo
obbligatoria la sua indicazione nella nota di trascrizione. Si è parlato in dottrina, in proposito, di un’attenuazione
di quella «sorta di compartimento stagno tra le due forme di pubblicità», una dei registri immobiliari, l’altra dei
registri di stato civile (GAZZONI, La trascrizione immobiliare, Comm. Schlesinger, Art. 2646-2651, II, Milano,
1993, 42).
Sulla premessa che «ai fini dell'opponibilità ai terzi di un atto trascritto deve aversi riguardo esclusivo al
contenuto della nota di trascrizione, e non anche al contenuto del titolo di acquisto che, insieme con la nota, viene
depositato presso la conservatoria del registri immobiliari», si è affermata la sufficienza, in un caso di acquisto
individuale operato da parte di un coniuge legalmente separato, della indicazione nella nota di trascrizione dello
status di separato. Risulta per converso inutile l'annotazione del provvedimento di separazione a margine dell'atto
di matrimonio, non potendo «legittimamente sostenersi che "titolo di acquisto" ex artt. 2657 e 2659 c.c. sia, nella
specie, (non l'atto traslativo ma) l'atto di separazione legale in quanto atto produttivo del mutamento giuridico in
ordine al singolo bene oggetto di trascrizione» (Cass. 28 novembre 1998, n. 12098, Notariato 1999, 554, con nota
di FRANCO; Nuova giur. civ. comm. 1999, I, 632, con nota di MOSCA).
11. Segue: i rapporti tra trascrizione ed annotazione. — Il problema più spinoso è dato certamente dal
coordinamento tra la pubblicità attuata tramite gli atti dello stato civile e la pubblicità dei registri immobiliari. In
base all’art. 162, comma 4°, c.c., le convenzioni matrimoniali non possono essere opposte ai terzi quando a
margine dell’atto di matrimonio non risultano annotati la data del contratto, il notaio rogante e le generalità dei
contraenti o la scelta del regime di separazione dichiarata nell’atto di celebrazione del matrimonio.
È stata scartata la posizione che cercava di dare coerenza al sistema separando gli ambiti operativi delle due
norme, nel senso che, mentre l’art. 2647 c.c. vale per i soli beni immobili, l’art. 162 c.c. avrebbe riguardo ai beni
mobili (PALERMO, La disciplina della pubblicità nella riforma del diritto di famiglia, Riv. not. 1976, 750;
ANDRINI, Convenzioni matrimoniali e pubblicità legale nel nuovo diritto di famiglia, Riv. not. 1975, 1100). Si è
ribattuto (OBERTO, Annotazione e trascrizione delle convenzioni matrimoniali: una difficile coesistenza, Riv. dir.
ipotecario 1982 127), infatti, che la posizione del terzo acquirente di beni mobili è già, di per sé, inattaccabile,
senza che occorra all’uopo l’annotazione: l’art. 184 c.c. prevede, per il caso di alienazione di beni mobili non
registrati facenti parte della comunione legale, da parte di un coniuge senza il necessario consenso dell’altro,
solamente l’obbligo a carico dell’alienante di ricostituire la comunione nel suo stato originario o di corrispondere
il valore del bene alienato; rimane sempre salvo, quindi, l’acquisto del terzo. La dottrina si è quindi divisa in due
orientamenti principali.
Secondo l’orientamento prevalente, l’annotazione nei registri dello stato civile, prescritta dall’art. 162 c.c.,
sarebbe oggi l’unica forma di pubblicità richiesta per opporre le convenzioni matrimoniali ai terzi (pubblicità
dichiarativa), mentre la funzione della trascrizione degraderebbe a quella di mera pubblicità notizia (CIAN, op .cit.,
33; ZACCARIA, op. cit., 373; G. GABRIELLI-ZACCARIA, op. cit., 364 ss.; F. FINOCCHIARO, op .cit., 329; GAZZONI,
La trascrizione immobiliare, Comm. Schlesinger, Art. 2646-2651, II, Milano, 1993, 42 ss.; SEGNI, op .cit., 608).
Per converso, se la trascrizione conservasse la sua normale funzione di pubblicità dichiarativa, l'art. 2647 darebbe
luogo ad un inutile doppione rispetto all’art. 162. Altro argomento addotto in favore di questa soluzione (in part.
da GAZZONI, La trascrizione immobiliare, Comm. Schlesinger, Art. 2646-2651, II, Milano, 1993, 43 ss.), è la
mancata riproduzione, nella nuova formulazione dell’art. 2647 c.c., dell’originario ultimo comma, il quale
precisava che la trascrizione era necessaria ai fini dell’opponibilità ai terzi. Seguendo questa tesi, quindi, se la
convenzione è stata trascritta, ma non è stata annotata, essa è inopponibile ai terzi; viceversa, essa è opponibile
purché sia stata annotata, nonostante la mancata trascrizione ex art. 2647 c.c. Inoltre, si è aggiunto da alcuni (G.
GABRIELLI, voce Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, Enc. Dir., XXXII, Milano, 1982, 293; G. GABRIELLI
1989, Questioni recenti in tema di pubblicità immobiliare, Contr. e impr. 1989, 813; CIAN-CASAROTTO, op .cit.,
825), sebbene nella specie la trascrizione non costituisca un onere, essa rimane pur sempre un obbligo a carico del
notaio (art. 2671 c.c.), che in caso di inadempimento deve risarcire i danni ai terzi che abbiano acquistato diritti
confidando sulle risultanze dei registri immobiliari. In senso contrario si è osservato da altri (GAZZONI, La
trascrizione immobiliare, Comm. Schlesinger, Art. 2646-2651, II, Milano, 1993, 44; TRIOLA, op. cit., 124) che
l’obbligo a carico del notaio non è posto a favore dei terzi in genere ma delle parti, le quali sole potrebbero quindi
agire nei suoi confronti. Inoltre il terzo non potrebbe lamentare l’omissione della trascrizione giacché, se avesse
diligentemente consultato anche i registri dello stato civile, avrebbe potuto accertarsi dell’esistenza della prescritta
pubblicità.
Un secondo orientamento mira a mantenere all’art. 2647 c.c. la funzione tipica della trascrizione. Ai fini
dell’opponibilità ai terzi sarebbe necessario eseguire entrambe le formalità: annotazione nei registri dello stato
civile e trascrizione nei registri immobiliari, svolgenti entrambe la funzione di pubblicità dichiarativa. Sarebbe
possibile ricavare dal sistema (in part. ex art. 2644 e 2645), infatti, un principio generale che impone di dare
sempre prevalenza all’atto trascritto per primo, salvo eccezioni che, però, non sono contemplate dall’art. 2647 c.c.
La funzione dichiarativa della trascrizione sarebbe infine confermata dal 2° comma dell’art. 2685 c.c. (la cui
commento si rinvia), inerente alla trascrizione di atti aventi ad oggetto beni mobili registrati, il quale parla di
«effetti stabiliti per gli immobili», così lasciando trasparire che la trascrizione immobiliare disciplinata dall’art.
2647 c.c. produca degli «effetti», i quali non possono che essere dichiarativi. All’interno di questo orientamento
occorre però distinguere tra chi sostiene che dalla mancanza di una qualsiasi delle due formalità, deriverebbe
l’inopponibilità dell’atto (TRABUCCHI, La pubblicità immobiliare. Un sistema in evoluzione, Riv. dir. ipotecario 1982, 114) e chi
invece afferma che l’art. 162 c.c. inerisce alla convenzione matrimoniale, mentre l’art. 2647 c.c. ha riguardo ai
singoli beni (DE RUBERTIS, op. cit., 6; FERRI, Forme e pubblicità del regime patrimoniale della famiglia, Riv. trim. dir. proc. civ.
1988, 60; TRIOLA, op. cit., 126 s.; AULETTA, Il fondo patrimoniale, Milano, 1990, 156; PALERMO, op. cit., 750; OBERTO,
Annotazione e trascrizione delle convenzioni matrimoniali: una difficile coesistenza, Riv. dir. ipotecario 1982, 127); in particolare, si
osserva (CORSI, op. cit., 78), l’annotazione avrebbe la funzione di dare pubblicità al regime patrimoniale vigente
tra i coniugi, mentre la trascrizione avrebbe ad oggetto la pubblicità della specifica situazione dei singoli beni.
Ancora in tal senso, si è distinto (FERRI, op. cit., 60 s.) tra convenzioni e contratti per concludere che
l’annotazione renderebbe opponibili le prime, mentre la trascrizione svolgerebbe analoga funzione per i secondi:
infatti la convenzione sarebbe «una forma di accordo che, a differenza del contratto, non incide su singoli diritti o
singoli rapporti, ma detta una disciplina generale ed astratta per futuri eventuali rapporti». Ma si è obiettato
(GAZZONI, La trascrizione immobiliare, Comm. Schlesinger, Art. 2646-2651, II, Milano, 1993, 47) che anche la
norma in tema di trascrizione utilizza il termine «convenzioni», e lo fa con significato proprio: infatti, la lettura
del primo comma dell’art. 2647 c.c. va coordinata con quella del 2° comma, risultandone che con riguardo
all’esclusione di beni le «convenzioni» cui l’articolo si riferisce non riguardano singoli beni, ma categorie di beni,
e quindi in generale il regime patrimoniale prescelto. Parimenti, non possono che incidere sul regime patrimoniale
in generale gli atti e provvedimenti di scioglimento della comunione. Art. 162 c.c. ed art. 2647 c.c. hanno,
pertanto, lo stesso ambito di applicazione.
La giurisprudenza ha abbracciato la tesi secondo cui la trascrizione ex art. 2647 c.c. degrada a mera pubblicità
notizia. In una pronuncia in tema di costituzione del fondo patrimoniale, la Cassazione, premesso che tale
costituzione va compresa fra le convenzioni matrimoniali, ha concluso che, pertanto, essa «è soggetta alle
disposizioni dell'art. 162 c.c., circa le forme delle convenzioni medesime, ivi incluso il comma 3, che ne
condiziona l'opponibilità ai terzi all'annotazione del relativo contratto a margine dell'atto di matrimonio, mentre la
trascrizione del vincolo stesso, per gli immobili, di cui all'art. 2647 c.c., resta degradata a mera pubblicità-notizia,
inidonea ad assicurare detta opponibilità» (Cass. 27 novembre 1987, n. 8824, Giur. it. 1989, I, 1, 330, 1766; Riv.
not. 1988, 719. A questa decisione hanno fatto seguito numerose altre nello stesso senso, di cui si darà conto nei
paragrafi seguenti).
12. Segue: il problema della trascrizione «a carico». — Oggetto di discussione è stata anche
l’interpretazione dell’espressione «a carico» contenuta nel primo comma dell'art. 2647, per il quale la trascrizione
andrebbe eseguita «a carico, rispettivamente, dei coniugi titolari del fondo patrimoniale e del coniuge titolare del
bene escluso o che cessa di far parte della comunione». È indubbio, infatti, che alcuni atti contemplati dalla norma
(convenzioni che escludono beni determinati dalla comunione legale; acquisti di beni personali) comportano un
effetto favorevole per il coniuge suddetto, sicché sarebbe stato più logico che la legge prevedesse la trascrizione in
suo favore, e non contro di lui come invece si esprime la disposizione in esame. La soluzione preferibile è allora
quella di ammettere che il legislatore sia semplicemente incorso in un errore, e che la trascrizione debba essere
eseguita a favore del coniuge (FORCHIELLI, op. cit., 912, parla di uso improprio, da parte del legislatore,
dell’espressione «a carico» in luogo di quella «a favore»; per GAZZONI, La trascrizione immobiliare, Comm.
Schlesinger, Art. 2646-2651, II, Milano, 1993, 49, si tratta di un vero e proprio errore, riconducibile al fatto che è
stata tralaticiamente riportata l’espressione «a carico» prevista dall’originaria versione dell’art. 2647 c.c., senza
tener presente che a seguito della Riforma la pubblicità non era più quella in positivo della convenzione
costitutiva della comunione convenzionale, ma era divenuta quella in negativo dell’esclusione dalla comunione
legale).
Fermo, dunque, che la trascrizione va fatta a favore del coniuge che diviene proprietario esclusivo del bene, si
discute se occorra affiancare a questa trascrizione anche una seconda trascrizione a carico dell’altro coniuge che
non diventa contitolare del bene: mentre alcuni ritengono questa seconda formalità opportuna per segnalare ai
terzi la non operatività del principio della comunione legale (ANDRINI, op. cit., 1100; FERRI, ult. op. cit., 60), altri
la considerano un’inutile superfetazione (GAZZONI, ult. op. cit., 48).
13. Segue: rinvii alle singole fattispecie. — Sulla trascrizione della costituzione del fondo patrimoniale, v.
sub art. 167. Sulla trascrizione delle convenzioni matrimoniali che escludono beni immobili dalla comunione
legale, v. sub art. 210. Per la trascrizione degli atti e dei provvedimenti di scioglimento della comunione, v. sub
art. 191. Con riguardo alla trascrizione degli atti di acquisto di beni personali a norma delle lettere c), d), e), ed f)
dell’articolo 179 c.c., cfr. sub art. 179.
14. Segue: acquisto separato, da parte di uno dei coniugi, durante la vigenza del regime di comunione
legale. — Va escluso che l’art. 2647 c.c. entri in gioco quando, vigente tra i coniugi il regime di comunione
legale, uno dei due operi un acquisto separato di un bene immobile. Dal punto di vista sostanziale, è chiaro che il
bene entra in comunione e diviene di proprietà indivisa anche del coniuge che non prende parte all’atto di
acquisto. La legge non precisa, però, se l’atto di acquisto debba essere trascritto a favore del solo coniuge che vi
ha preso parte, o anche a favore dell’altro. V’è chi parla, quindi, di una scissione tra titolarità (formale) ed
appartenenza (sostanziale) (CORSI, op. cit., 72).
Prevale l’idea della superfluità di una trascrizione a nome di entrambi i coniugi: è sufficiente che l’acquisto
sia intestato al solo coniuge acquirente (ex multis: GAZZONI, ult. op. cit., 1965; FORCHIELLI, op. cit., 913 ss.
Propendono invece per la cointestazione GABRIELLI-ZACCARIA, op. cit., 361 ss.). Ne deriva che il coniuge che non
è stato parte del contratto, oltre che acquistare ex lege il bene per effetto del regime patrimoniale, potrà opporre il
proprio diritto erga omnes se l’acquisto è stato debitamente trascritto ex art. 2643 o 2645 c.c. in favore dell’altro
coniuge.
Peraltro, anche la risoluzione del Ministero di Grazia e Giustizia 7 luglio 1983, n. 5/1824/060/I, div. V, ha
affermato che la trascrizione va effettuata a favore del solo coniuge contraente. Questa trascrizione,
evidentemente, è eseguita ai fini dell’art. 2644 c.c., non essendo pertinente, quindi, il richiamo all’art. 2647 c.c.,
sia perché detta norma contempla una pubblicità notizia, sia perché essa ha riguardo ad ipotesi che si presentano
come eccezionali rispetto al regime di comunione legale, e quindi opposte alla presente.
In concreto, i maggiori problemi si presenteranno al momento in cui i coniugi vorranno vendere il bene così
acquistato, giacché dovranno entrambi, quali comproprietari, prendere parte all’atto di vendita, e la trascrizione
dovrà così essere eseguita contro entrambi, con l’inconveniente che questa seconda trascrizione (contro) seguirà a
quella precedente (a favore) ove appariva soltanto il coniuge intervenuto all’atto: così, «sul piano della continuità,
mentre la catena sarà continua con riguardo alla posizione di costui, essa sarà spezzata o meglio sarà limitata ad
un unico anello per quanto riguarda l’altro coniuge». Ma l’inconveniente è bilanciato dal fatto che «in tal modo si
creerà un anello bensì isolato, ma proprio per questo idoneo a segnalare l’esistenza di un pregresso acquisto in
comunione intervenuto ex lege» (GAZZONI, ult. op. cit., 65).
15. Atto di matrimonio contratto all'estero da cittadini stranieri residenti in Italia. Trascrizione (ai fini
del regime patrimoniale). — Gli ufficiali dello stato civile devono procedere alla trascrizione di un atto di
matrimonio celebrato all'estero e contratto da cittadini stranieri residenti in Italia se l'atto è stato ritualmente
tradotto e legalizzato dalle competenti autorità straniere; alla trascrizione non può essere attribuita solo una
funzione riproduttiva, avendo essa natura e finalità pubblicitaria, il che rileva ai fini dell'opponibilità: ne deriva
che i coniugi possono ottenere l'annotazione del regime patrimoniale da essi prescelto, ai sensi e per effetti dell'art.
30 l. n. 218 del 1995 (Trib. Venezia 15 settembre 2006, Dir. famiglia 2007, 257).
Sempre sulla specifica questione, da parte di altro giudice di merito si è affermato che gli ufficiali dello stato
civile devono procedere alla trascrizione di un atto di matrimonio celebrato all'estero e contratto da cittadini
stranieri residenti in Italia se l'atto è stato ritualmente tradotto e legalizzato dalle competenti Autorità straniere
(Trib. Monza, 31 marzo 2007, Dir. famiglia 2007, 1736).
Ivi, altresì, la precisazione che alla trascrizione non può essere attribuita solo una funzione riproduttiva,
avendo essa natura e finalità pubblicitarie, il che rileva ai fini dell'opponibilità, per cui i coniugi possono ottenere
l'annotazione del regime patrimoniale da essi prescelto, ai sensi e per gli effetti dell'art. 30 l. n. 218 del 1995 (Trib.
Monza, 31 marzo 2007, cit.).
In dottrina in termini critici in margine a Trib. Monza, 31 marzo 2007, cit., DI SAPIO A., Sulla pubblicità del
regime patrimoniale tra coniugi stranieri, Dir. famiglia 2007, 1738, I.
16. Omessa indicazione nel registro dello stato civile della scelta del regime patrimoniale compiuta
innanzi al parroco. Conseguenze. — Qualora la scelta del regime patrimoniale di separazione dei beni sia
validamente riportata sull'atto di matrimonio redatto dal parroco celebrante in qualità di ufficiale dello stato civile,
ma successivamente essa non venga riportata per mera omissione nel registro dello stato civile dove sia iscritto
l'atto di matrimonio, correttamente l'ufficiale dello stato civile integra la predetta omissione attraverso semplice
annotazione ai sensi degli artt. 172 ss. del r.d. n. 1238 del 1939, e non mediante procedimento di rettificazione, di
cui difettano i presupposti dell'errore materiale o dell'omissione nella formazione dell'atto (Trib. Ivrea 29 maggio
2003, Dir. famiglia 2003, 667, che ha ritenuto che l'originale dell'atto di matrimonio, redatto dal parroco ed
inviato al comune, non contenesse né errori né omissioni contrastanti con la volontà dei nubendi da giustificare la
rettificazione, mentre fosse carente solo la successiva iscrizione nei registri dello stato civile, che relativamente
alla scelta del regime di separazione dei beni ha solo efficacia dichiarativa nei confronti dei terzi).
17. Annotazione delle convenzioni matrimoniali sul solo registro di matrimonio tenuto dal comune (e
non anche sull'originale diretto al procuratore della Repubblica). Sufficienza. — Si è precisato da parte del
S.C. che per la pubblicità richiesta dagli articoli 162 e 163 ai fini della opponibilità ai terzi delle convenzioni
matrimoniali è necessaria e sufficiente l'annotazione a margine dell'atto di matrimonio iscritto nel registro
depositato presso gli uffici del comune di celebrazione.
È irrilevante, pertanto, che sia mancata la annotazione nell'altro originale del registro destinato al procuratore
della Repubblica. In particolare i terzi interessati hanno l'onere di recarsi per prendere conoscenza di come siano
stati regolati i rapporti patrimoniali tra i coniugi esclusivamente presso gli uffici del comune di celebrazione, non
anche presso gli altri uffici.
L'ordinamento dello stato civile — si è evidenziato — prescrive che i registri siano tenuti dall'ufficiale dello
stato civile in doppio originale e che un originale sia trasmesso al procuratore della Repubblica per il deposito
presso la cancelleria del tribunale per scopi che trascendono quelli della pubblicità.
I certificati di cittadinanza nascita, matrimonio e morte sono rilasciati dal comune e non dalla cancelleria del
tribunale. L'estratto dell'atto di celebrazione del matrimonio, in particolare è solo quello a firma dell'ufficiale dello
stato civile. D'altra parte, se il legislatore avesse voluto una doppia annotazione delle convenzioni matrimoniali ai
fini della tutela dei terzi l'avrebbe espressamente prevista e non si sarebbe limitato a imporre al notaio rogante di
chiedere l'annotazione all'ufficiale dello stato civile (Cass. 10 luglio 2008, n. 18870).
18. Separazione personale dei coniugi e loro riconciliazione. Effetti ai fini del regime patrimoniale.
Rinvio. — Sulla pubblicità della riconciliazione dei coniugi, dopo la loro separazione personale, con cessazione
del regime legale di comunione, anteriormente al d.P.R. n. 396 del 2000, Cass. 5 dicembre 2003, n. 18619, infra,
sub art. 191
19. Acquisto di un solo bene in regime di separazione da parte di coniugi soggetti alla comunione:
convenzione matrimoniale derogatoria del regime. Necessità. — I coniugi in regime patrimoniale di
comunione legale, al fine di effettuare l'acquisto anche di un solo bene in regime di separazione (tale essendo
l'eventuale acquisizione in comunione ordinaria, che esige un regime di separazione) sono tenuti a previamente
stipulare una convenzione matrimoniale derogatoria del loro regime ordinario, ai sensi dell'art. 162,
sottoponendola alla specifica pubblicità per essa prevista, non essendo al riguardo viceversa sufficiente una più o
meno esplicita indicazione contenuta nell'atto di acquisto, posto che questo non viene sottoposto alla pubblicità
delle convenzioni matrimoniali, le quali solo conferiscono certezza in ordine al tipo di regime (patrimoniale) cui
sono sottoposti gli atti stipulati dai coniugi (Cass. 24 febbraio 2004, n. 3647, Vita not. 2004, 971).
20. Accordo tra i coniugi per la definizione dei loro rapporti economici, con attribuzione di beni da uno
all'altro. Non è una convenzione matrimoniale. — La pattuizione intervenuta tra due coniugi, che abbiano in
corso una separazione consensuale, con la quale, al fine di disciplinare i reciproci rapporti economici, uno di essi
s'impegni a trasferire gratuitamente all'altro determinati beni, non configura una convenzione matrimoniale ex art.
162, postulante lo svolgimento della convivenza coniugale e il riferimento ad una generalità di beni, anche di
futura acquisizione, ma un contratto atipico, con propri presupposti e finalità, soggetto, per la forma, alla comune
disciplina e, quindi, se relativo a beni immobili, validamente stipulabile con scrittura privata senza necessità di
atto pubblico (Cass. 24 aprile 2007, n. 9863, Giust. civ. 2008, I, 1017).
21. Convenzione matrimoniale che preveda la immediata caduta in comunione dei proventi dell'attività
separata. Effetti ai fini Irpef, esclusione. — Indubbiamente il percettore di un reddito può disporre della sua
destinazione e, pertanto, il soggetto coniugato può, con apposita convenzione matrimoniale ai sensi dell'art. 162,
prevedere che i proventi derivanti dalla attività separata dallo stesso svolta siano immediatamente oggetto di
comunione legale tra i coniugi stessi.
Lo stesso, peraltro, non può attribuire a tale pattuizione un valore di accertamento costitutivo della
imputazione soggettiva della produzione del reddito, trattandosi di un dato oggettivo il cui accertamento è
riservato, ai fini della imposizione fiscale, alla amministrazione finanziaria.
È evidente, pertanto, che è irrilevante, nei confronti della amministrazione finanziaria (al fine di imputare il
reddito stesso ai fini Irpef al 50% a ciascun coniuge) la convenzione matrimoniale con la quale i coniugi hanno
previsto che il regime di comunione legale si estenda ai redditi derivanti dalle loro attività separate (Cass. 24
febbraio 2005, n. 3866, Vita not. 2005, 376).
L. 19 maggio 1975 n. 151. — Riforma del diritto di famiglia.
Art. 228.
Le famiglie già costituite alla data di entrata in vigore della presente legge, decorso il termine di
due anni dalla detta data, sono assoggettate al regime della comunione legale per i beni acquistati
successivamente alla data medesima a meno che entro lo stesso termine uno dei coniugi non manifesti
volontà contraria in un atto ricevuto da notaio o dall'ufficiale dello stato civile del luogo in cui fu
celebrato il matrimonio.
Entro lo stesso termine i coniugi possono convenire che i beni acquistati anteriormente alla data
indicata nel primo comma siano assoggettati al regime della comunione, salvi i diritti dei terzi.
Gli atti di cui al presente articolo compresi i trasferimenti eventuali e conseguenti di diritti sono
esenti da imposte e tasse e gli onorari professionali ad essi relativi sono ridotti alla metà. Essi non
possono essere opposti a terzi se non sono annotati a margine dell'atto di matrimonio.
Art. 240.
La presente legge entra in vigore centoventi giorni dopo la sua pubblicazione nella Gazzetta
Ufficiale.
Bibliografia: COSCIA, Rapporti matrimoniali tra coniugi e compiti dell'ufficiale dello stato civile nel nuovo diritto di famiglia, Amm.
it. 1975, 1370; BRUNI, Pubblicità degli atti sui registri dello stato civile, Notaro 1975, 90; SALVO, Le convenzioni matrimoniali nel
nuovo diritto di famiglia e gli adempimenti dell'ufficiale di stato civile, ivi 1975, 626; SALVO, La mancata trascrizione del matrimonio
contratto all'estero e le implicazioni in ordine al regime patrimoniale nel nuovo diritto di famiglia, ivi 1976, 564; BARBIERI,
Disposizioni in materia di regime patrimoniale coniugale. Adempimenti dell'ufficiale di stato civile, ivi 1976, 364 ss.; CHIARDIA, Il
regime patrimoniale familiare e adempimenti di stato civile, Stato civ. 1976, 360; BONARDI, Il regime patrimoniale della famiglia e
l'ufficiale di stato civile, ivi 1976, 168 ss.; GIACOMINI, Le convenzioni matrimoniali e le annotazioni a margine, Stato civ. it. 1976, 302;
FIORE, Il regime patrimoniale del nuovo diritto di famiglia, Nuova rass. 1977, 898; LUCCHESINI, Annotazioni a margine di atto di
matrimonio civile relativa alla scelta di cui al comma 2 dell'art. 162, ivi 1977, 657; CACCIN, Il regime dei rapporti patrimoniali tra
coniugi e le annotazioni sugli atti di matrimonio, Stato civ. 1977, 331; CACCIN, Ancora sul regime dei rapporti patrimoniali tra
coniugi e le annotazioni degli atti di matrimonio, Nuova rass. 1977, 1328; ARENA, Convenzioni matrimoniali. Risultanze emerse.
Quadro completo dei compiti dell'ufficiale di stato civile, Stato civ. it. 1977, 323; ID., Le convenzioni matrimoniali previste nel nuovo
diritto di famiglia, loro opponibilità, funzione di certificazione, ivi 1978, 199; DOGLIOTTI, Il regime patrimoniale di famiglia, Riv. dir.
civ. 1984, II, 198; DOGLIOTTI, Il regime patrimoniale di famiglia, Riv. dir. civ. 1984, II, 198; RAGAZZINI, La revocatoria delle
convenzioni matrimoniali, Rimini 1986; RAZZA, Considerazioni in tema di simulazione delle convenzioni matrimoniali, Giur. Merito
1987, 814; MOSCARINI, Convenzioni matrimoniali in generale, La comunione legale, a cura di C.M. BIANCA, Milano 1989, II, 10031032; VITALI, Delle persone e della famiglia, Commentario, Milano, 1990; BERLOCO, Matrimonio di coscienza contenente le
dichiarazioni di separazione dei beni, Stato civ. it. 1991, 486; SACCO, sub art. 161, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992;
GABRIELLI, CUBEDDU, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997; IEVA, Le convenzioni matrimoniali, Trattato di diritto di
famiglia, diretto P. ZATTI, III, Milano 2002, 27 ss.; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale. Il regime patrimoniale
della famiglia, II, Milano, 2002; MARCHETTI, Riforma dell'Ordinamento di stato civile e pubblicità dei rapporti coniugali tra i
coniugi: importanti novità e problemi irrisolti, Studium Juris 2003, 1289; MINNITI F., MINNITI M., Non sono validi gli atti di rinuncia
in deroga al regime di comunione legale, Dir. e giust. 2003, f. 18, 66; OBERTO, I precedenti storici del principio di libertà contrattuale
nelle convenzioni matrimoniali, Dir. famiglia 2003, n. 535; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja,
Branca, Bologna-Roma, 2003; RUSSO, Le convenzioni matrimoniali, Comm. Schlesinger, Milano, 2004; FAIETA, Ricostituzione della
comunione legale per effetto della riconciliazione e tutela dei terzi, Riv. not. 2004, 998; PALADINI, Il « contratto » di esclusione dei
beni personali dalla comunione legale, Familia 2006, 449; CARNEVALI, Le convenzioni matrimoniali, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, 2ª
ed., Torino, 2007.
Sommario: 1. Matrimonio religioso e scelta del regime di separazione dei beni. — 2. Segue: matrimonio religioso, dichiarazione di
scelta del regime di separazione dei beni sul retro dell'atto di matrimonio. Validità. — 3. Sottoscrizione da parte dei coniugi di entrambi
gli originali dell'atto di matrimonio concordatario, in uno solo dei quali sia presente la dichiarazione di scelta del regime della
separazione dei beni. Conseguenze. — 4. Matrimonio religioso non suscettibile di trascrizione o la cui trascrizione sia stata
successivamente annullata e… scelta del regime di separazione dei beni. — 5. Regime transitorio: indicazioni di dottrina. — 6. Segue:
dichiarazione di esclusione del regime legale rogata il 16 gennaio 1978: annotazione a margine dell'atto di matrimonio. — 7. Segue:
domanda di divorzio, anteriormente al 15 gennaio 1978: valida manifestazione di volontà ex art. 228 comma 1 l. 19 maggio 1975 n.
151. — 8. Segue: enunciazioni di inapplicabilità del regime legale in un contratto: irrilevanza. — 9. Segue: trascrivibilità (presso la
conservatoria dei rr.ii.) della dichiarazione unilaterale di scelta del regime di separazione dei beni. — 10. Segue: omessa dichiarazione
di ripudio del regime di comunione, per i già coniugati al 20 settembre 1975. Conseguenze. — 11. Segue: contratto di locazione
stipulato prima dell'entrata in vigore della nuova legge da un solo coniuge e rifiuto di rinnovazione alla scadenza. Onere a carico del
locatore. Contenuto. — 12. Segue: art. 228, comma 2, l. n. 151 del 1975. Convenzione relativa: natura. — 13. Conferimento in
comunione di beni acquistati prima del matrimonio, ai sensi dell'art. 228, l. 19 maggio 1975 n. 151. Autonomia e facoltà delle parti.
Limiti. — 14. Segue: i benefici fiscali: spettanza, limiti. — 15. Segue: rettifica della convenzione: regime fiscale. — 16. Segue:
successiva alienazione di beni posti in comunione ai sensi dell'art. 228 l. 19 maggio 1975 n. 151: computo dell'Invim. — 17.
Automatica trasformazione in comunione legale di precedente comunione convenzionale: esclusione. — 18. Comunione degli utili e
degli acquisti e morte di uno dei coniugi. — 19. La data di entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151.
1. Matrimonio religioso e scelta del regime di separazione dei beni. — Poiché l'art. 162 (così come
modificato dall'art. 43 della l. n. 151 del 1975) si limita a parlare di atto di celebrazione del matrimonio, senza
significare se tale atto sia solo quello del matrimonio civile, atteso che le parole del legislatore della legge di
riforma del diritto di famiglia (ove all'art. 10 si dice che l'atto di matrimonio deve essere compilato
immediatamente dopo la celebrazione) sono le stesse di cui alla l. 27 maggio 1929 n. 847 e 24 giugno 1929 n.
1159 (anche in queste, infatti, si dice che l'atto di matrimonio è compilato immediatamente dopo la celebrazione),
ciò vuol dire che per l'art. 162 per atto di celebrazione del matrimonio si deve intendere sia quello redatto ai sensi
dell'art. 107 c.c. (matrimonio civile), sia quello redatto ai sensi dell'art. 8 l. n. 847 (matrimonio innanzi a ministro
di culto cattolico) e dell'art. 9 l. n. 1159 (matrimonio innanzi ai ministri degli altri culti ammessi nello Stato). Ne
consegue, per l'effetto, che la scelta del regime della separazione dei beni può essere fatta (oltre che innanzi
all'ufficiale di stato civile celebrante), nell'atto di celebrazione del matrimonio concordatario, davanti ad un
ministro di culto cattolico o davanti ai ministri dei culti ammessi nello Stato (Trib. Modena 8 aprile 1976, Giur.
merito 1977, I, 804; Giur. it. 1977, I, 2, 543; Riv. not. 1977, 194; Dir. eccl. 1977, II, 469; Temi 1977, 321; Trib.
Biella 15 marzo 1978, Notaro 1978, 31; Trib. Oristano, 21 dicembre 1978, Foro it. 1979, I, 2746; App. Cagliari
19 gennaio 1979, ivi 1979, I, 2746; App. Cagliari 30 luglio 1980, Giur. it. 1981, I, 2, 722).
Nello stesso senso, altresì, una nota del ministero di grazia e giustizia, riportata da GUERRIERI, Legittimità
della dichiarazione di scelta del regime della separazione dei beni contenuta nell'atto di matrimonio
concordatario. Una nota del ministero di grazia e giustizia, Stato civ. 1977, 530.
In dottrina, nello stesso senso: CATTANEO, Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di
CARRARO, OPPO, TRABUCCHI, cit., I, 1, 472; CATTANEO, La scelta del regime di separazione innanzi al ministro
di culto che celebra il matrimonio, Temi 1977, 321; DI SALVO, Il nuovo diritto di famiglia, cit. 94; MIRABELLI C.,
Considerazioni ecclesiastiche sulla scelta del regime di separazione dei beni nell'atto di matrimonio, Studi in
onore di P.A. D'Avack, Milano 1976, II, 279 ss., in part. 292; OLIVERO, Scelta del regime di separazione dei beni
in atto di matrimonio concordatario, Giur. it. 1977, I, 2, 543; PEYROT, Riflessi della riforma del diritto di famiglia
sulle celebrazioni nuziali, Dir. eccl. 1976, I, 23 ss., in part. 47; TAMBURRINO, Lineamenti del nuovo diritto di
famiglia italiano, cit. 212, in nota; DEL PASQUA, Le convenzioni matrimoniali, Giur. merito 1979, 792 ss., in part.
799; BERSINI, Matrimonio concordatario e regime di separazione dei beni, Civiltà cattolica 1978, III, 253-264;
ZACCARIA, La pubblicità del regime patrimoniale della famiglia: le posizioni della dottrina, Riv. dir. civ. 1980, II,
415 ss., in part. 427; SERMANNI, Scelta del regime di separazione dei beni. Legittimità del sacerdote a ricevere la
dichiarazione dei coniugi, Nuova rass. 1981, 950; BORDONALI, La pubblicità del regime patrimoniale della
famiglia e l'atto di matrimonio redatto dal sacerdote celebrante, Nuove prospettive per la legislazione
ecclesiastica, Atti del II Convegno nazionale di diritto ecclesiastico, Milano 1981, 977 ss., in part. 989;
SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, il regime patrimoniale della famiglia, cit., 63-66; M.
FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, cit., 729-732.
In senso diverso, è inammissibile una dichiarazione di scelta del regime di separazione dei beni resa innanzi
al parroco celebrante: ACQUADERNI, BIGNOZZI, BONOLI, CANDITO, FEROLI, IOSA, MONTANARI, NICOLETTI,
L'applicazione pratica delle nuove norme sul diritto di famiglia, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili,
Milano 1975, 185 ss., in part. 196; AVANZINI, Forma e modificazioni delle convenzioni matrimoniali, ivi 567 ss.,
in part. 568; BERRI, Trascrizione del matrimonio canonico e riconoscimento dei figli naturali, Riv. trim. dir. proc.
civ. 1976, 1083 ss., in part. 1089; COSCIA, Rapporti patrimoniali tra coniugi e compiti dell'ufficiale di stato civile
nel nuovo diritto di famiglia, Amm. it. 1975, 1370; DE PAOLA e MACRÍ, Il nuovo regime patrimoniale della
famiglia, Milano 1978, 55; DE RUBERTIS, Le convenzioni matrimoniali nel nuovo diritto di famiglia, Dir. famiglia
1976, 1279 ss., in part. 1289-1290; DETTI, Parroco e beni degli sposi, Riv. not. 1976, 585 ss., in part. 586-587 (il
quale peraltro, non esclude, in via di probabilità, che possa essere esatta la tesi opposta); GARGANO, La pubblicità
nei rapporti patrimoniali tra coniugi nel nuovo diritto di famiglia, Dir. famiglia 1976, 307 ss., in part. 309;
GINESI, Il nuovo art. 162 c.c., Notaro 1977, 83; MORETTI, Matrimonio concordatario e scelta del regime di
separazione dei beni, Vita not. 1976, 985 ss., in part. 986; ROMANO, La riforma del diritto di famiglia, Amm. it.
1975, 1 ss.; ONIDA, Intervento, Due anni di applicazione della riforma del diritto di famiglia, Dir. famiglia 1979,
298 ss., in part. 385-386.
Perché, peraltro, la dichiarazione effettuata davanti al ministro di culto di volere aderire al regime di
separazione dei beni sia efficace, è necessario che sia contenuta nell'atto di matrimonio trascritto (Trib. Salerno 4
agosto 2002, Giur. merito 2003, 652).
2. Segue: matrimonio religioso, dichiarazione di scelta del regime di separazione dei beni sul retro
dell'atto di matrimonio. Validità. — Connesso al problema esaminato al numero precedente è quello affrontato,
e risolto, da App. Cagliari 30 luglio 1980, Giur. it. 1981, I, 2, 721; Riv. not. 1982, II, 80: nella specie, in
particolare, la dichiarazione, con cui gli sposi avevano aderito al regime della separazione dei beni, era stata
apposta sul retro dell'atto di matrimonio, ma non sottoscritta da parte del sacerdote celebrante, né dai testimoni. La
Corte cagliaritana ha ritenuto valida la scelta osservando che la trascrivibilità dell'atto di matrimonio canonico è
subordinata al fatto che esso contenga le indicazioni di cui all'art. 9 legge matrimoniale, « mentre le altre
condizioni di forma sono, ovviamente, indifferenti per l'ordinamento italiano ». « Ciò comporta — hanno
osservato quei giudici — che le eventuali postille non possono essere disciplinate dalla legge italiana e, in
particolare, dalla legge notarile, la quale le regola in modo espresso. E poiché neppure le norme canoniche
contengono una disciplina ad hoc… in base al principio della libertà delle forme deve attribuirsi efficacia alle
postille, ogniqualvolta sia chiaramente desumibile che la postilla faccia parte integrante dell'atto e sia stata apposta
al momento della formazione di questo ».
In dottrina, in margine a tale pronuncia, ZUDDAS, Considerazioni intorno alla forma della dichiarazione di
scelta del regime di separazione dei beni nel matrimonio concordatario, Giur. it. 1981, I, 2, 721, che aderisce alle
conclusioni, ultime, cui la stessa perviene ma che osserva come le stesse potevano essere raggiunte anche in forza
di un iter argomentativo parzialmente diverso, nonché M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., 732733, in nota.
3. Sottoscrizione da parte dei coniugi di entrambi gli originali dell'atto di matrimonio concordatario, in
uno solo dei quali sia presente la dichiarazione di scelta del regime della separazione dei beni. Conseguenze.
— La previsione normativa della formazione di un doppio originale dell'atto di matrimonio concordatario non
configura la fattispecie giuridica dell'atto complesso, ma è dovuta soltanto alla necessità che i coniugi ribadiscano
la propria volontà di attribuire, mediante la sottoscrizione dell'originale da trasmettere all'ufficiale dello stato
civile, effetti civili al matrimonio celebrato secondo il rito religioso.
Ne consegue — si è precisato da parte di un giudice di merito — che, se i coniugi sottoscrivono entrambi gli
originali dell'atto, in uno solo dei quali sia presente la dichiarazione di scelta del regime della separazione dei
beni, non può dubitarsi che essi abbiano validamente manifestato la loro volontà in tal senso, per cui alla
mancanza nell'originale trasmesso all'ufficiale dello stato civile della predetta dichiarazione può ben ovviarsi,
quindi, mediante la copia integrale dell'originale compilato dal celebrante ed inserito nei registri parrocchiali,
rilasciata dal parroco ed allegata all'istanza, congiunta, dei coniugi di annotazione a margine dell'atto di
matrimonio, annotazione cui l'ufficiale dello stato civile può senz'altro provvedere — con efficacia ex nunc, stante
la necessità di tutelare l'incolpevole affidamento del terzo — sulla base di tale copia, idonea peraltro ad attestare la
volontà dei coniugi in ordine al regime patrimoniale prescelto, come formatasi all'atto della celebrazione delle
nozze, senza che occorra, né sia invero possibile, una richiesta di rettificazione dell'atto di matrimonio, prevista
solo per la correzione di eventuali errori materiali e per l'eliminazione di omissioni dall'ufficiale dello stato civile
(Trib. Piacenza 16 giugno 1995, Dir. famiglia 1996, 186).
4. Matrimonio religioso non suscettibile di trascrizione o la cui trascrizione sia stata successivamente
annullata e... scelta del regime di separazione dei beni. — La dichiarazione dei coniugi, in ordine alla scelta del
regime patrimoniale, che può essere inserita nell'atto di matrimonio canonico, è collegata a quel matrimonio,
nell'ambito del quale essa viene effettuata, da un rapporto di accessorietà.
Ne segue, pertanto, che se la trascrizione non può avere luogo, o venga, successivamente, annullata (nella
specie, su richiesta del p.m., per essere i coniugi già uniti, tra di loro, con matrimonio civile) come non possono
essere riconosciuti effetti civili al matrimonio così è priva di effetti la dichiarazione in ordine alla separazione dei
beni, né una tale conclusione in qualche modo in contrasto con il principio costituzionale che riconosce al
cittadino cattolico di ottenere un trattamento in materia di libertà religiosa che operi sul terreno anche del diritto
patrimoniale (Cass. 19 giugno 2001 n. 8312, Giust. civ. 2002, I, 3201).
Sempre nello stesso senso la pronunzia di primo grado emessa in margine alla medesima vicenda, Trib.
L'Aquila 10 maggio 1995, Giust. civ. 1996, I, 3289 (con nota adesiva di PARENTE, Nullità della trascrizione del
matrimonio concordatario contratto da persona già legate tra loro da matrimonio civile), ove il rilievo, altresì,
che è manifestamente inammissibile in quanto trattasi di norma abrogata dall'art. 8 l. 25 marzo 1985 n. 121 la
questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, l. 27 maggio 1929 n. 847, che vieta la trascrizione nei registri
dello stato civile di un matrimonio canonico contratto da persone già coniugate civilmente.
5. Regime transitorio: indicazioni di dottrina. — In dottrina, sull'art. 228 l. 19 maggio 1975 n. 151, tra gli
altri: ACQUILECCHIA, Norme finali e transitorie, art. 228, comma 1, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi
notarili, cit., 123; ALLEGRETTI, Considerazioni sull'art. 228 l. 19 maggio 1975 n. 151, Mondo giudiz. 1977, 444;
ANDOLFI, Formulario per la vendita di autoveicoli redatto alla luce delle disposizioni contenute nella riforma del
diritto di famiglia, con particolare riguardo al diritto transitorio, Vita not. 1975, 1170; ANDRINI, Convegno alla
fondazione Cini sulla problematica interpretativa dell'art. 228 della l. 151-75, Notaro 1977, 119; ATLANTEGIACOBBE, Ancora l'art. 228 l. 19 maggio 1975 n. 151: nota breve sul primo comma, Riv. not. 1975, 1166;
BADINI, Note sull'attività notarile in relazione alla riforma del diritto in famiglia, Notaro 1975, 118, s., in part.
119; BIANCO, Osservazioni sul regime matrimoniale transitorio: il nesso tra il primo ed il secondo comma, ivi
1975, 143; BONIS, Diritto di famiglia. Le esenzioni fiscali di cui all'art. 228 della l. 19 maggio 1975 n. 151, Riv.
dir. ipot. 1977, 223; BRACCINI, Osservazioni sulla rilevanza tributaria dei doveri economici familiari, Dir. prat.
trib. 1977, I, 1225; CALÍ, La rinuncia all'assistenza dei testimoni nella dichiarazione ex art. 228, comma 1 della l.
19 maggio 1975 n. 151, Notaro 1976, 104; CARRUBBA, Art. 177 c.c. e art. 228 l. 19 maggio 1975 n. 151,
riflessioni e considerazioni, Rass. mens. imp. dir. 1977, 912; CORRADINI, La messa in comunione ex art. 228,
secondo comma, di alloggio cooperativo con contributo statale, Notaro 1977, 121; CORRADINI, La tassa
d'archivio sugli atti ex art. 228 l. n. 151 del 1975, ivi 1977, 119; COSCIA, Decorrenza della comunione legale dei
beni nelle disposizioni transitorie della legge di riforma familiare, Amm. it. 1977, 1171; DE PAOLA, MACRÍ, Il
nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., 345-353; ETTORRE, L'art. 228 e la pubblicità immobiliare, Notaro
1976, 76; M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Riforma del diritto di famiglia, cit., II, 2, 554-585; III,
1089-1114; FLORIO, Riforma del diritto di famiglia. Art. 228, comma 1 della l. 19 maggio 1975 n. 151, Amm. it.
1976, 1485; GABRIELLI, Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di CARRARO, OPPO, TRABUCCHI,
cit., II, 20-31; GABRIELLI, SAMPIETRO, Nuove leggi civili 1978, 257; GALLO ORSI, Riflessi dell'art. 228 della l. 19
maggio 1975 n. 151, Vita not. 1975, 1027; GALLO ORSI, Problemi tributari dell'art. 228, Il nuovo diritto di
famiglia, Contributi notarili, cit. 173; GAZZARA, Considerazioni sulla c.d. disciplina transitoria del regime
patrimoniale della famiglia, Riv. not. 1977, 468; GIFFONE, Brevi considerazioni sull'art. 228 della l. 19 maggio
1975 n. 151, Notaro 1975, 135; LANTERI, Disposizioni transitorie in tema di rapporti patrimoniali tra coniugi, La
riforma del diritto di famiglia ad un anno della sua applicazione, II, cit., 104; MAZZARELLI, La comunione dei
beni e le imposte sui redditi: regime ordinario e transitorio, con particolare riguardo ai problemi dell'azienda
coniugale, Famiglia: comunione e separazione, cit., II, 215; METITIERI, L'art. 228 della l. 19 maggio 1975 n. 151,
Notaro 1976, 77; METITIERI, L'art. 228 della l. 19 maggio 1975 n. 151, un anno dopo, Riv. not. 1976, 1423;
MISEROCCHI, Problemi interpretativi dell'art. 228 della l. n. 151 del 1975, Famiglia: comunione e separazione,
cit., I, 151; MISEROCCHI, Nuove leggi civili, 1978, 262; PALLARONI, La norma transitoria di esenzione da imposte
sui trasferimenti per le famiglie già costituite, possibili riflessi futuri, Famiglia: comunione e separazione, cit., I,
180; ROZ, La nota del ministero delle finanze e l'art. 228 l. n. 151, Notaro 1977, 112; SAYA, Intervento sul regime
transitorio, Notaro 1976, 9; SANLEY, L'art. 228, e la tassa d'archivio, ivi 1976, 80; SORVILLO, La disciplina
dell'Invim in occasione di trasferimenti di beni compiuti nella comunione tra coniugi, Comm. trib. centr. 1976, II,
913; TAMBURRINO, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia italiano, cit., 265-266; TROMBETTA, La messa in
comunione in regime transitorio, art. 228 comma 2, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili, cit., 135;
ZICHICHI, La comunione prevista dal comma 2 dell'art. 228 della l. 151. Formule e note, Notaro 1977, 17;
ZICHICHI, Il primo comma dell'art. 228 della l. n. 151, Formule e note, ivi 1976, 50; ZOPPIS, La comunione legale
dei beni coniugali e l'esenzione fiscale del periodo transitorio avente quale scadenza il 20 settembre 1977, Comm.
trib. centr. 1977, II, 705, nonché, FORMA, Dichiarazione di scelta prevista dall'art. 228, comma 1 della l. 19
maggio 1975 n. 151. Conseguenze della non recettività della scelta da parte dell'altro coniuge, Riv. dir. ipotec.
1978, 21.
6. Segue: dichiarazione di esclusione del regime legale rogata il 16 gennaio 1978: annotazione a
margine dell'atto di matrimonio. — L'art. 228, comma 1, l. 19 maggio 1975, concedeva termine, a quanti
fossero già uniti in matrimonio alla data di entrata in vigore della nuova disciplina, due anni (cioè sino al 20
settembre 1977) per poter derogare al regime legale (in favore di quello della separazione dei beni) a mezzo di
dichiarazione unilaterale, del singolo coniuge, resa ad un notaio o all'ufficiale dello stato civile del luogo in cui era
stato celebrato il matrimonio.
Tale termine venne, successivamente, prorogato, con d.l. 9 settembre 1977 n. 668 (convertito, con
modificazioni, con l. 31 ottobre 1977 n. 804) sino al 15 gennaio 1978.
Poiché tale ultima data cadeva di domenica è subito sorta questione, in giurisprudenza, se fosse, o meno,
annotabile, a margine dell'atto di matrimonio, una dichiarazione, unilaterale, di scelta del regime di separazione,
resa da uno dei coniugi il 16 gennaio 1978.
In senso negativo si è espresso Trib. Napoli 25 febbraio 1978, con provvedimento inedito poi riformato da
App. Napoli 5 aprile 1978 (Vita not. 1978, 210), che ha osservato, tra l'altro, come costituisca principio generale
del nostro ordinamento la prorogabilità al successivo giorno non festivo del termine entro il quale un atto deve
essere compiuto a pena di decadenza ed ha ordinato, pertanto, all'ufficiale di stato civile competente, di annotare
la dichiarazione in questione.
Anche Trib. Cassino 14 settembre 1979, Notaro 1979, 85 ss. ha dato risposta positiva al quesito (ordinando
all'ufficiale di stato civile la richiesta annotazione) osservando che — giusta quanto ritenuto da Corte cost., 15
giugno 1960 n. 39 — la prorogabilità al giorno successivo non festivo del termine entro il quale un atto deve
essere compiuto a pena di decadenza è un principio generale del nostro ordinamento giuridico che « vale anche
quando il termine finale è previsto dalla legge con riferimento ad una data prestabilita, essendo la conseguenziale
anomalia comunque sussistente per avere la legge stabilito come ultimo un giorno in realtà non utilizzabile in
quanto festivo ».
In dottrina, isolatamente nel senso che il termine de quo non fosse perentorio o, comunque, la sua
inosservanza non potesse essere rilevata d'ufficio, ma solo ad istanza di parte (id est dell'altro coniuge, trattandosi
di un termine di decadenza relativo a diritti non indisponibili), GABRIELLI, Commentario alla riforma del diritto
di famiglia, a cura di Carraro, Oppo, Trabucchi, cit., II, 25. Per una critica di tale conclusione, M. FINOCCHIARO,
in A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, cit., 2487-2488 in nota.
7. Segue: domanda di divorzio, anteriormente al 15 gennaio 1978: valida manifestazione di volontà ex
art. 228 comma 1 l. 19 maggio 1975 n. 151. — Se uno dei coniugi, nel biennio tra il 20 settembre 1975 ed il 15
gennaio 1978 ha proposto domanda di scioglimento del matrimonio, deducendo uno stato di separazione di fatto,
risalente ad almeno due anni prima dell'entrata in vigore della l. 1 dicembre 1970 n. 898, lo stesso — si è
osservato in sede di legittimità — ha ritualmente manifestato, a norma dell'art. 228, comma 1, l. 19 maggio 1975
n. 151, una volontà contraria all'instaurarsi, tra le parti, del regime di comunione legale, per i beni acquistati
successivamente al 20 settembre 1975 (Cass. 7 maggio 1987 n. 4235, Giust. civ. 1987, I, 2552; Foro it. 1987, I,
2051; Giur. it. 1988, I, 1, 1195).
In dottrina, in termini critici, in margine a tale affermazione, A. FINOCCHIARO, Art. 228 l. 19 maggio 1975 n.
151 e rifiuto implicito del regime di comunione, Giust. civ. 1987, I, 2560, che osserva, tra l'altro, come la norma
positiva (art. 228, comma 1, l. n. 151 del 1975) non riteneva che qualsiasi dichiarazione contraria al sorgere del
regime di comunione legale, purché portata a conoscenza dell'altro coniuge e annotata nei registri dello stato
civile, fosse idonea ad escludere il sorgere di tale regime, ma solo la « dichiarazione » avente i requisiti di forma
imposti dalla legge stessa. Sempre criticamente AMATO, Mutamento del regime patrimoniale della famiglia e
disciplina transitoria di cui all'art. 228, l. 19 maggio 1975 n. 151, Giur. it. 1988, I, 1, 1195. Adesivamente,
peraltro, in margine alla stessa pronuncia, CARUSO, Foro it. 1987, I, 2051, che, peraltro, pur evidenziando come la
soluzione adottata dalla S.C. è « fornita di adeguato supporto formale » ed « è certo soddisfacente da un punto di
vista equitativo », dall'altro non può tacere « resta però il sapore di un escamotage, inteso ad allargare le maglie di
un sistema che imponeva invece rigidamente, a chi volesse impedire l'attivarsi automatico del regime legale di
comunione, di dare veste giuridica al disastro coniugale ».
8. Segue: enunciazioni di inapplicabilità del regime legale in un contratto: irrilevanza. — Atteso che in
relazione alle famiglie già costituite alla data di entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151, l'esclusione del
regime della comunione legale, per i beni acquistati successivamente alla data predetta, postulava una specifica
dichiarazione negoziale che doveva risultare da apposito atto — da annotare a margine dell'atto di matrimonio —
ricevuto da notaio o dall'ufficiale di stato civile del luogo di celebrazione del matrimonio, si è affermato, in sede
di legittimità, che tale esclusione (del regime legale) non può derivare da una mera enunciazione di inapplicabilità
del nuovo regime contenuta in un contratto di compravendita, ancorché stipulato per atto notarile (Cass. 19
maggio 1988 n. 3483).
9. Segue: trascrivibilità (presso la conservatoria dei rr.ii.) della dichiarazione unilaterale di scelta del
regime di separazione dei beni. — Per l'art. 228 l. n. 151 del 1975, comma 3, gli atti ivi previsti (e, cioè, la
dichiarazione di rifiuto del regime legale, resa da quanti erano già uniti in matrimonio alla data di entrata in vigore
della nuova normativa entro il c.d. « biennio bianco » e le convenzioni per la « messa in comunione » di beni
acquistati anteriormente da costoro) « non possono essere opposti a terzi se non sono annotati a margine dell'atto
di matrimonio »: poiché l'art. 2647 (sub art. 206 l. n. 151 del 1975) dispone che « devono essere trascritti, se
hanno per oggetto beni immobili »… « le convenzioni matrimoniali che escludono i beni medesimi dalla
comunione tra i coniugi », è sorta questione, in dottrina e in giurisprudenza, se le dichiarazioni di cui al primo
comma del citato art. 228 siano, o meno, soggette a trascrizione.
In senso negativo si è pronunciato, al riguardo, Trib. Padova 18 novembre 1975 (Riv. dir. ipotec. 1976, 130,
con osservazione critica di CANTONE, e su cui altresì, sempre in senso critico, BONIS, Diritto di famiglia. Una
sentenza che non fa primavera, ibidem, 175) in senso positivo Trib. Palermo 28 luglio 1978, ivi 1979, 81, con
osservazione adesiva di CANTONE.
Nella fattispecie all'esame dei giudici palermitani si chiedeva la trascrizione della dichiarazione di esclusione
del regime legale (rogata il 12 gennaio 1978) in relazione ad un acquisto (immobiliare) eseguito da uno solo dei
coniugi il 21 dicembre 1976: il tribunale « ritenuto che, nel menzionare le convenzioni matrimoniali che
escludono beni immobili dalla comunione tra coniugi il legislatore ha voluto riferirsi, nell'art. 2647 …. non
soltanto alle convenzioni di separazione, ma anche alle dichiarazioni unilaterali o bilaterali di cui al primo comma
dell'art. 228 della legge di riforma del diritto di famiglia, che questa interpretazione estensiva della norma non è
preclusa dalla disposizione del terzo comma dell'art. 228 della legge …, perché uguale disposizione è contenuta
nell'art. 162 c.c. …., relativamente all'opponibilità a terzi di tutte le convenzioni matrimoniali, le quali devono
essere trascritte a norma dell'art. 2647 c.c. » ha ordinato la trascrizione.
In dottrina, in senso diverso, e, in particolare, per l'affermazione che « le convenzioni matrimoniali che
escludono … beni … dalla comunione tra coniugi » (e che ai sensi dell'art. 2647 devono essere trascritte nei R.I.)
« sono solo quelle con le quali i coniugi attuino un regime di comunione convenzionale, parzialmente derogativo
della comunione legale, e non già anche le convenzioni con le quali si opta per il regime della separazione », M.
FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, cit., II, 2439-2448. In quest'ultimo senso, altresì, tra
gli altri, DE PAOLA e MACRÍ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano 1978, 328 e 336-337;
GHIRETTI, Pubblicità degli atti che danno vita al regime di separazione dei beni, Notaro 1978, 30-31; L. FERRI,
Aggiornamento sulla base della legge di riforma del diritto di famiglia, Commentario del codice civile, a cura di
SCIALOJA e BRANCA, Bologna-Roma 1976, 85; ANDRINI, Ancora sulla pubblicità del regime patrimoniale tra
coniugi, Notaro 1978, 121. Contra (e, in particolare, nel senso che la convenzione di scelta del regime di
separazione deve essere trascritta al momento dell'acquisto di un bene immobile da parte di uno dei coniugi),
BONIS, La nuova disciplina della pubblicità immobiliare con la riforma del diritto di famiglia, Il nuovo diritto di
famiglia, Contributi notarili, cit., 301; MORELLO, Alcuni argomenti di pubblicità dopo la l. n. 151, ivi, 336;
MISEROCCHI, Riflessi sulla pubblicità immobiliare della riforma del diritto di famiglia, ivi 581; NOLI, Pronuncia
del presidente del tribunale di Palermo sulla pubblicità delle dichiarazioni ex art. 228, comma 1 della l. n. 151
del 1975, Notaro 1978, 94.
10. Segue: omessa dichiarazione di ripudio del regime di comunione, per i già coniugati al 20 settembre
1975. Conseguenze. — Per le famiglie già costituite alla data di entrata in vigore delle nuove norme (20
settembre 1975), ove entro il 15 gennaio 1978 nessuno dei coniugi, nelle forme che in precedenza si sono
esaminate, abbia manifestato « volontà contraria al regime di comunione », il regime legale è operativo con
decorrenza dal 20 settembre 1975.
Sono, cioè, oggetto di comunione non solo gli acquisti compiuti successivamente al 15 gennaio 1978, ma
anche quelli successivi al 20 settembre 1975 (Cass. 10 aprile 1979 n. 2045; Vita not. 1979, 1073), purché,
ovviamente, il coniuge che ne era esclusivo titolare non li abbia, medio tempore, alienati a terzi (Trib. Napoli 16
giugno 1979, Dir. giur. 1981, 680, con nota adesiva di DE RUBERTIS, Problemi di diritto transitorio in tema di
rapporti patrimoniali tra persone già coniugate all'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151), e sempre
che creditori del coniuge acquirente non abbiano già iniziato azioni esecutive alla data del 15 gennaio 1978 (Trib.
Napoli 16 giugno 1979, cit.).
Con riguardo a famiglia costituita prima della data di entrata in vigore della legge n. 151 del 1975, sulla
riforma del diritto di famiglia, e rispetto ai beni acquistati da uno dei coniugi dopo tale data e prima del termine
assegnato per l'espressione di una volontà contraria al regime di comunione legale (15 gennaio 1978), pertanto:
— a partire da detta scadenza, in mancanza di quella volontà contraria, si verifica ex nunc il regime di
comunione legale, senza che possa avere alcuna influenza, sul descritto regime, uno stato di separazione legale tra
coniugi ove lo stesso risulti superato da una riconciliazione intervenuta in epoca precedente alla scadenza
medesima (Cass. 23 febbraio 1993 n. 2221, Dir. famiglia 1993, 989; Giur. it. 1993, I, 1, 2084);
— i beni in questione, in particolare, sono caduti in comunione il 16 gennaio 1978 nello stato materiale e
giuridico in cui si trovavano (nella specie, nel 1976 il marito, fallito nel 1979, aveva acquistato un suolo, sul
quale, nel 1977, aveva costruito un edificio) (Cass. 25 luglio 1997 n. 6954, Foro it. 1998, I, 893; Fallimento 1998,
679 con nota di FIGONE; Dir. fall. 1998, II, 870 con nota di RAGUSA MAGGIORE).
Tale lettura del testo positivo, occorre avvertire, non era affatto pacifica, tra i primi interpreti della nuova
normativa. Da parte di alcuni, infatti, si osservava che dovevano considerarsi oggetto di comunione unicamente
gli acquisti, compiuti dai coniugi, successivamente al termine del c.d. « biennio bianco » (così, ad esempio,
BAGNOLI, Esame d'insieme della nuova normativa, Notaro 1975, 89) mentre altri opponevano che i beni
acquistati successivamente al 20 settembre 1975 cadevano immediatamente in comunione, salvo ad uscirne ove
uno dei coniugi avesse reso dichiarazione contraria alla volontà dell'instaurarsi del regime legale (così, tra gli altri,
ATLANTE, GIACOBBE, Ancora sull'art. 228 l. 19 maggio 1975 n. 151: nota breve sul comma 1, Riv. not. 1975,
1166 ss., in part. 1172). Diversamente, nel senso ora fatto proprio dalla S.C., tra gli altri, M. FINOCCHIARO, in A. e
M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, II, 556-566, e in precedenza, Id., Riforma del diritto di famiglia, II, 2, 556566 ove ampie indicazioni bibliografiche.
Occorre avvertire, peraltro che i beni acquistati dai coniugi in comunione ordinaria tra loro (artt. 1100 ss.)
prima della riforma del diritto di famiglia, dunque in regime legale di separazione dei beni, non entrano nella
comunione legale, ma restano in comunione ordinaria, qualora i coniugi non abbiano stipulato l'accordo previsto
dall'art. 228 comma 2 l. n. 151 del 1975 (Cass. 1 marzo 1991 n. 2183, Giur. it. 1992, I, 1, 295).
Con riguardo a preliminare di vendita stipulato da uno soltanto dei coniugi, la circostanza che il bene
promesso ricada nella comunione legale tra i coniugi, in base alla sopravvenienza della l. 19 maggio 1975 n. 151
ed ai sensi dell'art. 228 di tale legge, non implica la risoluzione del contratto, né la liberazione del promittente
venditore, il quale, pertanto, resta obbligato al trasferimento, ovvero, se questo non sia possibile, al risarcimento
del danno (Cass. 5 giugno 1992 n. 6954).
11. Segue: contratto di locazione stipulato prima dell'entrata in vigore della nuova legge da un solo
coniuge e rifiuto di rinnovazione alla scadenza. Onere a carico del locatore. Contenuto. — Gli acquisti che ai
sensi dell'art. 177 comma 1 lett. a) sono sottoposti al regime di comunione legale dei beni tra coniugi, pur se
derivanti da atti stipulati da uno solo di essi, sono soltanto quelli successivi all'entrata in vigore (20 settembre
1975) della riforma del diritto di famiglia e purché manchi la volontà contraria, prevista dall'art. 228 comma 1
della l. 19 maggio 1975 n. 151.
Pertanto il locatore che non intenda rinnovare alla scadenza un contratto stipulato prima della predetta legge
con un solo coniuge, non ha alcun onere di intimare la licenza per finita locazione all'altro coniuge, che rimane
estraneo al contratto e perciò alla fattispecie sono inapplicabili sia l'art. 180 comma 2 sia l'art. 184 (Cass. 15
novembre 1996 n. 10016).
12. Segue: art. 228, comma 2, l. n. 151 del 1975. Convenzione relativa: natura. — In forza dell'art. 228,
comma 2, l. 19 maggio 1975 n. 151, quanti erano già coniugati alla data di entrata in vigore delle nuove norme
potevano convenire, entro il 15 gennaio 1978 « che i beni acquistati anteriormente alla data indicata nel comma 1
siano assoggettati al regime della comunione, salvi i diritti dei terzi ».
Tale previsione — si è osservato da parte di un giudice di merito — integra un mero atto di adesione dei
coniugi al sopravveniente regime patrimoniale legale e, al più, una scelta di tale regime, nella parte in cui, con
riferimento ai beni già posseduti, ne estende retroattivamente l'operatività, ma non costituisce, affatto, una
convenzione patrimoniale, la quale, invece, ricorre ogni qualvolta i coniugi pongono in essere un accordo, di
natura sostantiva circa la futura regolamentazione dei rapporti patrimoniali, al di fuori o in termini diversi rispetto
ad un regime legalmente precostituito o, quantomeno, in modifica di un precedente accordo (Trib. Reggio Emilia
17 dicembre 1984, Riv. not. 1985, 440).
I coniugi che, a seguito dell'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151, abbiano convenzionalmente
esteso il regime di comunione, avvalendosi del disposto della norma transitoria di cui al comma 2 dell'art. 228
della medesima legge, ai beni dei quali avevano la proprietà individuale anteriormente al sopravvenuto
mutamento del regime patrimoniale della famiglia, rimangono, anche quando con la detta convenzione abbiano
manifestato contraria volontà, nella proprietà individuale di quei beni che, ai sensi dell'art. 179, sono personali e,
quindi esclusi dalla comunione legale cui esclusivamente si riferisce la succitata norma transitoria, senza che
possa farsi luogo, attesa la nullità della convenzione in parte qua, all'applicazione al suo riguardo del principio
della conservazione ex art. 1367 c.c. (Cass. 24 novembre 1992 n. 12531).
Regime transitorio: accordo per rendere comuni i beni personali anteriori al matrimonio. — I coniugi uniti in
matrimonio prima dell'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151, e che, con apposita convenzione, abbiano
deciso di ricomprendere nella comunione legale tutti i loro beni, ivi compresi quelli personali acquistati prima del
matrimonio, hanno stipulato un atto che è da ritenere estraneo alla fattispecie tipica prevista dall'art. 228, comma
2, della legge n. 151 del 1975, e che, tuttavia, è valido poiché manifesta la volontà di dare vita ad una comunione
convenzionale — istituto previsto dall'art. 210 c.c. (esercitando una facoltà che solo arbitrariamente avrebbe
potuto essere esclusa per le famiglie già costituite) (Cass. 28 agosto 2008 , n. 21786).
13. Conferimento in comunione di beni acquistati prima del matrimonio, ai sensi dell'art. 228, l. 19
maggio 1975 n. 151. Autonomia e facoltà delle parti. Limiti. — La disposizione dell'art. 228 comma 2 l. 19
maggio 1975 n. 151, consente che i coniugi assoggettino alla comunione legale soltanto alcuni dei beni da
ciascuno di essi acquisiti durante il matrimonio ed anteriormente alla data di entrata in vigore di detta legge (20
settembre 1975), in quanto la norma non prescrive in alcun modo che l'indicata convenzione tra i coniugi debba
essere universale, né l'obbligo che essa abbia ad oggetto tutti i predetti beni può desumersi dalle regole proprie
dell'istituto della comunione legale tra coniugi, le quali ammettono e presuppongono la validità di pattuizioni che
escludono taluni beni dalla comunione medesima (artt. 210 e 2647) (Cass. 18 maggio 1994 n. 4887, Giust. civ.
1995, I, 1621; Giur. it. 1995, I, 1, 1066: affermando tali principi, la S.C. ha confermato la decisione di merito, la
quale ha riconosciuto la validità dell'atto notarile con cui il marito aveva conferito in comunione legale solo alcuni
degli immobili da lui singolarmente acquistati prima dell'entrata in vigore della legge n. 151 del 1975).
In dottrina, in margine a tale pronunzia, adesivamente, S. CIAVATTONE, Convenzioni matrimoniali nel regime
transitorio, Giust. civ. 1995, I, 1624; in termini critici, R. DE MICHELI, Ambito di applicabilità della convenzione
ex art. 228, comma 2, della l. 19 maggio 1975 n. 151, Giur. it. 1995, I, 1, 1065.
Per una diversa lettura dell'art. 228, comma 2, l. 19 maggio 1975 n. 151 in contrasto con la giurisprudenza
anteriore Cass. 24 novembre 1992 n. 12531, Giust. civ. 1994, I, 239; Dir. famiglia 1993, 480 secondo cui è nulla,
per impossibilità dell'oggetto, la convenzione stipulata dai coniugi con la quale gli stessi, avvalendosi del disposto
di cui all'art. 228, comma 2, l. 19 maggio 1975 n. 151, abbiano convenzionalmente esteso il regime di comunione
ai beni acquistati anteriormente al loro matrimonio (con la conseguenza, pertanto, che ove i coniugi, a seguito
dell'entrata in vigore della legge n. 151 del 1975, abbiano convenzionalmente esteso il regime di comunione
legale, avvalendosi della norma transitoria di cui all'art. 228 comma 2 della medesima legge, ai beni dei quali
avevano la proprietà individuale anteriormente al sopravvenuto mutamento del regime patrimoniale della
famiglia, tali beni rimangono, anche quando con la predetta convenzione abbiano manifestato volontà contraria,
nella proprietà individuale dei singoli coniugi, qualora si tratti di beni personali ai sensi dell'art. 179, e, quindi,
esclusi dalla comunione legale cui esclusivamente si riferisce l'art. 228, senza che possa farsi luogo, attesa la
nullità della convenzione in parte qua, all'applicazione della regola della conservazione del negozio prevista
dall'art. 1367).
14. Segue: i benefici fiscali: spettanza, limiti. — Al conferimento in comunione convenzionale del bene
acquistato da uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ed all'entrata in vigore della l. n. 151 del 1975, poiché
il bene predetto non ricade nella comunione legale, non sono applicabili i benefici fiscali previsti dall'art. 228
comma 3 di tale legge, atteso che il regime transitorio della comunione legale non può essere difforme dal regime
definitivo, per cui l'agevolazione in questione, per la sottoposizione alla comunione dei beni acquistati prima
dell'entrata in vigore della legge può riguardare soltanto i beni che sarebbero oggetto di comunione secondo la
legge sopravvenuta; così restando pertanto esclusi dall'agevolazione i beni acquistati individualmente prima del
matrimonio (Cass. 13 luglio 1994 n. 6564, Rass. avv. Stato 1994, I, 559; Boll. trib. 1995, 470, con nota di G.
AIELLO, La comunione legale dei beni tra coniugi. Sempre nello stesso senso, Cass. 3 agosto 1994 n. 7206, Giust.
civ. 1994, I, 3076; Vita not. 1994, 641 con nota critica di M. FINOCCHIARO, Ancora una nuova interpretazione
dell'art. 228, secondo comma della legge 19 maggio 1975 n. 151, da parte della Cassazione; Dir. famiglia 1995,
132, nonché Boll. trib. 1995, 470, con la già ricordata nota di G. AIELLO).
Sempre in questo senso, ma in forza di un iter argomentativo parzialmente diverso in altra occasione la S.C.
ha affermato, altresì, che la disposizione dettata dal comma 2 dell'art. 228 della l. n. 151 del 1975 riguarda
unicamente il potere dei coniugi di mettere in comunione beni acquistati da uno solo di essi prima dell'entrata in
vigore della citata legge di riforma del diritto di famiglia, ma pur sempre in costanza di matrimonio.
Ne consegue che il conferimento in comunione convenzionale dell'acquisto effettuato da uno dei coniugi
anteriormente al matrimonio e prima dell'entrata in vigore della l. n. 151 del 1975, in quanto non rientra nella
comunione legale, non può godere dei benefici fiscali previsti dall'art. 228 comma 3 dello stesso provvedimento
normativo (Cass. 12 aprile 1996 n. 3481, Famiglia e diritto 1996, 473, non diversamente, Cass. 11 aprile 1996 n.
3430, Riv. giur. edilizia 1996, I, 757; Corr. trib. 1996, 2107).
Sempre con riguardo alle convenzioni, con le quali i coniugi, che hanno contratto matrimonio avanti il 20
settembre 1975, assoggettano a comunione convenzionale i beni da loro acquistati anteriormente al matrimonio,
gli stessi — come evidenziato — non possono godere dei benefici fiscali previsti dal comma 3 dell'art. 228 l. 19
maggio 1975 n. 151, posto anche che la disposizione dettata nel precedente comma 2 ha per unico oggetto la
disciplina del potere dei coniugi di mettere in comunione legale i soli beni acquistati da uno solo di essi prima
dell'entrata in vigore della legge di riforma del diritto di famiglia, ma pur sempre in costanza di matrimonio
(Cass., sez. un., 18 febbraio 1999 n. 77, Giust. civ. 1999, I, 963; Famiglia e diritto 1999, 221, con nota
informativa di R. CARAVAGLIOS, Rapporti patrimoniali tra coniugi. Beni acquistati anteriormente l'entrata in
vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151).
Sempre in margine all'art. 228, comma 2, l. 19 maggio 1975 n. 151, in altra occasione, la S.C. — sempre
nello stesso ordine di idee della pronunzia sopra richiamata — ha affermato, altresì, che le convenzioni in
questione, da stipularsi entro il termine del 15 gennaio 1978, potevano avere ad oggetto soltanto beni post nuziali,
cioè i soli beni acquistati dai coniugi prima dell'entrata in vigore della l. n. 151 del 1975, ma pur sempre in
costanza di matrimonio, con la conseguenza, pertanto, che qualora, per errore, un immobile, acquistato
anteriormente al matrimonio, fosse stato inserito nella convenzione, allo stesso non può comunque estendersi il
regime della comunione legale, e rimane, quindi, personale del singolo coniuge (Cass. 22 febbraio 2000 n. 1973).
In termini opposti la giurisprudenza della Commissione tributaria centrale.
Ad esempio, nel senso che l'art. 228 comma 3 della l. 19 maggio 1975 n. 151 non pone alcuna distinzione tra
i beni acquistati anteriormente al matrimonio e quelli acquistati in epoca successiva, pertanto il regime di
esenzione previsto per i conferimenti in comunione riguarda indistintamente tutti i beni conferiti purché acquistati
dai coniugi anteriormente alla data di entrata in vigore della legge medesima, Comm. trib. centr., sez. II, 15 marzo
1993 n. 1226, Riv. dir. trib. 1993, II, 620.
15. Segue: rettifica della convenzione: regime fiscale. — L'atto con il quale, a rettifica della convenzione di
assoggettamento dei beni al regime di comunione legale, stipulato ai sensi dell'art. 228, comma 2, l. 19 maggio
1975 n. 151, si esclude dalla comunione stessa un bene che ne era escluso a norma dell'art. 179 comma 1 lett. a),
perché acquisito da uno dei coniugi prima del matrimonio, è tassabile con l'imposta fissa di registro di cui all'art.
27 comma 2 d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 634 (Comm. trib. centr., sez. XXIII, 4 maggio 1992 n. 3222, Comm. trib.
centr. 1992, I, 324).
16. Segue: successiva alienazione di beni posti in comunione ai sensi dell'art. 228 l. 19 maggio 1975 n.
151: computo dell'Invim. — Come osservato sopra, sia la convenzione prevista dal comma 2, dell'art. 228, l. n.
151 del 1975, sia la dichiarazione unilaterale di cui al comma 1 dello stesso art. 228, sia « i trasferimenti eventuali
e conseguenti di diritti », connessi con l'attuazione delle facoltà concesse ai già coniugati alla data di entrata in
vigore della nuova disciplina dai commi 1 e 2 dell'art. 228, erano « esenti da imposte e tasse e gli onorari
professionali ad essi relativi » erano « ridotti alla metà » (l. 19 maggio 1975 n. 151, art. 228, comma 3).
Si è ritenuto, per l'effetto, in giurisprudenza, in applicazione di tale ultimo principio, che nella vendita di un
bene immobile, originariamente di proprietà di un coniuge e successivamente caduto in comunione legale per
effetto di convenzione ai sensi del citato comma 2 dell'art. 228 l. n. 151 del 1975, il valore iniziale, ai fini
dell'Invim, della quota acquistata dall'altro coniuge, va riferito alla data di stipulazione della convenzione (e non
alla data di acquisto del bene da parte del coniuge-originario proprietario esclusivo dello stesso) (Comm. trib. 1°
grado Macerata 20 febbraio 1980, Vita not. 1980, 946. Nello stesso senso, Comm. trib. prov.le Milano 16 maggio
1994, Foro it. 1995, III, 580).
Benché la dottrina fosse pressoché pacifica nel senso ora affermato dalla sopra ricordata decisione (per tutti
cfr. ERRICO, Cessioni ai sensi dell'art. 228. Rilevanza dell'Invim, Notaro 1975, 144; FINOCCHIARO M., Diritto di
famiglia, II, 2510 ss.; SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia,
Torino 1983, 42, ma contra, per tutti, FANTOZZI, Comunione dei beni dei coniugi e dichiarazione dei redditi, Riv.
not. 1977, 1051 ss., in part. 1052) deve evidenziarsi che tale conclusione era decisamente contrastata dal
Ministero delle finanze (Risoluzione 15 luglio 1976 n. 4/4515, Vita not. 1976, 972) sul rilievo che la convenzione
di cui al comma 2 dell'art. 228 cit., non fosse una convenzione matrimoniale, né un negozio giuridico, ma « un
mero atto giuridico cui la legge ricollega automaticamente l'effetto di rendere comuni i beni che ne sono oggetto
fin dal momento in cui essi, per la prima volta, sono entrati a far parte del patrimonio familiare » (con la
conseguenza, pertanto, che in caso di vendita, ai fini dell'accertamento del valore iniziale, occorre far riferimento
all'epoca dell'acquisto del cespite da parte del coniuge originario proprietario).
17. Automatica trasformazione in comunione legale di precedente comunione convenzionale:
esclusione. — Il passaggio dal vecchio al nuovo regime patrimoniale tra i coniugi (art. 228, l. n. 151 del 1975),
che individua nella comunione il sistema legale preferenziale, in assenza di un diverso regime convenzionale, non
prevede automatismi volti a modificare il regime dei beni acquistati prima della data del 15 gennaio 1978 (termine
così modificato dall'art. 1 del d.l. n. 688 del 1977), ma subordina alla concorde volontà delle parti il nuovo assetto.
Pertanto la precedente comunione convenzionale, che sussista tra i coniugi al riguardo di un bene, non si
trasforma in comunione legale, ma continua ad essere disciplinata dagli artt. 110 ss. ove non venga posta in essere
la convenzione prevista dall'art. 228 cit. e così manifestata una specifica volontà dei coniugi. (Nella specie è stata
esclusa, ai fini della proposizione della domanda di divisione di una comunione convenzionale instaurata prima
del 15 gennaio 1978, la necessità di una previa sentenza definitiva di separazione) (Cass. 1 marzo 1991 n. 2183,
Giust. civ. 1991, I, 1734).
18. Comunione degli utili e degli acquisti e morte di uno dei coniugi. — Vigendo, tra i coniugi, il regime
della comunione degli utili e degli acquisti nella specie: in forza di convenzione stipulata il 23 marzo 1920, sotto il
vigore del c.c. del 1865) — si è affermato da parte di un giudice di merito —, venuta a morte la moglie, non
sussiste, a carico del marito, né ex art. 216 (testo originario), né ex art. 184 e 192 (testo vigente) c.c., l'obbligo di
rendere il conto all'erede della defunta degli atti di amministrazione, anche straordinaria, compiuti in via esclusiva
in costanza di vita matrimoniale (Trib. Catania 29 marzo 1990, Giust. civ. 1990, I, 2159; Stato civ. it. 1991, 911).
19. La data di entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151. — Problema variamente risolto dalla
dottrina, e dalla giurisprudenza, sino alla l. 31 ottobre 1977 n. 804 (che ha convertito in legge il d.l. 9 settembre
1977 n. 688, concernente proroga del termine previsto dall'art. 228 della l. 19 maggio 1975 n. 151 e che ha
precisato, in sede di interpretazione autentica, che la l. n. 151 del 1975 è entrata in vigore il 20 settembre 1975)
riguardava la data stessa in cui la nuova normativa sul diritto di famiglia fosse entrata in vigore.
In particolare mentre Cass. 11 marzo 1976 n. 852 (Giust. civ. 1976, I, 1469) aveva precisato che la nuova
normativa era entrata in vigore il 28 settembre 1975, Trib. Bergamo 2 ottobre 1975 (Giust. civ. 1976, I, 141)
aveva fissato tale data nel 20 settembre 1975.
In dottrina, nel senso che la nuova normativa sia entrata in vigore il 20 settembre 1975, tra gli altri:
ANDRIOLI, Foro it. 1975, V, 158; GABRIELLI, Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di
CARRARO, OPPO, TRABUCCHI, cit., II, 55; METITIERI, La data dell'entrata in vigore della l. n. 151, Notaro 1976,
77-78; SCHLESINGER, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., 71. Diversamente, per l'affermazione che la
legge de qua, era entrata in vigore 120 giorni dopo la sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, avvenuto il 23
maggio 1975, e, quindi, il 21 settembre 1975, tra gli altri: ACQUADERNI, VIGNOZZI, BONOLI, CANDITO, FERIOLI,
IOSA, MONTANARI, NICOLETTI, L'applicazione pratica delle nuove norme sul diritto di famiglia da parte dei
notai, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili, cit., 185 ss., in part. 186; DE FELICE, La data di entrata in
vigore della l. n. 151-75, Notaro 1976, 86-87; M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Riforma del diritto di
famiglia, cit., II, 2, 594; SAJA, Intervento sul regime transitorio, Notaro 1976, 9.
Art. 163.
Modifica delle convenzioni.
Le modifiche delle convenzioni matrimoniali, anteriori o successive al matrimonio, non hanno
effetto se l'atto pubblico non è stipulato col consenso di tutte le persone che sono state parti nelle
convenzioni medesime, o dei loro eredi.
Se uno dei coniugi muore dopo aver consentito con atto pubblico alla modifica delle convenzioni,
questa produce i suoi effetti se le altre parti esprimono anche successivamente il loro consenso, salva
l'omologazione del giudice. L'omologazione può essere chiesta da tutte le persone che hanno
partecipato alla modificazione delle convenzioni o dai loro eredi.
Le modifiche convenute e la sentenza di omologazione hanno effetto rispetto ai terzi solo se ne è
fatta annotazione in margine all'atto del matrimonio.
L'annotazione deve inoltre essere fatta a margine della trascrizione delle convenzioni matrimoniali
ove questa sia richiesta a norma degli articoli 2643 e seguenti.
Bibliografia: Sul nuovo art. 163, in dottrina: ATTARDI, Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di CARRARO, OPPO,
TRABUCCHI, cit., I, 2, 955 (per gli aspetti processuali della norma); BELLANTONI e PONTORIERI, La riforma del diritto di famiglia, cit.,
106-107; DE PAOLA e MACRÍ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., 66-68; M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO,
Diritto di famiglia, cit., I, 770-777; MAZZOCCA, I rapporti patrimoniali tra coniugi nel nuovo diritto di famiglia, cit., 38-39; SACCO,
Commentario alla riforma del diritto di famiglia, cit., I, 1, 337-338; TAMBURRINO, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia italiano,
cit., 214; SACCO, Commentario di diritto italiano della famiglia, cit., 36-37; CORSI, La modificazione delle convenzioni matrimoniali,
Riv. not. 1980; MARMOCCHI, Modifica delle convenzioni matrimoniali, Riv. not. 1981, I; SACCO, sub art. 163 c.c., Comm. Cian, Oppo,
Trabucchi, III, Padova, 1992; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 159-230,
Bologna-Roma, 2003; RUSSO, Le convenzioni matrimoniali, Comm. Schlesinger, Milano, 2004; CARNEVALI, Le convenzioni
matrimoniali, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, 2ª ed., Torino, 2007.
Sommario: 1. Individuazione delle convenzioni modificative. — 2. Modificabilità delle convenzioni matrimoniali e « fondo
patrimoniale ».
1. Individuazione delle convenzioni modificative. - La modifica di convenzione matrimoniale, giacché
costituisce essa stessa una nuova convenzione, è assoggettata alle stesse regole previste dall'art. 162 c.c.
La Corte di Cassazione ha escluso che integri una convenzione modificativa di convenzione matrimoniale
quella con cui i coniugi procedono alla divisione dei beni comuni (o di un singolo bene), sia che questa avvenga
mediante l'attribuzione ad uno dei coniugi dell'intero bene e all'altro dell'equivalente pecuniario del valore della
quota, sia che si proceda alla liquidazione del valore del cespite con alienazione a terzi e conseguente
distribuzione del ricavato pro quota. Ne ha fatto conseguire che la divisione non è soggetta alla forma, solenne,
dell'atto pubblico indispensabile per la stipulazione di « convenzioni matrimoniali » (Cass. 11 novembre 1996, n.
9846, nonché Cass. 28 novembre 1996, n. 10586, Foro it. 1997, I, 95, che ha escluso, altresì, l'applicabilità, nella
specie, dell'art. 191, comma 2, relativo all'ipotesi di estromissione del cespite azienda da un regime di comunione
in atto).
Sarebbe, invece, convenzione modificativa, l'atto con il quale i coniugi trasformano un patrimonio familiare
in fondo patrimoniale (Trib. Napoli 13 maggio 1996).
2. Modificabilità delle convenzioni matrimoniali e « fondo patrimoniale ». — La regola generale che
prevede la modificabilità delle convenzioni matrimoniali è applicabile al fondo patrimoniale (Trib. Vicenza 10
giugno 1985, Riv. not. 1985, 1200).
Art. 164.
Simulazione delle convenzioni matrimoniali.
È consentita ai terzi la prova della simulazione delle convenzioni matrimoniali.
Le controdichiarazioni scritte possono aver effetto nei confronti di coloro tra i quali sono
intervenute, solo se fatte con la presenza ed il simultaneo consenso di tutte le persone che sono state
parti nelle convenzioni matrimoniali.
Bibliografia: BELLANTONI e PONTORIERI, op. cit., 109-111; FINOCCHIARO M., op. cit., I, 778-783; MAZZOCCA, op. cit., 42-44;
SACCO, op. cit., I, 1, 340; TAMBURRINO, op. cit., 216; SACCO, Commentario al diritto italiano della famiglia, cit., III, 38-39; MILAN,
La simulazione nel nuovo diritto di famiglia (art. 18-art. 45 l. 19 maggio 1975 n. 151), Bologna 1978, 141-159; PEREGO, I terzi e la
simulazione delle convenzioni matrimoniali, Giur. it. 1981, IV; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja,
Branca, sub artt. 159-230, Bologna-Roma, 2003; RUSSO, Le convenzioni matrimoniali, Comm. Schlesinger, Milano, 2004.
Art. 165.
Capacità del minore.
Il minore ammesso a contrarre matrimonio è pure capace di prestare il consenso per tutte le
relative convenzioni matrimoniali, le quali sono valide se egli è assistito dai genitori esercenti la
potestà su di lui o dal tutore o dal curatore speciale nominato a norma dell'articolo 90.
Bibliografia: BELLANTONI e PONTORIERI, op. cit., 112; DE PAOLA e MACRÍ, op. cit., 31; DE RUBERTIS, Le convenzioni matrimoniali
in generale, Vita not. 1975, 933 ss., in part. 943-946; M. FINOCCHIARO, op. cit., I, 783-787; INTERSIMONE, PARMEGIANI, La tutela dei
terzi, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili, cit., 216; SACCO, op. cit., III, 40; D'ANTONIO, Convenzioni matrimoniali,
donazioni e capacità del minore nel disposto dell'art. 165 c.c., RDC, 1989; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema
del diritto privato, 2ª ed., Milano, 2002; Id., Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, Milano, 1995; GALASSO, Del regime
patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 159-230, Bologna-Roma, 2003; RUSSO, Le convenzioni matrimoniali,
Comm. Schlesinger, Milano, 2004; SACCO, sub art. 165 c.c., Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; VITALI, Delle persone
e della famiglia, Commentario, Milano, 1990.
Art. 166.
Capacità dell'inabilitato.
Per la validità delle stipulazioni e delle donazioni, fatte nel contratto di matrimonio dall'inabilitato
o da colui contro il quale è stato promosso giudizio di inabilitazione, è necessaria l'assistenza del
curatore già nominato. Se questi non è stato ancora nominato, si provvede alla nomina di un curatore
speciale.
Bibliografia: GABRIELLI, Infermità mentale e rapporti patrimoniali familiari, Riv. dir. civ. 1986; GALASSO, Del regime patrimoniale
della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 159-230, Bologna-Roma, 2003; RUSSO, Le convenzioni matrimoniali, Comm.
Schlesinger, Milano, 2004.
Art. 166-bis.
Divieto di costituzione di dote.
È nulla ogni convenzione che comunque tenda alla costituzione di beni in dote.
Legge 19 maggio 1975 n. 151. — Riforma del diritto di famiglia.
Art. 227.
Le doti e i patrimoni familiari costituiti prima dell'entrata in vigore della presente legge continuano
ad essere disciplinati dalle norme anteriori.
Bibliografia: AVANZINI, Forma e modificazioni delle convenzioni matrimoniali, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili, cit.,
572; BELLANTONI e PONTORIERI, La riforma del diritto di famiglia, cit., 114; DE PAOLA e MACRÍ, Il nuovo regime patrimoniale della
famiglia, cit., 40 e 231; M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, I, cit., 787-795; FRAGALI, La comunione,
Appendice di aggiornamento, cit., 27; MACRÍ, Fondo patrimoniale, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili, cit., 75;
MAZZOCCA, I rapporti patrimoniali tra coniugi nel nuovo diritto di famiglia, cit., 57; NELLI, Introduzione alla problematica negoziale
del nuovo diritto di famiglia, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili, cit., 572; PINO, Il diritto di famiglia, cit., 128; SACCO,
Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di CARRARO, OPPO, TRABUCCHI, cit., III, 41-42; TAMBURRINO, Lineamenti del
nuovo diritto di famiglia italiano, cit., 208, in nota; AVANZINI, Forma e modificazione delle convenzioni matrimoniali. il nuovo diritto
di famiglia, Milano, 1975; TRIMARCHI, Istituzioni di diritto privato italiano, Milano 1977, 812; Id., L'autonomia privata nella
stipulazione delle convenzioni matrimoniali, Le convenzioni matrimoniali e altri saggi sul diritto di famiglia, Milano, 1983;
MOSCARINI, Convenzioni matrimoniali in generale, La comunione legale, a cura di Bianca, II, Milano, 1989; SACCO, sub art. 166 bis,
Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; MORELLI, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1996; GALASSO,
Del regime patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 159-230, Bologna-Roma, 2003; FORTINO, Diritto di
famiglia. I valori, i princìpi, le regole, 2ª ed., Milano, 2004; RUSSO, Le convenzioni matrimoniali, Comm. Schlesinger, Milano, 2004;
SESTA, Diritto di famiglia, 2ª ed., Padova, 2005.
Sommario: 1. Doti e patrimoni familiari costituiti prima dell'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151: validità. — 2. Doti
costituite prima dell'entrata in vigore della l. n. 151 del 1975. Omessa espressa previsione del trasferimento della proprietà al marito.
Accertamento della esatta consistenza della data conferita alla propria madre. — 3. Mutamento del regime « dotale » in regime di «
comunione legale ». — 4. Costituzione di dote mediante attribuzione liberale da parte di un terzo. Natura di donazione obnuziale
suscettibile di riduzione. — 5. Trasformazione in « fondo patrimoniale » di un « patrimonio familiare » costituito anteriormente
all'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151. I vari indirizzi giurisprudenziali. — 6. Opponibilità, ai terzi, di comunione degli
utili e degli acquisti, costituita prima della riforma del diritto di famiglia. — 7. Risoluzione consensuale del regime di « patrimonio
familiare ». — 8. Regime della comunione degli utili, degli acquisti e dei risparmi. Poteri del marito.
1. Doti e patrimoni familiari costituiti prima dell'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151:
validità. — L'art. 166-bis (sub art. 47, l. 19 maggio 1975 n. 151) dispone che « è nulla ogni convenzione che
comunque tenda alla costituzione di beni in dote », in virtù dell'art. 227 della l. 19 maggio 1975 n. 151, ancora, le
doti e i patrimoni familiari costituiti prima dell'entrata in vigore di tale legge continuano ad essere disciplinati
dalle norme anteriori. Pertanto, la nullità sancita dall'art. 166-bis non si estende alle costituzioni di dote anteriori
alla stessa legge (con l'ulteriore conseguenza, altresì, che permane per i beni che ne formarono oggetto,
l'impignorabilità già prevista dalla pregressa normativa) (Cass. 20 dicembre 1985 n. 6557, Dir. famiglia 1986,
486).
In tema di dote, in particolare, la nullità di ogni convenzione che comunque tenda alla costituzione di beni in
dote, sancita dall'art. 166 bis c.c., introdotto dall'art. 47 l. 19 maggio 1975 n. 151 (sulla riforma del diritto di
famiglia), opera ex nunc, non ex tunc, come è dato desumere dall'art. 227 della stessa legge di riforma, per il quale
le doti (e i patrimoni familiari) costituiti prima della entrata in vigore della legge (21 settembre 1975) continuano
ad essere disciplinati dalle norme anteriori (art. 187 ss. nella originaria formulazione) (Cass. 5 luglio 2000 n.
8952, Famiglia e diritto 2000, 624).
2. Doti costituite prima dell'entrata in vigore della l. n. 151 del 1975. Omessa espressa previsione del
trasferimento della proprietà al marito. Accertamento della esatta consistenza della data conferita alla
propria madre. — Secondo il testo originario dell'art. 182, comma 2, (poi sostituito dalla l. 19 maggio 1975 n.
151), riferito alla dote in danaro, in beni mobili o immobili stimati, se erano costituiti in dote beni immobili
stimati, ma non vi era espressa dichiarazione, che attribuisse la proprietà al marito, nei confronti di detti beni la
costituzione in dote non poteva considerarsi sufficiente ad operarne il trasferimento, con la conseguenza che gli
stessi non diventavano di proprietà del marito e rimanevano nella titolarità della moglie (Cass. 1 marzo 2007, n.
4866, che ha enunciato il riportato principio per ritenere che, in difetto di prova, nelle forme prescritte, del
trasferimento della proprietà in capo al marito dei beni immobili dotali, la moglie, in quanto rimasta proprietaria,
si sarebbe dovuta considerare legittimata a resistere con riguardo ad un'azione reale per la riduzione in pristino di
una situazione dei luoghi modificata in virtù dell'illegittima edificazione di una sua costruzione e dell'intervenuta
deviazione illecita del contiguo corso di un canale).
Sempre con riguardo a dote costituita prima dell'entrata in vigore della legge 19 maggio 1975, n. 151, si è
precisato, in sede di legittimità, che l'interesse ad agire con un'azione di mero accertamento non implica
necessariamente l'attuale verificarsi della lesione d'un diritto o una contestazione, essendo sufficiente uno stato di
incertezza oggettiva sull'esistenza di un rapporto giuridico o sull'esatta portata dei diritti e degli obblighi da esso
scaturenti, costituendo la rimozione di tale incertezza un risultato utile, giuridicamente rilevante e non
conseguibile se con l'intervento del giudice. (Cass. 26 maggio 2008, n. 13556, che — in applicazione del riferito
principio — ha ritenuto carente l'interesse ad agire del coerede in ordine alla domanda di accertamento dell'esatta
consistenza della dote conferita, all'atto del matrimonio, dalla propria madre, non essendo configurabile, nel caso
di specie, un diritto alla restituzione dei beni dotali per omesso esercizio del diritto alla restituzione dopo la morte
del coniuge).
3. Mutamento del regime « dotale » in regime di « comunione legale ». — Trib. Taranto 17 dicembre
1976, Notaro 1977, 118, ha autorizzato una coppia di coniugi, con l'intervento del donante, a mutare « le
convenzioni matrimoniali dal regime dotale al regime della comunione, estendendo quest'ultimo a tutti i beni già
di proprietà esclusiva o assoggettati al regime dotale ».
In dottrina, criticamente, su tale provvedimento, FINOCCHIARO M., op. cit., I, 791 ss., nonché VINCI,
SANTARCANGELO, Convertibilità di beni dotali di comunione convenzionale, Notaro 1977, 118. Nello stesso
senso, invece, SCAVO, Beni dotali e disposizioni transitorie, Dir. eccl. 1976, I, 126.
Diversamente, rispetto alla pronuncia ricordata sopra, sempre in sede di merito in altra occasione si è
osservato che l'art. 227 della l. n. 151 del 1975, nello stabilire che le doti già costituite continuano ad essere
disciplinate dalle norme anteriori, fa riferimento, disponendone l'ultrattività, all'intero complesso di norme che
integravano il regime giuridico proprio dei beni dotali, ivi compresa quella, essenziale, sulla irrevocabilità ed
immutabilità del vincolo in pendenza di matrimonio. Né la permanenza del regime di immodificabilità della dote,
pur dopo la riforma del diritto di famiglia di cui alla citata l. n. 151, può considerarsi in contrasto con i principi
contenuti negli artt. 3 e 29 Cost., poiché tale permanenza non crea alcuna disuguaglianza nei riguardi della donna,
né diminuisce la sua dignità sociale, né, tanto meno, lede l'uguaglianza giuridica e morale dei coniugi (App.
Torino 16 luglio 1990, Dir. Famiglia 1991, 180).
4. Costituzione di dote mediante attribuzione liberale da parte di un terzo. Natura di donazione
obnuziale suscettibile di riduzione. - Una corte di merito, dopo aver premesso che non si può disconoscere la
validità della donazione dotale stante l'ultrattività dell'art. 184 c.c. (nel testo anteriore alla riforma del diritto di
famiglia), sancita espressamente dall'art. 227 della Legge 19.5.71 n. 151, secondo cui le doti costituite
anteriormente alla riforma del diritto di famiglia del 1975 continuano a essere disciplinate dalle norme anteriori,
ha aggiunto che, tuttavia, una tale condivisibile affermazione non comporta come necessario corollario l'assoluta
intangibilità della donazione, che è inefficace nella misura in cui lede la quota di riserva.
Ed infatti, la costituzione di dote mediante attribuzione liberale da parte di un terzo nei rapporti tra dotante e
dotata ha natura di donazione obnuziale suscettibile come tale di riduzione ex art. 553 c.c., in quanto essa deve
ritenersi sorretta dall'animus donandi, funzionando il matrimonio ed il fine di sovvenire ai relativi pesi solo da
occasione o da motivo, ancorché essenziale (Trib. Bari 11 marzo 2010. Cfr. Cass. 28 novembre 1981, n. 6345).
5. Trasformazione in « fondo patrimoniale » di un « patrimonio familiare » costituito anteriormente
all'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151. I vari indirizzi giurisprudenziali. — Trib. Roma 22
giugno 1977, Vita not. 1977, 481 (con osservazione di S. SANTANGELO) ha autorizzato la vendita di beni già
costituiti in patrimonio familiare ed ha disposto che la somma ricavata fosse impiegata nell'acquisto di altro bene
cui trasferire « il vincolo di fondo patrimoniale ».
Sempre nella stessa ottica, in altra occasione si è ritenuto — da parte di altro giudice di merito — che è
ammissibile la trasformazione in « fondo patrimoniale » di « patrimonio familiare », con facoltà per i coniugi di
procedere all'alienazione dei beni relativi senza autorizzazione del tribunale, compiendo gli adempimenti a ciò
finalizzati, comunque necessari (Trib. Genova 3 febbraio 1989, Dir. famiglia 1991, 580 con nota di M.
MIGLIETTA, La trasformazione del patrimonio familiare in fondo patrimoniale).
Nello stesso ordine di idee in altra occasione si è eivdenziato, altresì, che il termine « alienazione », di cui
all'art. 170, vecchio testo, c.c., interpretato alla luce del nuovo sistema, e, segnatamente, degli artt. 162 e 163 c.c.,
è idoneo a ricomprendere anche le ipotesi di modifica delle convenzioni matrimoniali: pertanto, è ammissibile la
trasformazione in fondo patrimoniale di un patrimonio familiare (Trib. Napoli 13 maggio 1996, Famiglia e diritto
1996, 450 con nota adesiva di F. DE CRISTOFARO, Trasformazione del patrimonio familiare in fondo
patrimoniale).
In termini diversi cfr. Trib. Catania 12 dicembre 1990, Dir. famiglia 1991, 1013: ai sensi della normativa
anteriore alla novella n. 151 del 1975, tuttora applicabili alle doti ed ai patrimoni familiari costituiti prima che la
legge di riforma entrasse in vigore, non è consentito ai coniugi di risolvere consensualmente il regime di
patrimonio familiare.
Sempre con riguardo a « patrimonio familiare » costituito in epoca anteriore all'entrata in vigore della l. 19
maggio 1975 n. 151, App. Reggio Calabria 11 aprile 1991, Dir. famiglia 1991, 872 che ha ritenuto non
manifestamente infondata — con riguardo all'art. 29 Cost. ed al principio di ragionevolezza — la questione di
legittimità costituzionale degli artt. 227 l. n. 151 del 1975 e 167, comma 2, 170 e 175 (vecchia formulazione),
nella parte in cui prescrivono l'indisponibilità dei beni costituiti in patrimonio familiare fino allo scioglimento del
matrimonio, a prescindere da ogni valutazione in ordine alla rispondenza effettiva del vincolo predetto ai bisogni
reali della famiglia e nonostante la mancanza di figli minori. [Questione dichiarata inammissibile da Corte cost. 24
gennaio 1992 n. 18, sub art. 169, n. 2].
6. Opponibilità, ai terzi, di comunione degli utili e degli acquisti, costituita prima della riforma del
diritto di famiglia. — L'opponibilità ai terzi della comunione degli utili e degli acquisti, costituita prima della
riforma del diritto di famiglia (l. 19 maggio 1975 n. 151), è condizionata soltanto all'annotazione a margine
dell'atto di matrimonio, prevista dall'art. 162, per le convenzioni matrimoniali, senza che sia richiesta la
trascrizione della relativa convenzione a norma dell'art. 2647, atteso che l'art. 227 della l. n. 151 del 1975 non ha
previsto l'ultrattività delle precedenti norme per tale comunione, come invece ha disposto per le doti e i patrimoni
familiari (Cass. 15 marzo 1990 n. 2104).
Con riguardo all'acquisto di un bene immobile, effettuato da uno dei coniugi, a suo nome, prima della riforma
del diritto di famiglia introdotta dalla l. 19 maggio 1975 n. 151, — si è, ancora affermato — il diritto di
comproprietà dell'altro coniuge, per quota uguale, può essere riconosciuto qualora risulti la ricorrenza di una
comunione universale dei beni, secondo la previsione degli allora vigenti artt. 215-230, tenuto conto che la
costituzione di tale comuione, riconducibile anche ad un'intesa tacita dei coniugi medesimi, implica ipso iure la
caduta in comproprietà dei successivi acquisti effettuati dal singolo compartecipante, con la sola esclusione di
quelli espressamente contemplati dall'art. 217 (vecchio testo) c.c. (Cass. 4 luglio 1985 n. 4031).
Sul regime giuridico dei beni costituiti in comunione degli utili e degli acquisti in forza della precedente
disciplina, in dottrina, GABRIELLI, Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di CARRARO, OPPO,
TRABUCCHI, cit., II, 19-20, nonché CARUSO, Sorte dei beni facenti parte della vecchia comunione degli utili e
degli acquisti, Notaro 1979, 75.
7. Risoluzione consensuale del regime di « patrimonio familiare ». — Ai sensi della normativa anteriore
alla Novella n. 151 del 1975, tuttora applicabile alle doti ed ai patrimoni familiari costituiti prima che la legge di
riforma entrasse in vigore, non è consentito ai coniugi di risolvere consensualmente il regime di patrimonio
familiare (Trib. Catania 12 dicembre 1990, Dir. famiglia 1991, 1013).
8. Regime della comunione degli utili, degli acquisti e dei risparmi. Poteri del marito. — Qualora,
anteriormente all'entrata in vigore della legge di riforma 19 maggio 1975 n. 151, i coniugi, contraendo
matrimonio, abbiano adottato (oltre che il regime dotale per tutto quanto costituito alla sposa in dote) il regime
della comunione degli utili, degli acquisti e dei risparmi che gli sposi avrebbero potuto, unitamente o
separatamente, realizzare, senza peraltro modificare, a seguito della nuova normativa, l'assetto patrimoniale
concordato all'epoca delle nozze, il marito può, ai sensi dell'art. 220 (ora abrogato) c.c., compiere, senza il
consenso della moglie, atti di disposizione dei beni in comunione, purché a titolo oneroso (Trib. Catania 22
giugno 1992, Dir. famiglia 1993, 629).
Sul problema dell'applicabilità del nuovo art. 184 alle comunioni costituite anteriormente alla l. 19 maggio
1975 n. 151, v. infra, sub art. 184.
***
Art. 186.
Obblighi gravanti sui beni della comunione.
I beni della comunione rispondono:
a) di tutti i pesi ed oneri gravanti su di essi al momento dell'acquisto;
b) di tutti i carichi dell'amministrazione;
c) delle spese per il mantenimento della famiglia e per l'istruzione e l'educazione dei figli e di ogni
obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell'interesse della famiglia;
d) di ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi.
Bibliografia: OPPO, Responsabilità patrimoniale e nuovo diritto di famiglia, Riv. dir. civ. 1976, I; FALZEA, Il dovere di contribuzione
nel regime patrimoniale della famiglia, Riv. dir. civ. 1977; SCHLESINGER, sub art. 186, Comm. Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1,
Padova, 1977; CIAN, VILLANI, La comunione dei beni tra coniugi, Riv. dir. civ. 1980; RUSSO, "Bisogni" ed "interesse" della famiglia:
il problema delle obbligazioni familiari, Le convenzioni matrimoniali ed altri saggi sul nuovo diritto di famiglia, Milano, 1983; A.
FINOCCHIARO, M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984; GIONFRIDA DAINO, La posizione dei creditori nella comunione
legale tra coniugi, Padova, 1986; SCALFI, Incremento di azienda personale acquistata prima del matrimonio. Comunione dei beni.
Irresponsabilità del coniuge per circolazione di veicolo, RCP 1986; FILANTI, Obbligazioni contratte separatamente da un coniuge, La
comunione legale, a cura di Bianca, Milano, 1989; DEL GIUDICE, La fideiussione coniugale bancaria, La comunione legale, a cura di
Bianca, Milano, 1989; QUADRI, Obblighi gravanti sui beni della comunione, La comunione legale, a cura di Bianca, Milano, 1989;
QUADRI, Obblighi gravanti sui beni della comunione, La comunione legale, a cura di C.M. BIANCA, Milano 1989, II, 741-776;
BERNARDI, La responsabilità sussidiaria dei beni personali, ivi II, 777-793; GRASSO, Comunione legale e espropriazione della quota
del coniuge personalmente obbligato, ivi, II, 795-809; MASTROPAOLO, PITTER, sub art. 186, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III,
Padova, 1992; CATTANEO, Del regime di separazione dei beni, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; BOCCHINI, Rapporto
coniugale e circolazione dei beni, 2ª ed., Napoli, 1995; BARBIERA, La comunione legale, Tratt. Rescigno, 3, 2ª ed., Torino, 1996;
SESTA, Obbligazioni assunte da un coniuge nel nome dell'altro, FD, 1996; GABRIELLI, Regime patrimoniale della famiglia, Digesto
civ., XVI, Torino, 1997; SASSOLI, Debito personale del coniuge e debito della comunione, Not, 1999; BRUSCUGLIA,
L'amministrazione, la responsabilità e lo scioglimento della comunione legale, Il diritto di famiglia, II, Tratt. Bessone, IV, Torino,
1999; ZANINI, Zanini, Grasselli, Le obbligazioni della comunione e dei coniugi, La famiglia, II, Il diritto privato nella giurisprudenza,
a cura di Cendon, Torino, 2000; GNANI, Tutela del creditore e limiti della responsabilità sussidiaria nella comunione legale, Familia,
2001; MINNECI, Responsabilità patrimoniale dei coniugi in regime di comunione legale, Regime patrimoniale della famiglia, Tratt.
Zatti, III, Milano, 2002; SANTOSUOSSO, Beni ed attività economica della famiglia, 2ª ed., Giur. sist. Bigiavi, Torino, 2002; DE PAOLA,
Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, II, 2ª ed., Milano, 2002; Id., Il diritto patrimoniale della famiglia
coniugale, Milano, 1996; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 2003;
VALIGNANI, Presunzione di adempimento con beni comuni per le obbligazioni ex art. 186, Familia 2003, 217; VERZERA, Le
obbligazioni dei coniugi in comunione legale, Manuale del nuovo diritto di famiglia, a cura di Cassano, Piacenza, 2003; MENOTTI,
Amministrazione e spese della casa in proprietà, La famiglia e la casa, II, I diritti sulla casa, a cura di Dossetti, Piacenza, 2007;
PASCUCCI, Le obbligazioni contratte da un coniuge nell'interesse della famiglia tra diritto giurisprudenziale e possibile evoluzione
legislativa, Famiglia e Diritto 2007; DI MARTINO, La responsabilità, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della
famiglia, 2ª ed., Torino, 2007; AULETTA, Il diritto di famiglia, 9ª ed., Torino, 2008; RAIOLA, SALOMONE, Il regime patrimoniale della
famiglia: questioni controverse, profili di responsabilità e tutela del coniuge debole, Padova, 2008; AA.VV., Il regime patrimoniale
della famiglia, a cura di A. Arceri e M. Bernardini, Santarcangelo di Romagna, 2009; BALESTRA, Attività d'impresa e rapporti
familiari, Padova, 2009; TESTA, Rapporti patrimoniali e famiglia nell'evoluzione interpretativa della riforma del diritto di famiglia,
Milano, 2010; BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, 5ª ed., Torino, 2010; OBERTO, La comunione legale tra coniugi, Tratt. Cicu,
Messineo, Milano, 2010.
Sommario: 1. Pagamento dei contributi condominiali relativi alla cosa comune. — 2. Inadempimento di obbligazione contratta
congiuntamente dai coniugi e azione in giudizio contro uno solo di essi. — 3. Veicolo in regime di comunione e danni ad uno dei
coniugi trasportato. Responsabilità dell'assicurazione. — 4. Obbligazione contratta anche separatamente dai coniugi nell'interesse della
famiglia. Condizioni.
1. Pagamento dei contributi condominiali relativi alla cosa comune. — L'art. 186 lett. b), nel testo
introdotto dalla l. 19 maggio 1975 n. 151, prevedendo una responsabilità patrimoniale dei beni della comunione
per i carichi dell'amministrazione e, cioè, per i debiti di qualsiasi natura contratti per la manutenzione ordinaria dei
singoli beni (come le spese necessarie per la conservazione ed il godimento della cosa comune, i contributi
condominiali, le spese per le innovazioni e per i miglioramenti purché non eccessivamente gravose per il bilancio
familiare) non ha escluso che di esse ciascun coniuge debba rispondere per l'intero, spettando l'amministrazione
dei beni della comunione e lo stesso potere di rappresentanza in giudizio, a norma dell'art. 180, disgiuntamente ad
entrambi.
Deriva da quanto precede, pertanto, si è precisato in sede di legittimità, che il pagamento dei contributi
condominiali relativi alla cosa comune ben può essere chiesto ad uno solo dei contitolari del bene (Cass. 28
gennaio 1995 n. 1038, Giust. civ. 1995, I, 1520; Arch. locazioni 1995, 625).
2. Inadempimento di obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi e azione in giudizio contro uno
solo di essi. — L'appartenenza dei beni pignorati alla comunione legale dei coniugi dà luogo ad un regime diverso
da quello della comunione ordinaria dalla quale la prima differisce per il fatto di essere una comunione senza
quote.
Pertanto, accertato che i beni pignorati appartengono alla comunione e che l'azione esecutiva attiene ad
obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi, non è rilevante che il titolo in forza del quale l'azione
esecutiva è promossa riguardi uno solo dei coniugi e non entrambi, essendo ben possibile che il creditore per una
obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi abbia agito in giudizio contro uno solo di essi (Trib. Milano 26
maggio 1993, Gius 1994, f. 5, 104).
Delle obbligazioni contratte insieme, ha affermato altro giudice di merito, i coniugi rispondono in solido e per
l'intero — e non entrambi per metà, come sembra affermare l'art. 190 — ma sussidiariamente alla responsabilità
dei beni comuni. Poiché la responsabilità dei beni personali mantiene il carattere sussidiario anche in caso di
obbligazioni contratte congiuntamente dai coniugi, in mancanza di prova contraria fornita dal solvens, si presume
che egli abbia adempito con beni comuni e, dunque, senza alcun credito di regresso nei rapporti interni (Trib.
Bergamo 21 gennaio 2002, Giur. it. 2002, 1866).
3. Veicolo in regime di comunione e danni ad uno dei coniugi trasportato. Responsabilità
dell'assicurazione. — In materia di assicurazione della responsabilità civile automobilistica, ai sensi dell'art. 4 l.
n. 990 del 1969, nel testo sia anteriore (che faceva richiamo all'art. 2054, comma 3, sia posteriore (da tale
momento essendo il coniuge considerato, in relazione ai danni alla persona — biologico e morale — come terzo
trasportato coperto da assicurazione) alla novella introdotta dall'art. 28 l. n. 142 del 1992, in caso di incidente
stradale a bordo di autovettura facente parte del regime patrimoniale di comunione legale, i danni subiti dal
coniuge trasportato e imputabili alla condotta di guida dell'altro coniuge debbono essere risarciti per l'intero
(seppure nei limiti del massimale da parte dell'assicuratore), non essendo al riguardo configurabile alcuna
limitazione nemmeno in ragione della contitolarità dell'autovettura tra i coniugi scaturente dal regime di
comunione legale, giacché essendo la comunione dei beni tra i coniugi pro indiviso, il diritto di ciascuno di essi
investe l'intera cosa o — qualora non si tratti di diritto reale — l'intera titolarità soggettiva (Cass. 15 gennaio 2003
n. 487, Dir. e giust. 2003, f. 6, 11).
L'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per circolazione di veicoli copre la responsabilità per
danni alle persone di qualsiasi passeggero diverso dal conducente, compreso quindi il comproprietario trasportato
(Trib. Monza 10 marzo 1995, Giust. civ. 1996, I, 1158).
4. Obbligazione contratta anche separatamente dai coniugi nell'interesse della famiglia. Condizioni. —
L'ipotesi delineata dall'art. 186 lett. c) secondo cui i beni della comunione legale rispondono, tra l'altro, di
obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell'interesse della famiglia — ha affermato un giudice
di merito — si registra solo se l'obbligazione sia contratta nel diretto ed immediato interesse della famiglia e non
quando possa semplicemente essere volta a vantaggio della famiglia (Trib. Cassino 7 gennaio 2005, Nuovo dir.
2005, 239, con nota di LOTITO G., L'art. 618-bis c.p.c. e l'opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. - Creditore
particolare del coniuge in regime di comunione legale ed esecuzione forzata ex art. 189, 2o comma).
Per altri riferimenti in tema di obbligazioni contratte per soddisfare bisogni della famiglia da uno dei coniugi
separatamente dall'altro, V. infra sub art. 189, n. 1 ss.
Art. 187.
Obbligazioni contratte dai coniugi prima del matrimonio.
I beni della comunione, salvo quanto disposto nell'articolo 189, non rispondono delle obbligazioni
contratte da uno dei coniugi prima del matrimonio.
Bibliografia: M. FINOCCHIARO, A. Finocchiaro, M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984; MASTROPAOLO, PITTER, sub art. 187,
Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; BOCCHINI, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, 2ª ed., Napoli, 1995;
BRUSCUGLIA, L'amministrazione, la responsabilità e lo scioglimento della comunione legale, Il diritto di famiglia, II, Tratt. Bessone, IV,
Torino, 1999; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, II, 2ª ed., Milano, 2002; MINNECI,
Responsabilità patrimoniale dei coniugi in regime di comunione legale, Tratt. Zatti, III, Regime patrimoniale della famiglia, Milano, 2002;
SANTOSUOSSO, Beni ed attività economica della famiglia, 2ª ed., Giur. sist. Bigiavi, Torino, 2002; GALASSO, Del regime patrimoniale della
famiglia, Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 2003; DI MARTINO, La responsabilità, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Il regime
patrimoniale della famiglia, 2ª ed., Torino, 2007; AULETTA, Il diritto di famiglia, 9ª ed., Torino, 2008; RAIOLA, SALOMONE, Il regime
patrimoniale della famiglia: questioni controverse, profili di responsabilità e tutela del coniuge debole, Padova, 2008; AA.VV., Il regime
patrimoniale della famiglia, a cura di A. Arceri e M. Bernardini, Santarcangelo di Romagna, 2009; BALESTRA, Attività d'impresa e rapporti
familiari, Padova, 2009; TESTA, Rapporti patrimoniali e famiglia nell'evoluzione interpretativa della riforma del diritto di famiglia, Milano,
2010; BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, 5ª ed., Torino, 2010; OBERTO, La comunione legale tra coniugi, Tratt. Cicu, Messineo,
Milano, 2010.
Art. 188.
Obbligazioni derivanti da donazioni o successioni.
I beni della comunione, salvo quanto disposto nell'articolo 189, non rispondono delle obbligazioni
da cui sono gravate le donazioni e le successioni conseguite dai coniugi durante il matrimonio e non
attribuite alla comunione.
Bibliografia: A. FINOCCHIARO, M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984; MASTROPAOLO, PITTER, sub art. 188, Comm. Cian,
Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; BOCCHINI, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, 2ª ed., Napoli, 1995; BRUSCUGLIA,
L'amministrazione, la responsabilità e lo scioglimento della comunione legale, Il diritto di famiglia, II, Tratt. Bessone, IV, Torino, 1999;
SANTOSUOSSO, Beni ed attività economica della famiglia, 2ª ed., Giur. sist. Bigiavi, Torino, 2002; GALASSO, Del regime patrimoniale della
famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 2003; DI MARTINO, La responsabilità, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Il regime
patrimoniale della famiglia, 2ª ed., Torino, 2007.
Art. 189.
Obbligazioni contratte separatamente dai coniugi.
I beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato, rispondono,
quando i creditori non possono soddisfarsi sui beni personali, delle obbligazioni contratte, dopo il
matrimonio, da uno dei coniugi per il compimento di atti eccedenti l'ordinaria amministrazione senza il
necessario consenso dell'altro.
I creditori particolari di uno dei coniugi, anche se il credito è sorto anteriormente al matrimonio,
possono soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota
del coniuge obbligato. Ad essi, se chirografari, sono preferiti i creditori della comunione.
Bibliografia: MALAGÙ, L'espropriazione forzata dei beni della comunione legale coniugale, Riv. trim. dir. proc. civ. 1977; ATTARDI,
Profili processuali della comunione legale dei beni, Riv. dir. civ. 1978; GIONFRIDA DAINO, La posizione dei creditori nella comunione
legale tra coniugi, Padova, 1986; MANGANO, Comunione dei beni tra coniugi. II) Profili processuali, Enc. Giur., VII, Roma, 1988; E.
GRASSO, Comunione legale ed espropriazione della quota del coniuge personalmente obbligato, La comunione legale, a cura di
Bianca, Milano, 1989; FILANTI, Obbligazioni contratte separatamente da un coniuge, La comunione legale, a cura di Bianca, Milano,
1989; QUADRI, Obblighi gravanti sui beni della comunione, La comunione legale, a cura di Bianca, Milano, 1989; RAGUSA
MAGGIORE, Comunione legale e fallimento, La comunione legale, a cura di Bianca, Milano, 1989; MASTROPAOLO, PITTER, sub art.
189, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; BASINI, Sulla «responsabilità» sussidiaria dei beni in comunione legale per la
fideiussione prestata da un solo coniuge, Giur. it. 1994; BOCCHINI, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, 2ª ed., Napoli, 1995;
BARBIERA, La comunione legale, Tratt. Rescigno, 3, 2ª ed., Torino, 1996; CARBONE, Cancellata la presunzione muciana, Famiglia e
diritto 1996; GABRIELLI, Regime patrimoniale della famiglia, Digesto civ., XVI, Torino, 1997; VANZ, Comunione legale tra coniugi ed
esecuzione forzata, Famiglia e diritto 1998; RUSSO, L'oggetto della comunione legale e i beni personali, Comm. Schlesinger, Milano,
1999; SASSOLI, Debito personale del coniuge e debito della comunione, Notariato 1999; BRUSCUGLIA, L'amministrazione, la
responsabilità e lo scioglimento della comunione legale, Il diritto di famiglia, II, Tratt. Bessone, IV, Torino, 1999; IOZZO, Creditori
personali del coniuge ed espropriazione forzata dei beni della comunione legale ex art. 189, 2° comma, c.c., Foro it. 1999; MORA,
Debito personale del coniuge e responsabilità della comunione legale, Famiglia e diritto 1999; M. FINOCCHIARO, Le Sezioni unite e
l'art. 189 c.c.: un incontro mancato, Giust. civ. 1999; GRASSELLI, Zanini, Grasselli, Le obbligazioni della comunione e dei coniugi, La
famiglia, II, Torino, 2000; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, 2ª ed., II, Milano, 2002;
MINNECI, Responsabilità patrimoniale dei coniugi in regime di comunione legale, Regime patrimoniale della famiglia, Tratt. Zatti, III,
Milano, 2002; SANTOSUOSSO, Beni ed attività economica della famiglia, 2ª ed., Giur. sist. Bigiavi, Torino, 2002; GALASSO, Del regime
patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 2003; VERZERA, Le obbligazioni dei coniugi in comunione
legale, Manuale del nuovo diritto di famiglia a cura di Cassano, Piacenza, 2003; RUSSO T.V., Obbligazioni familiari e responsabilità
patrimoniale nel regime di comunione legale, Napoli 2004; ASCHIERI, RIGHINI, Peggio tua moglie o i creditori?, Summa 2004, f. 2034, 60; MONTANARI, Riforma del diritto fallimentare e famiglia, Fam. Pers. Succ. 2006; LOMBARDI, Espropriazione forzata dei beni
della comunione legale e responsabilità sussidiaria ex art. 189 comma 2 c.c., Giur. merito 2006; DI MARTINO, La responsabilità,
Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, 2ª ed., Torino, 2007; AULETTA, Il diritto di famiglia, 9ª ed., Torino,
2008; AA.VV., Il regime patrimoniale della famiglia, a cura di A. Arceri e M. Bernardini, Santarcangelo di Romagna, 2009;
BALESTRA, Attività d'impresa e rapporti familiari, Padova, 2009; OBERTO, La comunione legale tra coniugi, Tratt. Cicu, Messineo,
Milano, 2010.
OBERTO, La comunione legale tra coniugi, Tratt. Cicu, Messineo, Milano, 2010.
Sommario: 1. Obbligazioni per soddisfare bisogni della famiglia. Contratte da uno solo dei coniugi. Responsabilità dell'altro.
Condizioni. Limiti. — 2. Segue: apparenza del diritto, al fine di sostenere il ragionevole affidamento del creditore che il coniuge agisse
in nome e per conto dell'altro coniuge. — 3. Obbligazioni contratte separatamente dai coniugi: rapporti tra i coniugi stessi. — 4.
Applicabilità dell'art. 189 alle obbligazioni risarcitorie conseguenti il fatto illecito commesso da uno dei coniugi. — 5. Obbligazioni
personali del coniuge: esecuzione su interi beni comuni, ammissibilità. Limite dell'esecuzione. È data dal valore della « quota » del
coniuge obbligato sul complesso dei beni comuni. — 6. Esecuzione forzata promossa dal creditore personale di uno dei coniugi in
regime di comunione legale sui beni rientranti in detta comunione: a) audizione del coniuge non debitore, necessità. — 7. Segue: b)
tutela del coniuge non obbligato, contenuto. — 8. Mutuo contratto dal coniuge per l'abitazione coniugale. — 9. Creditori particolari del
coniuge e azione esecutiva nei confronti dei beni comuni: oggetto della espropriazione. — 10. Segue: pignoramento, effetti.
Indisponibilità del bene. — 11. Segue: coniuge non esecutato, notifiche. — 12. Segue: esistenza di beni personali; eccezione, onere
della prova.
1. Obbligazioni per soddisfare bisogni della famiglia. Contratte da uno solo dei coniugi. Responsabilità
dell'altro. Condizioni. Limiti. — Nella disciplina del diritto di famiglia introdotta dalla l. 19 maggio 1975 n.
151, l'obbligazione assunta da un coniuge per soddisfare bisogni familiari non pone l'altro coniuge nella veste di
debitore solidale, difettando una deroga rispetto alla regola generale secondo cui il contratto non produce effetti
rispetto ai terzi.
Il suddetto principio opera indipendentemente dal fatto che i coniugi si trovino in regime di comunione dei
beni, essendo la circostanza rilevante solo sotto il diverso profilo dell'invocabilità da parte del creditore della
garanzia dei beni della comunione o del coniuge non stipulante, nei casi e nei limiti di cui agli artt. 189 e 190
(nuovo testo) (Cass. 15 febbraio 2007, n. 3471; Cass. 15 febbraio 2007, n. 3471, Dir. e giust. 2007; Dir. famiglia
2008, 48 Giust. civ. 2008, I, 2264; 10 ottobre 2008, n. 25026, Guida al diritto 2008, f. 45, 41, con nota
informativa di FIORINI M. La scelta operata da un solo coniuge non può soddisfare « bisogni primari »; Cass. 18
giugno 1990 n. 6118, Giust. civ. 1990, I, 2282, nonché ivi 1990, I, 2891; Riv. dir. civ. 1991, II, 631; Stato civ. it.
1991, 349; Vita not. 1990, 523; Dir. famiglia 1991, 448; Foro it. 1991, I, 831; Giur. it. 1991, I, 1, 1052; Dir. fall.
1992, II, 207; Rass. dir. civ. 1992, 63).
Sempre nello stesso senso Cass. 28 aprile 1992 n. 5063 (Foro it. 1992, I, 3000; Dir. famiglia 1992, 997):
nella disciplina del diritto di famiglia introdotta dalla l. 19 maggio 1975 n. 151, l'obbligazione assunta da un
coniuge in nome proprio e non anche in rappresentanza dell'altro coniuge, per soddisfare bisogni familiari, non
pone detto altro coniuge nella veste di debitore solidale, giacché, pure in regime di comunione dei beni, è da
escludere una deroga al principio dell'art. 1372 comma 2, per cui il contratto non produce effetti rispetto ai terzi
che nei casi previsti dalla legge (ivi, altresì il rilievo che con riguardo all'acquisto di un bene destinato ai bisogni
familiari, che sia stato effettuato da un coniuge in nome proprio, l'invocabilità da parte del venditore
dell'obbligazione solidale dell'altro coniuge, sotto il profilo della apparenza del diritto, postula circostanze idonee
ad indurre nel ragionevole convincimento della stipulazione del contratto anche in rappresentanza di detto altro
coniuge, e, pertanto, non può discendere dalla sola sussistenza del rapporto coniugale e dall'indicata destinazione
del bene compravenduto).
Benché — pertanto — la moglie, di regola, sia responsabile in proprio, senza impegnare in alcun modo il
marito, per le obbligazioni da lei contratte, pur se riconducibili all'interesse della famiglia, tuttavia il marito è
responsabile delle obbligazioni contratte in suo nome dalla moglie — oltre che nei casi in cui le abbia conferito, in
forma espressa o tacita, una procura a rappresentarlo — tutte le volte in cui sia stata posta in essere una situazione
tale da fare ritenere, alla stregua del principio della apparenza giuridica, che la moglie abbia contratto una
determinata obbligazione non già in proprio, ma in nome del marito (Cass. 7 luglio 1995 n. 7501, Giust civ. 1996,
I, 142; Dir. famiglia 1996, 95; Famiglia e diritto 1996, 140; Studium Juris 1996, 229).
In termini generali, ancora, in altra occasione la S.C. ha affermato, altresì, che l'obbligo imposto dall'art. 147
ad entrambi i coniugi di mantenere, educare ed istruire la prole comune si riverbera nei rapporti esterni, con la
conseguenza che, ove trattasi di obbligazioni derivanti dal soddisfacimento di esigenze primarie della famiglia,
quali, in particolare, la cura della salute, deve riconoscersi il potere dell'uno e dell'altro coniuge, con efficacia
verso i terzi (creditori), in virtù di un mandato tacito, di compiere gli atti occorrenti e di assumere le correlative
obbligazioni con effetti vincolanti per entrambi, in deroga al principio secondo cui soltanto il coniuge che ha
personalmente stipulato l'obbligazione, risponde del debito contratto (nella specie: obbligazione contratta da uno
dei genitori per inevitabili prestazioni sanitarie erogate da un professionista alla moglie ed ai figli minori della
coppia) (Cass. 25 luglio 1992 n. 8995, Dir. famiglia 1993, 91; Vita not. 1993, 219; Giur. it. 1993, I, 1, 1512;
Nuova giur. civ. comm. 1994, I, 26).
In base al concreto interesse delle parti — si è precisato sempre in sede di legittimità — può essere
considerato parte sostanziale di un rapporto anche il coniuge rimasto apparentemente estraneo alla contrattazione,
con conseguente sua responsabilità solidale per le obbligazioni assunte dall'altro coniuge (Cass. 8 gennaio 1998 n.
87, Giust. civ. 1998, I, 1314: nella specie il giudice di merito — con pronunzia confermata dal S.C. — aveva
accertato che il marito separato, pur non avendo partecipato alle trattative intercorse tra la moglie ed il gestore di
uno stabilimento balneare, per il rinnovo della locazione stagionale di una cabina e di una tenda da sole, che da
molti anni erano adoperate dalla moglie stessa e dalla figlia minore, da tempo aderiva di fatto a tale utilizzo, così
inducendo il ragionevole affidamento del gestore, e da tale accertamento aveva desunto che egli doveva ritenersi
solidalmente obbligato con la moglie per le relative obbligazioni, individuando ulteriore conferma della
sussistenza dell'obbligazione solidale nel comportamento tenuto dal marito che non aveva contestato la richiesta
del gestore ed aveva contestualmente promesso di pagare).
Da parte dei giudici di merito, in argomento, si è precisato, tra l'altro:
— quando non risulti esplicitamente dall'atto che le obbligazioni siano state assunte da entrambi i coniugi
(soggetti al regime legale della comunione dei beni), il coniuge estraneo all'atto non può essere tenuto al
pagamento, non avendo contratto alcuna obbligazione (nella specie: acquisto di merce, corredo per la casa, con
commissione intestata ad entrambi i coniugi, ma sottoscritta soltanto da uno) (Trib. Reggio Calabria 27 gennaio
1979, Giust. civ. 1980, I, 2821, con nota critica di PANUCCIO, In tema di responsabilità dei coniugi per le
obbligazioni assunte nell'interesse della famiglia, secondo la quale i coniugi sono, in ogni caso, entrambi obbligati
solidalmente nei confronti della famiglia: « il vincolo di solidarietà si rivela, oltreché sul piano logico-giuridico,
anche sul piano operativo, nell'ambito cioè delle possibilità che i coniugi hanno di regolare le modalità dei
reciproci obblighi stabilendo le forme dell'impegno e la misura dei loro contributi nell'ambito familiare ». Nello
stesso senso, in assenza di una situazione di apparenza, il coniuge non risponde solidalmente dell'obbligazione
assunta personalmente dall'altro coniuge per soddisfare bisogni della famiglia, Trib. Roma 21 gennaio 1994, Gius
1994, f. 7, 152);
— in caso di acquisto di un bene nell'interesse della famiglia, da parte di un coniuge vivente in regime di
comunione legale, della obbligazione di pagare il prezzo può essere chiamato a rispondere l'altro coniuge, anche
se l'acquisto avvenne a sua insaputa o, addirittura, contro la sua volontà (Pret. Brunico 28 ottobre 1987, Archivio
Giurisprudenza e Merito del Centro Elettronico di Documentazione della Cassazione);
— quale che sia il regime patrimoniale adottato dai coniugi, in regime di convivenza, il marito risponde dei
debiti contratti dalla moglie allo scopo di far fronte alle necessità familiari, nell'ampio quadro degli obblighi di cui
agli artt. 143 e 147, pur quando egli non si sia direttamente giovato degli acquisti compiuti dalla moglie (App.
Perugia 3 aprile 1987, Dir. famiglia 1987, 662).
In dottrina, sulla questione specifica, tra gli altri, oltre PANUCCIO, op. cit., 2822 ss.; CARAVAGLIOS, Rilevanza
esterna del regime primario della famiglia e responsabilità solidale dei coniugi, Nuova giur. civ. comm. 1994, I,
29; MUSY, Il coniuge massaio va dal dentista, Giur. it. 1993, I, 1, 1511; PERCHINUNNO, Dovere di contribuzione e
responsabilità per i debiti familiari, Rass. dir. civ. 1992, 631; PERRELLA, Effetti dell'acquisto da parte di un
coniuge e responsabilità personale di chi lo compie. L'apparenza inganna, Giust. civ. 1996, I, 2371; STAGLIANO,
In materia di obbligazioni contratte individualmente per i bisogni della famiglia: è già solidarietà?, Dir. Famiglia
1994, 80.
2. Segue: b) apparenza del diritto, al fine di sostenere il ragionevole affidamento del creditore che il
coniuge agisse in nome e per conto dell'altro coniuge. — In materia di rapporti patrimoniali tra coniugi, il
contraente che ha contrattato con uno solo dei coniugi può invocare il principio dell'apparenza del diritto, al fine
di sostenere il suo ragionevole affidamento sul fatto che questi agisse anche in nome e per conto dell'altro coniuge
solo qualora si verifichino le seguenti condizioni:
a) uno stato di fatto non corrispondente allo stato di diritto;
b) il ragionevole convincimento del contraente, derivante da errore scusabile, che lo stato di fatto
rispecchiasse la realtà giuridica.
Deriva da quanto precede, pertanto, che, per poter invocare il principio dell'apparenza del diritto, il terzo deve
comunque provare la propria buona fede e la ragionevolezza dell'affidamento, non essendo invocabile il principio
in questione da chi versi in colpa per aver omesso di accertare, in contrasto con la stessa legge oltre che con le
norme di comune prudenza, la realtà delle cose (Cass. 15 febbraio 2007, n. 3471, cit., che ha confermato la
sentenza di merito che, in riferimento ad un contratto di mutuo concesso da una sorella al fratello, aveva rigettato
la domanda della mutuante volta a ritenere obbligata anche la moglie del mutuatario, non avendo addotto elementi
fattuali sufficienti a ritenere che potesse incolpevolmente ritenersi che questi agisse anche in nome e per conto
della moglie).
3. Obbligazioni contratte separatamente dai coniugi: rapporti tra i coniugi stessi. — Il principio secondo
il quale l'obbligazione assunta separatamente da uno dei coniugi in regime di comunione legale non pone l'altro
coniuge nella situazione di coobbligato solidale non spiega alcuna influenza nei rapporti interni tra i coniugi
stessi, rilevando soltanto sotto il (diverso) profilo dell'invocabilità, da parte del terzo creditore, della garanzia dei
beni della comunione ovvero del coniuge non stipulante.
Deriva da quanto precede, pertanto, che, adempiuta in toto l'obbligazione nei confronti del terzo creditore, il
coniuge personalmente obbligatosi ha diritto alla restituzione, da parte dell'altro coniuge, della metà della somma
versata (Cass. 4 giugno 1999 n. 5487, Famiglia e diritto 1999, 496, che nell'affermare il principio di diritto che
precede, ha, escluso che, nella specie, si vertesse in tema di obbligazioni separatamente contratte da uno dei
coniugi, risultando ex actis la evidente compartecipazione dell'altro coniuge all'assunzione di un'obbligazione
cambiaria funzionale all'ottenimento di un mutuo di scopo).
4. Applicabilità dell'art. 189 alle obbligazioni risarcitorie conseguenti il fatto illecito commesso da uno
dei coniugi. — L'art. 189 non concerne le sole obbligazioni « contratte » separatamente dai coniugi, ma anche
quelle risarcitorie conseguenti il fatto illecito commesso da uno dei coniugi in regime di comunione legale (Cass.,
sez. un., 4 agosto 1998 n. 7640, Giust. civ. 1999, I, 791, con nota, sul punto adesiva di FINOCCHIARO M., Le
Sezioni unite e l'art. 189 c.c.: un incontro mancato; Giur. it. 1999, 741, con nota sul punto critica di LOBASSO,
Responsabilità aquiliana e regime di comunione legale; Studium Juris 1998, 1383; Famiglia e diritto 1999, 138,
con nota critica di MORA, Rapporti patrimoniali tra coniugi. Debito personale del coniuge e responsabilità della
comunione legale; Corr. giur. 1999, 204, con nota parzialmente critica di DE PAOLA, Rapporti patrimoniali tra
coniugi. La responsabilità sussidiaria della comunione legale ex art. 189 c.c.: responsabilità al 50% o per intero;
Notariato 1999, 121, con nota di SASSOLI, Debito personale del coniuge e debito della comunione).
5. Obbligazioni personali del coniuge: esecuzione su interi beni comuni, ammissibilità. Limite
dell'esecuzione. È data dal valore della « quota » del coniuge obbligato sul complesso dei beni comuni. — In
caso di comunione legale dei beni e di debiti personali di uno dei coniugi la responsabilità dei beni della
comunione è regolata dall'art. 189 c.c.
Ne segue, pertanto, che è legittima, in caso di inadempimento del coniuge obbligato, l'esecuzione su uno o
più beni della comunione, aggrediti per l'intero ai fini della soddisfazione su tutto il loro ricavato, ma fino al
valore corrispondente a quello spettante sull'intera massa comune al coniuge debitore.
In particolare, « la lettera e la ratio della norma » — di cui all'art. 189, comma 2, — sono « nel senso che
ciascun creditore particolare del coniuge, in regime di comunione legale, può soddisfarsi, in via sussidiaria, sui
singoli beni della comunione “fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato” », correttamente,
pertanto, la sentenza dei giudici del merito « letta nell'insieme tra motivazione e dispositivo, ha seguito la strada
della legittimità del sequestro di uno o più beni della comunione legale, aggrediti per l'intero ai fini della
soddisfazione su tutto il loro ricavato, ma fino al valore corrispondente a quello spettante sull'intera massa comune
al coniuge debitore » (Cass., sez. un., 4 agosto 1998 n. 7640, Giust. civ. 1999, I, 791, con nota, sul punto critica di
FINOCCHIARO M., Le Sezioni unite e l'art. 189 c.c.: un incontro mancato; Giur. it. 1999, 741, con nota sul punto
informativa di LOBASSO, Responsabilità aquiliana e regime di comunione legale; Studium Juris 1998, 1383;
Famiglia e diritto 1999, 138, con la già ricordata nota di MORA, Rapporti patrimoniali tra coniugi. Debito
personale del coniuge e responsabilità della comunione legale; Corr. giur. 1999, 204, con nota parzialmente
critica di DE PAOLA, Rapporti patrimoniali tra coniugi. La responsabilità sussidiaria della comunione legale ex
art. 189 c.c.: responsabilità al 50% o per intero; Notariato 1999, 121 con nota di SASSOLI, Debito personale del
coniuge e debito della comunione).
In termini generali, i beni acquisiti alla comunione non possono essere oggetto di azione esecutiva dei
creditori individuali di uno dei coniugi, se non nei limiti della quota di sua spettanza, Cass. 23 gennaio 1990 n.
351, Banca, borsa, tit. cred. 1991, II, 4; Rass. giur. Enel 1991, 516.
Il creditore particolare di uno dei coniugi — si è precisato da parte di un giudice di merito — può soddisfarsi
su interi beni della comunione legale, nei limiti del valore della quota del coniuge obbligato sull'intera massa
comune (Trib. Prato 21 novembre 1985, Giur. it. 1988, I, 2, 824, con nota adesiva di PARENTE, La responsabilità
sussidiaria dei beni della comunione legale per debiti personali).
6. Esecuzione forzata promossa dal creditore personale di uno dei coniugi in regime di comunione
legale sui beni rientranti in detta comunione: a) audizione del coniuge non debitore, necessità. — Nel caso di
esecuzione forzata intrapresa dal creditore particolare di uno solo dei coniugi, su beni oggetto di comunione legale
fra gli stessi, si è precisato da parte del S.C. che non può procedersi alla vendita della quota del singolo bene di
spettanza del coniuge debitore se non dopo la previa audizione dell'altro coniuge affinché quest'ultimo possa
eventualmente far valere le limitazioni di cui agli artt. 187 e 189. Conf. Trib. Salerno 12 novembre 2008.
In difetto di una tale audizione il procedimento esecutivo deve arrestarsi, tenuto presente che il coniuge non
debitore — d'altronde — è parte necessaria del giudizio nato dall'opposizione proposta avverso l'ordinanza di
vendita (Cass. 27 gennaio 1999 n. 718, Foro it. 1999, I, 2588 con nota informativa di IOZZO, Creditori personali
del conigue e espropriazione forzata dei beni della comunione legale ex art. 189, 2o comma, c.c.; Notariato 1999,
311, con nota di FRANGINI, Espropriazione del bene in comunione legale col coniuge e forme dell'esecuzione).
7. Segue: b) tutela del coniuge non obbligato, contenuto. — Nel corso dell'esecuzione forzata promossa dal
creditore personale di uno dei coniugi in regime di comunione legale sui beni rientranti in detta comunione, al
coniuge non obbligato vanno riconosciuti i rimedi processuali tanto della opposizione di terzo, quanto della
opposizione agli atti esecutivi (nella motivazione, si è precisato che con l'opposizione di terzo all'esecuzione il
coniuge non personalmente obbligato può far valere la natura sussidiaria della responsabilità della comunione
rispetto a quella personale dell'altro coniuge, per cui il credito non può soddisfarsi illimitatamente sui beni in
comunione legale, mentre con l'opposizione agli atti esecutivi egli può denunciare che l'esecuzione interferisce
processualmente sulla propria posizione, con conseguente privazione del potere di separazione della quota) (Cass.
2 agosto 1997 n. 7169, Foro it. 1999, I, 2589, con la già ricordata nota informativa di IOZZO, Creditori personali
del coniuge e espropriazione forzata dei beni della comunione legale ex art. 189, 2o comma, c.c.).
Sempre in margine alla tutela da accordare al coniuge non debitore, da parte di un giudice di merito si è
affermato, ancora, che in regime di comunione legale di beni tra coniugi, a differenza della comunione ordinaria
ex art. 1100 e seguenti, nell'ipotesi di azione espropriativa immobiliare (per l'intero o pro quota) intrapresa dal
creditore personale del coniuge (co)intestatario del bene, non può prescindersi dalle formalità e dalle incombenze
idonee a rendere consapevoli dell'azione stessa il coniuge non esecutato e gli altri creditori, personali o della
comunione, in modo da dare loro la possibilità di far valere, nell'ambito della procedura, i propri diritti, ed in
particolare, rispettivamente, il diritto di chiedere la separazione giudiziale dei beni ed il diritto di vedere risolti
eventuali conflitti relativi alla distribuzione del ricavato dell'esproprio ex art. 512 c.p.c.
Ciò premesso e ritenuta l'indisponibilità del bene a seguito del pignoramento e della trascrizione, anche nei
confronti del coniuge non esecutato, si è affermato che il creditore personale del coniuge, che voglia procedere
all'espropriazione del bene intestato solo a quest'ultimo, dovrà produrre l'estratto di matrimonio con annotazioni
marginali relative al debitore esecutato ed i certificati immobiliari relativi alle trascrizioni ed iscrizioni contro il
coniuge non esecutato, fino alla data della trascrizione del pignoramento. Il creditore personale medesimo dovrà
altresì curare che l'avviso di cui all'art. 498 c.p.c. venga dato ai creditori iscritti di entrambi i coniugi, e che
l'istanza di vendita, la pubblicità circa la fissazione dell'udienza di comparizione e l'ordine di vendita abbiano a
contenere l'indicazione del regime matrimoniale (patrimoniale) cui è soggetto il bene, tutto o pro quota, pignorato
nonché le generalità del coniuge non esecutato, al fine di consentire l'intervento degli altri creditori ed, in ispecie,
di quelli privilegiati della comunione. Gli oneri e le incombenze che precedono sono invero diretti a conferire
validità ed efficacia al decreto di trasferimento ed alla sua trascrizione anche nei confronti del coniuge non
esecutato, in conformità alla disciplina della comunione legale (Trib. Napoli 6 aprile 1990, Dir. famiglia 1991,
588, con nota di CAPPIELLO, Espropriazione forzata e comunione legale tra coniugi).
La disposizione codicistica di cui all'art. 189 c.c., secondo cui i creditori particolari di uno dei coniugi
possono soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione "fino al valore corrispondente alla quota del
coniuge obbligato" sta a significare che al creditore particolare potrà essere assegnata solo la metà del ricavato, ma
non è indicativa della circostanza che la comunione legale sia assimilabile ad una comunione ordinaria per quote e
che dunque il creditore possa pignorare la metà dei beni appartenenti alla comunione legale; è invece necessario
che il creditore procedente pignori l'intero bene, atteso che la norma prevede che il creditore possa soddisfarsi sui
beni della comunione senza specificazione alcuna e che tale soluzione appare coerente con la previsione dell'art.
192 c.c., il quale impone a ciascuno dei coniugi l'obbligo di rimborsare alla comunione (e non all'altro coniuge) il
valore dei beni di cui all'art. 189 c.c. e non già la quota espropriata pari alla metà di ogni singolo bene aggredito in
via esecutiva. Qualora poi il procedente pignori la quota di metà, si dovrà dar corso all'ordinario giudizio
divisionale (Trib. Mantova 5 maggio 2009, Notariato 2009, 482).
8. Mutuo contratto dal coniuge per l'abitazione coniugale. — Il coniuge che, in costanza di matrimonio,
ha assunto in via esclusiva il mutuo per l'abitazione coniugale, non può poi, intervenuta la separazione, pretendere
che l'altro coniuge sia onerato della metà del mutuo stesso, pur se tra le parti vi sia regime di comunione legale, e
pur se si tratta di obbligazione assunta per soddisfare i bisogni familiari, in quanto ciò comunque non pone l'altro
coniuge nella veste di debitore solidale (Trib. Napoli 30 settembre 2003, Giur. napoletana 2004, 20).
9. Creditori particolari del coniuge e azione esecutiva nei confronti dei beni comuni: oggetto della
espropriazione — L'oggetto dell'espropriazione non può essere rappresentato dalla metà del bene immobile
facente parte della comunione legale dei coniugi perché l'indicato bene non è specificamente determinato,
rappresentando una quota astratta di incerto ammontare, con conseguente rigetto dell'istanza di vendita del 50%
della quota indivisa del bene immobile pignorato di proprietà dei coniugi in regime di comunione legale.
Il creditore, infatti, deve sottoporre ad esecuzione l'intero cespite in comunione (Trib. Trapani 15 marzo 2005,
Giur. merito 2005, 1287).
Sempre in questo senso da parte di altro giudice di merito si è affermato che nell'istituto della comunione
legale la quota non è un elemento strutturale, ma ha soltanto la funzione di stabilire la misura entro cui i beni della
comunione possono essere aggrediti dai creditori particolari (art. 189), la misura della responsabilità sussidiaria di
ciascuno dei coniugi con i propri beni personali verso i creditori della comunione (art. 190), ed infine la
proporzione in cui, sciolta la comunione, l'attivo ed il passivo saranno ripartiti tra i coniugi ed i loro eredi (art.
194).
La quota nella comunione legale fornisce quindi solo l'astratta misura del riparto, suscettibile di applicazione
(e quindi di concreta realizzazione del proprio contenuto patrimoniale) nella sola fase di scioglimento della
comunione.
Corollario del principio di indisponibilità della quota nella comunione legale è l'inespropriabilità da parte del
creditore personale del coniuge della “quota” di pertinenza di quest'ultimo. Ove peraltro si ammettesse
l'espropriazione della quota si giungerebbe alla conclusione, incompatibile con la natura ed il fondamento della
comunione legale dei beni, della sostituzione del coniuge, all'interno della comunione legale, con un terzo
estraneo al rapporto coniugale, l'aggiudicatario della quota escussa.
Per giungere a tale risultato, si dovrebbe dapprima passare attraverso lo scioglimento della comunione, e
dunque si dovrebbe concepire l'espropriazione forzata da parte del creditore particolare come causa di
scioglimento della comunione legale, in modo che il creditore possa soddisfarsi sulla quota di liquidazione. Una
tale soluzione, tuttavia, contrasta con il principio di tassatività delle cause di scioglimento della comunione legale
così come elencate dall'art. 191. Ne consegue che oggetto dell'azione esecutiva può essere solo il singolo bene
comune, e non la quota indivisa. In sede di riparto finale, poi, assegnato ai creditori il valore corrispondente alla
quota del coniuge obbligato, il residuo dovrà essere restituito alla comunione legale, e non all'altro coniuge. La
comunione legale, infatti, per effetto dell'espropriazione forzata, non si è sciolta, ma soltanto materialmente
ristretta. Occorre, pertanto, in ipotesi di beate ricadente in comunione legale, vendere l'intero e soddisfare i
creditori del coniuge debitore sulla metà del ricavato, con restituzione alla comunione dell'altra metà. (Trib. Bari
21 marzo 2007, Merito 2008, f. 1-2, 23).
10. Segue: pignoramento, effetti. Indisponibilità del bene. — Il pignoramento (per l'intero o pro quota) del
bene in comunione legale effettuato nei confronti di uno solo dei coniugi, comporta l'indisponibilità anche nei
confronti dell'altro coniuge e la trascrizione del pignoramento, anche se effettuata nei confronti di uno solo dei
coniugi, spiegherà comunque i suoi effetti contro entrambi (Trib. Roma 11 giugno 2005, Giur. merito 2006, 933).
Analogamente, in altra occasione si è osservato — sempre in sede di merito — che il pignoramento per
l'intero del bene in comunione nei confronti del coniuge debitore comporta l'indisponibilità anche nei confronti del
coniuge non esecutato.
Il creditore deve dare avviso della intrapresa esecuzione al coniuge non debitore il quale potrà scegliere se
contenere o meno l'escussione in termini compatibili con il rispetto della quota del coniuge debitore.
A tal fine il coniuge non debitore potrà chiedere la separazione giudiziale dei beni comuni. In mancanza, il
creditore procedente potrà subastare l'intero bene pignorato pur se oggetto di comunione e pure se il valore supera
quello della quota del coniuge debitore, fatto comunque salvo l'obbligo di rimborso in favore della comunione ex
art. 192 comma 2 a carico del coniuge esecutato (Trib. Roma 28 dicembre 2005, Giur. merito 2006, 1640).
Non diversamente, in altra occasione, sempre in sede di merito si è affermato che qualora il coniuge non
esecutato intenda preservare la propria quota in comunione, evitando l'espropriazione per l'intero, nel caso in cui il
valore del bene pignorato superi quello della quota spettante al coniuge debitore in comunione, egli dovrà far
valere le sue ragioni nelle forme della opposizione all'esecuzione introducendo in quella sede la domanda di
separazione giudiziale dei beni ai sensi dell'art. 193, fino a quando il processo esecutivo non sia terminato con
l'assegnazione del bene o la distribuzione della somma ricavata (Trib. Roma 25 marzo 2005, Giur. merito 2006,
1641).
In margine alle pronunzie sopra richiamate, Trib. Roma 28 dicembre 2005 e Trib. Roma 25 marzo 2005, cit.,
LOMBARDI A., Espropriazione forzata dei beni della comunione legale e responsabilità sussidiaria ex art. 189, 2o
comma, Giur. merito 2006, 1642, che affronta tra l'altro, il problema specifico della influenza, delle nuove norme
in tema di espropriazione.
Ad una analisi preliminare della nuova fisionomia degli istitituti giuridici di cui si è fatta applicazione nelle
sentenze in commento — che riflettono l'impostazione dogmatica più corretta e la prassi applicativa più diffusa —
così come tratteggiata dalla normativa di riforma delle esecuzioni immobiliari di cui al d.l. n. 35 del 2005
(convertito in l. n. 80 del 2005, in vigore dal 1 marzo 2006) — afferma l'A. — può sostenersi che il procedimento
di espropriazione forzata dei beni appartenenti alla comunione legale, in forza della responsabilità sussidiaria ex
art. 189 comma 2, non sia destinato a subire variazioni di rilievo rispetto all'iter appena delineato. Le sostanziali
modifiche apportate alla norma di cui all'art. 492 c.p.c., rubricata « forma del pignoramento » toccano soltanto
marginalmente il peculiare procedimento in questione, intrapreso con l'esecuzione del pignoramento nei confronti
del coniuge debitore che, per la peculiare situazione di contitolarità del diritto, produrrà i suoi effetti tipici anche
nei confronti dell'altro coniuge. Può, tuttavia, osservarsi che la possibilità (ex comma 4) che il debitore, su invito
dell'ufficiale giudiziario, renda dichiarazioni indicando ulteriori beni utilmente pignorabili, seppure ancorata alla
ricorrenza di specifici presupposti (insufficienza dei beni assoggettati a pignoramento e prevedibile lunga durata
della liquidazione), possa risultare strumento utile nella prospettiva di garantire effettività alla natura sussidiaria
della responsabilità della comunione ex art. 189 comma 2. Il debitore, difatti potrebbe in quella sede indicare beni
in proprietà esclusiva da aggredire con preferenza rispetto ai cespiti oggetto di comunione, così perseguendo, nel
medio raggio, obiettivi di deflazione processuale, considerato che la pretesa pretermissione del beneficium ordinis
(o excussionis, a seconda dell'opinione che si segua) di cui all'art. 189 comma 2 deve essere fatta valere dal
coniuge non debitore in sede di opposizione alla esecuzione. Nessuna variazione è, viceversa, stata apportata alle
norme regolanti gli avvisi da dare ai creditori con prelazione di ambedue i coniugi ed al coniuge non debitore e
segnatamente, gli artt. 498 (avviso ai creditori iscritti), 599 comma 2 (avviso del pignoramento), 600 c.p.c. e 180
comma 2 disp. att. c.p.c. (avviso di convocazione). Le modifiche introdotte al comma 2 dell'art. 600 c.p.c., infine,
non tangono la fattispecie de quo, poiché, come in precedenza illustrato, la convocazione del coniuge non debitore
non è strumentale alla assunzione di notizie utili alla assunzione dei provvedimenti in ordine alla separazione in
natura, vendita della quota indivisa o divisione giudiziale, rivestendo, alla luce della enunciata interpretazione
evolutiva, finalità informative e di garanzia in favore del coniuge non esecutato.
V. n. seguente.
11. Segue: coniuge non esecutato, notifiche. — Al coniuge non esecutato devono essere notificati l'avviso
di pignoramento ex art. 599 c.p.c. e l'avviso di convocazione ex art. 600 c.p.c. e 180 disp. att. c.p.c., mentre
l'avviso di cui all'art. 498 c.p.c. va notificato ai creditori con diritto di prelazione risultanti da pubblici registri di
ambedue i coniugi, al fine di consentire la piena attuazione dell'art. 189 comma 2 (Trib. Roma 25 marzo 2005,
Giur. merito 2006, 1641, con nota di LOMBARDI A., Espropriazione forzata dei beni della comunione legale e
responsabilità sussidiaria ex art. 189, 2o comma, ricordata al n. precedente).
Sempre in argomento, in altra occasione, da parte dello stesso tribunale si è precisato, altresì, che l'avviso di
cui all'art. 498 c.p.c., che mette a conoscenza dell'espropriazione i creditori iscritti, deve essere necessariamente
notificato ai creditori di entrambi i coniugi, al fine di consentire la piena attuazione dell'art. 189 comma 2, (Trib.
Roma 11 giugno 2005, Redazione Giuffrè 2005).
12. Segue: esistenza di beni personali; eccezione, onere della prova. — Grava sul coniuge debitore e sul
coniuge non esecutato dimostrare l'esistenza di beni personali del coniuge esecutato, sui quali il creditore
particolare del coniuge possa soddisfarsi ex art. 189 (Trib. Cassino 7 gennaio 2005, Nuovo dir. 2005, 239, con
nota informativa di LOTITO G., L'art. 618-bis c.p.c. e l'opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. - Creditore
particolare del coniuge in regime di comunione legale ed esecuzione forzata ex art. 189, 2o comma.
Art. 190.
Responsabilità sussidiaria dei beni personali.
I creditori possono agire in via sussidiaria sui beni personali di ciascuno dei coniugi, nella misura
della metà del credito, quando i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti su di essi
gravanti.
Bibliografia: OPPO, Responsabilità patrimoniale e nuovo diritto di famiglia, Riv. dir. civ. 1976, I; A. FINOCCHIARO, M. FINOCCHIARO,
Diritto di famiglia, I, Milano, 1984; GIONFRIDA DAINO, La posizione dei creditori nella comunione legale tra coniugi, Padova, 1986;
MALAGÙ, Esecuzione forzata e diritto di famiglia, Milano, 1986; MANGANO, Comunione dei beni tra coniugi. II) Profili processuali,
Enc. Giur., VII, Roma, 1988; La responsabilità sussidiaria dei beni personali, La comunione legale, a cura di Bianca, Milano, 1989;
MASTROPAOLO, PITTER, sub art. 190, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; TOMMASEO, Debiti della comunione legale e
indicazione del coniuge nel titolo esecutivo, Famiglia e diritto 1994; BERNARDI, BOCCHINI, Rapporto coniugale e circolazione dei
beni, 2ª ed., Napoli, 1995; BARBIERA, La comunione legale, Tratt. Rescigno, 3, 2ª ed., Torino, 1996; GABRIELLI, Regime patrimoniale
della famiglia, Digesto civ., XVI, Torino, 1997; BRUSCUGLIA, L'amministrazione, la responsabilità e lo scioglimento della comunione
legale, Il diritto di famiglia, II, Tratt. Bessone, IV, Torino, 1999; GRASSELLI, in ZANINI, GRASSELLI, Le obbligazioni della comunione
e dei coniugi, in La famiglia, II, Torino, 2000; GNANI, Tutela del creditore e limiti della responsabilità sussidiaria nella comunione
legale, in Familia, 2001; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, II, 2ª ed., Milano, 2002;
MINNECI, Responsabilità patrimoniale dei coniugi in regime di comunione legale, in Regime patrimoniale della famiglia, in Tratt.
Zatti, III, Milano, 2002; SANTOSUOSSO, Beni e attività economica della famiglia, 2ª ed., Giur. sist. Bigiavi, Torino, 2002; VERZERA, Le
obbligazioni dei coniugi in comunione legale, in Manuale del nuovo diritto di famiglia, a cura di Cassano, Piacenza, 2003; GALASSO,
Del regime patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 2003; DI MARTINO, La responsabilità, Tratt.
Bonilini, Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, 2ª ed., Torino, 2007; AULETTA, Il diritto di famiglia, 9ª ed., Torino, 2008;
RAIOLA, SALOMONE, Il regime patrimoniale della famiglia: questioni controverse, profili di responsabilità e tutela del coniuge debole,
Padova, 2008; AA.VV., Il regime patrimoniale della famiglia, a cura di A. Arceri e M. Bernardini, Santarcangelo di Romagna, 2009;
BALESTRA, Attività d'impresa e rapporti familiari, Padova, 2009; TESTA, Rapporti patrimoniali e famiglia nell'evoluzione
interpretativa della riforma del diritto di famiglia, Milano, 2010; BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, 5ª ed., Torino, 2010;
OBERTO, La comunione legale tra coniugi, Tratt. Cicu, Messineo, Milano, 2010.
Sommario: 1. Deroga all'art. 190 c.c.: clausola vessatoria.
1. Deroga all'art. 190 c.c.: clausola vessatoria. — Ha affermato un giudice di merito che sono vessatorie le
clausole che in deroga all'art. 190 autorizzano la banca ad agire in via principale, anziché sussidiaria, e per l'intero
credito sui beni personali di ciascuno dei coniugi cointestatari (Trib. Roma 21 gennaio 2000, Banca, borsa, tit.
cred. 2000, II, 207. Analogamente App. Roma 24 settembre 2002, Giur. romana 2003, 138).
Sezione V. Del regime di separazione dei beni.
Art. 215.
Separazione dei beni.
I coniugi possono convenire che ciascuno di essi conservi la titolarità esclusiva dei beni acquistati
durante il matrimonio.
Bibliografia: BELLANTONI e PONTORIERI, La riforma del diritto di famiglia, Napoli 1975, 173-179; CATTANEO, Commentario alla
riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo, Trabucchi, I, 1, 468-488; MAZZOCCA, I rapporti patrimoniali tra coniugi nel
nuovo diritto di famiglia, Milano 1976, 155-164; TAMBURINO, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia italiano, Torino 1976, 238-239;
DE PAOLA, MACRÌ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano 1978, 261-277; M. FINOCCHIARO, in A. e M. Finocchiaro,
Diritto di famiglia, I, Milano 1984, 1205-1220; GIUSTI, Separazione dei beni tra coniugi, ED, XLI, Milano, 1989; CATTANEO,
Commentario al diritto italiano della famiglia, III, Padova 1992, 415-449; CATTANEO, Note introduttive agli articoli 215-219, Comm.
Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; Id., sub art. 215, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; SESTA e VALIGNANI, Il
regime di separazione dei beni, Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, II, Milano 2002, 459 ss.; MONTANARI, Riforma del
diritto fallimentare e famiglia, FPS, 2006; ZACCARIA, La separazione dei beni, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Torino, 2007; AA.VV., Il
regime patrimoniale della famiglia, a cura di A. Arceri e M. Bernardini, Santarcangelo di Romagna, 2009; AA.VV., Codice della
famiglia, a cura di M. Sesta, 2ª ed., Milano, 2009; BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, 5ª ed., Torino, 2010.
Sommario: 1. Adesione dei coniugi al regime di separazione dei beni: non soggezione dei successivi acquisti personali alla pubblicità
di cui all'art. 2647 c.c. — 2. Regime di separazione dei beni e patto fiduciario. Onere della prova. — 3. Coniugi soggetti alla
comunione: regime di separazione con riguardo a un unico bene. Condizioni. — 4. Regime previgente: comunione universale dei beni
ex art. 215 ss. (nella formulazione originale). — 5. Presunzione muciana: esclusione. Rinvio.
1. Adesione dei coniugi al regime di separazione dei beni: non soggezione dei successivi acquisti
personali alla pubblicità di cui all'art. 2647 c.c. — L'art. 2647 (come modificato dall'art. 206, l. 19 maggio 1975
n. 151) nella parte in cui dispone « devono essere trascritte, se hanno per oggetto beni immobili… le convenzioni
matrimoniali che escludono i beni medesimi dalla comunione tra i coniugi… » fa riferimento alle convenzioni
stipulate dai coniugi per porre in vita regimi convenzionali di comunione dei beni, ai sensi dell'art. 210 e prevede
che, qualora uno dei coniugi proceda all'acquisto di un immobile che, secondo il regime legale, sarebbe comune
ma, in forza del regime convenzionale, è personale, cioè escluso dalla comunione, deve trascriversi, in una con
l'atto d'acquisto, anche la modifica convenzionale della comunione legale dei beni. Ne segue che, operata (e
pubblicizzata mediante annotazione a margine dell'atto di matrimonio) la scelta del regime di separazione, gli
acquisti immobiliari fatti « successivamente » in via esclusiva da uno dei coniugi non sono soggetti anche alla
particolare pubblicità prevista dall'art. 2647 (Cass. 22 gennaio 1986 n. 397, Giust. civ. 1986, I, 989; Vita not.
1986, 263; Dir. famiglia 1986, 497; Riv. not. 1986, 1155. In dottrina, pressoché negli stessi termini, FINOCCHIARO
M., in A. e M.FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, II, Milano 1984, 2439 ss., in part. 2443-2444).
2. Regime di separazione dei beni e patto fiduciario. Onere della prova. — Qualora, in regime di
separazione dei beni, uno dei coniugi assuma che gli acquisti dell'altro coniuge siano stati effettuati con l'apporto
di danaro di entrambi, ed alleghi l'esistenza di un accordo fiduciario, in virtù del quale il coniuge intestatario unico
dei beni acquistati si impegnava a riconoscere l'altro coniuge comproprietariodegli stessi, non è sufficiente, ai fini
della prova del pactum fiduciae, di per sé ammissibile e rilevante, perché ricollegabile alla figura della c.d. fiducia
statica, la dimostrazione dell'esborso di una parte del denaro occorrente per gli acquisti (Trib. Catania 31 dicembre
1985, Dir. famiglia 1986, 1080).
Analogamente in sede di legittimità, con riferimento nella disciplina previgente alla riforma del diritto di
famiglia di cui alla l. 19 maggio 1975 n. 151, si è precisato che il coniuge che reclami la comproprietà di un bene
immobile, anche in una situazione di comunione tacita familiare, non può avvalersi della prova testimoniale,
stante la necessità dell'atto scritto (art. 1350) (Cass. 27 febbraio 1989 n. 1062).
3. Coniugi soggetti alla comunione: regime di separazione con riguardo a un unico bene. Condizioni. —
I coniugi in regime patrimoniale di comunione legale, al fine di effettuare l'acquisto anche di un solo bene in
regime di separazione (tale essendo l'eventuale acquisizione in comunione ordinaria, che esige un regime di
separazione), sono tenuti a previamente stipulare una convenzione matrimoniale derogatoria del loro regime
ordinario, ai sensi dell'art. 162, sottoponendola alla specifica pubblicità per essa prevista, non essendo al riguardo
viceversa sufficiente una più o meno esplicita indicazione contenuta nell'atto di acquisto, posto che questo non
viene sottoposto alla pubblicità delle convenzioni matrimoniali, le quali solo conferiscono certezza in ordine al
tipo di regime (patrimoniale) cui sono sottoposti gli atti stipulati dai coniugi (Cass. 24 febbraio 2004, n. 3647, Vita
not. 2004, 971).
4. Regime previgente: comunione universale dei beni ex art. 215 ss. (nella formulazione originale). —
Con riguardo all'acquisto di un bene immobile effettuato da uno dei coniugi a proprio nome, prima della riforma
di cui alla l. n. 151 del 1975, il diritto di comproprietà dell'altro coniuge, per uguale quota, può essere riconosciuto
qualora risulti la ricorrenza di una comunione universale dei beni, secondo la previsione degli allora vigenti artt.
215-230 tenuto conto che la costituzione di tale comunione, riconducibile anche ad una intesa tacita dei coniugi
medesimi implica ipso iure la caduta in comproprietà dei successivi acquisti effettuati dal singolo
compartecipante, con la sola esclusione di quelli espressamente previsti dall'art. 217 (vecchio testo) (Trib. Pescara
5 maggio 2003, PQM 2004, 49, con nota di RIMATO S., La comunione patrimoniale dei coniugi alla luce dei
principi costituzionali; Giur. Merito 2004, 1666).
5. Presunzione muciana: esclusione. Rinvio. — L'art. 70 l. fall., prima che intervenisse la riforma del diritto
fallimentare (D.L. 14 marzo 2005, n. 35; D.Lgs 9 gennaio 2006, n. 5) sanciva che i beni acquistati a titolo oneroso
dal coniuge del fallito, nel quinquennio anteriore alla dichiarazione di fallimento, si presumevano di fronte ai
creditori e salvo prova contraria, acquistati con danaro del fallito e si consideravano di sua proprietà. Tale norma,
invero, si riteneva già abrogata, implicitamente, dalla riforma del diritto di famiglia del '75, e la giurisprudenza
riteneva inapplicabile la c.d. presunzione muciana indipendentemente dalla circostanza che i coniugi fossero in
regime di comunione legale o di separazione dei beni (Cass., sez. un., 12 giugno 1997 n. 5291, Giust. civ. 1997, I,
2093, con nota adesiva di G. GIACALONE, Inapplicabilità della presunzione muciana ai coniugi in regime di
separazione dei beni; Foro it. 1997, I, 2422; Arch. civ. 1997, 715, con nota informativa di SEGRETO, La
scomparsa della presunzione muciana; Fallimento 1997, 1208, con nota di PANZANI, Atti pregiudizievoli ai
creditori. Presunzione muciana e regime di separazione dei beni tra coniugi. Presunzione muciana: ultimo atto.
Sempre nello stesso senso, per la giurisprudenza successiva, Cass. 11 febbraio 2000 n. 1501, Dir. e prat. soc.
2000, f. 12, 66, con nota di BUJIN, Presunzione muciana e regime patrimoniale di separazione dei beni). Con la
riforma della legge fallimentare (D.L. 14 marzo 2005, n. 35; D.Lgs 9 gennaio 2006, n. 5), l'istituto è
definitivamente scomparso anche dalla legge medesima (il cui art. 70 riguarda, oggi, gli effetti della revocatoria).
Di conseguenza, i creditori, se il coniuge del fallito compie atti di disposizione, sono ora tutelati in via esclusiva
dalle regole generali dettate contro gli atti pregiudizievoli (a cominciare dalla revoca ex artt. 64 ss. l. Fall.).
V. ampiamente, per un approfondimento sia giurisprudenziale sia bibliografico, sub art. 177.
Art. 216.
(Articolo abrogato dall'art. 84, l. 19 maggio 1975 n. 151).
Art. 217.
Amministrazione e godimento dei beni.
Ciascun coniuge ha il godimento e l'amministrazione dei beni di cui è titolare esclusivo.
Se ad uno dei coniugi è stata conferita la procura ad amministrare i beni dell'altro con l'obbligo di
rendere conto dei frutti, egli è tenuto verso l'altro coniuge secondo le regole del mandato.
Se uno dei coniugi ha amministrato i beni dell'altro con procura senza l'obbligo di rendere conto
dei frutti, egli ed i suoi eredi, a richiesta dell'altro coniuge o allo scioglimento o alla cessazione degli
effetti civili del matrimonio, sono tenuti a consegnare i frutti esistenti e non rispondono per quelli
consumati.
Se uno dei coniugi, nonostante l'opposizione dell'altro, ammini-stra i beni di questo o comunque
compie atti relativi a detti beni risponde dei danni e della mancata percezione dei frutti.
Bibliografia: CATTANEO, sub art. 217, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; ZACCARIA, La separazione dei beni, Tratt.
Bonilini, Cattaneo, II, Torino, 2007.
Sommario: 1. Accordo sull'ammontare dell'indennità ex art. 26, l. 25 giugno 1865 n. 2359 per un bene della moglie, sottoscritto dal
marito. Validità, condizioni. — 2. Beni acquistati da ciascun coniuge anteriormente alla data di entrata in vigore della l. 19 maggio
1975 n. 151: regime giuridico.
1. Accordo sull'ammontare dell'indennità ex art. 26, l. 25 giugno 1865 n. 2359 per un bene della moglie,
sottoscritto dal marito. Validità, condizioni. — In tema di espropriazione per pubblica utilità, l'accordo
sull'ammontare dell'indennità, preveduto dall'art. 26 della l. 25 giugno 1865 n. 2359 — come per la cessione del
bene ai sensi dell'art. 12 della l. n. 865 del 1971 — deve farsi per iscritto, sicché, quando esso sia convenuto da
soggetto diverso dal proprietario, è necessario che questi l'abbia autorizzato con procura o mandato che, per la
regola di corrispondenza tra forma di tali atti e forma di quello da concludersi dal rapprentante, dovrà essere stato
anch'esso redatto per iscritto. Ne consegue che non è validamente sottoscritto dal marito l'accordo relativo ad un
bene della moglie, se manchino una procura o mandato di questa redatti per iscritto, non essendo equivalente un
mandato tacito rappresentativo sulla base dell'art. 217 (Cass. 29 dicembre 1988 n. 7090).
2. Beni acquistati da ciascun coniuge anteriormente alla data di entrata in vigore della l. 19 maggio
1975 n. 151: regime giuridico. — Nell'ipotesi in cui i coniugi non abbiano convenuto di assoggettare i beni da
loro acquistati anteriormente all'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151 al regime della comunione, entro
il termine stabilito all'art. 228 di tale legge, detti beni restano soggetti al diverso regime della separazione in base
al quale, a norma dell'art. 217 (nel nuovo testo introdotto dall'art. 85 della l. n. 151 del 1975), ciascuno dei coniugi
conserva il godimento dei beni di cui è l'esclusivo titolare. Ne consegue che il coniuge proprietario-locatore di un
appartamento può utilmente agire nei confronti dell'inquilino per la cessazione della proroga legale del contratto
di locazione, adducendo la necessità per motivi di lavoro, anche quando, in regime di separazione dei beni, l'altro
coniuge abbia venduto un appartamento di sua esclusiva proprietà, non potendo il primo vantare su questo bene
alcun proprio diritto e, quindi, impedire l'alienazione, sia pure per soddisfare con esso le esigenze della sua attività
lavorativa (Cass. 19 febbraio 1981 n. 1017).
Art. 218.
Obbligazioni del coniuge che gode dei beni dell'altro coniuge.
Il coniuge che gode dei beni dell'altro coniuge è soggetto a tutte le obbligazioni dell'usufruttuario.
Bibliografia: CATTANEO, sub art. 218, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; RIGHI E., La Cassazione conferma la
legittima applicazione dell'ICI a carico del coniuge separato non assegnatario dell'alloggio familiare, ma proprietario dello stesso,
Bollettino trib. 2007, 1163; SALVATI A., Assegnazione della casa familiare e imposta comunale sugli immobili, Famiglia e diritto
2007, 775.; ZACCARIA, La separazione dei beni, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Torino, 2007.
Sommario: 1. Coniuge assegnatario della casa familiare in regime di separazione legale e Ici: art. 218: inapplicabilità.
1. Coniuge assegnatario della casa familiare in regime di separazione legale e Ici: art. 218:
inapplicabilità. — L'articolo in commento, con disposizione derogabile dai coniugi, assoggetta il coniuge che
gode dei beni dell'altro a tutte le obbligazioni dell'usufruttuario: ad esempio, l'obbligo di non alterare la
destinazione del bene, di custodirlo fino alla consegna, di provvedere alle spese per la manutenzione ordinaria, di
pagare le imposte come sancito dall'art. 1008 c.c.
Quanto a quest'ultimo punto, tuttavia, si è di recente affermato che gli artt. 217 e 218 c.c. non sono invocabili
in tema di imposta comunale sugli immobili.
Così, infatti, Cass. 24 febbraio 2009, n. 4445, Fisco on line 2009, e Cass. 20 ottobre 2008, n. 25486, Fisco on
line 2008, secondo le quali l'imposta comunale sugli immobili ha natura di imposta reale ed i relativi presupposti
oggettivo e soggettivo sono rappresentati dal possesso di beni immobili e dalla titolarità di diritti reali sui
medesimi. Ne consegue che l'assegnazione dell'abitazione di proprietà di entrambi nell'ambito della separazione
personale dei coniugi non rileva ai fini dell'individuazione del soggetto passivo né può utilmente invocarsi il
disposto degli artt. 217 e 218 c.c., non applicabile analogicamente alla situazione di cui è causa. Il coniuge
assegnatario è infatti chiamato a rispondere dell'obbligazione tributaria nei limiti della quota ideale del diritto di
cui è titolare.
In tema di imposta comunale sugli immobili, il coniuge affidatario dei figli al quale sia assegnata la casa di
abitazione posta nell'immobile di proprietà (anche in parte) dell'altro coniuge non è soggetto passivo dell'imposta
per la quota dell'immobile stesso sulla quale non vanti il diritto di proprietà ovvero un qualche diritto reale di
godimento, come previsto dall'art. 3 d.lgs. 30 dicembre 1992 n. 504.
Con il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa in sede di separazione personale o di divorzio,
infatti, viene riconosciuto al coniuge un atipico diritto personale di godimento e non un diritto reale, sicché in
capo al coniuge non è ravvisabile la titolarità di un diritto di proprietà o di uno di quei diritti reali di godimento,
specificamente previsti dalla norma, costituenti l'unico elemento di identificazione del soggetto tenuto al
pagamento dell'imposta in parola sull'immobile.
Né in proposito rileva il disposto dell'art. 218, secondo il quale « Il coniuge che gode dei beni dell'altro
coniuge è soggetto a tutte le obbligazioni dell'usufruttuario », in quanto la norma, dettata in tema di regime di
separazione dei beni dei coniugi, va intesa solo come previsione integrativa del precedente art. 217
(amministrazione e godimento dei beni), di guisa che la complessiva regolamentazione recata dalle disposizioni
dei due articoli è inapplicabile in tutte le ipotesi in cui il godimento del bene del coniuge da parte dell'altro
coniuge sia fondato da un rapporto diverso da quello disciplinato da dette norme, come nell'ipotesi di
assegnazione (volontaria o giudiziale) al coniuge affidatario dei figli minori della casa di abitazione di proprietà
dell'altro coniuge, atteso che il potere del primo non deriva né da un mandato conferito dal secondo, né dal
godimento di fatto del bene (ipotizzante il necessario consenso dell'altro coniuge), di cui si occupa l'art. 218 (Cass.
16 marzo 2007, n. 6192, Giust. civ. 2007, I, 822; Foro it. 2007, I, 1398; Dir. famiglia 2007, 710; Famiglia e dir.
2007, 775, Bollettino trib. 2007, 1163).
Art. 219.
Prova della proprietà dei beni.
Il coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell'altro la proprietà esclusiva di un bene.
I beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa
per pari quota di entrambi i coniugi.
Bibliografia: ZACCARIA, La separazione dei beni, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Torino, 2007.
Sommario: 1. Operatività della presunzione di cui all'art. 219 c.c., nei confronti dei terzi. — 2. Inapplicabilità dell'art. 219 ai beni
immobili. — 3. Inapplicabilità dell'art. 228 della l. n. 151 del 1975 c.c., vigendo, tra i coniugi, il regime di separazione patrimoniale. —
4. Conto corrente cointestato. Qualità di casalinga di uno dei coniugi: conseguenze. — 5. Titoli al portatore in « deposito titoli »
cointestati a coniugi in regime di separazione dei beni.
1. Operatività della presunzione di cui all'art. 219 c.c., nei confronti dei terzi. — Si è osservato, in
dottrina, come la norma si applichi nelle controversie tra i coniugi, nelle controversie tra un coniuge e gli eredi
dell'altro e, in caso di decesso dei due coniugi, nelle controversie tra gli eredi di entrambi (ZACCARIA, La
separazione dei beni, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Torino, 2007, 376).
Il comma 2 dell'art. 219 (che, con riferimento alla ipotesi di separazione di beni tra coniugi, sancisce una
presunzione semplice di comproprietà per i beni mobili dei quali nessuno di essi sia in grado di dimostrare la
proprietà esclusiva), pur non contenendo una esplicita limitazione dell'efficacia della presunzione di comunione ai
soli rapporti interni tra i coniugi (a differenza di quanto stabilito al comma 1, contenente un espresso riferimento
ai rapporti predetti), va interpretato secondo criteri ermeneutici di tipo logico unitario, non meno che storici
(emergendo dai lavori preparatori che l'efficacia della presunzione era stata inizialmente estesa anche ai terzi), e
non consente, pertanto, di estendere gli effetti della presunzione in parola anche ai rapporti di ciascun coniuge con
i terzi.
Ne segue, pertanto, che in tema di opposizione all'esecuzione, il coniuge opponente incontra tutti i limiti di
prova previsti, in linea generale, dall'art. 621 c.p.c. (che esclude, in particolare, l'efficacia probatoria di qualsiasi
forma di presunzione) (Cass. 7 luglio 1998 n. 6589, Giur. it. 1999, 1170, con nota adesiva di FRATINI,
Opponibilità ai terzi della presunzione di comproprietà di cui all'art. 219, 2o comma c.c.).
Diversamente, da parte di un giudice di merito, si è affermato che la presunzione di comproprietà, posta
dall'art. 219 cpv c.c. opera non solo nell'ambito dei rapporti fra coniugi, ma estende la sua portata anche nei
confronti dei terzi e ciò quale che sia il regime patrimoniale adottato dai coniugi.
L'azione esecutiva avente ad oggetto i beni mobili nella casa coniugale, per effetto, resta circoscritta alla
quota ideale (50%) di proprietà del coniuge esecutato, con conseguente illegittimità del pignoramento
limitatamente a quella parte di beni che eccedono detta quota (Trib. Pavia 20 novembre 1979, Giur. it. 1980, I, 2,
431, che ha fatto propri i rilievi espressi, in dottrina, da FINOCCHIARO M. in A. e M. FINOCCHIARO, Riforma del
diritto di famiglia, I, Milano 1975, 608-609, ed ora ID., Diritto di famiglia, Milano 1984, 1216).
In dottrina, in senso diverso, per l'affermazione, cioè che la presunzione posta dal cpv., dell'art. 219 opera
unicamente nei rapporti interni, tra coniugi, e non è opponibile ai terzi, tra gli altri: CORSI, Il regime patrimoniale
della famiglia, cit., 170; SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia, cit.,
364.
2. Inapplicabilità dell'art. 219 ai beni immobili. — L'art. 219 (nel testo novellato dalla l. 19 maggio 1975
n. 151) — che riconosce al coniuge la facoltà di provare con ogni mezzo, nei confronti dell'altro, la proprietà
esclusiva di un bene (comma 1) ed aggiunge che i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà
esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi (comma 2) — concerne essenzialmente le
controversie relative a beni mobili, ed è volto principalmente a derogare, attraverso la presunzione posta nel
comma 2 alla regola generale sull'onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna deroga configura
alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari.
Pertanto, quando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo d'acquisto, l'altro
coniuge che alleghi l'interposizione reale non può provarla né con giuramento né con testimoni, giacché l'obbligo
dell'interposto di ritrasmettere all'interponente i diritti acquistati deve risultare, sotto pena di nullità da atto scritto,
salvo che nell'ipotesi di perdita incolpevole del documento e non anche dunque, nel caso in cui si deduce un
semplice principio di prova per iscritto (Cass. 28 marzo 1990 n. 2540; 10 febbraio 1995 n. 1482; 15 novembre
1997 n. 11327, Riv. not. 1998, 182).
Nello stesso senso, da parte di un giudice di merito, si è affermato che l'art. 219 c.c., secondo cui il coniuge
può provare con ogni mezzo nei confronti dell'altro la proprietà esclusiva di un bene, si applica soltanto alle
controversie relative ai beni mobili, perché la prova della proprietà degli immobili risulta, di solito, da un titolo
non equivoco.
Ne consegue che, allorquando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo di
acquisto, l'altro coniuge che alleghi l'interposizione reale, non può provarla né con testimoni e neppure con
giuramento, giacché l'obbligo dell'interposto di trasmettere il bene all'interponente deve risultare, a pena di nullità,
da atto scritto (Trib. Milano 19 settembre 1983, Dir. famiglia 1984, 159. Non diversamente, Trib. Catania 11
luglio 1986, ivi 1987, 228: nel conflitto tra il coniuge affidatario della prole ed al quale sia stata assegnata la casa
familiare con provvedimento del presidente del tribunale, ed il terzo acquirente della suddetta casa, devesi
preferire colui che per primo ha trascritto il titolo dal quale deriva il suo diritto, posto che anche il provvedimento
con il quale viene disposta l'assegnazione della casa familiare, in quanto costitutivo di un diritto di abitazione, è
soggetto a trascrizione).
V. numero precedente.
3. Inapplicabilità dell'art. 228 della l. n. 151 del 1975 c.c., vigendo, tra i coniugi, il regime di
separazione patrimoniale. — L'art. 219 regola l'istituto della prova della proprietà dei beni nell'ipotesi in cui
vige tra i coniugi il regime della separazione patrimoniale. Sicché, riguardo ad essa, non è applicabile la
disposizione transitoria dell'art. 228 della l. 19 maggio 1975 n. 151, afferente al regime di comunione legale dei
beni acquistati successivamente alla data di entrata in vigore della legge quando non c'è controversia
sull'interferenza di un regime rispetto all'altro (Cass. 15 gennaio 1990 n. 107, Giust. civ. 1990, I, 1534).
4. Conto corrente cointestato. Qualità di casalinga di uno dei coniugi: conseguenze. — Il coniuge in
regime di separazione di beni può provare con ogni mezzo, rispetto all'altro, la proprietà esclusiva di un bene
mobile, nella specie, superando la presunzione legale di contitolarità delle somme esistenti sul conto corrente
cointestato ai coniugi (Trib. Roma 1 febbraio 2008, Redazione Giuffrè 2008).
Tuttavia, se il saldo attivo di un conto corrente bancario cointestato a coniugi in regime di separazione di beni
risulta discendere da versamenti effettuati solo dal marito e con somme provenienti dal proprio reddito da lavoro,
si deve escludere che l'altro coniuge, casalingo e privo di redditi propri, nel rapporto interno tra correntisti, possa
avanzare diritti di partecipazione al saldo predetto (Trib. Verona 8 aprile 1994, Dir. famiglia 1995, 558, con nota
parzialmente critica di CONTE, Conti cointestati e separazione dei coniugi: che guaio essere casalinghe!).
5. Titoli al portatore in « deposito titoli » cointestati a coniugi in regime di separazione dei beni. — Nel
caso in cui dei titoli al portatore (bot) siano depositati su un « deposito titoli » cointestato a due coniugi in regime
di separazione di beni, i rapporti interni fra i depositanti sono regolati dall'art. 1298, comma 2, onde il credito
corrispondente si divide in quote eguali fra i coniugi solo ove non risulti diversamente (Cass. 29 aprile 1999 n.
4327).
4
LA TRASCRIZIONE DELLE CONVENZIONI MATRIMONIALI
di Antonio Albanese
BIBLIOGRAFIA
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trascrizione immobiliare, COM SCH. Art. 2646-2651, 2°, Milano, 1993; G. GABRIELLI-A.
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patrimoniale, Milano, 1990; F. FINOCCHIARO, La pubblicità in materia di rapporti patrimoniali fra
coniugi, GI 1989, I, 1; G. GABRIELLI, Questioni recenti in tema di pubblicità immobiliare, C IMPR,
1989; PITRONE, Pubblicità immobiliare e rapporti patrimoniali tra coniugi: orientamenti
giurisprudenziali, RN 1989; L. FERRI, Forme e pubblicità del regime patrimoniale della famiglia,
RTDPC 1988a; L. FERRI, La pubblicità del regime patrimoniale della famiglia, in Il regime
patrimoniale della famiglia a dieci anni dalla riforma, QRN, Milano, 1988b; PADOVINI, voce
Trascrizione, NNDI-App., VII, Torino, 1987; GIUSTI, La pubblicità nei rapporti patrimoniali tra
coniugi. Profili critici e analisi ricostruttiva, RTDPC 1986; ZACCARIA, La pubblicità del regime
patrimoniale della famiglia: le posizioni della dottrina, RDC 1985, II; OBERTO, Annotazione e
trascrizione delle convenzioni matrimoniali: una difficile coesistenza, RD IP 1982; G. GABRIELLI,
voce Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, EdD, XXXII, Milano, 1982; TRABUCCHI, La
pubblicità immobiliare. Un sistema in evoluzione, RD IP 1982; CIAN-CASAROTTO, voce Fondo
patrimoniale della famiglia, NNDI – App., Torino, 1982, III; G. GABRIELLI, Scioglimento parziale
della comunione legale fra coniugi, esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo
del coacquisto, RDC 1981, I; SEGNI, Gli atti di straordinaria amministrazione del singolo coniuge
sui beni immobili della comunione, RDC 1980, I; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, Tr.
C.M., 1, Milano, 1979; DEL PASQUA, Le convenzioni matrimoniali, GM 1979; FORCHIELLI,
Commento all’art. 206, COM. RDF, I, 2, Padova, 1977; SCHLESINGER, Il nuovo regime
patrimoniale tra coniugi. La contrattazione e la pubblicità immobiliare, in Diritto di famiglia.
Società. contrattazione immobiliare, Milano, 1978; CIAN, Sulla pubblicità del regime patrimoniale
della famiglia. Una revisione che si impone, RDC 1976, I; PALERMO, La disciplina della pubblicità
nella riforma del diritto di famiglia, RN 1976; DE RUBERTIS, Il nuovo regime patrimoniale della
famiglia e la trascrizione immobiliare, V NOT 1976; ANDRINI, Convenzioni matrimoniali e
pubblicità legale nel nuovo diritto di famiglia, RN 1975; BONIS, La nuova disciplina della
pubblicità immobiliare con la riforma del diritto di famiglia, in Il nuovo diritto di famiglia. QRN, 4,
Milano, 1975.
LIBRO SESTO
Della tutela dei diritti
TITOLO I
Della trascrizione
CAPO I
Della trascrizione degli atti relativi ai beni immobili
………
2647. Costituzione del fondo patrimoniale e separazione di beni. — Devono essere trascritti,
se hanno per oggetto beni immobili, la costituzione del fondo patrimoniale, le convenzioni
matrimoniali che escludono i beni medesimi dalla comunione tra i coniugi, gli atti e i
provvedimenti di scioglimento della comunione, gli atti di acquisto di beni personali a norma delle
lettere c), d), e), ed f) dell’articolo 179, a carico, rispettivamente, dei coniugi titolari del fondo
patrimoniale e del coniuge titolare del bene escluso o che cessa di far parte della comunione.
Le trascrizioni previste dal precedente comma devono essere eseguite anche relativamente ai
beni immobili che successivamente entrano a far parte del patrimonio familiare o risultano esclusi
dalla comunione tra i coniugi.
La trascrizione del vincolo derivante dal fondo patrimoniale costituito per testamento deve essere
eseguita d’ufficio dal conservatore contemporaneamente alla trascrizione dell’acquisto a causa di
morte.
Art. così sostituito ex art. 206, l. 19 mag. 1975/151 (Riforma del diritto di famiglia).
La trascrizione delle convenzioni matrimoniali: problemi comuni alle
varie ipotesi previste dalla norma. 1.1. Prima della Riforma del diritto di
famiglia, stante la vigenza del regime legale di separazione dei beni, la norma si
dava carico di predisporre un sistema atto a dare adeguata pubblicità alle
convenzioni con le quali si sceglieva di adottare il regime di comunione, che
rispetto a quel sistema legale costituiva una deroga. Divenuta la comunione, a
seguito della Riforma, il regime patrimoniale legale dei coniugi, la norma in
oggetto è radicalmente mutata: oggi si limita a disciplinare la pubblicità degli
atti (inerenti a beni immobili) costituenti eccezioni al regime di comunione,
e quindi: della costituzione del fondo patrimoniale, delle convenzioni matrimoniali
che escludono beni dalla comunione, degli atti o provvedimenti che sciolgono la
comunione, degli acquisti di beni personali ex art. 179 c.c. (lett. c, d ed f). Non v’è
più bisogno, invece, di dar pubblicità al regime di comunione (CC 15 mar.
1990/2104, GC MASS 1990, 468: «L'opponibilità ai terzi della comunione degli
utili e degli acquisti, costituita prima della riforma del diritto di famiglia …, è
condizionata soltanto all'annotazione a margine dell'atto di matrimonio, prevista
dall'art. 162 c.c., per le convenzioni matrimoniali, senza che sia richiesta la
trascrizione della relativa convenzione a norma dell'art. 2647 c.c., atteso che l'art.
227 della legge n. 151 del 1975 non ha previsto l'ultrattività delle precedenti
norme per tale comunione, come invece ha disposto per le doti e i patrimoni
familiari»). La comunione legale, quale regime vigente in assenza di specifiche
1
convenzioni contrarie, è oggetto quindi di una “pubblicità negativa”. 1.2. Tuttavia,
a seguito della modifica, apportata dalla l. 28 feb. 1985/52, all’art. 2659 c.c., il
regime patrimoniale dei coniugi che intervengono negli atti ha anche una forma di
pubblicità positiva, essendo obbligatoria la sua indicazione nella nota di
trascrizione. Si è parlato, in proposito, di un’attenuazione di quella «sorta di
compartimento stagno tra le due forme di pubblicità», una dei registri
immobiliari, l’altra dei registri di stato civile (GAZZONI 1993, 42). Sulla premessa
che «ai fini dell'opponibilità ai terzi di un atto trascritto deve aversi riguardo
esclusivo al contenuto della nota di trascrizione, e non anche al contenuto del
titolo di acquisto che, insieme con la nota, viene depositato presso la
conservatoria del registri immobiliari», si è affermata la sufficienza, in un caso di
acquisto individuale operato da parte di un coniuge legalmente separato, della
indicazione nella nota di trascrizione dello status di separato. Risulta per
converso inutile l'annotazione del provvedimento di separazione a margine
dell'atto di matrimonio, non potendo «legittimamente sostenersi che "titolo di
acquisto" ex artt. 2657 e 2659 c.c. sia, nella specie, (non l'atto traslativo ma) l'atto
di separazione legale in quanto atto produttivo del mutamento giuridico in ordine
al singolo bene oggetto di trascrizione» (CC 28 nov. 1998/12098, N 1999, 554,
con nota di FRANCO; NGCC 1999, I, 632, con nota di MOSCA).
I rapporti tra trascrizione ed annotazione. 2.1. Il problema più spinoso
è dato certamente dal coordinamento tra la pubblicità attuata tramite gli
atti dello stato civile e la pubblicità dei registri immobiliari. In base all’art.
162, comma 4°, c.c., le convenzioni matrimoniali non possono essere opposte ai
terzi quando a margine dell’atto di matrimonio non risultano annotati la data del
contratto, il notaio rogante e le generalità dei contraenti o la scelta del regime di
separazione dichiarata nell’atto di celebrazione del matrimonio. È stata scartata
la posizione che cercava di dare coerenza al sistema separando gli ambiti
operativi delle due norme, nel senso che, mentre l’art. 2647 c.c. vale per i soli
beni immobili, l’art. 162 c.c. avrebbe riguardo ai beni mobili (PALERMO 1976, 750;
ANDRINI 1975, 1100). Si è ribattuto (OBERTO 1982, 127), infatti, che la posizione
del terzo acquirente di beni mobili è già, di per sé, inattaccabile, senza che
occorra all’uopo l’annotazione: l’art. 184 c.c. prevede, per il caso di alienazione di
beni mobili non registrati facenti parte della comunione legale, da parte di un
coniuge senza il necessario consenso dell’altro, solamente l’obbligo a carico
dell’alienante di ricostituire la comunione nel suo stato originario o di
corrispondere il valore del bene alienato; rimane sempre salvo, quindi, l’acquisto
del terzo. La dottrina si è quindi divisa in due orientamenti principali. 2.3.
Secondo l’orientamento prevalente, l’annotazione nei registri dello stato civile
prescritta dall’art. 162 c.c., sarebbe oggi l’unica forma di pubblicità richiesta per
opporre le convenzioni matrimoniali ai terzi (pubblicità dichiarativa), mentre la
funzione della trascrizione degraderebbe a quella di mera pubblicità notizia
(CIAN 1976, 33; ZACCARIA 1985, 373; G. GABRIELLI-ZACCARIA 1992, 364 ss.; F.
FINOCCHIARO 1989, 329; GAZZONI 1993, 42 ss.; SEGNI 1980, 608). Per converso, se
la trascrizione conservasse la sua normale funzione di pubblicità dichiarativa, la
norma in commento darebbe luogo ad un inutile doppione rispetto all’art. 162 c.c.
Altro argomento addotto in favore di questa soluzione (in part. da GAZZONI 1993,
43 ss.), è la mancata riproduzione, nella nuova formulazione dell’art. 2647 c.c.,
dell’originario ultimo comma, il quale precisava che la trascrizione era necessaria
ai fini dell’opponibilità ai terzi. Seguendo questa tesi, quindi, se la convenzione è
2
stata trascritta, ma non è stata annotata, essa è inopponibile ai terzi; viceversa,
essa è opponibile purché sia stata annotata, nonostante la mancata trascrizione
ex art. 2647 c.c. Inoltre, si è aggiunto da alcuni (G. GABRIELLI 1982, 293; G.
GABRIELLI 1989, 813; CIAN-CASAROTTO, 825), sebbene nella specie la trascrizione
non costituisca un onere, essa rimane pur sempre un obbligo a carico del notaio
(art. 2671 c.c.), che in caso di inadempimento deve risarcire i danni ai terzi che
abbiano acquistato diritti confidando sulle risultanze dei registri immobiliari. In
senso contrario si è osservato da altri (GAZZONI 1993, 44; TRIOLA 2000, 124) che
l’obbligo a carico del notaio non è posto a favore dei terzi in genere ma delle parti,
le quali sole potrebbero quindi agire nei suoi confronti. Inoltre il terzo non
potrebbe lamentare l’omissione della trascrizione giacché, se avesse
diligentemente consultato anche i registri dello stato civile, avrebbe potuto
accertarsi dell’esistenza della prescritta pubblicità. 2.4. Un secondo orientamento
mira a mantenere all’art. 2647 c.c. la funzione tipica della trascrizione. Ai fini
dell’opponibilità ai terzi sarebbe necessario eseguire entrambe le formalità:
annotazione nei registri dello stato civile e trascrizione nei registri
immobiliari, svolgenti entrambe la funzione di pubblicità dichiarativa.
Sarebbe possibile ricavare dal sistema (in part. ex art. 2644 e 2645), infatti, un
principio generale che impone di dare sempre prevalenza all’atto trascritto per
primo, salvo eccezioni che, però, non sono contemplate dall’art. 2647 c.c. La
funzione dichiarativa della trascrizione sarebbe infine confermata dal 2° comma
dell’art. 2685 c.c. (la cui commento si rinvia), inerente alla trascrizione di atti
aventi ad oggetto beni mobili registrati, il quale parla di «effetti stabiliti per gli
immobili», così lasciando trasparire che la trascrizione immobiliare disciplinata
dall’art. 2647 c.c. produca degli «effetti», i quali non possono che essere
dichiarativi. All’interno di questo orientamento occorre però distinguere tra chi
sostiene che dalla mancanza di una qualsiasi delle due formalità, deriverebbe
l’inopponibilità dell’atto (TRABUCCHI 1982, 114) e chi invece afferma che l’art. 162
c.c. inerisce alla convenzione matrimoniale, mentre l’art. 2647 c.c. ha riguardo ai
singoli beni (DE RUBERTIS 1976, 6; FERRI 1988a, 60; TRIOLA 2000, 126 s.; AULETTA
1990, 156; PALERMO 1976, 750; OBERTO 1982, 127); in particolare, si osserva
(CORSI 1979, 78), l’annotazione avrebbe la funzione di dare pubblicità al regime
patrimoniale vigente tra i coniugi, mentre la trascrizione avrebbe ad oggetto la
pubblicità della specifica situazione dei singoli beni. Ancora in tal senso, si è
distinto (FERRI 1988a, 60 s.) tra convenzioni e contratti per concludere che
l’annotazione renderebbe opponibili le prime, mentre la trascrizione svolgerebbe
analoga funzione per i secondi: infatti la convenzione sarebbe «una forma di
accordo che, a differenza del contratto, non incide su singoli diritti o singoli
rapporti, ma detta una disciplina generale ed astratta per futuri eventuali
rapporti». Ma si è obiettato (GAZZONI 1993, 47) che anche la norma in tema di
trascrizione utilizza il termine «convenzioni», e lo fa con significato proprio: infatti,
la lettura del primo comma dell’art. 2647 c.c. va coordinata con quella del 2°
comma, risultandone che con riguardo all’esclusione di beni le «convenzioni» cui
l’articolo si riferisce non riguardano singoli beni, ma categorie di beni, e quindi in
generale il regime patrimoniale prescelto. Parimenti, non possono che incidere sul
regime patrimoniale in generale gli atti e provvedimenti di scioglimento della
comunione. Art. 162 c.c. ed art. 2647 c.c. hanno, pertanto, lo stesso ambito di
applicazione. 2.5. La giurisprudenza ha abbracciato la tesi secondo cui la
trascrizione ex art. 2647 c.c. degrada a mera pubblicità notizia. In una pronuncia
in tema di costituzione del fondo patrimoniale, la Cassazione, premesso che tale
costituzione va compresa fra le convenzioni matrimoniali (v. amplius sub § 4), ha
concluso che, pertanto, essa «è soggetta alle disposizioni dell'art. 162 c.c., circa le
forme delle convenzioni medesime, ivi incluso il comma 3, che ne condiziona
l'opponibilità ai terzi all'annotazione del relativo contratto a margine dell'atto di
matrimonio, mentre la trascrizione del vincolo stesso, per gli immobili, di cui
all'art. 2647 c.c., resta degradata a mera pubblicità-notizia, inidonea ad
assicurare detta opponibilità» (CC 27 nov. 1987/8824, GI 1989, I, 1, 330, 1766; R
NOT 1988, 719. A questa decisione hanno fatto seguito numerose altre nello
stesso senso, di cui si darà conto nei §§ seguenti).
Il problema della trascrizione «a carico». 3.1. Oggetto di discussione è
stata anche l’interpretazione dell’espressione «a carico» contenuta nel primo
comma della norma in esame, per il quale la trascrizione andrebbe eseguita «a
carico, rispettivamente, dei coniugi titolari del fondo patrimoniale e del coniuge
titolare del bene escluso o che cessa di far parte della comunione». È indubbio,
infatti, che alcuni atti contemplati dalla norma (convenzioni che escludono beni
determinati dalla comunione legale; acquisti di beni personali) comportano un
effetto favorevole per il coniuge suddetto, sicché sarebbe stato più logico che la
legge prevedesse la trascrizione in suo favore, e non contro di lui come invece si
esprime la disposizione in esame. La soluzione preferibile è allora quella di
ammettere che il legislatore sia semplicemente incorso in un errore, e che
la trascrizione debba essere eseguita a favore del coniuge (FORCHIELLI 1977,
912, parla di uso improprio, da parte del legislatore, dell’espressione «a carico» in
luogo di quella «a favore»; per GAZZONI 1993, 49, si tratta di un vero e proprio
errore, riconducibile al fatto che è stata tralaticiamente riportata l’espressione «a
carico» prevista dall’originaria versione dell’art. 2647 c.c., senza tener presente
che a seguito della Riforma la pubblicità non era più quella in positivo della
convenzione costitutiva della comunione convenzionale, ma era divenuta quella in
negativo dell’esclusione dalla comunione legale). Fermo, dunque, che la
trascrizione va fatta a favore del coniuge che diviene proprietario esclusivo del
bene, si discute se occorra affiancare a questa trascrizione anche una seconda
trascrizione a carico dell’altro coniuge che non diventa contitolare del bene:
mentre alcuni ritengono questa seconda formalità opportuna per segnalare ai
terzi la non operatività del principio della comunione legale (ANDRINI 1975, 1100;
L. FERRI 1988a, 60), altri la considerano un’inutile superfetazione (GAZZONI 1993,
48). (Per una rassegna giurisprudenziale v. PITRONE 1989, 563; per la dottrina,
oltre che ZACCARIA 1985, 354, anche GIUSTI 1986, 389). 3.2. In base al 2° comma,
le trascrizioni di cui al primo comma «devono essere eseguite anche relativamente
ai beni immobili che successivamente entrano a far parte del patrimonio familiare
o risultano esclusi dalla comunione tra i coniugi».
3
La trascrizione della costituzione del fondo patrimoniale. 4.1.
Prevalentemente si reputa che l’espressione «convenzioni» di cui alla norma
in commento sia adoperata dal legislatore in senso atecnico, per descrivere
accordi tra coniugi comunque riconducibili nell’alveo contrattuale. Parte della
dottrina (L. FERRI 1988a, 60 ss.; L. FERRI 1988b, 42; DEL PASQUA 1979, 792), però,
evidenziando che con il termine «convenzioni» si indicano, normalmente, gli
accordi a carattere non patrimoniale, ha affermato la necessità di tracciare una
distinzione rispetto ai contratti, perché le convenzioni hanno soltanto una
funzione di tipo programmatico, nel senso di dettare una disciplina generale ed
4
astratta per futuri eventuali rapporti. Sulla scorta di questa premessa, si è
concluso che il fondo patrimoniale non sarebbe una convenzione matrimoniale,
avendo esso ad oggetto beni determinati. La conseguenza in tema di pubblicità è
evidente: sarebbe inapplicabile l’art. 162 c.c. e l’unica forma di pubblicità sarebbe
la trascrizione ex art. 2647 c.c., che non potrebbe che svolgere, pertanto, funzione
dichiarativa; diversamente, non sarebbe possibile opporre ai terzi il vincolo di
destinazione (L. FERRI 1988b, 46; GIUSTI 1986, 409; FORCHIELLI 1977, 913). 4.2. La
tesi riportata, però, non è seguita dalla dottrina prevalente e dalla
giurisprudenza, che includono il fondo patrimoniale tra le convenzioni
patrimoniali, assoggettandolo al regime pubblicitario per esse prescritto. Così, sul
punto, la Cassazione (CC 19 nov. 1999/12864, V NOT, 1999, 1434, con nota di
TRIOLA): «La costituzione del fondo patrimoniale, di cui all'art. 167 c.c., dev'essere
ricompresa tra le convenzioni matrimoniali e, pertanto, è soggetta alle medesime
disposizioni dell'art. 162 c.c., circa le forme delle convenzioni medesime, ivi
inclusa quella del comma 3, che ne condiziona l'opponibilità ai terzi
all'annotazione del relativo contratto a margine dell'atto di matrimonio, mentre la
trascrizione del vincolo stesso, ai sensi dell'art. 2647 c.c., con riferimento agli
immobili che ne siano oggetto, resta degradata a mera pubblicità-notizia,
inidonea ad assicurare detta opponibilità. Ne consegue, come in ogni caso in cui
la legge dispone che per l'opponibilità di determinati atti è necessaria una certa
forma di pubblicità, che la forma di pubblicità costituita dalla suddetta
annotazione non ammette deroghe o equipollenti e che resta anche irrilevante
l'effettiva conoscenza della costituzione del fondo che il terzo abbia altrimenti
potuto conseguire, pur dovendosi escludere che l'annotazione predetta assuma in
tal modo una funzione costitutiva, giacché l'unico effetto che condiziona è
l'opponibilità ai terzi, mentre non incide a qualunque altro effetto sulla validità ed
efficacia dell'atto». (Nella specie la S.C., in applicazione di tali principi, ha escluso
che la costituzione del fondo potesse essere divenuta opponibile ad un terzo per
effetto di una comunicazione a lui indirizzata da parte dei costituenti tramite una
lettera). Sulla base del medesimo principio si è sancito (CC 1° ott. 1999/10859, V
NOT 1999, 1433, cit.) che la costituzione del fondo effettuata da imprenditore poi
fallito, trascritta prima del fallimento, ma annotata successivamente, è
inopponibile alla massa. Cfr. anche CC 27 nov. 1987/8824, GI 1989, I, 1, 330,
1766; RN, 1988, 719. Per i giudici di merito, in senso conforme (e confermando
altresì che, in seguito alla riforma del diritto di famiglia, la trascrizione ex art.
2647 c.c. è stata degradata al rango di "pubblicità-notizia"): T Milano 5 nov. 1990,
GI 1993, I, 2, 470; T Latina 17 mar. 1988, D FAM 1989, 130; A Roma, 28 nov.
1983, GC 1984, I, 1612; FI 1984, I, 1085, V NOT 1984, 1586; RN 1985, 437; T
Roma, 6 nov. 1980, GC 1981, I, 1457; R NOT 1981, 463. Contra, T Modena 19
lug. 1996, GC 1997, I, 1697, con nota di TULLIO; RN 1997, 1185: «L'annotazione
ex art. 162 c.c. prevista per la pubblicità delle convenzioni matrimoniali non è
necessaria al fine di rendere opponibile il vincolo di inespropriabilità che colpisce
i beni costituiti in fondo patrimoniale al creditore pignoratizio che abbia iscritto
ipoteca giudiziale successivamente alla trascrizione, ex art. 2647 c.c., dell'atto
costitutivo del fondo patrimoniale. È, pertanto, opponibile ai terzi l'atto costitutivo
del fondo patrimoniale trascritto nei registri immobiliari, ma non annotato a
margine dell'atto di matrimonio». 4.3. La soluzione, peraltro, non sarebbe diversa
anche se effettivamente il fondo patrimoniale non rientrasse tra le convenzioni
matrimoniali, come accade certamente quando esso sia costituito con atto
mortis causa: anche in tal caso, la dottrina, ritenendo che l’opponibilità ai terzi
debba essere svincolata dalla qualificazione del negozio costitutivo, interpreta
estensivamente l’art. 162 c.c., facendovi rientrare «qualsiasi negozio che ponga
beni appartenenti a persone coniugate in una condizione giuridica diversa da
quella propria del regime patrimoniale legale» (G. GABRIELLI 1982, 314); sicché, se
«ci si pone dal punto di vista degli interessi tutelati in sede di pubblicità e di
opponibilità ai terzi» (GAZZONI 1993, 50), trova applicazione l’art. 162 c.c. con
relativo obbligo di annotazione. Ed essendo svolta già dall’annotazione la funzione
dichiarativa, la trascrizione non potrà che degradare, anche in questo caso, a
pubblicità notizia. 4.4. La Corte Costituzionale (CCost. 6 apr. 1995/111, V NOT
1996, 127, con nota di TRAVERSA) ha dichiarato infondata la questione di
legittimità costituzionale degli art. 162, comma ultimo, 2647 e 2915 c.c., posta,
in riferimento agli art. 3 e 29 Cost., nella parte in cui non prevedono che, per i
fondi patrimoniali costituiti a mezzo di convenzione matrimoniale su beni
immobili, l'opponibilità ai terzi sia determinata dalla trascrizione dell'atto sui
registri immobiliari, anziché dall'annotazione a margine dell'atto di matrimonio.
La Corte ha ritenuto che «la necessità di effettuare ricerche sia presso i registri
immobiliari, sia presso i registri dello stato civile (questi ultimi meno accessibili e
sia pur meno affidabili) costituisce un onere che, sebbene fastidioso, non può
dirsi eccessivamente gravoso, non soltanto rispetto al principio di tutela in
giudizio, ma anche rispetto all'art. 29 Cost., che semmai tutela gli aspetti eticosociali della famiglia e non è quindi, utilmente invocabile come parametro del
contrasto, ed all'art. 3 Cost., in quanto una duplice forma di pubblicità
(cumulativa, ma a fini ed effetti diversi) per la costituzione dei fondi in parola
trova giustificazione nel generale rigore necessario alle deroghe al regime legale e
nell'esigenza di contemperare gli interessi contrapposti della conservazione del
patrimonio per i figli fino alla maggiore età dell'ultimo di essi e dell'impedimento
di un uso distorto dell'istituto a danno delle garanzie dei creditori». 4.5. Il 3°
comma specifica che se il vincolo derivante dal fondo patrimoniale è stato
costituito per testamento, alla trascrizione deve provvedere d’ufficio il
conservatore contemporaneamente alla trascrizione dell’acquisto a causa di
morte. La norma si giustifica perché, in caso di legato, mancherebbe un pubblico
ufficiale tenuto a richiedere la trascrizione. 4.6. In giurisprudenza (T Milano 29
ott. 2002, RN, 2003, 253) si è assimilato al fondo patrimoniale, ai fini della
trascrizione, l’atto costitutivo di trust su beni immobili, rilevando che in
entrambi i casi è posto un limite – per il titolare formale dei beni – alla
disponibilità di determinati beni per il raggiungimento di uno scopo determinato;
quindi, pur non rientrando il trust in alcuna delle categorie di atti previste dagli
artt. 2643 e 2645 c.c., si è concluso che, in analogia con la previsione di cui
all’art. 2467 c.c. per la costituzione del fondo patrimoniale, anche l’atto
costitutivo di trust va assoggettato a trascrizione (e ciò anche in considerazione
dell’esigenza di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione posto a carico
di beni immobili, per i quali il legislatore nazionale ha previsto una disciplina
tutta improntata al regime pubblicistico). Ancora più recentemente (T Verona 8
gen. 2003, GM 2003, 2152), premesso che l’adesione alla convenzione dell’Aja
dell’1 lug. 1985 (ratificata con la l. 16 ott. 1989 n. 364) consente di travalicare il
divieto posto dall’art. 2740 c.c. e rende legittima la stipula di atti costitutivi di
trust di beni immobili, si è affermato che l’atto istitutivo del trust «deve ritenersi
legittimamente trascrivibile in mancanza di divieti espressi e di qualsivoglia
incompatibilità con l’ordinamento giuridico italiano». 4.7. Dopo aver considerato
la funzione e l’efficacia della relativa pubblicità, vanno adesso esaminate le
modalità attraverso cui opera la trascrizione dell’atto costitutivo di fondo
patrimoniale. Indipendentemente dalla circostanza che il fondo sia costituito con
beni di proprietà di entrambi i coniugi, di uno di essi o di un terzo, dovrà
effettuarsi la trascrizione ex art. 2647 c.c. In proposito occorre però distinguere:
a) se il fondo è costituito con beni di entrambi i coniugi, è sufficiente questa
trascrizione; b) se è costituito con beni di un solo coniuge, occorrerà procedere
anche a trascrizione contro di lui ed a favore dell’altro ex art. 2643 n. 3 (o ex art.
2645, poiché sorge una comunione); c) se è costituito da un terzo, occorrerà una
seconda trascrizione ex art. 2643 n. 1 o ex art. 2648, secondo che l’acquisto
avvenga tramite atto inter vivos o atto mortis causa. Nelle ipotesi in cui il singolo
coniuge o il terzo si riservi la proprietà, si ritiene che occorra trascrivere, oltre
che ex art. 2647 agli effetti di pubblicità notizia, anche, ai fini di opponibilità,
contro il costituente ex art. 2643 n. 2 o ex art. 2645 (GAZZONI 1993, 51 s.).
Secondo altri (G. GABRIELLI-ZACCARIA 1992, 361), però, la trascrizione ex art. 2647
sarebbe superflua nel primo caso, e di per sé sufficiente nel secondo. 4.8.
Sebbene la norma non consideri la cessazione del fondo patrimoniale, si è
sostenuto che l’art. 2647 c.c. possa essere interpretato nel senso di sottoporre a
trascrizione anche le convenzioni che pongono fine al vincolo, in riferimento ai
singoli beni interessati (BONIS 1975, 220).
La trascrizione delle convenzioni matrimoniali che escludono beni
immobili dalla comunione legale. 5.1. Si tratta delle convenzioni di cui
all’art. 210 c.c. (al cui commento si rinvia). (Contra, isolatamente, DE
RUBERTIS 1976, 12). Le convenzioni cui allude questa parte della norma sono
quelle, di tipo programmatico, che non mirano ad escludere dalla comunione un
singolo bene predeterminato ma, per il futuro e con riguardo agli eventuali
acquisti, una categoria di beni. All’uopo è necessaria una duplice trascrizione:
una, ex art. 2647 c.c., con riguardo alla convenzione matrimoniale, l’altra, ex art.
2643 c.c., riferita all’atto di acquisto. Grazie alla trascrizione ex art. 2647 c.c.,
così, sarà possibile dare notizia del carattere personale dell’acquisto per effetto
della già intervenuta convenzione matrimoniale, con cui si era deciso di escludere
una categoria di beni (nella quale rientra il bene interessato) dalla comunione.
5.2. Non è chiaro se nella previsione legale rientri anche l’ipotesi di convenzione
di separazione dei beni precedente o coeva all’atto di matrimonio, con la
conseguenza, in caso affermativo, di dover trascrivere i successivi acquisti ai
sensi dell’art. 2647 c.c. La giurisprudenza, in ossequio al carattere assoluto del
regime di separazione, considera sufficiente formalità l’annotazione di detto
regime nei registri di stato civile: «L'art. 2647 c.c. - che prescrive la trascrizione
delle convenzioni matrimoniali, relative ad immobili, che escludono i beni
medesimi dalla comunione tra i coniugi - impone la trascrizione di dette
convenzioni insieme con gli acquisti di singoli beni effettuati a titolo personale a
parziale deroga di un preesistente regime generale di comunione patrimoniale, ma
non esige la trascrizione delle convenzioni totalmente derogative con cui i coniugi
optino per l'opposto regime della separazione dei beni, poiché tale scelta assoluta
di regime trova la sua pubblicità necessaria e sufficiente nell'annotazione a
margine dell'atto di celebrazione del matrimonio. Di conseguenza, una volta
adottato il regime di separazione patrimoniale, restano esclusi dall'obbligo di
trascrizione previsto dall'art. 2647 c.c. gli acquisti immobiliari operati
successivamente in via esclusiva da uno dei due coniugi ancorché sia richiamato
il prescelto regime (generale) di separazione» (CC 22 gen. 1986/397, GC 1986, I,
5
989; V NOT, 1986, 263). Qualora si trattasse, invece, di convenzione di
separazione stipulata dopo il matrimonio, essa dovrebbe certamente essere
trascritta ai sensi della norma in commento, ma non quale convenzione che
esclude beni immobili bensì come atto di scioglimento della comunione. E la
trascrizione sarà eseguita a favore (nonostante l’opposta dizione normativa: v.
supra, § 3) del coniuge destinato ad acquistare il bene escluso. La trascrizione di
una convenzione matrimoniale di separazione dei beni, da eseguirsi ai sensi e per
gli effetti dell'art. 2647 c.c., deve essere effettuata anche se l'indicazione dei beni è
contenuta soltanto nella nota e non anche nel titolo (T Imperia 19 set. 1996, R
NOT 1997, 415).
La trascrizione degli atti e dei provvedimenti di scioglimento della
comunione. 6.1. Gli atti e provvedimenti ai quali si riferisce la norma sono
quelli di cui all’art. 191 c.c. (al cui commento si rinvia). Non vi rientra, quindi,
sebbene sciolga la comunione, la morte di un coniuge. Non sono soggetti a
trascrizione, inoltre, le sentenze di scioglimento o cessazione degli effetti civili del
matrimonio, né le sentenze di annullamento o di nullità del matrimonio. La ratio
della previsione è, infatti, dare notizia dello scioglimento della comunione
nonostante la persistenza del vincolo matrimoniale, perché è in questo caso che
rispetto ai terzi si crea una situazione di incertezza in merito alla sorte della
comunione (CIAN 1976, 41). Nell’ambito della norma, quindi, rientrano e vanno
trascritti, sempre con funzione di pubblicità notizia: la separazione giudiziale dei
beni, il mutamento convenzionale del regime patrimoniale, lo scioglimento
convenzionale ex art. 177 lett. d) nel caso di comunione di azienda, la separazione
personale dei coniugi, il fallimento di uno dei coniugi. Peraltro un serio problema
si pone per le ultime due ipotesi menzionate, giacché, a differenza che per le altre
(cfr. art. 162 e 193 c.c.), non è prevista la loro annotazione, sicché non è chiaro
come esse possano rendersi opponibili. Quanto alla separazione personale, si è
ritenuto di risolvere il problema facendo derivare l’effetto di opponibilità dalla
trascrizione: «Al fine di rendere opponibile ai terzi il permanere della comproprietà
dei beni nonostante il venir meno dei vincoli inerenti alla comunione legale
familiare, susseguente alla separazione consensuale omologata, il coniuge non
intestatario ha l'onere di trascrivere contro l'altro coniuge l'atto nel quale è
documentato il provvedimento di scioglimento, vale a dire il verbale di
separazione, a nulla rilevando che in esso non vi sia riferimento a beni
determinati» (T Firenze 12 feb. 1982, D FAM 1982, 952). Ma la soluzione non può
che lasciare perplessi se si considera che la trascrizione ha, nella specie, mera
funzione di notizia. Quanto invece all’ipotesi del fallimento, si è affermato che
«pur in mancanza di una norma che espressamente lo preveda, deve accogliersi
l'istanza del coniuge del fallito volta ad ottenere un provvedimento costituente
titolo idoneo a far annotare in margine all'atto di matrimonio lo scioglimento della
comunione legale, regime prescelto dai coniugi, avvenuto in forza della pronuncia
di fallimento, in applicazione analogica di quanto previsto per gli altri casi di
scioglimento del regime di comunione legale, corredati da apposito sistema di
pubblicità per i terzi, senza che tale ordine giudiziale possa ritenersi in contrasto
con il principio di tipicità delle annotazioni anagrafiche, in quanto l'art. 133
ordin. stato civile, che fa salva "ogni altra annotazione (...) ordinata dall'autorità
giudiziaria", costituisce una norma di chiusura, che consente di supplire, con il
vaglio giudiziario, l'eventuale difetto di disciplina legislativa» (T Marsala 5 ott.
1995, D FAM 1996, 200). Si è sostenuta, invece, l’inutilità della trascrizione
6
quando la comunione si scioglie per dichiarazione di assenza o di morte presunta
(CORSI 1979, 187, nt. 67).
La trascrizione degli atti di acquisto di beni personali a norma delle
lettere c), d), e), ed f) dell’articolo 179 c.c. 7.1. Risulta incomprensibile la
previsione di una trascrizione per le ipotesi previste dalle lettere c) ed e) dell’art.
179 c.c.: quanto ai beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno, si è obiettato
che il risarcimento del danno non è un titolo, ma è soltanto «la giustificazione di
un’attribuzione operata in base ad un titolo in senso proprio», sicché, se il
risarcimento è per equivalente, titolo sarà una datio in solutum o una transazione
– e quindi si applicherà la regola generale – , mentre se il risarcimento è in forma
specifica (ricostruzione dell’immobile distrutto) l’acquisto sarà a titolo originario
per accessione, e quindi di per sé a carattere personale (GAZZONI 1993, 84;
PADOVINI 1987, 807). Quanto ai beni «di uso strettamente personale», si è
osservato che non possono mai essere tali i beni immobili (SCHLESINGER 1978,
398). La trascrizione dell’acquisto di beni personali, in concreto, è dunque
limitata alle ipotesi di cui alle lettere d) ed f) dell’art. 179 c.c. 7.2. Anche in questo
caso, come visto supra per le convenzioni in generale (§ 1.4.), nonostante la
lettera della norma parli di trascrizione «a carico» del coniuge acquirente, la
formalità va eseguita non contro ma a favore dello stesso. Questa tesi è tanto più
sostenibile per la fattispecie in esame, nella quale è chiaro che il coniuge
acquirente acquisisce un vantaggio pieno. La Cassazione, dopo aver premesso che
i soggetti della trascrizione non possono che essere le parti dell'atto da
trascrivere, ha sancito che «in caso di acquisto effettuato da parte di un solo
coniuge, l'atto stesso deve essere trascritto solo a favore di lui, sia si tratti di
bene compreso nell'oggetto della comunione legale - tenuto presente che l'altro
coniuge, estraneo all'atto, è mero destinatario degli effetti legali dell'acquisto
individuale, ma non parte del contratto da trascrivere - sia, a maggior ragione,
allorché il bene acquistato non è compreso (per qualsiasi motivo) nella comunione
e rimane di proprietà individuale del coniuge acquirente (CC 28 nov.
1998/12098, GC 1999, I, 2373, con nota di M. FINOCCHIARO). Per l'opponibilità ai
terzi del carattere personale di un bene acquistato da uno dei coniugi in regime
legale è essenziale, ad ogni modo, che la trascrizione dell'atto in testa al solo
coniuge stipulante contenga, nella nota, l'indicazione che si tratta di acquisto di
"bene personale" a norma dell'art. 179 c.c. (A Bari 23 mar. 1985, V NOT 1985,
1110). 7.3. La trascrizione sarà eseguita sulla base delle menzioni formali
contenute nell’atto di acquisto, prescritte dall’ultimo comma dell’art. 179 c.c. In
loro assenza, si ritiene che il coniuge interessato possa ottenere una sentenza di
accertamento nei confronti dell’altro coniuge al fine di procurarsi un titolo per la
trascrizione (SCHLESINGER 1978, 408).
7
Acquisto separato, da parte di uno dei coniugi, durante la vigenza
del regime di comunione legale. 8.1. Va escluso che l’art. 2647 c.c. entri
in gioco quando, vigente tra i coniugi il regime di comunione legale, uno dei due
operi un acquisto separato di un bene immobile. Dal punto di vista sostanziale, è
chiaro che il bene entra in comunione e diviene di proprietà indivisa anche del
coniuge che non prende parte all’atto di acquisto. La legge non precisa, però, se
l’atto di acquisto debba essere trascritto a favore del solo coniuge che vi ha preso
parte, o anche a favore dell’altro. V’è chi parla, quindi, di una scissione tra
titolarità (formale) ed appartenenza (sostanziale) (CORSI 1979, 72). Prevale l’idea
8
della superfluità di una trascrizione a nome di entrambi i coniugi: è sufficiente
che l’acquisto sia intestato al solo coniuge acquirente (ex multis: BONIS 1975, 198
ss.; GAZZONI 1993, 1965; FORCHIELLI 1977, 913 ss. Propendono invece per la
cointestazione GABRIELLI-ZACCARIA 1992, 361 ss.). Ne deriva che il coniuge che non
è stato parte del contratto, oltre che acquistare ex lege il bene per effetto del
regime patrimoniale, potrà opporre il proprio diritto erga omnes se l’acquisto è
stato debitamente trascritto ex art. 2643 o 2645 c.c. in favore dell’altro coniuge.
Peraltro, anche la risoluzione del Ministero di Grazia e Giustizia 7 lug. 1983, n.
5/1824/060/I, div. V, ha affermato che la trascrizione va effettuata a favore del
solo coniuge contraente. Questa trascrizione, evidentemente, è eseguita ai fini
dell’art. 2644 c.c., non essendo pertinente, quindi, il richiamo all’art. 2647 c.c.,
sia perché detta norma contempla una pubblicità notizia, sia perché essa ha
riguardo ad ipotesi che si presentano come eccezionali rispetto al regime di
comunione legale, e quindi opposte alla presente. 8.2. In concreto, i maggiori
problemi si presenteranno al momento in cui i coniugi vorranno vendere il bene
così acquistato, giacché dovranno entrambi, quali comproprietari, prendere parte
all’atto di vendita, e la trascrizione dovrà così essere eseguita contro entrambi,
con l’inconveniente che questa seconda trascrizione (contro) seguirà a quella
precedente (a favore) ove appariva soltanto il coniuge intervenuto all’atto: così,
«sul piano della continuità, mentre la catena sarà continua con riguardo alla
posizione di costui, essa sarà spezzata o meglio sarà limitata ad un unico anello
per quanto riguarda l’altro coniuge». Ma l’inconveniente è bilanciato dal fatto che
«in tal modo si creerà un anello bensì isolato, ma proprio per questo idoneo a
segnalare l’esistenza di un pregresso acquisto in comunione intervenuto ex lege»
(GAZZONI 1993, 65).
Il c.d. rifiuto al coacquisto. Rinvio. 9.1. La Cassazione, in una ormai
nota decisione (CC 2 giu. 1989/2688, RN 1990, 172), ha stabilito che il
consenso dato dal coniuge all'acquisto esclusivo di beni immobili e mobili
registrati da parte dell'altro coniuge, purché manifestato nello stesso atto,
impedisce la caduta del bene nella comunione legale, anche fuori delle ipotesi
previste dalle lett. c), d) ed f) dell'art. 179 c.c. Si parla, in proposito, di “rifiuto al
coacquisto” (G. GABRIELLI 1981, 362 ss.), sebbene sia discusso se di vero e proprio
rifiuto si possa parlare o se sia più esatto discorrere di una rinuncia all’acquisto.
Anche in questo caso, nessun ruolo può giocare l’art. 2647 c.c.: gli eventuali
conflitti, infatti, dovranno essere risolti esclusivamente sul piano del diritto
sostanziale, giacché, trattandosi di vicenda non circolatoria, «un problema di
trascrizione non esiste né sul piano della opponibilità né su quello della notizia»
(GAZZONI 1993, 70 s., il quale osserva che l’interessato potrà venire a conoscenza
del consenso del coniuge all’acquisto personale da parte dell’altro coniuge
soltanto esaminando l’atto di provenienza: al di fuori, quindi, dei meccanismi di
pubblicità). V. amplius il commento all’art. 179 c.c.
9
BIBLIOGRAFIA
BIANCA, Diritto civile. 2, 4a ed., La famiglia. Le successioni, Milano, 2005; OBERTO, Comunione
legale, regimi convenzionali e pubblicità immobiliare, RDC 1988, II; ZACCARIA, La pubblicità del
regime patrimoniale della famiglia: le posizioni della dottrina, RDC 1985, II; FORCHIELLI,
Commento all’art. 206, COM. RDF, I, 2, Padova, 1977; D’ORAZI FLAVONI, Tutela dei diritti,
Trascrizione mobiliare, COM. S.B., sub art. 2643-2696, Bologna-Roma, 1971.
CAPO III
Della trascrizione degli atti relativi ad alcuni beni mobili
………..
2685. Altri atti soggetti a trascrizione. — Si devono trascrivere le divisioni e gli altri atti
menzionati nell’articolo 2646, la costituzione del fondo patrimoniale e gli altri atti menzionati
nell’articolo 2647, l’accettazione dell’eredità e l’acquisto del legato che importano acquisto dei
diritti indicati dai numeri 1 e 2 dell’articolo 2684 o liberazione dai medesimi.
La trascrizione ha gli effetti stabiliti per i beni immobili.
Art. così sostituito ex art. 207, l. 19 mag. 1975/151 (Riforma del diritto di famiglia).
Gli atti aventi ad oggetto beni mobili. 1.1. La Riforma del diritto di
famiglia ha eliminato la parte della norma che faceva menzione della
«costituzione del vincolo dotale» e della «costituzione della comunione tra
coniugi», ed ha aggiunto all’elenco la costituzione del fondo patrimoniale e gli
altri atti di cui all’art. 2647 c.c. 1.2. Parlare, come fa la norma, di divisione dei
beni mobili, significa in realtà parlare della loro vendita, perché è solo così che
può raggiungersi, riguardo ad essi, il risultato dello scioglimento della
comunione (salvo che si tratti di beni compresi in un maggior patrimonio in
comproprietà, perché in tal caso sarà anche possibile la loro attribuzione ad uno
solo dei condividenti) (NATOLI-FERRUCCI 1971, 276). 1.3. Quanto alla trascrizione
dell’accettazione dell’eredità, occorre segnalare che, in caso di chiamato
incapace, l’unica accettazione trascrivibile dovrebbe essere quella beneficiata.
(Come noto, per l’erede incapace, per il quale l’accettazione beneficiata è
obbligatoria ex art. 471 s., i termini di cui agli art. 485 e 487 c.c. sono
prolungati sino ad un anno dopo la cessazione dello stato di incapacità dall’art.
489 c.c.; fino a quel momento, anche se il suo rappresentante legale ha accettato
puramente e semplicemente, l’incapace è considerato chiamato ex art. 460 c.c. e
conserva il diritto di accettare l’eredità con beneficio di inventario, salvo che sia
intervenuta la prescrizione del diritto di accettare o sia stata esercitata nei suoi
confronti l’actio interrogatoria). D’altronde, una segnalazione nei Registri
immobiliari di accettazione non beneficiata, non sarebbe idonea neanche al
fine della continuità delle trascrizioni. Su questa base, è stata criticata
(D’ORAZI FLAVONI 1971, 437 s.) una risalente pronuncia di una corte di merito (A
Trieste 13 gen. 1959, FP, 1959, I, 998) che aveva ritenuto illegittimo il rifiuto da
parte dell’ufficio tenuto ad effettuare la segnalazione. In proposito, può ricordarsi
che se occorre alienare un bene mobile ereditario (questo essendo l’ambito della
norma in commento, ma nulla cambierebbe in caso di bene immobile) si deve
applicare il combinato disposto degli art. 460 c.c. e 747 c.p.c.: il secondo comma
dell’art. 460 c.c. autorizza espressamente il chiamato a vendere, dopo aver
1
ottenuto l’autorizzazione ex art. 747 c.p.c. dal tribunale del luogo in cui si è
aperta la successione, i beni ereditari che non si possono conservare o la cui
conservazione importa grave dispendio. Se il chiamato è un incapace,
l’autorizzazione del giudice delle successioni è data previo ascolto del giudice
tutelare, giacché l’art. 747, comma 2°, c.p.c. afferma: «nel caso in cui i beni
appartengano a incapaci deve essere sentito il giudice tutelare» (cfr. BIANCA 2005,
577). Le sezioni unite della Suprema Corte (CC SU 18 mar. 1981/1593, RN
1981, 143) hanno affermato che «anche dopo la riforma del diritto di famiglia, la
competenza ad autorizzare la vendita di beni immobili ereditari del minore
soggetto alla potestà dei genitori appartiene al giudice tutelare del luogo di
residenza del minore, a norma del comma 3 dell'art. 320 c.c., unicamente per i
beni che, provenendo da una successione ereditaria, si possano considerare
acquisiti definitivamente al patrimonio del minore; l'autorizzazione spetta invece
- sentito il giudice tutelare - al tribunale del luogo dell'apertura della
successione, in virtù del comma 1 dell'art. 747 c.p.c., tutte le volte in cui il
procedimento dell'acquisto iure hereditario non si sia ancora esaurito, come
quando sia pendente la procedura di accettazione con il beneficio dell'inventario,
e ciò sia perché in tal caso l'indagine del giudice non è limitata alla tutela del
minore, alla quale è soltanto circoscritta dall'art. 320 cit., ma si estende a quella
degli altri soggetti interessati alla liquidazione dell'eredità, sia perché altrimenti
si determinerebbe una disparità di trattamento tra minori in potestate e minori
sotto tutela, sotto il profilo della diversa competenza a provvedere in detta ipotesi
per i primi (giudice tutelare, ai sensi dell'art. 320 c.c.) e per i secondi (tribunale
quale giudice delle successioni, in base all'art. 747 c.p.c.)». (Sono rimaste
minoritarie, invece, le tesi secondo cui la competenza spetterebbe al giudice
tutelare ex art. 320 c.c. o ad entrambi i giudici ex art. 320 c.c. ed ex art. 747
c.p.c.). Orbene, «il chiamato a succedere (o chi per lui, trattandosi di un
incapace) che, debitamente autorizzato, aliena un bene ereditario, ne dispone
legittimamente e la serie delle trascrizioni è integra pur difettando la
segnalazione del passaggio intermedio dal de cuius al successibile. Ciò per l’ovvia
ragione che proprio questa vicenda non si è ancora verificata, essendo in itinere
la fattispecie (complessa e a formazione complessiva) che la determina» (D’ORAZI
FLAVONI 1971, 438). 1.4. Il riferimento, di cui al secondo comma, agli «effetti»
della trascrizione, è stato da taluno richiamato a conferma della tesi della
natura dichiarativa (e non di mera pubblicità-notizia) della trascrizione delle
convenzioni matrimoniali: se quella pubblicità produce «effetti», si è detto, detti
effetti non possono che consistere (pacifica essendo la natura non costitutiva)
nell’opponibilità dell’atto trascritto (OBERTO 1988, 203). La dottrina maggioritaria
non attribuisce però incidenza concreta al riferimento fatto dalla norma in
commento, ritenendolo anzi frutto di mera trascuratezza da parte del legislatore
(ZACCARIA 1985, 366). Già la dottrina precedente la Riforma (D’ORAZI FLAVONI
1971, 438 s.), osservava trattarsi di «una disposizione per relationem in senso
formale, non determinata ma determinabile», nel senso che l’art. 2685, nel
richiamare alcune precise figure già disciplinate in materia di beni immobili,
«non sembra che abbia voluto attribuire effetti diversi da quelli che le stesse
figure hanno nel campo della trascrizione immobiliare», sicché gli effetti cui
allude il secondo comma sono gli stessi indicati in materia di divisione dall’art.
2646 c.c. e in materia di convenzioni matrimoniali dall’art. 2647 c.c. Per altro
verso, il secondo comma sottende sicuramente l’intenzione legislativa di
considerare unitariamente la disciplina della trascrizione dei beni mobili e quella
relativa agli immobili, sicché, in caso di lacune della prima, l’interprete potrà
integrarla con la seconda (FORCHIELLI 1977, 918).
5
Autonomia privata nel diritto di famiglia e predisposizione successoria
di Antonio Albanese
(APPUNTI TRATTI DALLA MONOGRAFIA “SOSTITUZIONI, RAPPRESENTAZIONE E ACCRESCIMENTO. I
MECCANISMI SUCCESSORI TRA AUTONOMIA PRIVATA E DELAZIONE LEGALE”, CEDAM, PADOVA,
2007)
1. Convenzioni matrimoniali.
Il problema dell’autonomia testamentaria si interseca con quello dell’autonomia contrattuale
e la questione della circolazione della ricchezza assume connotati del tutto peculiari quando si
svolge all’interno della famiglia.
È vero che tra i membri di una medesima famiglia possono verificarsi quelle stesse vicende di trasmissione
della ricchezza, immobiliare e mobiliare, che hanno luogo tra i privati, nel mercato. Nondimeno la famiglia assume
valenza di criterio unificante dell’attività negoziale che si svolge al suo interno (oltre che in relazione alla possibilità di
individuare una “causa familiare”, quale causa negoziale autonoma che valga a caratterizzare e sostenere di per sé parte
di quella attività) proprio in quanto luogo tipico ove si proiettano le aspirazioni dell’individuo all’allocazione del suo
patrimonio per il tempo in cui la morte l’avrà reso vacante
(Caccavale 2006, 411).
L’autonomia privata in ambito familiare ha visto aprirsi nuovi spazi dopo che la Riforma del
’75 ha introdotto la regola dell’accordo dei coniugi quale elemento centrale della disciplina della
famiglia, in ottemperanza ad un’esigenza primaria della stessa Riforma: quella di assicurare la
partecipazione paritaria dei coniugi all’amministrazione dei beni comuni.
Relativamente al diritto di famiglia – dopo un periodo, ormai distante, nel quale si dubitava della
configurabilità dell’autonomia negoziale – si sono aperti ampi spazi alla autoregolamentazione degli interessi grazie alla
sostituzione (ad opera della riforma del 1975) dell’assetto “verticistico” della compagine familiare con il modello
comunitario fondato sull’accordo, in aderenza al principio della “eguaglianza morale e giuridica dei coniugi” (29 cost.)
(Perlingieri e Donisi 2000, 340).
Le convenzioni patrimoniali stipulate in vita tra i coniugi hanno evidenti riflessi sugli assetti
successori, perché comportano che alla parte di patrimonio attribuito al superstite in via successoria
possa andare ad aggiungersi una parte ulteriore di beni.
Inoltre, nel caso di morte di un coniuge, è naturale pensare che i coniugi abbiano già in certa
misura regolato in anticipo i riflessi di ordine patrimoniale che quell’evento produce sugli assetti
familiari.
Quanto alla possibilità di pattuire convenzioni patrimoniali, l’autonomia privata ha ricevuto
un ulteriore riconoscimento anche per effetto di modifiche legislative successive alla Riforma del
diritto di famiglia.
Si ricordi, infatti, che il terzo comma dell’art. 162 c.c., introdotto appunto con la Riforma del
1975, sanciva la possibilità dei coniugi di mutare il regime patrimoniale dopo la celebrazione del
matrimonio. Era però necessaria un’apposita autorizzazione giudiziale, sebbene gli interpreti si
dividessero tra chi sosteneva che l’autorizzazione occorresse soltanto per modificare una
convenzione espressamente pattuita dai coniugi, e chi riteneva sempre necessario l’intervento
giudiziale, anche per mutare il regime di comunione legale operante ex lege.
La disposizione è stata poi modificata con la l. 10.4.1981, n. 142, che ha introdotto il
principio del libero mutamento delle convenzioni matrimoniali. È stata infatti esclusa la necessità
dell’autorizzazione, salvo che «per il mutamento, dopo la celebrazione del matrimonio, di
convenzioni matrimoniali stipulate per atto pubblico prima dell’entrata in vigore della presente
legge».
Quanto all’interpretazione di quest’ultimo inciso, non è chiaro se l’autorizzazione sia
prescritta soltanto per modificare la prima convenzione modificativa intervenuta dopo il
matrimonio, o anche tutte le eventuali convenzioni successive alla prima. La prima soluzione si
lascia preferire, giacché gli ulteriori mutamenti sono destinati a produrre effetti su di una
convenzione stipulata dopo l’introduzione della legge.
L’autorizzazione va richiesta al tribunale ordinario (art. 38, co. 2°, disp. att. c.c.), che decide
in camera di consiglio, sentito il p.m. (Secondo alcuni, il tribunale dovrebbe valutare se la modifica
del regime patrimoniale sia idonea a soddisfare le esigenze della famiglia; secondo altri, il giudice si
dovrebbe limitare a verificare la non contrarietà a legge della convenzione modificativa, in
particolare, che essa sia conforme alle prescrizioni degli artt. 161 e 210 c.c.).
2. Comunione legale.
Sotto il profilo funzionale, ricorda molto una deroga ai patti successori la possibilità –
ricavabile dal primo co., lett. b) dell’art. 179 c.c. e dal 2° co. dell’art. 210 c.c. – di attribuire alla
comunione fra coniugi i futuri beni acquistati per successione mortis causa (su questa possibilità:
Venditti 1995, 290 s.).
Inoltre, dalle norme che regolano la comunione legale per il caso che uno dei coniugi sia
imprenditore affiorano le interrelazioni tra istituti civilistici e istituti del diritto commerciale.
Le norme degli artt. 177 lett. b e c e 178 ipotizzano un tipo di partecipazione “differita” indicando come
oggetto nella comunione determinati beni che dovessero sussistere al momento dello scioglimento della comunione,
momento, peraltro, che può essere quello della morte.
Una volta superate certe “vischiosità” terminologiche, è necessario considerare “l’acquisto” di cui all’art. 177
lett. a ogni incremento patrimoniale effettivo operato da entrambi i coniugi congiuntamente o separatamente, sia a titolo
originario che derivativo, con esclusione di quelli per atti di liberalità e per testamento a favore di uno solo di essi.
Quel coniuge che volesse arricchire l’altro, con effetto dal verificarsi della propria morte, potrebbe accantonare
i frutti dei beni propri e i proventi della propria attività separata (art. 177 lett. b e c) e, precostituendo la prova della loro
provenienza, disporre per testamento della metà di essi e di quella dei beni destinati all’esercizio della propria impresa o
degli incrementi di questa costituita prima della comunione (art. 178).
(Palazzo 1995, 69).
3. Fondo patrimoniale.
Anche il fondo patrimoniale potrebbe concretizzare la “possibilità di attribuire un patrimonio
derogando alle norme successorie che disciplinano il divieto dei patti successori e lo strumento
testamentario, (...) al fine di garantire specifiche esigenze, come quelle di assicurare al di là della
morte il mantenimento o la formazione educativa e professionale della propria famiglia” (Merz e
Sguotti 2001, 387).
Il fondo patrimoniale, dunque, sebbene questo profilo sia stato generalmente trascurato in
dottrina (mentre la prassi, come noto, lo ha apprezzato a fini prevalentemente “elusivi” delle pretese
dei creditori), è uno strumento idoneo ad attuare “un trasferimento di ricchezza (...) abbinato alla
soddisfazione dei bisogni della famiglia, sì da assicurare, al di là della morte, il mantenimento o la
formazione educativa e professionale” (Orrico 1995, 196).
Quanto detto acquista particolare valore in presenza di figli minori, giacché in tal caso alla
cessazione del matrimonio non corrisponde la cessazione del vincolo sui beni, con la conseguenza
che, sia nell’ipotesi di trasferimento del diritto di proprietà sia in quella della costituzione di un
diritto di godimento, “vi è il trasferimento di una ricchezza destinato a durare, nel suo vincolo di
scopo, ben al di là nel tempo” (Orrico 1995, 196).
L’art. 171, 3° co., c.c., nel consentire al figlio di ottenere dall’autorità giudiziaria il
trasferimento (in godimento o in proprietà) di una quota del fondo, sembrerebbe introdurre, si è
detto, “una sorta di espropriazione giudiziale nell’ambito della trasmissione familiare della
ricchezza” (Orrico 1995, 198). Certamente può condividersi l’idea che si tratti di una ipotesi
assolutamente anomala di trasferimento della ricchezza nell’ambito familiare.
4. Impresa familiare.
Anche l’istituto dell’impresa familiare è uno strumento idoneo a concentrare la gestione ed il
controllo dell’impresa in capo a determinati membri della famiglia dotati di specifiche capacità.
Se si aderisce alla più solida costruzione dell’impresa familiare, quale impresa individuale con struttura interna
plurisoggettiva, le conseguenze pratiche sono assi rilevanti sul piano della possibile scelta dei collaboratori da parte
dell’imprenditore.
Posta l’intrasmissibilità di questo diritto, al di fuori della stretta cerchia indicata dal comma 3° del 230-bis, ove
per di più debbano consentirvi tutti i partecipi (comma 4° del 230-bis), l’istituto dell’impresa familiare ammette, al
momento dello scioglimento per morte di uno dei partecipanti, la possibilità di un consolidamento della quota di questi
in capo a tutti gli altri partecipi che hanno soltanto l’obbligo di liquidare la quota
(Palazzo 1995, 70; v. anche Palazzo 1993, 1228 ss.).
Inoltre, se si condivide l’ampio potere discrezionale che compete all’imprenditore, egli potrà
valutare attentamente gli acquisti da effettuare anche in funzione della sistemazione dei propri
assetti successori.
È pur vero che l’art. 230 bis c.c. stabilisce che «le decisioni concernenti l’impiego degli utili
e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla
cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano alla impresa
stessa». Ma questa disposizione si limita ad attribuire ai partecipanti un potere di controllo sulla
gestione dell’imprenditore, che essi eserciteranno grazie alla partecipazione alle decisioni più
importanti e alle scelte programmatiche relative all’azienda. Si tratta di uno strumento che tutela i
diritti patrimoniali e la posizione di prestatore d’opera del familiare lavoratore, il quale non fruisce
della garanzia di un salario minimo e la cui partecipazione agli utili e agli incrementi è esposta al
rischio di impresa (Tanzi 1988, § 7.1.). A queste riunioni partecipano solo i familiari che
collaborano nell’impresa, non invece l’imprenditore, il quale è il destinatario delle decisioni
adottate in quella sede: l’organizzazione prevista dalla norma è «organizzazione dei collaboratori
come parte contrapposta all’imprenditore» (Oppo 1992, § 17. Diversamente, Cattaneo 1983, 150).
Talvolta, questi diritti sono stati interpretati in favore della tesi che ravvisa nei partecipanti la
qualità di imprenditori.
L'impresa familiare è istituto nato per apprestare una tutela giuridica minima e inderogabile a garanzia del
lavoro prestato da familiari affectionis vel benevolentiae causa, affinché la loro opera non venga più sfruttata e sia
adeguatamente valorizzata. L'attribuzione del diritto di partecipare agli utili e agli incrementi, nonché ad alcune
decisioni inerenti la gestione dell'impresa, evidenzia la natura associativa del rapporto, ragion per cui i familiari
collaboratori assumono la qualifica di imprenditori e la responsabilità per le obbligazioni contratte per l'esercizio
(Pret. Santhia 14.7.1986, GI, 1987, I, 2, 518).
Ma se si segue l’interpretazione dominante (Costi 1976; Balestra 1996, 44; Colussi 1992,
173; Cattaneo 1983, 125), secondo cui imprenditore è il familiare che ha assunto l’iniziativa ed è
titolare del patrimonio aziendale, sarà solo costui che potrà compiere ogni genere di atto: il potere di
gestione dell'impresa familiare spetta esclusivamente al titolare della stessa, e l'eventuale esercizio
di tale potere in violazione degli obblighi scaturenti dalla norma suddetta comporta non l'invalidità
degli atti posti in essere, ma unicamente l'obbligo di risarcire i danni provocati (Cass., sez. lav.,
4.10.1995, n. 10412, SI, 1996, 363. In dottrina, ex multis: Sesta 2005, 271).
Pertanto, il fatto che la norma affidi alla maggioranza dei partecipanti le decisioni di
maggiore importanza, non vale a impedire all’imprenditore di compiere, in piena autonomia, gli atti
inquadrabili nell’amministrazione straordinaria.
Si è giustamente notato, che poiché le decisioni relative alla gestione straordinaria (così
come quelle attinenti agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa) coinvolgono l’interesse
di tutti, è evidente che
non si sarebbe potuto tenere lontani i collaboratori partecipanti all’impresa da tali decisioni che riguardano i
frutti del lavoro e la prestazione stessa del lavoro in un’impresa che hanno concorso a costituire, a mantenere ed a far
progredire»
(Jannuzzi 1990, 558).
Tuttavia il potere di iniziativa non passa dall’imprenditore ai collaboratori. L’intervento dei
familiari ha una mera rilevanza interna, perché non attiene all’attività amministrativa quale
momento operativo ed esecutivo, ma inerisce esclusivamente al momento decisionale, esprimendosi
attraverso il diritto di voto nelle decisioni, l’attuazione concreta delle quali appartiene soltanto
all’imprenditore (cfr. Oppo 1992, § 17; Colussi 1981, 684 s.; De Martini 1983, 180).
L’impresa familiare (…) non costituisce un genus di imprenditore collettivo differenziato rispetto alle forme
societarie già tipicizzate dal codice civile, ma disciplina unicamente i reciproci diritti ed obblighi dei partecipanti, senza
rilevanza determinante nei rapporti esterni
(Trib. Roma 17.3.1984, D FALL, 1984, II, 600).
Una cosa è partecipazione al voto, altra è l’amministrazione. L’imprenditore è libero di
compiere qualsiasi atto di gestione, rimanendo i suoi atti validi ed efficaci (Trib. Roma 17.3.1984,
D FALL, 1984, II, 600; Pret. Palermo 28.1.1985, D FAM, 1985, I, 642. Contra, App. Ancona
10.7.1981, NDA, 1982, 219).
D’altra parte, il fatto che la legge non disponga nulla per il caso che non si riesca a formare
una maggioranza tra i collaboratori o per il caso che vi sia disaccordo tra i collaboratori e
l’imprenditore, depone a favore dell’autonomia operativa di quest’ultimo; così come la mancata
previsione di un sistema di pubblicità, esclude che la decisione del gruppo possa essere opposta ai
terzi che hanno contrattato direttamente con l’imprenditore, i quali non hanno modo di identificare
quali siano i familiari con diritto di partecipazione e di voto (Tanzi 1988, § 7.1.).
Parimenti, egli può rifiutarsi di compiere atti di gestione anche se questi sono stati deliberati
dalla maggioranza dei partecipanti, i quali possono, in tal caso, porre fine alla loro collaborazione
recedendo dall’impresa, ma non possono ottenere l’esecuzione coattiva della deliberazione. Sembra
però corretto ritenere che essi possano altresì agire per il risarcimento del danno se l’imprenditore
non si è uniformato alle decisioni della maggioranza, sempre che queste non siano contrarie alla
legge (Cass., sez. lav., 4.10.1995, n. 10412, SI, 1996, 363; Trib. Roma 17.3.1984, D FALL, 1984, II,
600; Pret. Palermo 28.1.1985, D FAM, 1985, I, 642; Panuccio 1981, 142; Costi 1976, 98; De
Martini 1983, 180).
Poiché, però, solo il proprietario può disporre dei suoi beni, egli non potrà essere chiamato a
risarcire il danno se non abbia eseguito una delibera di alienazione di un suo bene, o, in generale,
una delibera esorbitante dalle competenze del gruppo.
Se, al contrario, è egli stesso che vuole alienare i beni al di fuori della volontà del gruppo,
occorre valutare se essi sono stati concessi in uso ai familiari collaboratori. Solamente in tal caso,
egli è obbligato a destinarli all’impresa finché dura il vincolo partecipativo.
Si capisce, allora, come il titolare possa prevedere non solo chi, tra i suoi familiari, entri a far
parte dell’impresa familiare quale collaboratore, ma anche quali beni e utilità siano in tal modo
attribuibili a quel soggetto.
6. Autonomia privata al di fuori del matrimonio (cenni).
Ben minore spazio, infine, è riservato all’autonomia privata con riguardo al partner non
coniugato, soprattutto in considerazione del fatto che questi, se non è contemplato dal testamento,
non riceve alcuna tutela successoria dalla legge.
Il fenomeno è divenuto di grande attualità perché si è assistito, negli ultimi anni (oltre che ad
un’autentica “fuga” dal regime della comunione legale verso quello della separazione dei beni), al
moltiplicarsi delle coppie che al matrimonio preferiscono la convivenza more uxorio. E si è
accentuata, di conseguenza, l’urgenza di risolvere il nodo cruciale della tutela del partner “debole”,
in ossequio al principio della solidarietà familiare.
Tra le soluzioni consigliate dagli interpreti, come noto, è quella dei contratti di convivenza
(in tema: Franzoni 1994, 737 ss.; Franzoni 1997, 463; Balestra 2000, 486; Oberto 1991, 373; Del
Dotto 1999, 875).
In questo caso, le difficoltà non sono tanto di carattere tecnico, giacché sembra superabile
l’obiezione che l’obbligazione naturale non è convertibile in obblighi civili. Si tratta di constatare,
piuttosto, che l’incidenza concreta di questo tipo di convenzioni è, attualmente, certamente modesta,
quanto meno se ci si riferisce agli accordi con cui i partners regolano i loro rapporti in forma scritta,
ed è legittimo avanzare dubbi in ordine ad una loro generalizzata utilizzazione per il futuro,
soprattutto, come è stato notato, a causa delle difficoltà psicologiche di stipulare un simile contratto
«proprio nel momento in cui il rapporto funziona» (Balestra 2000, 488).
Rimarrebbe poi il problema di tutelare chi non si è dato cura di stipulare alcuna convenzione,
con il rischio di discriminare proprio coloro che, in fondo, hanno avuto maggior fiducia nella
profondità dei loro sentimenti e nell’indissolubilità del rapporto. Col pericolo, soprattutto, di
identificare la struttura sociale “famiglia di fatto” con le sole coppie che hanno provveduto
all’autoregolamentazione (Tommasini 1984, 264).
In questo campo, il rinvio all’autonomia privata, pertanto, è senz’altro legittimo, ma non può
risolversi in un’esenzione dell’interprete dalla ricerca di ulteriori e più generali strumenti di tutela.
Di questo è conscio anche il legislatore, che ha approntato negli ultimi anni numerosi disegni di
legge al fine di regolamentare la materia della famiglia di fatto. La difficoltà sostanziale risiede però
nella scomoda necessità di conciliare i due poli che caratterizzano il fenomeno delle unioni libere:
libertà e responsabilità.
Se infatti sino agli anni settanta la convivenza era spesso una scelta forzata, data
dell’impossibilità di regolarizzare la nuova unione di chi si era precedentemente sposato con altri,
venuta meno l’indissolubilità del matrimonio, essa è divenuta una scelta vera e propria, sebbene
dettata dalle ragioni più varie: si convive perché
«vi possono essere, ad esempio, motivazioni di tipo ideologico, ispirate di frequente a concezioni “libertarie” e
“antiistituzionali” della famiglia …; altre volte si tratta di ragioni socio-economiche in ambienti caratterizzati da sacche
di povertà, da emarginazione sociale, arretratezza culturale ed estraneità nei confronti delle istituzioni ufficiali; altre
volte possono essere motivazioni eminentemente pratiche come quelle di non perdere i benefici derivanti dalla
condizione di vedovanza»
(Ferrando 1998, 184).
Si capisce allora perché parte degli studiosi si preoccupi che una disciplina legislativa
organica della famiglia di fatto rischi di “matrimonializzare” il rapporto (l’espressione è di Paradiso
1984, 74. Si schierano contro la regolamentazione della famiglia di fatto: De Paola 1998, 336;
Trabucchi 1988, 19 ss., riprendendo l’idea precedentemente esposta in Trabucchi 1977, 1 ss.;
Trabucchi 1981, 329, ove la tesi che soltanto la famiglia legittima è meritevole di protezione quale
“famiglia”, mentre al di fuori di essa esistono, giuridicamente, soltanto relazioni isolate tra i singoli
individui; Finocchiaro 1998, 1359 ss., in part. 1368: «posto che nel 99 per cento dei casi tali
“unioni” possono … trasformarsi… in famiglie fondate su un matrimonio valido per l’ordinamento
civile, e godere delle garanzie che l’ordinamento accorda alle famiglie come delineate dalla
Costituzione appare – in realtà – proprio fare violenza a chi sceglie tale forma di vita, al di fuori
della legge [non contro le legge] una regolamentazione giuridica del loro rapporto». Numerosi sono
poi gli autori che ritengono preferibile risolvere i problemi della famiglia di fatto mediante la
normativa di diritto comune affiancata da interventi legislativi di settore. Per lo stato della
giurisprudenza: Balestra 2004).
D’altro canto, la molteplicità e la variegatezza della motivazioni che possono spingere le
coppie verso la convivenza impediscono di ritenere che intenzione dei conviventi sia quella di
sfuggire a qualsivoglia regolamentazione del loro rapporto, né è sufficiente, il rapporto di fatto, ad
esentare i singoli dalle responsabilità che si ricollegano inevitabilmente all’affidamento reciproco
sui cui una unione stabile si fonda.
È così evidente che la soluzione ottimale sarebbe quella che garantisce i partners ancorandoli
alla “responsabilità” (cfr. sul punto Roppo 1981), ma rispettando nel contempo la loro scelta di non
matrimonializzazione, ossia una scelta di libertà dagli obblighi tipicamente coniugali fatta da
soggetti che «nel preferire un rapporto di fatto hanno dimostrato di non volere assumere i diritti e i
doveri nascenti dal matrimonio» (Corte Cost. 13.5.1998, n. 166, FD, 1998, 205, con commento di
Carbone).
6
LA GIURISPRUDENZA RECENTE IN MATERIA DI
FAMIGLIA DI FATTO
(a cura di Antonio Albanese)
Trib. Genova, 25 settembre 2009, in Resp. civ., 2009, 12, 1017: Nella convivenza "more
uxorio" è assente un dovere giuridicamente riconosciuto al reciproco impegno di
fedeltà, posto che, per definizione, tale forma di unione rifugge al riconoscimento
dell'ordinamento, o, comunque, non lo riceve; in tal modo non può ravvisarsi un
illecito nella condotta di chi sia venuto meno a tale impegno.
Trib. Trieste Dec., 19-09-2007, in Notariato, 2008, 3, 251 nota di ROSSANO: È noto come ai
conviventi more uxorio non vengano riconosciuti diritti connaturati all'esistenza di un
rapporto duraturo e stabile, ma che - non di meno - la tutela della prole e degli assetti
patrimoniali nell'interesse degli stessi costituiscano importanti chiavi di
interpretazione ai fini che ne occupano. Si ritiene che l'assenza di un vincolo
parentale e di una situazione di certezza di rapporti giuridici [...] non impediscano [...]
di ritenere meritevole lo strumento in questione al fine di concedere una tutela,
altrimenti inesistente, ai genitori ed ai figli, nati prima o in costanza di questo
rapporto di fatto. Si intende cioè dire che la segregazione di un patrimonio nel
dichiarato intento di apprestare una tutela economica e di assistenza ad una famiglia
di fatto, che non sarebbe altrimenti assicurabile in forme neanche lontanamente simili
a quelle del fondo patrimoniale, rappresenta quel quid che consente di ritenere
apprezzabile lo strumento innominato, e dare così ingresso al trust in questione, nei
limiti di indagine di questo giudice. Proprio questo valore perseguito, e cioè la tutela
della prole familiare, costituisce quel rilevante elemento che aveva indotto la
giurisprudenza costituzionale a dichiarare l'incostituzionalità dell'art. 6, L. 27 luglio
1978, n. 392, nella parte in cui non prevedeva la successione nel contratto di locazione
al conduttore che avesse cessato la convivenza quando vi fosse prole naturale; non a
caso lo stesso presupposto - questa volta in negativo - della ricorrenza di figli ha
recentemente indotto la stessa corte a negare il diritto alla prosecuzione nel rapporto
locatizio al convivente more uxorio in assenza di prole.
Trib. Trieste Sent., 19-09-2007, in Trust, 2008, 1, 42: Dinanzi ad un trust discrezionale
familiare tendente a creare un patrimonio separato in analogia con il fondo
patrimoniale, non attuabile direttamente per non essere i disponenti sposati, la
domanda di intavolazione del trasferimento dei diritti reali immobiliari deve essere
accolta non rientrando nel procedimento tavolare l'indagine circa le problematiche
relative ai reali intenti dei disponenti conviventi "more uxorio", i quali probabilmente
hanno voluto istituire un trust con effetti di protezione patrimoniale in danno dei
creditori più che di tutela delle esigenze della famiglia di fatto, come addotto nel
corso del procedimento.
Trib. Lucca, 23 settembre 1997, in Giur. It., 1999, 68: Sono ammissibili, ma possono
essere soggette a riduzione, le disposizioni testamentarie redatte all'estero che
istituiscono un "trust" di ultima volontà in violazione delle norme sulla successione
necessaria.
Trib. Palermo, 3 febbraio 2002, in Gius, 2003, 13, 1506: II c.d. contratto di
convivenza, con il quale i conviventi more uxorio regolano i rispettivi rapporti
patrimoniali e l'uno concede all'altro, per l'ipotesi di cessazione della convivenza, la
possibilità di vivere nella casa adibita a residenza comune, configura un contratto
atipico gratuito la cui validità discende dalla non contrarietà ai principi
dell'ordinamento del fenomeno della famiglia di fatto, ma che incorre, ove ad esso si
voglia ricondurre la costituzione di un diritto reale di abitazione, nei limiti di forma
previsti dalla legge per la costituzione di diritti reali immobiliari e per gli atti di
liberalità.
Cass. civ. Sez. III, 7 giugno 2011, n. 12278: Il risarcimento del danno da uccisione di
un prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della
vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente "more uxorio"
ed il figlio naturale non riconosciuto, a condizione che gli interessati dimostrani la
sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima assimilabile al
rapporto coniugale. (Rigetta, App. Milano, 12/02/2008)
MOTIVAZIONE
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FILADORO Camillo - Presidente
Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere
Dott. ARMANO Uliana - rel. Consigliere
Dott. DE STEFANO Franco - Consigliere
Dott. LANZILLO Raffaella - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 7689-2009 proposto da:
V.G. (OMISSIS), V.C. (OMISSIS), V.A.F. (OMISSIS), M. G. (OMISSIS) ved. V., elettivamente
domiciliati in ROMA, VIA CELIMONTANA 38, presso lo studio dell'avvocato PANARITI
BENITO, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato GOGLINO AGOSTINO giusta
procura in calce al ricorso;
- ricorrenti contro
UNIPOL GRUPPO FINANZIARIO (U.G.F.) ASSICURAZIONI S.P.A. già AURORA
ASSICURAZIONI SPA (OMISSIS), in persona del suo procuratore Dott.ssa G.G., elettivamente
domiciliato in ROMA, P.ZZA MARTIRI DI BELFIORE 2, presso lo studio dell'avvocato ALESSI
GAETANO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato CAMASSA RAFFAELE giusta
procura a margine del controricorso;
- controricorrente e contro
CARDIELLO TRASPORTI SRL (OMISSIS);
- intimati avverso la sentenza n. 413/2008 della CORTE D'APPELLO di MILANO, Sezione Terza Civile,
emessa il 31/01/2006, depositata il 12/02/2008;
R.G.N. 3939/2003;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/03/2011 dal Consigliere Dott.
ARMANO Uliana;
udito l'Avvocato PANARITI BENITO;
udito l'Avvocato CAMASSA RAFFAELE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice che ha
concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
M.G. ed i figli legittimi V.C., V.A. F. e V.G. citavano in giudizio la Cardiello Trasporti srl e la
SAPA Assicurazioni, poi Winterhur e attualmente U.G.F. Assicurazioni s.p.a, per sentirli
condannare al risarcimento dei danni conseguenti all'incidente stradale del (OMISSIS), nel quale
aveva trovato la morte il proprio marito e padre V. A.. Nel giudizio intervenivano la convivente del
V., S.M.T., e la figlia naturale dello stesso, S. F.. La sentenza di primo grado ha accertato la pari
responsabilità della Cardiello Trasporti e di V.A. nella causazione dell'incidente ed ha risarcito il
danno morale subito dalla moglie del V., M.G., nella misura di Euro 20.658,28, e dai i figli legittimi
V.C. e V. G. nella misura di Euro 10.329,14, dalla figlia legittima V.A.F. nella misura di Euro
5.164,57, dalla convivente S.M.T. nella misura di Euro 20.658,28 e dalla figlia naturale S.F. nella
misura di Euro 10.329,14; ha liquidato in uguale misura il danno patrimoniale fra la famiglia legale
e quella di fatto.
Con sentenza del 12-2-2008 la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza di primo
grado.
Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione M. G. ed i figli legittimi V.C., V.A.F. e
V.G. con tre motivi.
Resiste con controricorso la U.G.F. Assicurazioni s.p.a. già Aurora Assicurazioni illustrato anche da
memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso viene denunziata la violazione degli artt. 2059, 2056, 1223 e 1226
c.c. e dei principi generali in materia di liquidazione del danno non patrimoniale, nonchè vizi di
motivazione sul punto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
Ad avviso dei ricorrenti il giudice del merito non poteva procedere ad una determinazione
complessiva ed unitaria del danno morale ed alla conseguente ripartizione dell'intero importo in
modo automaticamente proporzionale tra tutti gli aventi diritto, bensì doveva determinare in
concreto il danno morale per ciascuno dei congiunti tenendo conto delle effettive sofferenze patite.
1.1. Il motivo è infondato.
Infatti i giudici di merito hanno proceduto alla ripartizione dell'importo dovuto per danno morale tra
tutti gli aventi diritto non in modo automatico, ma nella determinazione in concreto del danno per
ciascuno dei congiunti hanno tenuto conto delle effettive sofferenze patite, in modo da rendere la
somma riconosciuta adeguata al particolare caso concreto (Cass. n. 116/2001).
1.2. I giudici di merito hanno tenuto conto della particolarità della situazione in oggetto,
condividendo la giurisprudenza, anche di legittimità, che in materia di responsabilità civile ha
riconosciuto il diritto al risarcimento del danno conseguente alle lesioni o alla morte di una persona
in favore del convivente "more uxorio" di questa, pur richiedendo che venga fornita, con qualsiasi
mezzo, la prova dell'esistenza e della durata di una comunanza di vita e di affetti e di una
vicendevole assistenza morale e materiale, cioè di una relazione di convivenza avente le stesse
caratteristiche di quelle dal legislatore ritenute proprie del vincolo coniugale (Cass. Sez. 3,
29/4/2005 n. 8976).
In base agli stessi presupposti, la Corte di Appello ha ritenuto la sussistenza del diritto al
risarcimento in favore di chi sia stata legata da un vincolo di filiazione naturale alla vittima del
sinistro, ancorchè non legalmente riconosciuta, laddove tale vincolo sia stato contraddistinto dalle
medesime caratteristiche di quello tra genitore e figlio legittimo o naturale riconosciuto.
Dall'esame del compendio probatorio, i giudici di merito hanno ritenuto provato che da molti anni
V.A. aveva stabilito la sede principale della sua attività lavorativa a Rende (CS) e lì aveva costituito
con S.M.T. un'unione stabile, caratterizzata non soltanto da un legame affettivo, ma anche dalla
gestione comune dei molteplici aspetti della vita quotidiana, con reciproco appoggio morale e
materiale, nonchè, successivamente, dalla condivisione dei compiti connessi alla nascita e alla
crescita della figlia F., con la quale il V. intratteneva un rapporto sotto ogni profilo assimilabile a
quello genitore-figlio;
che V.A. aveva peraltro mantenuto stabili legami, anche affettivi, con i figli legittimi e con la
moglie, i quali vivevano a Salerno e con i quali trascorreva regolarmente le principali festività,
provvedendo sotto il profilo economico alle esigenze anche di questo nucleo familiare.
1.3. Si osserva che i Giudici di appello hanno parificato, ai fini del risarcimento dei danno morale,
la famiglia legale e la famiglia di fatto, in quanto per quest'ultima è stata provata la stabilità e la
continuità nel tempo del rapporto e delle relazioni affettiva.
Successivamente hanno differenziato le singole posizioni degli aventi diritto, riconoscendo alla
moglie ed alla convivente un importo maggiore rispetto ai figli, e per i figli un importo diverso per
quelli conviventi e per la figlia sposata, a cui è stato liquidato un importo inferiore.
1.4. Quindi, nel risarcimento concreto del danno, tenendo conto della particolarissima situazione di
un soggetto con due nuclei familiari legati a lui da una rapporto di protratta e contemporanea
stabilità nel tempo, i giudici di merito, lungi dal lamentato automatismo, hanno tenuto conto della
diversa intensità del vincolo familiare, moglie convivente e figli, e della effettiva convivenza
liquidando alla figlia sposata un importo inferiore.
2. Con il secondo motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 2059, 2056, 1223
e 1226 c.c. e dei principi generali in materia di liquidazione del danno non patrimoniale nonchè vizi
di motivazione sul punto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.
I ricorrenti deducono che la liquidazione del danno non patrimoniale deve comunque rispettare alla
esigenza di una ragionevole correlazione tra gravità effettiva del danno ed ammontare
dell'indennizzo (e non può consistere in una espressione simbolica).
2.1. Si osserva che i ricorrenti non hanno contestato in appello il criterio utilizzato per la
quantificazione del danno morale complessivo, richiamando solo nella comparsa conclusionale del
giudizio di appello i più recenti e più elevati importi, da centomila e duecentomila Euro, previsti
nelle tabelle del Tribunale di Milano nella liquidazione del danno morale in favore del coniuge e dei
figli.
Il motivo quindi deve considerarsi inammissibile perchè introdotto per la prima volta nel giudizio di
cassazione.
3. Come terzo motivo di ricorso viene denunziato vizio di insufficiente e contraddittoria
motivazione per aver i giudici di merito riconosciuto un contributo annuo di L. 10 milioni alla
famiglia di fatto, nell'ambito della quantificazione del danno patrimoniale.
Infatti secondo i ricorrenti i giudici di merito avevano riconosciuto che il V. erogava un contributo
annuo di Euro 10.000,00 in favore della famiglia di fatto, senza che di tale circostanza fosse stata
fornita alcuna prova.
3.1. Si osserva che sotto l'apparente denunzia di vizio di omessa motivazione i ricorrenti richiedono
a questa Corte un riesame del merito della controversia con una valutazione delle risultanze
probatoria diversa da quella motivatamente fatta propria dai giudici di merito.
Il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n.
5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia
riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece
consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla
parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e
valutare il merito della causa.
3.2. Nel caso di specie la Corte di Appello ha ritenuto raggiunta la prova dell'effettiva coesistenza
dei due nuclei familiari entrambi percepiti e vissuti dal defunto come "famiglia" e del sostegno
economico fornito in uguale misura ad entrambi. Della linea argomentativa sviluppata, fondata su
prove documentali e deposizioni testimoniali ritenute dalla Corte di appello attendibili, i ricorrenti
non segnalano alcuna caduta di consequenzialità, mentre l'impugnazione si risolve in una generica
prospettazione dei fatti alternativa a quella del giudice di merito: il che non può trovare spazio nel
giudizio di cassazione. Giusti motivi impongono la compensazione delle spese del grado.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione.
Trib. Bologna Sez. II, 16 febbraio 2011: Esclusa, nell'ambito dei rapporti tra
conviventi more uxorio, la causa onerosa del contratto di compravendita, per
avvenuta simulazione della quietanza rilasciata con riferimento alla corresponsione
del prezzo, il patto ad esso sotteso non può automaticamente ricondursi ad un atto di
liberalità. Stante la sempre più crescente attenzione mostrata verso forme di
regolazione della convivenza more uxorio e specificamente verso quegli atti di
autonomia in cui assume rilevanza motivazionale quella sfera intima e soggettiva di
doveri morali che muovono il convivente economicamente più forte a disporre di un
proprio diritto o ad assumere un'obbligazione senza che si configurino gli estremi
della causa donandi, nella quietanza rilasciata a regolazione del prezzo di acquisto del
bene può, invero, riconoscersi un atto di adempimento ai menzionati doveri morali e
di solidarietà, insensibile, in quanto tale, ai profili di nullità che investono l'atto di
liberalità. In tal senso deve, pertanto, ammettersi la possibilità per i privati di
procedere alla stipulazione di contratti gratuiti atipici, ovvero dare corso ad atti
unilaterali gratuiti volti alla definizione di situazioni in essere, caratterizzate dalla
rilevanza di un preesistente dovere morale.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI BOLOGNA
SECONDA SEZIONE CIVILE
Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Pasquale Liccardo ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile di primo Grado iscritta al n.r.g. 202/2006 promossa da:
Al.Ar., con il patrocinio dell'avv. Ma.Ma. e dell'avv. Ma.El. c/o Ma.Ma. via (...) Bologna;,
elettivamente domiciliato in via (...), Bologna presso il difensore avv. Ma.Ma.
Attore
contro
Ma.Fe., con il patrocinio dell'avv. Ro.Al. e dell'avv., elettivamente domiciliato in Via (...) Bologna
presso il difensore avv. Ro.Al.
Convenuto
Ma.Ar., con il patrocinio dell'avv. Ma.Ma. e dell'avv. Ma.El. c/o Ma.Ma. via (...) Bologna,
elettivamente domiciliato in via (...) Bologna presso il difensore avv. Ma.Ma.
Intervenuto
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
1. Con atto di citazione 30 12 2005 Ar.Al., quale erede legittimario di Ar.Pa., premesso:
il de cuius Pa.Ar. si era allontanato dalla famiglia allora residente in San Costantino Calabro - ancor
prima della separazione consensuale intervenuta in data 29 05 1952 - per trasferirsi a San Lazzaro di
Savena;
che il padre, trasferitosi a Bologna, aveva intrapreso attività imprenditoriali di successo, sia nel
settore dell'abbigliamento che nel settore alberghiero, acquistando tra l'altro, un appartamento in via
(...);
che aveva effettuato nel tempo numerose operazioni immobiliari disponendo di notevoli capitali;
che dopo il trasferimento a San Lazzaro il de cuius aveva iniziato una stabile convivenza more
uxorio con Fe.Ma., convivenza durata quasi un ventennio: da tale convivenza era nato il figlio Gi.;
che durante la loro convivenza, il de cuis aveva venduto il 30 10 1965 a Fe.Ma., la nuda proprietà di
un'area edificabile sita in San Lazzaro di Savena Via (...), area adiacente alla loro casa di abitazione:
su tale area, il de cuius aveva provveduto a costruire un complesso immobiliare costituito da diverse
unità abitative e commerciali;
che tutte le pratiche edilizie per la realizzazione delle unità abitative e commerciali erano state
curate direttamente dal de cuius;
che la vendita doveva ritenersi simulata stante il legame affettivo esistente con la Fe., la
coabitazione precedente e successiva alla vendita, l'assenza di reddito da parte della convenuta;
che era pertanto chiaro l'intento perseguito dal de cuius, quale quello di assicurare al nucleo
familiare un'autonoma e distinta capacità di reddito in caso di sua prematura morte;
che l'intento simulatorio - oltre dagli atti di costruzione, amministrazione e gestione indicati,
emergeva dalla vendita a tale Fl.Ga. di area confinante la prima, area questa retrocessa tre anni dopo
in nuda proprietà alla Fe., con usufrutto in proprio favore;
che la condotta descritta nella convivenza more uxorio con la Fe. era stata del pari osservata con la
successiva convivente Ba.An. con la vendita attuata il 18.07.1986 della nuda proprietà della casa
colonica e padronale dallo stesso costruita, con riserva in proprio favore dell'usufrutto;
tanto premesso ed esposto conveniva in giudizio Fe.Ma. per sentire dichiarare la simulazione della
compravendita del 30.10.1965, sia essa assoluta che relativa, con nullità della eventuale donazione
per difetto di forma della donazione dissimulata e disporsi in ogni caso la reintegrazione della quota
di riserva spettante all'attore, con condanna della Fe. al rilascio dei beni e alla restituzione dei
canoni.
Alla prima udienza si è costituita in giudizio la convenuta contestando in toto ogni assunto attoreo
precisava in particolare che la sttessa - contrariamente ad ogni assunto versato in atto di citazione aveva esercitato in proprio varie attività Imprenditoriali, tali da consentirle di contribuire agli
acquisiti effettuati dal convivente.
Del pari, si costituiva in giudizio Ar.Ma. con atto di intervento ad adiuvandum le conclusioni
rassegnate dal fratello con l'atto di citazione in giudizio.
IN DIRITTO
2. Ciò posto, va in primo luogo esaminata la posizione rivestita da Ar.Al. e Ma.Em. ai fini
dell'azione di simulazione proposta, in quanto dalla stessa conseguono effetti rilevanti sia sul piano
probatorio, che prescrizionale. Ed invero, nell'ipotesi in cui si ritenga che l'erede agisca, nell'azione
di simulazione, iure successionis e quindi quale parte del contratto, lo stesso non può giovarsi delle
agevolazioni probatorie previste dall'art. 1417 Codice civile solo in favore del creditore e del terzo,
né tantomeno avvalersi di un termine prescrizionale decorrente (non dall'atto ma) dal momento in
cui il diritto diviene esercitabile, ovverosia dalla morte del de cuius (si veda al riguardo, da ultimo,
Cass. 21.02.2007 n. 4021, laddove la soluzione viene in ogni modo ancorata più che alla veste
assunta dal legittimario, all'azione di riduzione proposta).
Pur nella sintesi doverosa per la sede, va qui ricordato come la materia sia stata da sempre oggetto
di divergenti interpretazioni sia dottrinarie che giurisprudenziali, conoscendo solo parziali e spesso
insoddisfacenti assestamenti: I) l'erede, in quanto successore in universum ius di uno dei simulanti,
acquista legittimazione attiva ad esercitare l'azione di simulazione, con gli stessi limiti in cui si
trova nel patrimonio ereditario venendosi a trovare nella medesima posizione del de cuius
medesimo, rispetto al rapporto controverso ed incontrando così, non diversamente che per tutti gli
altri rapporti già facenti capo allo stesso, tutte le limitazioni probatorie alle quali sarebbe stato
soggetto (Cass. 24.2.00 n. 2093, 21.4.98 n. 4024, Cass. 6.8.90 n. 7909 per la quale "l'erede che
agisca, non quale legittimano ai fini del recupero o della reintegrazione della quota di riserva,
assumendo veste di terzo rispetto al negozio di cessione di beni ereditari compiuto dal de cuius, del
quale deduca la simulazione, bensì con azione di simulazione relativa alfine di acquisire alla massa
ereditaria i beni ceduti (per la successiva divisione tra gli eredi) resta vincolato alla posizione del de
cuius nei cui rapporti subentra ......"); II) il legittimario pretermesso assume la veste di terzo in
quanto titolare di un diritto ad ottenere parte del patrimonio ereditario pur non essendo stato
"chiamato all'eredità" (in tal senso, Cass. 29 05 1995 n 6031); III) l'erede legittimario (sia esso
legittimo o testamentario) assume una posizione del tutto peculiare in quanto coniuga
soggettivamente la duplice veste di parte del contratto simulato che di terzo pregiudicato dallo
stesso.
Con riferimento proprio a tale ultima figura, si è pertanto affermato in giurisprudenza che:
I) l'azione proposta da legittimario per far valere tanto la simulazione assoluta del negozio posto in
essere dal de cuius quanto la simulazione relativa laddove il negozio dissimulato sia affetto
anch'esso da nullità assoluta per mancanza di forma, non è soggetta alla condizione della previa
accettazione dell'eredità con beneficio di inventario richiesta dall'art. 564 c.c. per le azioni di
riduzione laddove l'azione sia proposta in danno di terzi, in quanto l'interesse all'accertamento della
inesistenza di un negozio giuridico posto in essere dal dante causa, non risulta in alcun modo
ricollegabile all'azione di riduzione ma alla sola stessa veste di erede; con la sola eccezione dell'atto
dissimulato - lesivo della quota di legittima - che possieda tutti i requisiti di validità: in tale ipotesi
l'azione di simulazione non potrebbe essere disgiunta dall'azione di riduzione ex art. 564 c.c. e non
potrebbe che soggiacere alle condizioni in detta norma previste per questa azione (in tal senso,
Cass. 18.04.2003 n. 6315);
II) con riferimento specifico al regime delle agevolazioni probatorie previste dall'art. 1471 c.c. non
può essere disconosciuta all'erede che agisca per la simulazione la posizione di terzo in quanto con
la medesima azione egli mira a reintegrare la quota spettategli in tutto o in parte lesa dalla
disposizione simulata e quindi un diritto proprio posto in suo favore dalla legge quale vincolo
permanente della capacità di disposizione del de cuius, cumulando nella sua persona "la duplice
veste di legittimario che recupera la sua quota e di erede legittimo chiamato per il residuo in assenza
di disposizioni testamentarie, non essendo immaginabile che rispetto ad un unico atto che si assume
simulato, possa vigere contemporaneamente un doppio regime probatorio in relazione ai duplici
effetti concreti che l'accertamento è in grado di produrre, questa corte ha sempre affermato (così
Cass. 18.04.2003 n. 6315, Cass. sez. 2, 30 luglio 2002, n. 11286; sez. 2, 24 febbraio 2000, n. 2093;
Cass. sez. 2, 29 maggio 1995, n. 6031).
Il dibattito dottrinario è stato estremamente ampio e diversificato negli esiti interpretativi: si è
sostenuto che sia necessario distinguere se il legittimario abbia o meno accettato l'eredità, in quanto
solo con la mancata accettazione preserva la posizione di terzo pregiudicato, con annessa
problematica relativa alla valutazione del comportamento insito nell'azione promossa ai fini
dell'accettazione tacita; si è del pari affermato che l'azione promossa dall'erede legittimario volta ad
accertare la dissimulazione di un atto di liberalità assistito da requisiti di validità sia consentita nella
sola ipotesi in cui promuova contemporaneamente l'azione di riduzione per lesione della sua quota
di legittima (con la sola eccezione delle donazioni operate dal de cuius in favore di coeredi); in
senso contrario si è ritenuto che il legittimario sia comunque terzo indipendentemente dall'esercizio
della predetta azione di riduzione in quanto si assume che l'azione di simulazione miri comunque
alla tutela della quota ereditaria lesa dall'atto simulato.
Al riguardo, ritiene questo Giudice come la ricerca minuziosamente operata da parte della dottrina e
della giurisprudenza si traduca in una distinzione meramente casistica delle posizioni rivestite dal
legittimario a seconda che sia stato pretermesso, ovvero chiamato (legittimo o testamentario che
abbia provveduto ad accettare o meno l'eredità ),con l'innesco di regimi probatori di difficile
governo e giustificazione laddove si abbia riguardo alla realtà degli interessi in conflitto; e come la
terzietà del legittimario ricorra in ogni ipotesi in cui egli agisca per far pronunziare la simulazione
assoluta di un contratto oneroso, ovvero la simulazione relativa che dissimuli un atto di liberalità
nullo (come nel caso in esame) in quanto mira a far accertare che il bene non è mai fuoriuscito dal
patrimonio del de cuius contro la volontà dello stesso, facendo valere il proprio diritto alla
formazione di una massa più ampia su cui esercitare i propri diritti ex art. 556 c.c., senza che sia
necessario ancorare tale suo diritto all'azione di riduzione, per l'ovvia considerazione che
quantomeno nei confronti dell'atto nullo, non abbia ragion d'essere l'azione di riduzione.
In obiter rispetto alla fattispecie in esame, osserva infine questo Giudice come anche con
riferimento alle liberalità dissimulate valide, non sia necessario procedere all'ancoraggio della
posizione del legittimario all'azione di riduzione (come pure ritenuto recentemente dalla
Cassazione, Cass. 12.06.2007 n. 13706; Cass. 2.09.2008 n. 22030), in quanto in tal caso il
legittimario fa valere il proprio diritto alla riunione fittizia richiedendo di accertare che il bene è
fuoriuscito dal patrimonio del de cuius in forza di un atto di liberalità che deve concorrere alla
composizione del donatum: in altri termini, contrariamente all'indirizzo ricordato che riconosce una
posizione di terzietà nelle sole alienazioni simulate per inesistenza assoluta della volontà traslativa
ovvero per le alienazioni onerose che dissimulano un atto di liberalità nullo (Cass. 6315/2003) non
pare corretto ravvisare una correlazione tra l'azione di simulazione promossa (qualunque essa sia) e
l'azione di riduzione ai fini dell'esatta individuazione della posizione del legittimario in quanto una
tale correlazione appare invero eccessiva e pleonastica rispetto al quadro normativo delineato
rispetto alla disciplina posta dall'art. 556 c.c. e 564 c.c. che impongono quattro operazioni distinte ai
fini del calco della legittima (formazione della massa, detrazione dei debiti, riunione fattizia e
imputazione delle liberalità in conto di legittima): nell'interpretazione prescelta, i legittimari hanno
un autonomo interesse a far pronunziare la simulazione del contratto in quanto qualora assoluta, il
bene non è fuoriuscito dal patrimonio del de cuius (costituendo così relictum) ovvero qualora
relativa, il bene partecipa delle liberalità operate dal de cuius (costituendo donatum), esso realizzi
un atto di liberalità, come tale donatum, aumentando comunque nell'uno e nell'altro caso, il valore
connesso alle operazioni poste dalle norme prima indicate.
2.1. Nel caso in esame, la difesa di parte attrice ed intervenuta deduce che il contratto di
compravendita del 30 10 1965, con cui Ar.Pa. ha venduto a Fe.Ma. la nuda proprietà di un'area di
terreno edificabile abbia in realtà dissimulato un atto di liberalità che in quanto privo dei requisiti di
sostanza e di forma propri della donazione, sia pertanto nullo, costituendo relictum della massa.
Deve pertanto in coerenza con il predetto orientamento riconoscersi in capo all'attore e alla
intervenuta, il più favorevole regime probatorio in ordine alla simulazione previsto per il terzo
dall'art. 1417 c.c.
3. Quanto al merito delle difese rassegnate in atti, deve osservarsi come l'assunto attoreo si fondi
sulle seguenti circostanze indizianti, nella successione operata dalla parte nei propri scritti difensivi:
a. l'esistenza di un forte vincolo affettivo dato dalla convivenza, rafforzato dalla nascita del figlio;
b. la convivenza more uxorio dopo la vendita;
c. indisponibilità per la Fe. della somma costituente il prezzo della compravendita;
d. riconoscimento del solo diritto di usufrutto in capo al de cuius;
e. ingente investimento di capitali da parte del de cuius per la costruzione di immobili pur essendo
mero usufruttuario, senza alcun esborso da parte della Fe.;
f. la disponibilità di ingenti capitali all'atto dell'instaurazione della convivenza con la convenuta
g. mancato versamento del prezzo del contratto;
h. comportamento identico osservato dal de cuius nei confronti della successiva compagna Be.An.
Orbene, tali elementi indiziari sono contestati dalla convenuta che ha dedotto:
I) l'assoluta genericità dei fatti menzionati quali ragioni dell'atto dissimulato, genericamente e
riduttivamente ravvisati nella convivenza more uxorio;
II) l'attività precedentemente svolta dalla convenuta con la titolarità di un esercizio commerciale e
di una abitazione, come tali indicative di una capacità patrimoniale propria.
L'assunto argomentativo della parte induce ad una valutazione complessiva dei profili alla stessa
sottesi, con riferimento alla natura del contratto dissimulato e al valore da assegnarsi alle stesse
all'interno dei principi valutativi posti dagli artt. 2729 c.c.
In primo luogo, osserva in sintesi questo giudice come la prova per presunzioni è nel nostro codice,
limitata nei requisiti di ammissibilità come individuati dall'art. 2729 c.c., norma questa che
demanda alla prudenza del giudice l'ingresso alle sole presunzioni gravi precise e concordanti.
Gravità intesa come qualificazione del grado di elevatezza del legame probabilistico, precisione
come grado di attendibilità conclusiva della inferenza, concordanza come presenza di una serie
contestuale di presunzioni si propongono come requisiti del prudente apprezzamento del giudice,
non senza osservare come mentre con riferimento ai primi due la giurisprudenza ne ha
costantemente affermato la indispensabilità, per il terzo ne ha indicato il carattere meramente
eventuale in quanto anche una sola presunzione, purché grave e precisa, può essere di per se
sufficiente a determinare il convincimento del giudice (cfr. in tale senso, Cass. 4.02.1993 n. 1377).
Orbene, avuto riguardo alle risultanze istruttorie versate in atti, va in primo luogo osservato come la
stessa narrazione operata dalle parti evidenzia l'epoca risalente delle circostanze addotte, epoca che
necessariamente ne impone una valutazione estremamente prudente ed argomentata, in quanto
votata al riscontro minuzioso ed analitico di ognuna delle vicende indizianti indicate da parte attrice
a fondamento dell'argomentazione difensiva.
3.1. Con riferimento al primo dei profili indicati, ovvero alla convivenza more uxorio deve rilevarsi
come di recente si sia affermata in dottrina come in giurisprudenza una crescente attenzione verso
forme di regolazione della convivenza more uxorio, con emersione per atto di autonomia negoziale
di doveri morali e sociali e nella conseguente valutazione operata dall'ordinamento, della
meritevolezza degli interessi sottesi allo stesso atto negoziale.
In coerenza con l'orientamento già recentemente espresso da questo Tribunale, si ricorda come "la
rilettura del dettato costituzionale abbia comportato ormai da tempo, l'emersione delle istanze
solidaristiche sottese alla convivenza civile in genere, con apertura agli atti di autonomia privata
volti alla loro realizzazione: come osservato dalla migliore dottrina, se è vero che gli artt. 2 e 3, 2
comma Cost. indirettamente tutelano la libertà contrattuale di fare donazioni, non si vede quale
limite possa incontrare la libertà di stipulare un contratto volto a consentire l'adempimento di un
dovere morale in quanto anch'esso espressione - al pari dell'atto di liberalità - della personalità
umana: in tal senso deve essere letta quella giurisprudenza (cfr. Cass. 8 giugno 1993 n 6381 in Corr.
Giur. 1993 n. 947; Trib. Bologna 18.06.1999, ined. confermata dalla Corte di App. 9 marzo 2001
ined.; da ultimo trib. Savona 7 marzo 2001 in Fam. Dir. 2001 529) che proprio con riferimento ai
contratti more uxorio, provvede al superamento di ogni problematica connessa all'irripetibilità
dell'obbligazione naturale (ivi comprese le problematiche connesse alla sua novazione), in favore di
un atto di autonomia in cui assuma rilevanza "motivazionale" quella sfera intima e soggettiva di
doveri morali che muovono il convivente economicamente più forte a disporre di un proprio diritto
o ad assumere - come nel caso in esame - un'obbligazione, senza che si configurino gli estremi della
causa donandi, per sua natura connessa ab imis ad uno spirito di liberalità caratterizzato da uno stato
d'animo di assoluta libertà, stato questo inconciliabile con un qualsiasi dovere, sia pure di natura
puramente morale" (cfr. sentenza 7.08.2010 dell'intestato Tribunale).
Non è quindi detto che, una volta esclusa - in forza di una visione semplicistica delle istanze sottese
alla convivenza "more uxorio" - la causa onerosa del contratto di compravendita per la simulazione
della quietanza rilasciata con riferimento alla corresponsione del prezzo, si debba necessariamente
ricondurre il patto ad esso sotteso ad un atto di liberalità, potendo viceversa riconoscersi nella
quietanza rilasciata a regolazione del prezzo, un atto di adempimento dei predetti doveri di
solidarietà, rendendo pertanto insensibile l'atto ai profili di nullità che investono l'atto di liberalità.
In altri termini, deve in generale ammettersi la possibilità per i privati di stipulare contratti gratuiti
atipici ovvero dare corso ad atti unilaterali gratuiti (quali nel caso in esame, la remissione del debito
operata in quietanza) volti alla definizione di situazioni in essere caratterizzate dalla rilevanza di un
preesistente dovere morale, in cui l'obbligazione naturale non interviene come rapporto giuridico
preesistente da accertare o novare con il nuovo contratto, ma semplicemente "come interesse lecito
alla produzione dell'effetto contrattuale" come indicato dalla migliore dottrina all'indomani
dell'introduzione del codice del 42.
3.2 Né le conclusioni raggiunte quanto alla natura dell'atto possono dirsi contraddette dagli ulteriori
indici evidenziati dalla difese delle parti attrici, in quanto coerenti con la natura delle considerazioni
proposte e comunque in ogni caso anche laddove non si condivida la ricostruzione degli istituti
operata da questo tribunale, inidonee a dare prova del natura liberale dell'atto posto in essere. In
particolare, nessuna prova sulla consistenza patrimoniale del de cuius negli anni immediatamente
precedenti la vendita risulta prodotta dalla parte, quali dichiarazioni dei redditi, valore e consistenza
di altri beni nella sua titolarità, tale da permettere di ritenere che la vendita effettuata con riserva di
usufrutto fosse per intero finalizzata ad un atto di liberalità: la documentazione prodotta dalla difesa
di parte attrice attiene alle successive fortune imprenditoriali dell'Ar. degli anni settanta ed ottanta,
come la nomina a Ca. del Lavoro. Anzi, nel caso in esame, risulta che lo stesso Ar. provvide contestualmente alla vendita della nuda proprietà alla Fe. - alla vendita di area edificabile limitrofa,
evidenziando così la necessità di procedere alla "acquisizione di capitali" necessari a dare ingresso
al progetto di edificazione delle aree. Non è forse un caso che a fronte di una licenza edilizia
richiesta nel 1963, abbia provveduto alla edificazione solo dopo il 1966 ovvero dopo aver dato
corso all'acquisizione di capitali necessari alla stessa sia per il tramite della vendita della nuda
proprietà al coniuge che per la vendita a terzi di parte dell'area edificabile.
In altri termini, non è dato allo stato individuare alcuna certezza nella consistenza patrimoniale del
de cuius all'atto della compravendita, se non registrare forse la necessità di acquisire liquidità
immediata anche dalla convivente, garantendo peraltro alla stessa quella forma di investimento
duraturo insito nella scissione del diritto dominicale in usufrutto e nuda proprietà.
Al riguardo, va solo evidenziato come che l'affermata incapacità patrimoniale della convenuta
risulta efficacemente contrastata dalla produzione di documentazione attestante sia la titolarità di
una casa di abitazione che l'esercizio di una autonoma - anche se minore - attività imprenditoriale,
attività dimessa nell'immediatezza della vendita, venendo così a comprovare gli estremi di una
capacità economica che contrasta con la semplicistica narrazione della convivenza more uxorio che
vede uno dei due coniugi incapace di partecipare in modo assoluto alle attività dell'altro.
Nel caso in esame, appare evidente come con la scissione della proprietà, Ar.Pa. abbia inteso
assicurare un contributo alle imminenti attività edilizie senza essere in alcun modo gravato da alcun
obbligo restitutorio, contributo non vanificato nei suoi estremi di effettività dal collaterale intento di
consentire una stabilizzazione economica anche dei legami affettivi in assenza di ogni regolazione
coniugale.
Ogni circostanza ulteriore addotta dalla parte quale l'attività edilizia realizzata e la percezione dei
canoni risulta coerente con le facoltà insite nel diritto dell'usufruttuario di un fondo edificabile, e
comunque successiva alla vendita operata, vendita che pertanto resiste all'azione di nullità promossa
dall'attore e dall'intervenuto.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in complessivi Euro 3.400,00 per onorari, Euro
2.198,00 per diritti ed Euro 122,00 per le spese imponibili.
La sentenza è munita di formula per legge.
P.Q.M.
Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita,
così dispone:
1. rigetta in quanto infondate in fatto ed in diritto le domande attrici;
2. condanna l'attore Ar.Al. in solido con la intervenuta Ar.Ma., alla rifusione delle spese di lite,
spese che si liquidano Euro 3.400,00 per onorari, Euro 2.198,00 per diritti ed Euro 122,00 pere
spese imponibili, oltre i.v.a., c.p.a. e 12,50 % per spese generali.
Così deciso in Bologna il 14 febbraio 2011.
Depositata in Cancelleria il 16 febbraio 2011.
App. Palermo Sez. III, 15 maggio 2010: Nella convivenza more uxorio anche
l'esborso di somme effettuato da uno dei soggetti di tale rapporto rappresenta un
adempimento di obbligazione naturale, purché sussista un rapporto di proporzionalità
tra le somme sborsate ed i doveri morali e sociali assunti reciprocamente dai
conviventi. Ne deriva che, laddove, come accaduto nel caso concreto, non sussista
tale rapporto di proporzionalità, anche per l'impossibilità di desumere con esattezza la
portata dei doveri morali e sociali reciprocamente assunti dalle parti in occasione
della loro convivenza, le somme sborsate, non potendo essere ricondotte
all'adempimento di un obbligo morale strettamente connesso alla situazione di
convivenza more uxorio, potranno essere ripetute non trovando, in siffatta situazione,
applicazione la disposizione di cui all'art. 2034 c.c.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE D'APPELLO DI PALERMO
TERZA SEZIONE CIVILE
composta dai signori:
1) Dott. Marino Vito Ivan - Presidente 2) Dott. Picone Filippo - Consigliere (omissis)
Svolgimento del processo
Con atto di citazione ritualmente notificato, Bi.Em. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di
Palermo - Sezione distaccata di Carini, Ma.Gi., esponendo di avere effettuato pagamenti per
complessivi Euro 50.709,46 nell'interesse esclusivo della Ma. ed in adempimento di obbligazioni
contratte dalla stessa, in particolare quale acconto del maggiore importo dovuto dalla convenuta per
una, pregressa esposizione debitoria con il Ba.Si..
Il Bi., pertanto, chiedeva la condanna della Ma. al pagamento, in proprio favore, della suddetta
somma, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria.
Si costituiva Ma.Gi., chiedendo il rigetto della domanda attrice, in quanto infondata in fatto ed in
diritto.
Istruita la causa, mediante interrogatorio formale della convenuta, il Giudice adito, con sentenza in
data 25.5.2007 - 6.6.2007, in parziale accoglimento della domanda attorea, condannava la Ma. al
pagamento, in favore dell'attore, della complessiva somma di Euro 30.987,41, oltre gli interessi
legali dall'1.6.2004 (giorno di ricezione della prima delle lettere raccomandate di messa in mora
inviate dal Bi.) al soddisfo. Rigettava, invece, la domanda, con riferimento alle ulteriori somme
richieste dal Bi., posto che non era stata fornita la prova del fatto che gli ulteriori pagamenti fossero
stati effettuati dall'attore per conto della Ma..
Avverso la suddetta sentenza proponeva appello Ma.Gi., chiedendo, preliminarmente, la
sospensione dell'efficacia esecutiva della sentenza impugnata.
Nel merito, deduceva l'errata interpretazione dell'art. 2702 c.c. da parte del primo giudice, il quale
aveva ritenuto prova documentale dell'avvenuta dazione di denaro da parte del Bi. le missive inviate
dall'appellante alla banca, consistenti in due foglietti dattiloscritti privi di sottoscrizione, che potesse
documentarne la provenienza e, peraltro, non redatti in forma olografa. Da ciò conseguiva che,
l'appellante non aveva neppure l'onere di disconoscere tempestivamente, ai sensi dell'art. 214 c.p.c.,
i suddetti documenti, in assenza della scrittura o della sottoscrizione.
In ogni caso, non vi era la prova che la proposta transattiva al Ba.Si., cui si faceva riferimento nelle
due missive in questione, fosse stata accettata dall'istituto bancario, che, in caso di mancata
accettazione, avrebbe dovuto restituire le somme versate. Pertanto, nessuna prova vi era che le
somme presuntivamente versate dal Bi. fossero state o meno trattenute o restituite.
L'appellante, pertanto, chiedeva il rigetto delle domande avanzate dal Bi. con l'originario atto di
citazione.
In subordine, l'appellante chiedeva ritenersi e dichiararsi che, le dazioni di denaro asseritamene
effettuate dall'appellato costituivano ipotesi di adempimento di obbligazione naturale ex art. 2034
c.c. e, come tali, irripetibili, e ciò in virtù del rapporto di convivenza intercorrente tra le parti
all'epoca dei fatti. Peraltro, mancava agli atti la prova che le somme che il Bi. assumeva avere
sborsato in favore della Ma., fossero da considerarsi non proporzionate ai doveri, che lo stesso Bi. si
era assunto per oltre un settennio.
Con vittoria di spese di entrambi i gradi del giudizio.
Si costituiva Bi.Em., proponendo nel contempo appello incidentale.
Quanto all'appello principale, se ne chiedeva il rigetto, in quanto infondato in fatto ed in diritto.
In via incidentale, si chiedeva la condanna della Ma. al paga/mento dell'ulteriore importo di Lire
25.000.000 (pari ad Euro 12.911,42), di cui all'assegno n. (...) del 10.9.1999, tratto sul Ba.Si.,
emesso dal Bi. ed intestato all'appellante principale. Ed al riguardo, il Bi. produceva la nota del
Ba.Si. del 15.10.2007, con la quale si attestava che, in data 10.9.1999, il Bi. aveva versato il
suddetto assegno a deconto della sofferenza di Ma.Gi..
Con vittoria di spese.
Procedutosi al giudizio di appello, la Corte, con ordinanza in data 23.11.2007, sospendeva
l'esecuzione della sentenza impugnata.
Indi, all'udienza del 10.7.2009, sulle conclusioni - come riportate in epigrafe - dei procuratori delle
parti costituite, la causa veniva posta in decisione con l'assegnazione dei termini di cui all'art. 190
c.p.c..
Motivi della decisione
L'appello principale è infondato e va, pertanto, rigettato.
In primo luogo, non appaiono condivisibili i rilievi dell'appellante concernenti l'inefficacia
probatoria delle missive dattiloscritte in data 25.3.1998 e 11.5.1999, indirizzate al Ba.Si. S.p.A. e
recanti in calce, sempre In forma dattiloscritta, il nome e cognome dell'odierna appellante
principale, senza, tuttavia, la relativa sottoscrizione. Nelle missive in questione, nell'avanzare una
proposta per il ripianamento dell'esposizione debitoria della Ma. nei confronti dell'istituto bancario,
si fa espresso riferimento ai versamenti - allegati alle due missive - rispettivamente di Lire
50.000.000 e Lire 10.000.000, effettuati dal Bi. quale "terzo non obbligato" e dei quali è prevista la
restituzione in caso di mancato accoglimento delle proposte.
Ciò posto, va subito detto che, mai nel giudizio di primo grado la Ma. ha contestato la provenienza
da lei medesima ed il contenuto delle due missive in questione. Ed a tale proposito, non risponde al
vero che la difesa del Bi. abbia fatto riferimento al contenuto delle due missive in oggetto soltanto
in sede di appello. Invero, a parte il fatto che le due missive erano state già prodotte unitamente
all'atto di citazione (di modo che la Ma. avrebbe potuto comunque contestarle già nella propria
comparsa di risposta), in ogni caso l'odierno appellato ha fatto esplicito riferimento al contenuto
delle due missive nella comparsa conclusionale depositata il 23.4.2007, senza che la Ma. le abbia
minimamente contestate nella propria comparsa conclusionale o con eventuali memorie di replica
alla comparsa conclusionale dell'attore.
A ciò va aggiunto che, le due missive in oggetto trovano, peraltro, oggettivo riscontro nelle due
distinte di versamento (anch'esse non contestate dall'appellante in primo grado), relative, appunto, ai
versamenti, rispettivamente, di Lire 50.000.000 e Lire 10.000.000, effettuati dal Bi. nel conto
corrente della Ma. e nelle quali è precisato che il versamento di Lire 50.000.000 è stato eseguito dal
Bi. condizionatamente all'accettazione della proposta avanzata con la missiva del 27.3.1998, mentre
il versamento di Lire 10.000.000 è stato eseguito dal Bi. con riferimento alla proposta di cui alla
missiva dell'11.5.1999, circostanze, queste, che dimostrano il diretto collegamento dei due
versamenti con le due missive in questione e, pertanto, confermano il contenuto delle stesse e,
soprattutto, la loro provenienza dalla Ma..
Ancora, va osservato che, ai sensi dell'art. 116, II comma c.p.c., possono desumersi argomenti di
prova a favore del Bi., dal comportamento processuale dell'odierna appellante, valutabile
unitamente alle altre risultanze processuali sopra evidenziate. Invero, la Ma., nel corso del giudizio
di primo grado, ha pervicacemente negato - nella comparsa di risposta, in sede di interrogatorio
formale e nella comparsa conclusionale - di avere mai beneficiato di dazioni di denaro da parte del
Bi., e ciò pur a fronte delle prove documentali offerte dall'attore (in particolare, le due distinte di
versamento, oltre a due assegni bancari emessi dal Bi. a favore della Ma.), dalle quali è emerso con
certezza come le suddette dazioni di denaro siano, invece, effettivamente intervenute.
Infine, a fronte delle prove documentali fornite dal Bi., in ordine agli esborsi di somme di denaro a
favore della Ma., costituiva onere di quest'ultima (al quale l'appellante principale non ha adempiuto)
dimostrare la mancata accettazione della proposta transattiva da parte del Ba.Si. e, soprattutto,
l'eventuale restituzione al Bi., da parte dell'istituto bancario, delle somme in precedenza sborsate.
Parimenti infondato è il rilievo dell'appellante, relativo alla mancata applicazione dell'art. 2034 c.c..
Invero, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità - richiamati anche dal primo
giudice - nel rapporto di convivenza more uxorio integra un adempimento di obbligazione naturale
anche resborso di somme effettuato da uno dei soggetti di tale rapporto, purché sussista un rapporto
di proporzionalità tra le somme sborsate e i doveri morali e sociali assunti reciprocamente dai
conviventi (Cass. sezione II, 3.2.1975, n. 389, Fa.; vedi anche Cass. sezione II, 13.3.2003, n. 3713,
Sanna). Orbene, nel caso di specie deve escludersi il suddetto rapporto di proporzionalità, avuto
riguardo all'entità della complessiva somma (ivi compresa, come si vedrà fra breve, quella richiesta
con l'appello incidentale) sborsata dal Bi. a favore della Ma.. E ciò senza contare che, non
emergono dagli atti processuali specifici e concreti elementi, dai quali desumere l'esatta portata dei
doveri morali e sociali reciprocamente assunti dalle parti in occasione della loro convivenza,
essendo rimasta, in particolare, a livello meramente assertorio e priva di supporto probatorio la
circostanza di un pressoché esclusivo mantenimento del Bi. da parte della Ma.. Peraltro, lo stesso
fatto che gli esborsi di denaro effettuati dal Bi. siano andati a vantaggio soltanto dell'appellante
principale, con conseguente esclusivo arricchimento della stessa, porta di per sé ad escludere che
tali esborsi fossero finalizzati all'adempimento di un obbligo morale strettamente connesso alla
situazione di convivenza more uxorio.
Va, invece, accolto l'appello incidentale proposto dal Bi..
Invero, è da ritenersi ammissibile, in quanto indispensabile ai fini della decisione, la nota del Ba.Si.
in data 15.10.2007, documento specificamente indicato nell'atto di appello incidentale e depositato
contestualmente a tale atto di appello.
Dalla suddetta nota si evince che, in data 10.9.1999 è stato versato nel conto corrente della Ma. (v.
l'allegata distinta di versamento) l'assegno n. (...) di Lire 25.000.000 (peraltro già prodotto in copia
dal Bi. nel giudizio di primo grado) a firma dell'appellante incidentale ed emesso a deconto della
sofferenza di Ma.Gi..
Alla luce di quanto sopra, pertanto, può ritenersi provato che la somma portata dall'assegno in
questione rientra anch'essa nell'ambito delle dazioni di denaro, effettuate dal Bi. al fine di ripianare
la situazione debitoria della Ma. nei confronti dell'istituto bancario.
L'appellante principale va, quindi, condannata al pagamento, in favore del Bi., dell'ulteriore somma
di Lire 25.000.000, pari ad Euro 12.911,42. Su tale somma sono dovuti, ai sensi dell'art. 1224, I
comma c.c., gli interessi legali dall'1.6.2004 al soddisfo.
In tal senso l'impugnata sentenza va riformata.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte,
uditi i procuratori delle parti costituite; definitivamente pronunziando:
in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Palermo - Sezione distaccata di Carini in data
25.5.2007 - 6.6.2007, appellata da Ma.Gi. e, in via incidentale, da Bi.Em., condanna la Ma. al
pagamento, in favore del Bi., dell'ulteriore somma di Euro 12.911,42, oltre gli interessi legali
dall'1.6.2004 al soddisfo. Conferma nel resto l'impugnata sentenza.
Condanna la Ma. al pagamento, in favore del Bi., delle spese del presente grado del giudizio, che si
liquidano in Euro 1.240,00, di cui Euro 900,00 per onorario ed Euro 340,00 per competenze, oltre
spese generali, Iva e Cpa.
Così deciso in Palermo, il 19 marzo 2010.
Depositata in Cancelleria il 15 maggio 2010.
Trib. Pavia Sez. I, 23 gennaio 2010: Un’attribuzione patrimoniale in favore del
convivente more uxorio configura l’adempimento di un’obbligazione naturale a
condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata
all’entità del patrimonio ed alle condizioni sociali del solvens.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI PAVIA
PRIMA SEZIONE CIVILE
Il Giudice Istruttore
Dott. Stefano Tarantola
In funzione di Giudice unico
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa civile iscritta al n. 2515 R.G. anno 2007 le cui conclusioni sono state precisate
all'udienza del 30/9/2009 e promossa con atto di citazione notificato in data 27/7/2007
da
Ca.Fr. nato (omissis) del Golfo (TP) e residente in Casorate Primo (PV) via (omissis)
Attore
Elettivamente domiciliato in Pavia, viale (omissis), presso lo studio dell'avv. Ma.Ca. del foro di
Pavia che lo rappresenta e difende per delega in atti.
Contro
Fr.Ro. nata (omissis) e residente in Trivolzio (PV) via (omissis)
Convenuta
Elettivamente domiciliata in Milano, viale (omissis), presso lo studio dell'avv. Li.Ve. del foro di
Milano che la rappresenta e difende per delega in atti.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Le domande svolte dalle parte in giudizio traggono origine dalle vicende della lunga convivenza
more uxorio tra le stesse intercorsa - come è pacifico in atti - tra l'aprile del 1986 ed il novembre
2005.
L'attore ha dedotto di avere acquistato con denaro proprio alcuni arredi dell'abitazione - di proprietà
della convenuta - ove la coppia ha vissuto con i figli, nati rispettivamente nel novembre 1986 e nel
novembre 1987.
In particolare ha dedotto di avere provveduto al pagamento, nell'anno 1986, degli arredi della
cucina per il complessivo importo di Lire 12.000.000 (Euro 6.197,48), e, nell'anno 1988, di un
mobiletto acquistato presso il Centro Commerciale Eu. per l'importo di Lire 123.000 (Euro 63,52).
Come ribadito e chiarito in comparsa conclusionale, la domanda dell'attore è stata svolta in atto di
citazione per accertare l'esclusiva proprietà di tali beni mobili in capo allo stesso e per chiederne la
restituzione (citando anche giurisprudenza di merito del 1999 sul punto).
Con memoria ai sensi dell'art. 183 co. 6 n. 1 c.p.c. è stata introdotta da parte attrice una nuova
domanda diretta all'accertamento di donazione remuneratoria che sarebbe intervenuta con la
cessione degli arredi della cucina e del predetto mobiletto da Ca.Fr. alla convivente Fe.Ro.
Tale domanda è inammissibile in quanto estranea alle allegazioni di cui in citazione (essendo anzi
in aperto contrasto con le stesse ove l'attore chiedeva l'accertamento dell'esclusiva proprietà in capo
al medesimo dei beni indicati), né dipendente dalle difese di parte convenuta.
In ogni caso la domanda è infondata in quanto deve escludersi l'esistenza di donazione
remuneratoria a favore di Fr.Ro. in relazione agli arredi della cucina, acquistati nel 1986, e del
mobiletto, acquistato nel 1988, essendo tali beni chiaramente stati destinati - anche per la funzione
intrinseca degli stessi - ad attuare le condizioni materiali per la convivenza della coppia, che aveva
avuto inizio da poco.
Dalle allegazioni di entrambe le parti emerge pacificamente che sia gli arredi della cucina, che il
mobiletto acquistato nel 1988, sono stati destinati all'uso comune della coppia e dei figli per circa
vent'anni.
Nell'acquisto di tali arredi ritiene questo Tribunale che debba riconoscersi una prestazione
costituente esecuzione dei doveri morali e sociali legati alla convivenza more uxorio delle parti e,
come tale, il relativo conferimento degli stessi, per l'utilizzo anche da parte della convenuta, rende
irripetibile il bene in quanto adempimento di un'obbligazione naturale (Cass. Civ. Sez. 2, 3/2/1975
n. 389; v. Cass. Civ. Sez. 2, 13/3/2003, n. 3713 ove è stato affermato che "un'attribuzione
patrimoniale a favore del convivente "more uxorio" configura l'adempimento di un'obbligazione
naturale a condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionala all'entità
del patrimonio e alle condizioni sociali del "solvens""; v. anche Cass Civ. Sez. 3, 29/11/1986, n.
7064, nonché Cass. Civ. Sez. 3, 20/1/1989 n. 285, ove è stato affermato che "nella dazione di una
somma di danaro da parte dell'uomo alla donna in occasione della cessazione della loro relazione
sentimentale può ravvisarsi l'adempimento di una obbligazione naturale, con la conseguenza che la
suddetta somma non può essere chiesta in restituzione (soluti retentio), ne' dedotta in
compensazione da parte del solvens").
La spesa che l'attore ha dichiarato avere sostenuto per l'acquisto di tali arredi è da ritenersi adeguata
alle condizioni economiche delle parti - come emergenti nel giudizio - e proporzionata ai doveri
morali e sociali reciprocamente assunti dai conviventi nei confronti l'uno dell'altro in relazione alle
rispettive capacità patrimoniali e di reddito.
Infondate appaiono conseguentemente tutte le domande di parte attrice dirette all'accertamento
dell'indebito arricchimento ed alla restituzione dei beni.
In particolare è stato recentemente affermato dalla Corte Suprema di Cassazione che "l'azione
generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell'altro
che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l'ingiustizia della
causa qualora l'arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di
un atto di liberalità o dell'adempimento di un'obbligazione naturale. E', pertanto, possibile
configurare l'ingiustizia dell'arricchimento da parte di un convivente "more uxorio" nei confronti
dell'altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle
obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza - il cui contenuto va parametrato sulle condizioni
sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto - e travalicanti i limiti di proporzionalità
e di adeguatezza" (così Cass. Civ. Sez. 3, 15/5/2009).
Si consideri tra l'altro che, stante la natura dei beni richiesti in restituzione, appare evidente che gli
stessi - acquistati nel 1986 e nel 1988 - hanno ormai esaurito qualsiasi valore economico, per
l'evidente obsolescenza degli stessi, residuando una propria utilità solo nel contesto nel quale si
trovano attualmente, discendete dal rapporto more uxorio tra le parti protrattosi sino al novembre
del 2005.
Le considerazioni sopra espresse comportano, per le medesime ragioni, il rigetto delle domande
riconvenzionali svolte dalla convenuta per ottenere dall'attore il pagamento della somma di Euro
7.500,00, indicato quale valore di altri arredi (camera dei figli, comodini, letto matrimoniale,
lampadario cucina e sala), che, in ogni caso; si deve presumere siano ancora nella piena
disponibilità di Ro.Fr. (essendo così infondata la domanda anche sotto tale profilo).
La convenuta ha poi richiesto in via convenzionale il pagamento di somme che è stato dedotto
essere dovute dall'attore a titolo di contributo al mantenimento dei figli maggiorenni (En. ed An.) da
dicembre 2005 a maggio 2006, per l'importo di Euro 3.000,00, ed a titolo di rimborso della metà
delle spese scolastiche e sportive sostenute dalla convenuta nel medesimo periodo per i figli.
I figli avevano all'epoca rispettivamente 19 e 18 anni e, nelle deduzioni di parte attrice,
frequentavano l'ITC Fe. (An.) e l'Ip. (En.).
La Corte Suprema di Cassazione ha da tempo espresso il principio che "il genitore naturale con cui
il figlio (ancorché maggiorenne, ma non ancora economicamente indipendente) convive è
legittimato "iure proprio" a chiedere il contributo al relativo mantenimento all'altro genitore naturale
- giudizialmente riconosciuto - che sia ugualmente tenuto al mantenimento del figlio stesso" (così
Cass. civ. Sez. 1, 8/1/1994, n. 144).
Le condizioni per la legittimazione, in capo ad uno dei genitori, della richiesta all'altro genitore del
contributo al mantenimento dei figli, sono peraltro legate alla attualità della convivenza dei figli con
il genitore richiedente.
Nel caso nessuna prova è stata offerta da parte convenuta.
In ogni caso, in atti, è documentato il pagamento della sola somma di Euro 1.375,00, con assegno
circolare, a titolo di rate della retta di frequenza dell'ITC Fe., da parte di An.Ca.
L'assegno circolare non fornisce peraltro alcuna informazione in ordine alla provvista.
Non sono stati prodotti altri documenti di spesa attestanti gli esborsi sostenuti dalla convenuta per i
figli.
Non è documentata la frequentazione dell'Ip. da parte del figlio En. e neppure sono documentate
attività sportive o spese mediche.
Dal doc. 9 di parte convenuta si evince, tra l'altro, che il figlio An. sarebbe andato a vivere con il
padre in epoca di poco successiva al maggio 2006.
Le domande di parte attrice inerenti il contributo al mantenimento dei figli per il periodo da
dicembre 2005 a maggio 2006 non possono pertanto trovare accoglimento.
La convenuta ha infine chiesto, sempre in via riconvenzionale, la condanna dell'attore al pagamento
della somma di Euro 1.500,00 a titolo di "occupazione senza titolo dell'abitazione posta in
Trivolzio, via (omissis)".
E' pacifico in causa che l'appartamento di Trivolzio, via (omissis), di proprietà della convenuta, è
stata l'abitazione ove si è svolta la convivenza more uxorio delle parti per vent'anni, e la stessa non è
mai stata nell'esclusiva disponibilità dell'attore, il quale - fino a quando ivi ha vissuto - vi ha vissuto
insieme alla convivente ed ai figli.
Nessuna occupazione senza titolo appare pertanto configurabile quale fonte risarcitoria, in quanto
l'attore non ha mai privato la convenuta della disponibilità dell'appartamento di Trivolzio, via
(omissis).
In realtà, come diversamente allegato in atto di citazione, la richiesta risarcitoria appare discendente
dalla dedotta permanenza di Ca.Fr., presso l'abitazione sino ad allora comune delle parti, contro la
volontà della convenuta nel periodo tra il giugno ed il dicembre 2005.
Tale situazione non può ritenersi in alcun modo equiparabile ad una occupazione abusiva di
immobile.
Al riguardo nessun danno appare prospettabile e nessuna somma può essere liquidata, neppure in
via equitativa.
Deve infine rilevarsi che parte attrice non ha più svolto istanze istruttorie in sede di precisazione
delle conclusioni, dovendosi pertanto ritenere rinunciata qualsiasi istanza istruttoria.
Parte convenuta ha reiterato in sede di precisazione delle conclusioni le proprie istanze istruttorie
per testi ed interrogatorio.
Al riguardo non può che ribadirsi la superfluità di tali istanze istruttorie che non appaiono utili ad
introdurre elementi a sostegno delle domande riconvenzionali di parte convenuta essendo
prevalentemente attinenti a circostanze pacifiche in causa o comunque irrilevanti, mentre il capitolo
otto - concernente i costi per l'attività di scherma del figlio En. - appare inammissibile per
genericità.
Sono stati inoltre riferiti dalle parti, nei vari atti di causa, fatti e circostanze (apparentemente
attinenti alla regolamentazione dei rapporti in comunione tra le stesse) estranei alle domande svolte
in giudizio.
Non si ritiene che tali circostanze debbano essere esaminate da questo Tribunale.
Sussistono i presupposti per dichiarare compensate tra le parti le spese del giudizio stante la
soccombenza reciproca.
P.Q.M.
Il Tribunale di Pavia, in persona del giudice istruttore in funzione di giudice unico, definitivamente
pronunciando:
- rigetta tutte le domande svolte in giudizio;
- dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio.
Così deciso in Pavia il 12 gennaio 2010.
Depositata in Cancelleria il 23 gennaio 2010.
MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA
Cass. pen. Sez. II, 2 ottobre 2009, n. 40727: Il reato di maltrattamenti in famiglia ex
art. 672 c.p. è configurabile anche ove l'azione delittuosa venga commessa nei
confronti del convivente "more uxorio".
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PAGANO Filiberto - Presidente
Dott. NUZZO Laurenza - Consigliere
Dott. PRESTIPINO Antonio - Consigliere
Dott. GALLO Domenico - Consigliere
Dott. DE CRESCIENZO Ugo - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
avv. Putzolu Domenico del foro di Tempio Pausania nell'interesse di T.L., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza della Corte d'appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, in data 2 maggio
2006;
Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere Dott. Domenico Gallo;
Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, Dr. Giuseppe Febbraro, il quale ha
concluso per l'inammissibilità del ricorso.
osserva:
Svolgimento del processo
Con sentenza in data 2 maggio 2006, la Corte di appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari,
in parziale riforma della sentenza del Gup presso il Tribunale di Tempio Pausania, in data 15
novembre 2005, riduceva ad anni uno e mesi otto di reclusione la pena inflitta a T.L. per i reati di
maltrattamenti in famiglia, violenza privata e ricettazione.
La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l'atto d'appello, in punto di sussistenza
dell'elemento oggettivo di ciascun reato, e confermava le statuizioni del primo giudice, ritenendo
accertata la penale responsabilità dell'imputato in ordine ai reati a lui ascritti, provvedendo soltanto
a ridurre la pena inflitta per riportarla ad equità.
Avverso tale sentenza propone ricorso l'imputato per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando
tre motivi di gravame con i quali deduce:
1) inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione alla sussistenza dei
presupposti della condotta punibile per il reato di cui all'art. 672 c.p e vizio della motivazione sul
punto;
2) contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in relazione al reato di violenza privata
di cui al capo b);
3) inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione alla sussistenza dei
presupposti della condotta punibile per il reato di cui all'art. 648 c.p e vizio della motivazione sul
punto.
Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità e
comunque manifestamente infondati.
Per quanto riguarda il primo motivo, in punto di configurabilità dei presupposti di cui all'art. 572
c.p., la questione è manifestamente infondata. Non v'è dubbio, infatti, che la tutela apprestata dalla
norma penale si estenda anche alla famiglia di fatto. Secondo l'insegnamento di questa Corte: "ai
fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la
circostanza che l'azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente "more uxorio",
atteso che il richiamo contenuto nell'art. 572 cod. pen. alla "famiglia" deve intendersi riferito ad
ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti
di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo" (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 20647
del 29/01/2008 Cc. (dep. 22/05/2008) Rv. 239726;
Sez. 6, Sentenza n. 21329 del 24/01/2007 Ud. (dep. 31/05/2007) Rv.
236757; nel senso che sia sufficiente solo la stabilità del rapporto: Sez. 3, Sentenza n. 44262 del
08/11/2005 Ud. (dep. 05/12/2005) Rv. 232904).
Per quanto riguarda le questioni dedotte con il secondo ed il terzo motivo, con le quali si deducono
violazione di legge e vizi della motivazione, occorre rilevare che il vaglio logico e puntuale delle
risultanze processuali operato dai Giudici di appello non consente a questa Corte di legittimità di
muovere critiche, nè tantomeno di operare diverse scelte di fatto. Le osservazioni del ricorrente non
scalfiscono l'impostazione della motivazione e non fanno emergere profili di manifesta illogicità
della stessa; nella sostanza, al di là dei vizi formalmente denunciati, esse svolgono, sul punto
dell'accertamento della responsabilità, considerazioni in fatto insuscettibili di valutazione in sede di
legittimità, risultando intese a provocare un intervento in sovrapposizione di questa Corte rispetto ai
contenuti della decisione adottata dal Giudice del merito. E' il caso di aggiungere che la sentenza di
secondo grado va necessariamente integrata con quella, conforme nella ricostruzione dei fatti,
pronunciata in prime curo, derivandone che i giudici di merito hanno spiegato, in maniera adeguata
e logica, le risultanze confluenti nella certezza del pieno coinvolgimento dell'imputato nella
commissione del reato ritenuto a suo carico.
Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso,
l'imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento,
nonchè - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al
pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte
costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare
in Euro 1.000,00 (mille/00).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e
della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2009.
Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2009 .
DONAZIONE
Cass. civ. Sez. II, 24 novembre 1998, n. 11894, in Giust. Civ., 1999, I, 686; Riv. Notar., 1999, 1605
Contratti, 1999, 470 nota di AMBANELLI; Corriere Giur., 1999, 1, 54 nota di CARBONE;
Famiglia e Diritto, 1999, 180; Vita Notar., 1999, 185: Un'elargizione di gioielli, fatta
nell'ambito di un rapporto "more uxorio" allo scopo di consentire la prosecuzione
della convivenza, non è assimilabile alla liberalità d'uso, caratterizzata dal fatto che
colui che la compie intende osservare un uso, cioè adeguarsi ad un costume vigente
nell'ambiente sociale di appartenenza, costume che determina sia le diverse occasioni
in cui queste devono farsi, sia la misura dell'elargizione in funzione della posizione
sociale delle parti, nel senso che la donazione non deve comportare un
depauperamento apprezzabile del patrimonio di chi la compie. Pertanto - cessata la
convivenza (nella specie protrattasi oltre sette anni, tra due soggetti tra i quali
esisteva una differenza di età di circa 35 anni) - il donante può ripetere tali gioielli,
qualora questi siano stati donati a prescindere da quelle "determinate occasioni" che il
costume sociale normalmente festeggia e l'altra parte non abbia dato la prova che la
situazione economica del donante era compatibile con la natura dei vari atti di
liberalità.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE II CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:
Dott. Vittorio VOLPE Presidente
Dott. Franco PONTORIERI Consigliere
Dott. Rafaele CORONA Consigliere
Dott. Roberto Michele TRIOLA Consigliere
Dott. Francesca TROMBETTA Rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COLOMBA LOREANA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE REGINA MARGHERITA
37, presso lo studio dell'avvocato Vincenzo SEPE, che la difende, giusta delega in atti;
Ricorrente
contro
DEL NINNO SILVIO, elettivamente domiciliato in ROMA Via CARLO MIRABELLO 6, presso
lo studio dell'avvocato Alessandro CESTELLI, che lo difende, giusta delega in atti;
Controricorrente
avverso la sentenza n. 313/97 della Corte d'Appello di ROMA, depositata il 29/01/97;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/02/98 dal Consigliere Dott.
Francesca TROMBETTA;
udito l'avvocato Vincenzo SEPE, difensore del ricorrente, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso;
udito l'avvocato Alessandro CESTELLI, difensore del resistente, che ha chiesto il rigetto del
ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Orazio FRAZZINI che ha
concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 25 novembre 1986 Silvio Del Ninno conveniva in giudizio davanti
al Tribunale di Roma Loredana Colomba perché fosse accertata la proprietà in capo all'istante di
gioielli e preziosi, in parte di provenienza dal proprio patrimonio familiare ed in parte dallo stesso
acquistati nel corso della relazione more uxorio intercorsa con la convenuta dal 1979 al 1986,
oggetti sottrattigli dalla medesima al termine della relazione sentimentale in seguito
all'allontanamento della Colomba dall'abitazione comune.
Asseriva l'attore che i beni in questione erano contenuti in una cassetta di sicurezza intestata alla
convenuta e depositata presso la sede centrale della Cassa di Risparmio di Roma. Quindi, previo
l'accertamento richiesto, ne richiedeva la restituzione.
La convenuta, costituitasi contestava la domanda attorea assumendo di essere legittima proprietaria
dei preziosi e gioielli indicati dal Del Ninno, per averglieli questi regalati nel corso della convivenza
more uxorio protrattasi per oltre sette anni. Chiedeva, quindi, il rigetto della domanda ed in via
riconvenzionale il risarcimento danni nella misura di 400 milioni o altra di giustizia per il
nocumento psicologico ed alla vita di relazione derivatole dal comportamento ossessivo tenuto
dall'attore nel corso della convivenza, che le aveva precluso qualsiasi inserimento sociale anche a
fini lavorativi.
Ordinato il sequestro giudiziario dei gioielli e preziosi, il giudizio civile veniva sospeso fino alla
definizione del giudizio penale per appropriazione indebita, promosso a seguito della denunziaquerela proposta dal Del Ninno a carico della Colomba e conclusosi in primo grado con una
sentenza di assoluzione per insufficienza di prove; ed in appello con una sentenza di assoluzione
"perché il fatto non sussiste".
Riassunto il giudizio civile il Tribunale, con sentenza 17 gennaio 1995 respingeva sia la domanda
principale che quella riconvenzionale condannando il Del Ninno al pagamento delle spese
giudiziali.
Su impugnazione di quest'ultimo, la corte di appello di Roma, con sentenza 29 gennaio 1997,
accoglieva l'appello e in riforma della sentenza del Tribunale condannava la Colomba alla
restituzione dei gioielli elencati e descritti nella citazione introduttiva, compensando le spese di
entrambi i gradi del giudizio.
Affermava la Corte che i gioielli rivendicati erano pervenuti all'appellante dalla sua famiglia o
erano stati da lui acquistati nel corso della relazione avuta con la Colomba e ciò risultava dalla
documentazione prodotta e non era contestato dall'appellata.
Precisava inoltre, che essendo stata la Colomba assolta, in sede penale, con formula piena dal reato
di appropriazione indebita, sia pure per la ritenuta insuperabilità della tesi dell'appropriazione e di
quella della liberalità, doveva ritenersi per effetto del giudicato penale che i gioielli erano stati
regalati all'appellata; per cui, escludendosi l'ipotesi della donazione di modico valore, stante il
rilevante valore degli stessi, si trattava di stabilire se trattavasi di liberalità fatte in conformità agli
usi ex art. 770 c.c., oppure di vere e proprie donazioni da stipulare con atto pubblico e quindi, nella
specie invalide. Sul rilievo che, come ammesso dallo stesso Tribunale, le liberalità erano state fatte
dall'appellante perché era fortemente interessato a mantenere la relazione; che il rapporto, come
prospettato dalla Colomba, si era svolto, sempre in bilico, tra un uomo già anziano ed una
studentessa di 35 anni più giovane, della quale il primo si era invaghito a tal punto da lasciare
moglie e figli e da esserne ossessivamente geloso; che alla stessa l'appellante aveva donato un
immobile, continuando a donarle gioielli e denaro anche dopo la presentazione della querela, nel
tentativo di riprendere la convivenza interrotta; affermava la Corte che in tale situazione di forte
condizionamento del donante, in stato di soggezione psicologica verso la donataria, doveva
escludersi che potesse trattarsi di liberalità d'uso, dovendosi queste ricondurre ad una volontà libera
da condizionamenti morbosi o da pressioni d'altra analoga natura e dovendosi effettuare in
determinate occasioni, essendo l'uso determinato proprio dalla reiterazione in talune occasioni.
Inoltre trattandosi di gioielli tutti molto costosi, l'appellata avrebbe dovuto provare che il Del Ninno
godeva di una posizione economica effettivamente (e non solo apparentemente) solida, tale che gli
consentisse di fare le liberalità senza alcun pregiudizio per sé e senza serie ripercussioni negative
per la propria famiglia. Tale dimostrazione non era stata data, per cui anche per tale motivo doveva
escludersi l'ipotesi di donativi d'uso ed affermarsi la configurabilità di vere e proprie donazioni
invalide per difetto di forma.
Avverso tale sentenza ricorre in Cassazione la Colomba con sei motivi di impugnazione.
Resiste con controricorso il Del Ninno.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 360 c.p.c., nn. 3
e 5 in relazione agli artt. 769, 770 c.c., comma 2, artt. 782 e 783 c.c.; l'omessa, insufficiente e
contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.
Lamenta che la C.A. abbia ritenuto che perché sussista una liberalità d'uso occorre che la donazione
sia di modico valore, applicando così erroneamente a tale tipo di donativo i limiti posti dall'art. 783
c.c., relativo alle donazioni manuali.
Peraltro, aggiunge la stessa, non tutti i donativi, fatti in diverse occasioni, rivestono il carattere di
preziosità e, comunque, anche quelli più costosi non potevano aver costituito un apprezzabile
depauperamento del patrimonio del donatore, tenuto conto delle buone condizioni economiche dello
stesso, tanto è vero che il Del Ninno, nel corso della convivenza, le aveva donato un immobile sito
nell'elegante Via Cortina d'Ampezzo in Roma.
Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 360, n. 3,
c.p.c. in relazione all'art. 329, comma 2, c.p.c.
La C.A., a giudizio della ricorrente, non aveva rilevato i limiti dell'impugnazione e la genericità dei
motivi proposti.
L'appellante non aveva, infatti impugnato le parti della sentenza relative alla potenzialità economica
dell'attore e alle singole liberalità d'uso quali negozi a distinta rilevanza giuridica, per cui su tali
enunciazioni si sarebbe formato il giudicato, non potendosi ritenere che l'impugnativa incentrata
sull'interpretazione e l'interferenza del giudicato penale coprisse anche tali parti. La mancata
espressa censura dell'inciso del I giudice comporterebbe, comunque, l'inammissibilità dell'appello
per difetto di specificità dei motivi.
Con il terzo motivo la Colomba deduce la violazione dell'art. 360, n. 3, c.p.c. per violazione e falsa
applicazione dell'art. 2697 c.c.
Lamenta l'indebita inversione dell'onere della prova postulata dalla C.A., che non aveva considerato
affatto che l'inefficacia delle singole liberalità doveva essere eccepita dal Del Ninno, il quale poi
avrebbe dovuto provare i fatti su cui l'eccezione si fondava.
Con il quarto motivo si denuncia la nullità della sentenza per violazione dell'art. 360, n. 4, c.p.c. in
relazione all'art. 112 c.p.c.
Sostiene la ricorrente che la C.A. avrebbe rilevato d'ufficio, in violazione dell'art. 112 c.p.c., la
causa invalidante delle liberalità, sproporzione delle stesse rispetto alle condizioni economiche del
donante, dallo stesso mai eccepite.
Con il quinto motivo la ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazione dell'art. 360, n. 4,
c.p.c. in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell'art. 360, n. 5, c.p.c. in relazione all'art. 1367 c.c.
per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.
La Colomba lamenta che la C.A. non ha esaminato la rilevanza dell'intento liberale del donante, non
privilegiando l'interpretazione che consente al negozio di produrre i suoi effetti, ma aderendo a
quella che ne comportava la nullità con l'allegazione di un condizionamento psicologico del donante
e non rilavando l'inattendibilità delle versioni prospettate dal Del Ninno, peraltro diverse, nella
denuncia e nella citazione.
Con il sesto motivo si denuncia la violazione dell'art. 360, n. 3, c.p.c. per violazione e falsa
applicazione degli art. 652 c.p.p. e segg.
La sentenza della C.A. avrebbe, a giudizio della ricorrente, violato gli artt. 652 c.p.p. e segg. per
non aver tenuto nel giusto conto l'accertamento del fatto così come risultava nel giudicato penale.
Il ricorso non può essere accolto.
Quanto al primo motivo, contrariamente a quanto assume la ricorrente, la corte di merito ha escluso
che, nella fattispecie, ricorresse l'ipotesi della donazione di modico valore, sulla base di un
accertamento di fatto, incensurabile in questa sede perché logicamente motivato (descrizione dei
gioielli, testimonianza del gioielliere), secondo il quale ogni regalo di cui si discute aveva avuto ad
oggetto gioielli costosi; il che faceva venir meno il presupposto di cui all'art. 783 c.c.
Da ciò, tuttavia, la corte non ha tratto la conseguenza che la ricorrente assume, e cioè che, per
qualificarsi "d'uso" una liberalità debba necessariamente avere ad oggetto beni di modico valore. La
corte territoriale, invece, ha escluso che di liberalità "d'uso" si trattasse sulla base di due
argomentazioni: l'intento del Del Ninno (soggiogato dalla relazione con la Colomba - di
trentacinque anni più giovane - e quindi in condizione di soggezione psicologica) di voler
mantenere a tutti i costi la relazione; e la mancata prova di una posizione economica del Del Ninno
che gli consentisse di donare gioielli costosi (oltre a denaro e immobili come dichiarato dalla stessa
Colomba) senza provocare con ciò "ripercussioni negative" dal lato economico, sulla propria
famiglia (moglie e figli).
Entrambe le argomentazioni giustificano la conclusione alla quale è pervenuta la Corte, in quanto
una elargizione di gioielli fatta allo scopo di consentire la prosecuzione di una convivenza, non è
assimilabile alla liberalità d'uso, caratterizzata dal fatto che, colui che la compie intende osservare
un uso, cioè adeguarsi ad un costume vigente nell'ambiente sociale di appartenenza, costume che
determina, anche, la misura dell'elargizione in funzione della diversa posizione sociale delle parti,
delle diverse occasioni ed in proporzione delle loro condizioni economiche, nel senso che,
comunque, la donazione non debba comportare un depauperamento apprezzabile del patrimonio di
chi la compie (v. Cass., n. 6720 del 1988).
Nella presente fattispecie, invece, come si evince dalla motivazione della sentenza impugnata,
risultava non solo lo stato di dipendenza psicologica del Del Ninno, tale da indurlo a fare regali alla
Colomba, a prescindere da quelle "determinate occasioni" che il costume sociale normalmente
festeggia; quindi, a prescindere dall'uso, al solo scopo di gratificare la controparte per convincerla a
proseguire la relazione; ma anche con riferimento al profilo economico, il rilevante costo dei
gioielli regalati, che incideva in astratto sull'entità del patrimonio del donante, che la donazione
dell'immobile in precedenza effettuata dal Del Ninno alla Colomba ben poteva aver già
naturalmente prosciugato.
Il 1° motivo di ricorso va, pertanto, respinto.
Anche il secondo motivo va disatteso.
Le censure di inammissibilità dell'appello sollevate sotto il duplice profilo della mancata specificità
dei motivi e dell'intervenuta acquiescenza, non possono essere condivise.
Esse sono, infatti, fondate sull'assunto che l'appellante non avrebbe impugnato le affermazioni del
primo giudice relative: alla potenzialità economica del Del Ninno (ritenuta compatibile con la
configurabilità nella specie della liberalità d'uso), ed alla valutazione degli atti di liberalità
considerati dal Tribunale singolarmente e non nel loro complesso. Tale assunto non trova riscontro
negli atti, avendo il Del Ninno, impugnando siccome erronea la valutazione effettuata dal Tribunale
delle circostanze di fatto accertate nell'istruttoria penale, e contrastando la qualificazione di
liberalità d'uso data dallo stesso Tribunale ai pretesi regali dei quali parlava la Colomba, messo in
evidenza come l'ingente valore dei gioielli, anche singolarmente considerati, valutati
complessivamente in L. 500.000.000, costituiva una "abnorme elargizione" in relazione alle
condizioni economiche del Del Ninno "sicuramente benestante, ma non certamente ricco".
L'appellante, quindi, lungi dal fare acquiescenza alle affermazioni del Tribunale, ha specificato le
circostanze rilevanti al fine di ottenere un diverso giudizio sulla qualificazione giuridica dei fatti
data dal Tribunale, mostrando, peraltro, di ritenere sostanzialmente ininfluente in ordine alla
decisione richiesta, la valutazione degli atti di liberalità nella loro singolarità, come effettuata dal
Tribunale, piuttosto che nel loro complesso, dal momento che, comunque presi in considerazione,
quegli atti avevano sempre ad oggetto preziosi di ingente valore.
Parimenti infondato è il terzo motivo di ricorso.
La ricorrente, infatti, nel sostenere che spettava al resistente, che agiva per la restituzione dei
monili, allegare e provare la inadeguatezza delle sue condizioni economiche, quale circostanza
ostativa alla configurabilità delle liberalità d'uso, non tiene conto del fatto che, con la domanda
introduttiva del giudizio il Del Ninno aveva chiesto che fosse accertato il suo diritto di proprietà sui
monili e che, pertanto, non essendo stato contestato da parte della Colomba che il Del Ninno fosse
l'originario titolare dei gioielli, per averli ereditati o per averli personalmente acquistati, l'onere
probatorio su di lui gravante, in relazione alla domanda proposta, doveva ritenersi soddisfatto.
Spettava, viceversa, alla Colomba che, nel contrastare la domanda attorea aveva eccepito di aver
ricevuto in regalo i gioielli dall'originario titolare, e di esserne quindi diventata a sua volta
proprietaria, provare i fatti a sostegno della sua eccezione, e quindi che la sua disponibilità dei
gioielli derivava da un atto di liberalità del Del Ninno, e sostenendosi che di liberalità d'uso si
trattava, che la situazione economica del Del Ninno era compatibile con la natura dell'atto di
liberalità sostenuta (quella d'uso).
Non sussiste il vizio di extrapetizione denunciato con il quarto motivo di ricorso, avendo il
resistente, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, denunciato la non compatibilità con
la propria situazione economica, dei cosiddetti "regali", considerati singolarmente e nel complesso,
come già esposto nel respingere il secondo motivo di ricorso.
Va disatteso anche il quinto motivo, censurandosi con esso inammissibilmente, apprezzamenti di
merito compiuti dalla corte territoriale, che ha correttamente e logicamente ricostruito i termini
della relazione sentimentale intercorsa fra le parti, tenendo conto delle risultanze del processo
penale svoltosi a carico della Colomba.
Infondato è infine, il sesto motivo di ricorso, limitandosi l'accertamento contenuto nella sentenza
penale passata in giudicato a fare stato in ordine alla insussistenza della appropriazione indebita dei
gioielli da parte della Colomba, senza affrontare il problema che ha costituito l'oggetto di entrambi i
giudizi di merito in sede civile, e cioè la sussistenza o meno, nella specie, della figura della
liberalità d'uso, affermata dal Tribunale ed esclusa dalla corte di appello.
Il ricorso va, pertanto, respinto.
Sussistono giusti motivi per dichiarare interamente compensate fra le parti le spese del presente
giudizio.
P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso; dichiara compensate fra le parti, le spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma il 24 febbraio 1998.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 24 NOVEMBRE 1998.
7
SENTENZE RECENTI IN MATERIA DI COMUNIONE
LEGALE
(a cura di Antonio Albanese)
Cass. civ. Sez. II, 09-11-2012, n. 19513 (rv. 624096)
Mascotti c. Scarpa e altri
La dichiarazione di assenso ex art. 179, secondo comma, cod. civ. del coniuge formalmente non
acquirente, ma partecipante alla stipula dell'atto di acquisto, relativa all'intestazione personale del
bene immobile o mobile registrato all'altro coniuge, può assumere natura ricognitiva e portata
confessoria - quale fatto sfavorevole al dichiarante e favorevole all'altra parte - sebbene
esclusivamente di presupposti di fatto già esistenti, laddove sia controversa, tra i coniugi stessi,
l'inclusione del medesimo bene nella comunione legale. Analoga efficacia in favore del coniuge
formalmente acquirente non può, invece, attribuirsi ad una tale dichiarazione nel diverso giudizio
fra i coeredi di colui che l'aveva resa, terzi rispetto al suddetto atto, in cui si discuta della
configurabilità del menzionato acquisto come una donazione indiretta di quello stesso bene in
favore del coniuge da ultimo indicato, nonchè della sussistenza dei presupposti per il suo
conferimento nella massa ereditaria del "de cuius". (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza
impugnata, che aveva qualificato come donazione indiretta, conseguentemente assoggettandola a
collazione, l'acquisito di un immobile successivamente al matrimonio da parte di uno dei coniugi, in
relazione al quale era stato provato il diretto versamento del prezzo all'alienante ad opera dell'altro,
negando rilievo alla contraria dichiarazione di quest'ultimo contenuta nell'atto di acquisto). (Rigetta,
App. Trento, 21/07/2005)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NUZZO Laurenza - rel. Presidente Dott. PARZIALE Ippolisto - Consigliere Dott. BERTUZZI Mario - Consigliere Dott. FALASCHI Milena - Consigliere -
Dott. VINCENTI Enzo - Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 9601-2006 proposto da:
M.A.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE
DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato PRATI MARINA;
- ricorrente contro
S.G., S.M., S.F. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA COSSERIA 5, presso lo
studio dell'avvocato GUIDO FRANCESCO ROMANELLI, che li rappresenta e difende unitamente
all'avvocato DE BERTOLINI GIANFRANCO;
- controricorrenti avverso la sentenza n. 297/2005 della CORTE D'APPELLO di TRENTO, depositata il 21/07/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/09/2012 dal Presidente Dott.
LAURENZA NUZZO;
udito l'Avvocato Giuseppe Antonini con delega depositata in udienza dell'Avv. Marina Prati
difensore della ricorrente che ha chiesto di richiamare gli scritti illustrando le difese depositate;
udito l'Avv. Romanelli Guido Francesco difensore dei controricorrenti che ha chiesto il rigetto del
ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto che ha concluso
per il rigetto del ricorso.
FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE)
Fatto Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NUZZO Laurenza - rel. Presidente Dott. PARZIALE Ippolisto - Consigliere Dott. BERTUZZI Mario - Consigliere Dott. FALASCHI Milena - Consigliere Dott. VINCENTI Enzo - Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 9601-2006 proposto da:
M.A.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE
DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato PRATI MARINA;
- ricorrente contro
S.G., S.M., S.F. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA COSSERIA 5, presso lo
studio dell'avvocato GUIDO FRANCESCO ROMANELLI, che li rappresenta e difende unitamente
all'avvocato DE BERTOLINI GIANFRANCO;
- controricorrenti avverso la sentenza n. 297/2005 della CORTE D'APPELLO di TRENTO, depositata il 21/07/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/09/2012 dal Presidente Dott.
LAURENZA NUZZO;
udito l'Avvocato Giuseppe Antonini con delega depositata in udienza dell'Avv. Marina Prati
difensore della ricorrente che ha chiesto di richiamare gli scritti illustrando le difese depositate;
udito l'Avv. Romanelli Guido Francesco difensore dei controricorrenti che ha chiesto il rigetto del
ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto che ha concluso
per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 23.5.2002 S.F., S.G. e S.M. convenivano in giudizio, innanzi al
Tribunale di Trento, M.A.M., moglie del loro padre, S.B., deceduto il (OMISSIS). Chiedevano lo
scioglimento della comunione ereditaria e la divisione dei beni, previa reintegrazione nelle quote
loro riservate,mediante riduzione delle disposizioni testamentarie e conferimento nella massa
ereditaria dell'appartamento sito in (OMISSIS), attraverso la restituzione del relativo prezzo
maggiorato di interessi, trattandosi di immobile che S.B. aveva donato, tra il (OMISSIS), alla
convenuta, sposata in seconde nozze. Esponevano gli attori che il de cuius aveva disposto dei propri
beni con testamento olografo del 3.11.1994, lasciando metà del patrimonio ai tre figli in parti uguali
e l'altra metà alla M. cui aveva anche attribuito l'usufrutto di" tutti i suoi averi".
L'eredità comprendeva:
due immobili in località (OMISSIS) in P.t.
1416 p.m. 6 p.ed.770, casa di abitazione p.f. 4627-(OMISSIS); Euro 1344,28 depositati sul c/c ord.
n. (OMISSIS) Banca Intesa BCI Comit di Trento; l'arredamento della casa in (OMISSIS) ed alcuni
mobili nella casa della M. in (OMISSIS);
l'attrezzatura per officina e falegnameria; un'automobile FIAT Campagnola; una FIAT 126; una
volkswagen Golf.
Assumevano gli attori che, nel (OMISSIS)6, il de cuius aveva donato detto appartamento in
(OMISSIS), contraddistinto dalla p.m. 28 p.ed.1800 in P.T. 5816, pagando il prezzo effettivo di
acquisto per L. 56.000.000.
Si costituiva in giudizio la convenuta aderendo alla domanda di scioglimento della comunione e di
divisione dei beni e domandando che fosse dichiarata nulla la donazione del prezzo di acquisto
(L.2.907.000) dell'immobile in (OMISSIS), da lei fatta al de cuius, con addebito dell'importo alla
massa, oltre alla restituzione delle spese funerarie e di quelle di successione anticipate per conto
della massa.
Con sentenza non definitiva 9.9.2004 il Tribunale di Trento dichiarava: che la casa in (OMISSIS),
p.m. 28 p.ed.1800 C.C., era soggetta a collazione e M.A.M. la doveva conferire ai coeredi in natura
o per imputazione; che la residenza dei coniugi S. - M. era costituita dalla casa di (OMISSIS); che
M.A.M. vantava, verso la comunione ereditaria, i crediti specificati in motivazione; rimetteva la
causa in istruttoria come da separata ordinanza.
Avverso tale sentenza la M. proponeva appello cui resistevano gli appellati.
Con sentenza 4.7.2005 la Corte d'Appello di Trento rigettava l'appello e condannava l'appellante al
pagamento delle spese processuali del grado.
Osservava la Corte di merito che dalla prova testimoniale e dalla documentazione bancaria
emergeva la prova che il de cuius aveva donato alla moglie il denaro necessario per l'acquisto
dell'appartamento in questione, sito in (OMISSIS), così realizzando una donazione indiretta in
favore della moglie, dell'appartamento stesso.
Tale decisione è impugnata con ricorso per cassazione dalla M. sulla base di quattro motivi illustrati
da successiva memoria.
Resistono con controricorso S.F., S.G. e S.M..
Motivi della decisione
La ricorrente deduce:
1) violazione dell'art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sui motivi di appello, relativamente: a) al
vizio di travisamento delle dichiarazioni del teste C.G., avendo il Tribunale attribuito a dette
dichiarazioni un "valore diverso" da quello da esse risultante;
b) alla affermazione del Tribunale circa il difetto di prova sull'utilizzo, da parte della M., del
prestito ottenuto dal fratello, M.S., per il pagamento del prezzo dell'appartamento in questione;
escusso come testimone, il M. stesso aveva dichiarato di aver prestato alla sorella il denaro
necessario per l'acquisto dell'appartamento, circostanza confermata dalla venditrice che, all'atto del
pagamento, aveva rilasciato dichiarazione di quietanza, indicando gli importi ricevuti con i numeri
dei relativi assegni tratti "su un istituto diverso da quello presso il quale il de cuius operava";
c) alla erronea valutazione, da parte del Tribunale, della dichiarazione resa da S.B., nell'atto di
acquisto dell'appartamento da parte della M., dichiarazione che l'immobile era stato acquistato dalla
moglie con denaro proprio, equiparabile a confessione, con efficacia anche nei confronti dei terzi
cui incombeva la prova necessaria a superare la presunzione di proprietà esclusiva del bene in capo
al coniuge acquirente; la corte di appello non aveva motivato in ordine a tale censura, ma si era
limitata ad esaminare la questione subordinata con cui l'appellane assumeva che la casa di
(OMISSIS) andava ricompresa nella comunione ereditaria; aveva, inoltre, omesso di decidere sulle
altre questioni prospettate in via subordinata, riguardanti la natura "comune" del denaro utilizzato
dal de cuius, per l'acquisto dell'immobile nonchè la mancanza, nell'atto di vendita dell'immobile,
della dichiarazione del coniuge, richiesta al fine di consentire l'acquisto esclusivo da parte di S.B.;
2) subordinatamente al mancato accoglimento del primo motivo, la ricorrente impugnava i
medesimi capi della sentenza di appello per omessa e/o carente e/o contraddittoria motivazione
circa un punto decisivo della controversia, laddove la Corte di merito aveva ritenuto provato che il
prezzo di acquisto dell'immobile in (OMISSIS), fosse stato pagato dal de cuius, non tenendo conto
che tale circostanza non risultava nè dalle dichiarazioni rese dal teste C.G. nè dalla documentazione
bancaria, stante il difetto di corrispondenza tra le entrate e le uscite dei conti correnti intestati a S.B.
ed alla venditrice dell'immobile, D.C.;
3) violazione e falsa applicazione degli artt. 179 e 809 c.c. nonchè omessa e/o contraddittoria e/o
illogica motivazione circa un punto decisivo della controversia concernente la dichiarazione con cui
S.B. dichiarava, in calce all'atto di acquisto della moglie, ex art. 379 c.c., comma 2, che "l'immobile
oggetto dell'acquisto resta escluso dalla comunione legale e di questo ne da conferma il marito
intervenuto", dando luogo ad una presunzione assoluta di acquisto esclusivo dell'immobile da parte
della M.;
in subordine, sussistenza del vizio di violazione di legge e difetto di motivazione, in relazione alla
dichiarata sussistenza di donazione indiretta da parte di S.B., posto che detta dichiarazione, in
difetto di contestazione, comportava l'esclusivo l'acquisto dell'immobile in capo all'acquirente M.;
in ulteriore subordine, essendo stato il bene acquistato in costanza di matrimonio, doveva
considerarsi incluso nella comunione e, quindi, cadere in successione solo per la metà indivisa
appartenente al de cuius, ex art. 179 c.c., comma 2, mancando nell'atto di compravendita, l'apposita
dichiarazione della M. circa la natura e la provenienza del denaro (art. 179 c.c., comma 1, lett. f) e
conseguentemente circa l'esclusione del medesimo dalla comunione;
4) violazione e falsa applicazione dell'art. 1224 c.c.; omessa e/o carente e/o contraddittoria e/o
illogica motivazione circa un punto decisivo della controversia, con riferimento al mancato
riconoscimento della rivalutazione monetaria, con decorrenza dalla data di esborso, sulla somma
versata dalla M. a titolo di prezzo dell'immobile sito in (OMISSIS).
Il ricorso è infondato.
I primi due motivi di ricorsi, da esaminasi congiuntamente per la loro evidente connessione,
attengono a valutazioni di prove che il giudice di appello avrebbe omesso di esaminare; al riguardo
va rilevato, in aderenza alla giurisprudenza di questa Corte, che spetta al giudice di merito scegliere
tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee ai fini del decidere, potendosi configurare, peraltro,
il vizio di omessa motivazione solo se le risultanze processuali non valutate incidano sull'efficacia
probatoria delle altre su cui è stato basata la decisione, facendo venir meno la "ratio decidendi"
(Cass. n. 3004/2004; n. 7058/2003). Non ricorre, quindi, il vizio di omessa pronuncia dedotto,
spettando alla Corte di legittimità solo il compito di controllare, sotto il profilo logico- giuridico, la
motivazione del giudice di merito sulle prove poste a fondamento della decisione senza che le sia
consentito riesaminare il merito della causa.
Orbene, la sentenza impugnata ha dato conto, con congrua e logica motivazione, che dalla
documentazione bancaria acquisita e dalle dichiarazioni testimoniali del direttore della banca e della
venditrice sig. D., risultava provato che il prezzo di acquisto dell'immobile in questione era stato
pagato da S. B., posto che i primi due assegni di L. 20.000.000 erano stati tratti sul conto corrente
intestato al solo S.B. che, quindi, aveva così posto in essere una donazione indiretta a favore della
moglie.
Quanto al pagamento del saldo del prezzo per L. 16.000.000, il giudice di appello ha evidenziato
che il prestito, da parte del fratello della M., risultava contraddetto dal fatto che la venditrice D.
aveva riferito di aver ricevuto gli assegni dallo S. sul cui conto risultava addebitata la somma di L.
16.000.000, sia pure alcuni giorni dopo la vendita.
Con riferimento alle altre censure il giudice di secondo cure ha ritenuto che la dichiarazione resa da
S.B. nell'atto pubblico di vendita, in ordine all'acquisto dell'immobile con denaro della moglie,
fosse smentita dalle prove suddette, attestanti che il prezzo dell'immobile acquistato dalla moglie
era stato pagato dallo S. con denaro proprio. A fronte di tale accertamento in fatto, riservato al
giudice di merito, deve escludersi che a detta dichiarazione del donante possa attribuirsi valenza di
confessione in favore del coniuge donatario, nel giudizio fra coeredi riguardante il conferimento
nella massa ereditaria del bene donato, essendo i coeredi della M. nella posizione di terzi estranei
all'atto di donazione e dovendosi intendere per fatto sfavorevole al dichiarante e favorevole all'altra
parte quello che, in concreto, è idoneo a produrre effetti giuridici sfavorevoli per colui che rende la
dichiarazione, avuto riguardo all'oggetto della controversia che, nella specie, verte non sugli effetti
della donazione nei rapporti fra coniugi, al fine di includere o meno il bene donato dalla comunione
legale fra coniugi, ma sulla configurabilità di una donazione indiretta di un immobile e sulla
sussistenza dei presupposti per il relativo conferimento nella massa ereditaria.
Una volta esclusa dalla Corte territoriale la natura "comune" del denaro utilizzato dallo S. per
l'acquisto dell'immobile in base all'accertamento che il pagamento del prezzo era avvenuto mediante
assegni tratti sul conto corrente intestato solo a S.B., incombeva, comunque, alla M. fornire
elementi di prova sulla sussistenza della comunione legale con il coniuge ex art. 177 c.c., comma 1
in ordine alla somma versata per l'acquisto dell'immobile in questione.
Va, infine, rigettata la doglianza sub 4), avendo il giudice di appello correttamente qualificato il
credito della M. per "la restituzione delle somme pagate in esecuzione di un contratto nullo", come
debito di valuta e non di valore, stante la sua natura restitutoria e non risarcitoria, riconducibile alla
"condictio indebiti" ex art. 2033 c.c. (cfr. Cass. n 5926/95; n. 9910/03).
Alla stregua di quanto osservato il ricorso va rigettato.
Consegue la condanna della ricorrente al pagamento della spese processuali del presente giudizio,
liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in
Euro 8.000,00 di cui Euro 100,00 per spese oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 25 settembre 2012.
Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2012
Trib. Roma Sez. X, 26-10-2012
Ba.Al. c. Sc.Ma.
FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE)
La dichiarazione del coniuge non acquirente resa, ai sensi dell'art. 179, comma 2, c.c., sulla natura
personale della provvista per l'acquisto di un immobile da parte dell'altro coniuge, con conseguente
esclusione dell'acquisto del bene in comunione legale, ha natura ricognitiva e portata confessoria di
presupposti di fatto già esistenti, con la conseguenza che l'azione di accertamento negativo della
natura personale del bene postula la revoca della confessione stragiudiziale resa nei limiti in cui è
ammessa in via generale, ossia per errore di fatto o violenza.
Cass. civ. Sez. III, 19-07-2012, n. 12466 (rv. 623485)
Albarello c. Imp. Jelmini s.r.l. e altri
FAMIGLIA
MATRIMONIO
(REGIME
E
PATRIMONIALE)
DIVORZIO
Matrimonio
in genere
FAMIGLIA - Matrimonio - Rapporti patrimoniali tra coniugi - Comunione legale - Oggetto Acquisti - Preliminare di acquisto di immobile stipulato da uno dei coniugi prima della separazione
- Sentenza ex art. 2932 cod. civ. pronunciata dopo la separazione - Conseguenze
Non cade in comunione legale l'immobile che, promesso in vendita a persona coniugata in regime
di comunione legale, sia coattivamente trasferito ex art. 2932 cod. civ,. a causa dell'inadempimento
del promittente venditore, al promissario acquirente, con sentenza passata in giudicato dopo che tra
quest'ultimo ed il coniuge era stata pronunciata la separazione. (Rigetta, Trib. Busto Arsizio,
17/07/2006)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. UCCELLA Fulvio - Presidente Dott. SPIRITO Angelo - Consigliere Dott. AMENDOLA Adelaide - rel. Consigliere Dott. DE STEFANO Franco - Consigliere Dott. BARRECA Giuseppina Luciana - Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 7224/2007 proposto da:
\ALBARELLO ANTONELLA\, *Ibrnnl64d56d869w*, in proprio e quale genitore esercente la
patria potestà sul minore \BELOTTI LORENZO ERMES\, elettivamente domiciliato in ROMA,
CIRCONVALLAZIONE CLODIA 36B, presso lo studio dell'avvocato CERTOMA' ANTONIO FRANCESCO, rappresentato e difeso
dall'avvocato POLERA' EDOARDO delega in atti;
- ricorrente contro
IMPRESA JELMINI FELICE SRL, *00189920127*, in persona dell'amministratore unico Signor
\Ielmini Giovanni\, elettivamente domiciliata in ROMA, CIRCONVALLAZIONE CLODIA 86,
presso lo studio dell'avvocato MARTIRE ROBERTO, che la rappresenta e difende unitamente
all'avvocato PULLI SALVATORE giusta delega in atti;
- controricorrente contro
BANCA INTESA SPA, \PERONI ISABELLA\, \TONETTI MARCO\, \BELOTTI VALERIO\;
- intimati -
sul ricorso 11565/2007 proposto da:
ITALFONDIARIO SPA, *00399750587*, nella sua qualità di procuratore di INTESA
SANPAOLO s.p.a., in persona del Dr. \\Braschi Bruno Angelo\, elettivamente domiciliato in
ROMA, VIA DELLA SCROFA 14, presso lo studio dell'avvocato CAPRINO GAETANO, che lo
rappresenta e difende unitamente all'avvocato CHIERICHETTI ANGELO giusta delega in atti;
- ricorrenti e contro
\PERONI ISABELLA\, \ALBARELLO ANTONELLA\, \BELOTTI VALERIO\, IMP JELMINI
FELICE SRL, \TONETTI MARCO\;
- intimati avverso la sentenza n. 663/2006 del TRIBUNALE di BUSTO ARSIZIO, depositata il 17/07/2006;
R.G.N. 2637/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/06/2012 dal Consigliere Dott.
ADELAIDE AMENDOLA;
udito l'Avvocato ROBERTO MARTIRE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni, che ha
concluso per previa riunione, accoglimento 3 motivo ricorso principale, rigettati gli altri motivi
anche del ricorso incidentale.
ESECUZIONE
Opposizione
in
del
FAMIGLIA
MATRIMONIO
Divorzio
(assegnazione
Matrimonio
in genere
FORZATA
terzo
genere
(REGIME
PATRIMONIALE)
E
della
Fatto Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. UCCELLA Fulvio - Presidente Dott. SPIRITO Angelo - Consigliere Dott. AMENDOLA Adelaide - rel. Consigliere Dott. DE STEFANO Franco - Consigliere Dott. BARRECA Giuseppina Luciana - Consigliere -
DIVORZIO
casa
coniugale)
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 7224/2007 proposto da:
\ALBARELLO ANTONELLA\, *Ibrnnl64d56d869w*, in proprio e quale genitore esercente la
patria potestà sul minore \BELOTTI LORENZO ERMES\, elettivamente domiciliato in ROMA,
CIRCONVALLAZIONE CLODIA 36B, presso lo studio dell'avvocato CERTOMA' ANTONIO FRANCESCO, rappresentato e difeso
dall'avvocato POLERA' EDOARDO delega in atti;
- ricorrente contro
IMPRESA JELMINI FELICE SRL, *00189920127*, in persona dell'amministratore unico Signor
\Ielmini Giovanni\, elettivamente domiciliata in ROMA, CIRCONVALLAZIONE CLODIA 86,
presso lo studio dell'avvocato MARTIRE ROBERTO, che la rappresenta e difende unitamente
all'avvocato PULLI SALVATORE giusta delega in atti;
- controricorrente contro
BANCA INTESA SPA, \PERONI ISABELLA\, \TONETTI MARCO\, \BELOTTI VALERIO\;
- intimati sul ricorso 11565/2007 proposto da:
ITALFONDIARIO SPA, *00399750587*, nella sua qualità di procuratore di INTESA
SANPAOLO s.p.a., in persona del Dr. \\Braschi Bruno Angelo\, elettivamente domiciliato in
ROMA, VIA DELLA SCROFA 14, presso lo studio dell'avvocato CAPRINO GAETANO, che lo
rappresenta e difende unitamente all'avvocato CHIERICHETTI ANGELO giusta delega in atti;
- ricorrenti e contro
\PERONI ISABELLA\, \ALBARELLO ANTONELLA\, \BELOTTI VALERIO\, IMP JELMINI
FELICE SRL, \TONETTI MARCO\;
- intimati avverso la sentenza n. 663/2006 del TRIBUNALE di BUSTO ARSIZIO, depositata il 17/07/2006;
R.G.N. 2637/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/06/2012 dal Consigliere Dott.
ADELAIDE AMENDOLA;
udito l'Avvocato ROBERTO MARTIRE;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni, che ha
concluso per previa riunione, accoglimento 3 motivo ricorso principale, rigettati gli altri motivi
anche del ricorso incidentale.
Svolgimento del processo
I fatti di causa possono così ricostruirsi sulla base della sentenza impugnata.
Con ricorso ex art. 619 c.p.c., depositato in data 15 settembre 2004 \Antonella @Albarello\ espose
che l'Impresa Jelmini, creditrice di \Valerio @Bellotti\, aveva pignorato, con atto trascritto il 17
maggio 2002, l'immobile sito in *Gallarate, via Aleardi 1*, del quale il debitore era proprietario
solo per la metà; che tale esecuzione era invalida e inefficace, posto che sul cespite ella vantava un
diritto di abitazione, essendo stato lo stesso a lei assegnato, quale affidataria del minore \Lorenzo
Hermes\, nel giudizio di separazione, definito con sentenza n. 826 del 1999, trascritta in data 23
maggio 2002; che tale provvedimento era opponibile al terzo acquirente per la durata di un
novennio dalla data della sua adozione; che peraltro l'immobile pignorato era stato acquistato in
regime di comunione legale ed apparteneva, pertanto, pro Indiviso, anche a lei.
Costituitasi in giudizio, l'Impresa Ielmini Felice contestò le avverse deduzioni.
Nel giudizio si costitui anche, con comparsa di intervento del 15 aprile 2005, Intesa Gestione
Crediti s.p.a. (procuratore di Banca Intesa s.p.a.), creditrice ipotecaria, la quale assunse, tra l'altro,
che, ai sensi dell'art. 2812 c.c., il diritto di abitazione trascritto dopo l'iscrizione della garanzia non
era ad essa opponibile, con conseguente sua facoltà di chiedere la substazione dell'immobile come
libero.
Con sentenza del 17 luglio 2006 il Tribunale di Busto Arsizio respinse l'opposizione, compensando
integralmente tra le parti le spese del procedimento.
Avverso detta pronuncia ricorre per cassazione \Albarello Antonella\, formulando tre motivi.
Resistono con due distinti controricorsi Impresa Ielmini Felice s.r.l. e Italfondiario s.p.a., nella
qualità di procuratore di Intesa San Paolo s.p.a. (già Banca Intesa s.p.a.), quest'ultima proponendo
altresì ricorso incidentale condizionato affidato a un solo mezzo.
Motivi della decisione
1 Con il primo motivo la ricorrente denuncia nullità assoluta della sentenza impugnata per
violazione dell'art. 132 c.p.c.. Evidenzia che l'opposizione era stata da lei proposta in proprio e
quale legale rappresentante del figlio minore \Belotti Lorenzo Ermes\, laddove nè dall'epigrafe, nè
dal dispositivo, nè dal corpo della motivazione della sentenza impugnata, risultava riferimento
alcuno al minore da essa rappresentato, minore il cui nominativo era completamente assente.
2 Le critiche seno infondate.
L'omessa menzione del minore, in nome e per conto del quale, oltre che in proprio, l'opponente ha
agito, integra un semplice errore materiale. Si ricorda che la mancata indicazione espressa della
parte nella sentenza - non prescritta a pena di nullità dall'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 2, - non ne
determina la nullità per inidoneità al raggiungimento dello scopo ove l'atto abbia indicato un
provvedimento intervenuto nel corso del processo il cui contenuto consenta di individuare per
relationem il soggetto non menzionato, dovendosi ritenere, in applicazione dei principi di cui all'art.
156 c.p.c., commi 2 e 3, che la pronuncia, pur carente di un requisito formale, sia comunque idonea
a soddisfare lo scopo al quale è preposta l'indicazione delle parti (confr. Cass. civ. 11 novembre
2011, n. 236709).
In sostanza dirimente, al fine di stabilire se l'omissione incida sulla validità della sentenza, è la
sussistenza o meno di una situazione di incertezza in ordine ai soggetti tra i quali si è costituito il
contraddittorio e ai quali, quindi la decisione si riferisce (confr. Cass. civ. 26 marzo 2010, n. 7343).
Nella fattispecie, il semplice riferimento alla procura a margine della comparsa di nuovo difensore,
contenuto nell'intestazione della sentenza impugnata, nonchè alla qualità dell'opponente di
affidataria del minore \Lorenzo Hermes\, fugano ogni dubbio in ordine alle parti del giudizio tra le
quali la decisione è stata resa.
3 Con il secondo mezzo si lamentano vizi motivazionali con riferimento al punto della controversia
riguardante la comproprietà dell'immobile oggetto di esecuzione forzata.
Le critiche si appuntano contro l'affermazione del giudice di merito secondo cui il bene pignorato
era di esclusiva spettanza del debitore esecutato, nonchè coniuge separato dell'opponente, \Bellotti
Valerio\, di talchè la tesi difensiva dell'\Albarello\ - di essere titolare, pro indiviso, della metà del
bene stesso - non aveva alcun fondamento. Significativo era in proposito, secondo il giudice di
merito, che il \Bellotti\ avesse stipulato il preliminare di vendita con Impresa Jelmini s.a.s. in data 8
novembre 1991 e che la proprietà del cespite fosse stata trasferita con sentenza ex art. 2932 c.c.,
resa dal Tribunale di Busto Arsizio in data 21 gennaio 2002. In tale contesto, sia a volere accedere
alla tesi, peraltro minoritaria, secondo cui gli effetti traslativi di tale pronuncia retroagisco al
momento della stipulazione del preliminare, sia a voler ritenere che l'effetto traslativo si verifichi
alla data della sentenza, non poteva ipotizzarsi sotto alcun profilo l'ingresso dell'immobile nel
patrimonio comune dei coniugi, considerato che la comunione legale era venuta meno alla data
della separazione, e cioè l'11 giugno 1999.
Secondo l'esponente tale giudizio sarebbe viziato da mancata, adeguata considerazione della
documentazione versata in atti.
E invero, se certamente il preliminare di vendita era stato stipulato prima del matrimonio, l'effetto
acquisitivo del diritto si era prodotto successivamente. Considerato allora che la sentenza di
separazione in data 11 giugno 1999 era diventata definitiva il 10 ottobre 2000; che, ai sensi dell'art.
191 c.c., lo scioglimento della comunione legale si era verificato solo in siffatto momento (confr.
Cass. civ. 27 febbraio 2001, n. 2844); che l'Impresa Jelmini aveva notificato domanda di esecuzione
in forma specifica dell'obbligo di concludere il contratto il 5 ottobre 1999, quando i coniugi erano
ancora in regime di comunione, l'effetto acquisitivo del diritto, stante la retroattività della sentenza
ex art. 2932 c.c., si era prodotto sin dalla domanda introduttiva del giudizio.
Aggiunge anche l'impugnante che l'immobile era stato consegnato al \Bellotti\ in costanza di
matrimonio; che sempre in costanza di matrimonio il mutuo era stato frazionato e che il \Bellotti\
aveva potuto fruire di benefici connessi alla convenzione stipulata dalla impresa costruttrice con il
Comune proprio in ragione del fatto che la futura moglie era colà residente.
4 Con il terzo motivo la ricorrente denuncia vizi motivazionali con riferimento al mancato
riconoscimento dell'opponibilità al creditore pignorante del diritto personale di godimento suo e del
figlio sul bene pignorato, in forza del provvedimento di separazione. Le critiche hanno quindi ad
oggetto quella parte della sentenza impugnata in cui il decidente ha escluso che l'assegnazione della
casa familiare possa considerarsi istituto affine alla locazione, conseguentemente negando, in
difetto di espressa previsione, l'applicabilità della norma in tema di opponibilità al terzo delle
locazioni infranovennali, ritenendola consentita, senza limiti predeterminati di tempo, solo in
presenza della trascrizione del provvedimento di assegnazione (confr. Cass. civ. 6 maggio 1999, n.
4529).
Sostiene per contro l'impugnante che la giurisprudenza di legittimità è ormai consolidata
nell'affermare che il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge
affidatario, avendo per definizione data certa, è opponibile, ancorchè non trascritto, al terzo
acquirente in data successiva per nove anni dalla data dell'assegnazione, ovvero - se il titolo sia
stato in precedenza trascritto - anche oltre i nove anni (confr.
Cass. civ. 26 luglio 2002, n. 11096).
Nella fattispecie l'assegnazione dell'immobile pignorato aveva data certa anteriore al pignoramento.
Esso era pertanto indiscutibilmente opponibile ai terzi per un novennio, a decorrere dalla data di
assegnazione.
5 Le critiche sono prive di pregio, ancorchè la motivazione della sentenza impugnata debba essere,
in qualche punto, integrata e corretta, ex art. 384 c.p.c., u.c..
Contrariamente a quanto affermato dal giudice di merito, invero, lo scioglimento della comunione
legale dei beni fra coniugi si verifica, con effetto ex nunc, dal momento del passaggio in giudicato
della sentenza di separazione ovvero dell'omologazione degli accordi di separazione consensuale,
non spiegando, per converso, alcun effetto, al riguardo, il provvedimento presidenziale di cui all'art.
708 del codice di rito, autorizzativo dell'interruzione della convivenza tra i coniugi, stante il
contenuto del tutto limitato e la funzione meramente provvisoria dello stesso (confr. Cass. civ. 12
gennaio 2012, n. 324; Cass. civ. 26 febbraio 2010, n. 4757).
Vero è, invece, che la sentenza di esecuzione in forma coattiva dell'obbligo di contrarre, ex art.
2932 c.c., produce gli effetti del contratto definitivo, che è destinata a surrogare, solo con il
passaggio in giudicato (confr. Cass. civ. 28 febbraio 2011, n. 4907;
Cass. civ. sez. un. 22 febbraio 2010, n. 4059).
Ne deriva che, secondo la stessa prospettazione dell'impugnante, l'effetto acquisitivo del diritto di
proprietà sull'immobile staggito si è verificato in un momento in cui la comunione legale era già
sciolta, di talchè di quel diritto è titolare, in via esclusiva, il debitore esecutato.
6 Infine l'esistenza di un provvedimento di assegnazione non è elemento che possa incidere sulla
pignorabilità del bene.
E' invero giurisprudenza consolidata di questa Corte, dalla quale non v'è ragione di discostarsi, che,
ai sensi dell'art. 6, comma 6, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (nel testo sostituito dall'art. 11
della legge 6 marzo 1937, n. 74), applicabile anche in tema di separazione personale, il
provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per
definizione data certa, è opponibile, ancorchè non trascritto, al terzo acquirente in data successiva
per nove anni dalla data dell'assegnazione, ovvero - ma solo ove il titolo sia stato in precedenza
trascritto - anche oltre i nove anni (confr. Cass. civ. sez. un. 26 luglio 2002, n. 11096; Cass. civ. 10
giugno 2006, n. 12296).
Merita evidenziare, per quanto qui interessa, che a siffatte conclusioni il Supremo Collegio è
pervenuto all'esito di una completa ricostruzione dell'evoluzione normativa e giurisprudenziale in
materia, valorizzando la ratio della norma in discorso e le esigenze di ordine sistematico, in base
alle quali, divelta agevole, superando le ambiguità del tenore letterale dell'art. 6, comma 6, della
legge sul divorzio (...), ravvisare nel richiamo all'art. 1599 c.c., in esso contenuto, la precisa volontà
del legislatore di assimilare al meri fini della trascrizione, il diritto dell'assegnatario a quello del
conduttore, così attribuendo all'istituto un quoziente di opponibilità ai terzi, anche a prescindere
dalla trascrizione. In tale contesto va pertanto affermato che il diritto vantato dall'assegnataria,
opponibile a terzo acquirente, non paralizza tuttavia quello del creditore di procedere in executivis
sul bene oggetto dell'assegnazione, pignorandolo e facendolo vendere coattivamente, di talchè la
scelta adottata nella sentenza impugnata va confermata sia pure per ragioni diverse da quelle
addotte dal giudice di merito.
7 Resta assorbito l'esame del ricorso incidentale, in quanto espressamente proposto in via
subordinata, per il non creduto caso di accoglimento del ricorso proposto dalla signora \Albarello
Antonella\ (pag. 13 del controricorso), e quindi sostanzialmente, anche se non formalmente,
condizionato.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte, pronunciando sui ricorsi riuniti, rigetta il ricorso principale, assorbito l'incidentale;
condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 4.200,00
(di cui Euro 4.000,00 per onorari), oltre IVA e CPA, nei confronti di Impresa Jelmini Felice s.r.l. e
in Euro 4.000,00 (di cui Euro 3.800,00 per onorari), oltre IVA e CPA, nei confronti di Italfondiario,
nella qualità.
Così deciso in Roma, il 7 giugno 2012.
Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2012
Cass. civ. Sez. I, 17-07-2012, n. 12197
V.D. e altri c. T. S. e altri
FAMIGLIA
VENDITA
Vendita
di immobili
(REGIME
PATRIMONIALE)
La dichiarazione resa nell'atto pubblico dal coniuge non acquirente, ai sensi dell'art. 179, secondo
comma, c.c., in ordine alla natura personale dell'immobile contestualmente acquistato, si atteggia
diversamente a seconda che la personalità dell'acquisto dipenda dal pagamento con provvista
proveniente dal prezzo del trasferimento di beni personali del coniuge acquirente, o invece dalla
destinazione del bene all'uso personale o all'esercizio della professione propria di quest'ultimo. Nel
primo caso, la dichiarazione riveste natura ricognitiva e portata confessoria dei presupposti di fatto
già esistenti (la provenienza del denaro utilizzato per l'acquisto), con la conseguenza che l'azione di
accertamento negativo della natura personale del bene postula la revoca della confessione
stragiudiziale resa dall'altro coniuge, nei limiti in cui la stessa è ammessa dall'art. 2732 c.c., e cioè
per errore di fatto o violenza. Laddove, nell'ipotesi alternativa la verifica dell'effettiva destinazione
consente la prova contraria libera, indipendentemente dall'indagine sulla sincerità dell'intento
manifestato.
FONTI
Notariato, 2012, 5, 502
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Presidente Dott. PICCININNI Carlo - Consigliere -
Dott. BERNABAI Renato - rel. Consigliere Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria - Consigliere Dott. ACIERNO Maria - Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 9186/2009 proposto da:
V.D. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in R0MA, VIA DARDANELLI 13, presso
l'avvocato LIUZZI MILENA, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato CARCERERI
FRANCO, giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrente contro
T.S. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE B. BUOZZI 99, presso
l'avvocato D'ALESSIO ANTONIO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato
SQUASSABIA GIUSEPPE, giusta procura in calce al controricorso;
- controricorrente avverso la sentenza n. 84/2009 della CORTE D'APPELLO di VENEZIA, depositata il 16/01/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/05/2012 dal Consigliere Dott.
RENATO BERNABAI;
udito, per il ricorrente, l'Avvocato CARCERERI FRANCO che ha chiesto l'accoglimento del
ricorso;
udito, per la controricorrente, l'Avvocato SQUASSABIA GIUSEPPE che ha chiesto il rigetto del
ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino, che ha
concluso per il rigetto del ricorso.
FAMIGLIA
(REGIME
SEPARAZIONE
Separazione
(addebitabilità)
VENDITA
Vendita
di immobili
Fatto Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Presidente -
DEI
PATRIMONIALE)
CONIUGI
Dott. PICCININNI Carlo - Consigliere Dott. BERNABAI Renato - rel. Consigliere Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria - Consigliere Dott. ACIERNO Maria - Consigliere ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 9186/2009 proposto da:
V.D. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in R0MA, VIA DARDANELLI 13, presso
l'avvocato LIUZZI MILENA, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato CARCERERI
FRANCO, giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrente contro
T.S. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE B. BUOZZI 99, presso
l'avvocato D'ALESSIO ANTONIO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato
SQUASSABIA GIUSEPPE, giusta procura in calce al controricorso;
- controricorrente avverso la sentenza n. 84/2009 della CORTE D'APPELLO di VENEZIA, depositata il 16/01/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/05/2012 dal Consigliere Dott.
RENATO BERNABAI;
udito, per il ricorrente, l'Avvocato CARCERERI FRANCO che ha chiesto l'accoglimento del
ricorso;
udito, per la controricorrente, l'Avvocato SQUASSABIA GIUSEPPE che ha chiesto il rigetto del
ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino, che ha
concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con ricorso notificato il 18 novembre 2002 il sig. V.D. conveniva dinanzi al Tribunale di Verona la
propria moglie, signora T.S., per ottenere la dichiarazione di separazione personale, con addebito ed
assegnazione a sè dell'abitazione coniugale.
Costituitasi ritualmente, la signora T. svolgeva domanda riconvenzionale di addebito della
separazione al coniuge per inadempimento dei doveri di fedeltà, coabitazione ed assistenza,
chiedendo, a sua volta, l'assegnazione della casa coniugale ed un assegno di mantenimento di Euro
1.500,00.
Nel corso del giudizio veniva disposta la riunione ex art. 274 c.p.c., con altro processo promosso
dalla signora T. per l'accertamento della simulazione dell'atto di compravendita del terreno su cui
era stato edificato il fabbricato adibito a casa coniugale, nella parte in cui conteneva la sua
dichiarazione che il prezzo era stato pagato con il ricavo di una precedente vendita di immobile di
proprietà del V..
Nel corso dell'istruttoria era ammessa ed espletata prova testimoniale. Con sentenza 6 dicembre
2007 il Tribunale di Verona pronunziava la separazione personale, rigettando le reciproche richieste
di addebito; respingeva la domanda di simulazione e confermava il provvedimento presidenziale ex
art. 708 c.p.c., che assegnava la casa coniugale al V., a cui carico poneva un assegno mensile di
mantenimento di Euro 600,00, soggetto a rivalutazione.
Compensava tra le parti le spese di lite.
In parziale accoglimento dei gravami hinc et inde proposti, la Corte d'appello di Venezia, con
sentenza 16 gennaio 2009, dichiarava addebitabile al V. la separazione personale, riducendo il suo
contributo di mantenimento ad Euro 450,00 mensili,ed accertava che il fondo oggetto dell'atto di
compravendita 30 luglio 1991, stipulato in costanza di matrimonio, ricadeva nella comunione
coniugale; così come, per l'effetto, la casa familiare su esso edificata. Confermava nel resto
l'impugnata sentenza e compensava per un terzo le spese del doppio grado di giudizio, ponendo la
residua frazione a carico del V..
Motivava:
- che dalle prove assunte emergeva una relazione extraconiugale intrattenuta dal marito all'origine
della crisi matrimoniale: in assenza di prova, il cui onere incombeva sull'autore della violazione
dell'obbligo di fedeltà, del venir meno, già in precedenza, dell'affectio coniugalis;
- che la disparità reddituale tra i coniugi appariva minore di quella ritenuta dal giudice di primo
grado: onde si doveva ridurre il contributo di mantenimento a carico del V.;
- che la dichiarazione della signora T., resa in sede di rogito della compravendita del terreno su cui
era poi stata edificata la casa coniugale, che il prezzo era stato pagato con denaro proveniente dal
trasferimento di beni personali del V. aveva solo natura ricognitiva ed appariva smentita dalla
mancata prova dell'effettiva provenienza della provvista da precedenti vendite di beni personali.
Avverso la sentenza, notificata il 16 febbraio 2009f il sig. V. proponeva ricorso per cassazione,
articolato in otto motivi e notificato il 16 aprile 2009.
Deduceva:
1) la violazione degli artt. 151 e 143 c.c., nell'accogliere la domanda di addebito sulla base del solo
accertamento della violazione dell'obbligo di fedeltà, senza verificarne il nesso di causalità con la
crisi del matrimonio;
2) la carenza di motivazione in ordine all'accertamento dei comportamenti contrari ai doveri
coniugali;
3) la violazione dell'art. 2697 c.c., in ordine all'onere della prova dei presupposti giustificativi della
pronunzia di addebito;
4) l'inosservanza dell'art. 2697 cod. e dell'art. 156 c.c., nella determinazione dell'assegno di
mantenimento mediante ricorso all'equità;
5) la violazione degli artt. 179, 2733 e 2735 c.c., e la carenza di motivazione nell'accertamento della
comunione legale sul terreno, acquistato dal solo V. con i proventi della vendita di beni personali,
come da conforme dichiarazione del coniuge riportata nell'atto pubblico di compravendita;
6) l'erroneità della ritenuta inefficacia della dichiarazione, avente natura negoziale, resa dalla
signora T. in sede di stipulazione e riportata nell'atto pubblico;
7) la violazione dell'art. 112 c.p.c., per omessa pronunzia sulla domanda riconvenzionale, riproposta
in secondo grado, per ottenere il rimborso pro quota dei costi di edificazione del fabbricato sul
terreno, subordinatamente all'eventuale accertamento della comunione legale.
8) la violazione di legge e la carenza di motivazione nel rigetto della domanda di revoca del
sequestro dell'immobile, disposto ex art. 156 c.c., comma 6.
Resisteva con controricorso la signora T..
Entrambe le parti depositavano memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c.. In essa il ricorrente eccepiva
l'inammissibilità del controricorso, tardivamente notificatogli.
All'udienza del 21 maggio 2012 il Procuratore generale e i difensori precisavano le rispettive
conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate.
Motivi della decisione
Dev'essere preliminarmente dichiarata l'inammissibilità del controricorso, notificato al V. in data 29
ottobre 2009, e quindi oltre il termine di giorni venti dal 26 maggio 2009, data di scadenza del
termine per il deposito del ricorso, notificato il 16 aprile 2009 (art. 369 c.p.c., e art. 370 c.p.c.,
comma 1). Dalla predetta tardività discende, in via derivativa, l'analoga preclusione della successiva
memoria illustrativa.
Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 151 e 13 c.c..
Il motivo è infondato.
Dal tenore della motivazione si evince, in punto di fatto, che la corte territoriale ha positivamente
attribuito alla violazione dell'obbligo di fedeltà da parte del V. piena efficienza causale in ordine
alla intollerabilità della prosecuzione della convivenza, all'origine della separazione giudiziale (art.
151 c.c.);
con esclusione, per contro, di analogo comportamento a carico della moglie. Ciò si evince dalla
descrizione delle modalità della relazione adulterina, definita stabile e perfino ostentata, sfociata poi
nell'abbandono della casa coniugale. La successiva enunciazione del riparto dell'onere della prova
liberatoria riveste quindi solo natura teorica; senza revocare in dubbio l'accertamento del nesso
eziologico autonomamente motivato.
Con il secondo ed il terzo motivo, da esaminare congiuntamente per affinità di contenuto, si
denunzia la carenza di motivazione e la violazione dell'art. 2697 c.c., in ordine alla ritenuta
sussistenza dei presupposti giustificativi della pronunzia di addebito.
Entrambe le censure si palesano infondate, dal momento che la corte territoriale ha dato
adeguatamente conto dell'addebito, ponendo in evidenza, con corretto riparto dell'onere probatorio,
gli elementi di fatto giustificativi dell'addebito, consistenti nella violazione del dovere di fedeltà,
all'origine della crisi coniugale.
Per il resto, le doglianze si risolvono in una difforme valutazione, nel merito, delle risultanze
istruttorie - di cui si chiede la disamina diretta da questa Corte - che non può trovare ingresso in
questa sede.
Il quarto motivo è infondato nella parte in cui lamenta il ricorso all'equità, in quanto la corte
territoriale non ha inteso applicare un criterio alternativo a quello legale in sede di determinazione
dell'assegno di mantenimento, bensì ha tratto le dovute conseguenze dalla disparità di reddito
documentata, in modo del tutto conforme ai principi ordinari in materia (art. 156 c.c., comma 1 e 2).
Nel contesto della motivazione il riferimento all'equità riveste quindi solo un valore empirico, nel
senso di conforme a giustizia sostanziale; senza deroga alcuna alla pronuncia secondo diritto (artt.
113 e 114 c.p.c.). Le ulteriori argomentazioni difensive ripropongono, poi, un sindacato di merito
sull'apprezzamento delle prove, esulante dai limiti del giudizio di legittimità.
Con il quinto ed il sesto motivo, di contenuto analogo, ricorrente denunzia la violazione degli artt.
179, 2733 e 2735 c.c., e la carenza di motivazione nell'accertamento della comunione legale sul
terreno da lui acquistato.
Le censure sono fondate.
A prescindere dalla contraddizione in cui incorre la sentenza impugnata nel riconoscere natura di
presunzione juris et de jure alla dichiarazione del coniuge non acquirente sulla natura personale
della provvista utilizzata per l'acquisto dell'immobile e, nel contempo, consentirne il superamento
mediante la prova contraria della sua non veridicità (per definizione, esclusa in tema di presunzioni
assolute), si osserva come il recente arresto di questa Corte, a sezioni unite, 28 ottobre 2009 n.
22.755 abbia risolto il contrasto in precedenza verificatosi sulla questione dell'efficacia probatoria
da riconoscere alla dichiarazione stessa. Si è infatti statuito, sul punto, che la dichiarazione resa
nell'atto pubblico dal coniuge non acquirente, ai sensi dell'art. 179 c.c., comma 2, in ordine alla
natura personale dell'immobile contestualmente acquistato, si atteggia diversamente a seconda che
la personalità dell'acquisto dipenda - come nella specie - dal pagamento con provvista proveniente
dal prezzo del trasferimento di beni personali del coniuge acquirente, o invece dalla destinazione
del bene all'uso personale o all'esercizio della professione propria di quest'ultimo.
Nel primo caso, la dichiarazione riveste natura ricognitiva e portata confessoria dei presupposti di
fatto già esistenti (la provenienza del denaro utilizzato per l'acquisto): con la conseguenza che
l'azione di accertamento negativo della natura personale del bene postula la revoca della
confessione stragiudiziale resa dall'altro coniuge, nei limiti in cui la stessa è ammessa dall'art. 2732
c.c., e cioè per errore di fatto o violenza. Laddove, nell'ipotesi alternativa, non pertinente al caso in
esame, la verifica dell'effettiva destinazione consente la prova contraria libera, indipendentemente
dall'indagine sulla sincerità dell'intento manifestato.
Alla luce di tale insegnamento (seguito, più di recente, da Cass., sez. 1, 2 febbraio 2012, n. 1523),
appare erronea la svalutazione della dichiarazione confessoria della signora T., operata dalla corte
territoriale; che, per l'effetto, ne ha ritenuto il superamento tramite la prova negativa indiretta tratta
dall'inesistenza di documentate vendite precedenti di beni personali del V.: da cui inferire,
presuntivamente, la non veridicità dell'enunciato pagamento del prezzo del terreno con provvista
esclusivamente propria.
L'accoglimento della censura assorbe l'ulteriore deduzione circa la natura negoziale della
dichiarazione della T.: cui in sostanza, secondo il ricorrente, sarebbe da ascrivere il significato di un
valido rifiuto volitivo del coacquisto.
Del pari assorbito risulta anche il settimo motivo, concernente la violazione dell'art. 112 cod. proc.
civ. per omessa pronunzia sulla domanda riconvenzionale, riproposta in secondo grado
subordinatamente all'accertamento positivo della comunione legale.
L'ultimo motivo, concernente il rigetto della domanda di revoca del sequestro dell'immobile
disposto ex art. 156 c.c., comma 6, è inammissibile.
Il provvedimento in questione ha, infatti, natura cautelare e, come tale, non è soggetto a ricorso per
Cassazione, proponibile solo avverso provvedimenti definitivi e decisori (Cass., sez. 1, 2 Febbraio
2012, n. 1518).
La sentenza dev'essere dunque cassata nei limiti sopra indicati, con rinvio alla Corte d'appello di
Venezia, anche per il regolamento delle spese della fase di legittimità.
P.Q.M.
- Rigetta i motivi nn. 1-4, dichiara inammissibile il n.8, accoglie il quinto motivo, assorbiti i nn.6 e
7, cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa alla Corte d'appello
di Venezia, in diversa composizione, anche per il regolamento delle spese della fase di legittimità.
Così deciso in Roma, il 21 maggio 2012.
Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2012
App. Roma Sez. III, 04-07-2012
Ru.Ma. c. Ma.Ri.
FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE)
In tema di comunione legale tra coniugi, la costruzione realizzata, in costanza di matrimonio, da
uno dei coniugi su di un fondo a lui appartenente in proprietà esclusiva entra (in via del pari
esclusiva) a far parte del suo patrimonio per effetto delle disposizioni generali in materia di
accessione, senza cadere, pertanto, nel novero dei beni oggetto di comunione di cui all'art. 177,
comma 1, lett. b), c.c. Ne consegue che la tutela del coniuge non proprietario del suolo opera non
sul piano del diritto reale (non potendo quegli vantare, in mancanza di uno apposito titolo o di una
specifica disposizione di legge, alcun diritto di comproprietà, nemmeno superficiaria, sulla
costruzione), bensì su quello meramente obbligatorio, nel senso che va a lui riconosciuto un diritto
di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione.
Cass. civ. Sez. II, 16-04-2012, n. 5972 (rv. 622288)
Chironi c. Leone e altri
FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE)
FAMIGLIA - Matrimonio - Rapporti patrimoniali tra coniugi - Comunione legale - Scioglimento In genere - Scioglimento della comunione legale - Decorrenza - Passaggio in giudicato della
sentenza di separazione - Configurabilità - Appello sui soli capi relativi ad addebito, affidamento
dei figli ed assegno di mantenimento - Rilevanza ai fini delle cessazione del regime di comunione
legale - Esclusione - Mutamento di indirizzo giurisprudenziale - Applicabilità dei principi in
materia di "overruling" - Esclusione - Fondamento
In tema di regime patrimoniale della famiglia, lo scioglimento della comunione legale dei beni fra i
coniugi si verifica "ex nunc" con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione, il quale
non è impedito dalla proposizione dell'appello con esclusivo riferimento all'addebito,
all'affidamento dei figli ed all'assegno di mantenimento, importando esso acquiescenza alla parte
autonoma della sentenza sulla separazione. Tale indirizzo interpretativo (inaugurato da Cass. S.U. n.
15279 del 4 dicembre 2001) non vale soltanto per il futuro, in quanto dal mutamento di esegesi sulla
scindibilità della pronuncia sulla separazione dal capo riferito all'addebito, non derivano preclusioni
o decadenze per la parte, il cui diritto di azione e difesa non è compromesso, onde non è applicabile
il principio in tema di "overruling", secondo cui il mutamento della precedente interpretazione della
Corte di cassazione su di una norma processuale non opera nei confronti della parte, che in detta
interpretazione abbia incolpevolmente confidato. (Rigetta, App. Lecce, 19/07/2007)
FONTI
CED Cassazione, 2012
Cass. civ. Sez. II, 16-04-2012, n. 5972 (rv. 622287)
Chironi c. Leone e altri
FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE)
FAMIGLIA - Matrimonio - Rapporti patrimoniali tra coniugi - Comunione legale Amministrazione - Atti compiuti senza il necessario consenso - Annullabilità - Compravendita
immobiliare di bene in comunione compiuta da un solo coniuge - Annullamento ex art. 184 cod.
civ. - Condizioni - Sentenza intervenuta in altra causa tra i coniugi relativa ad accertamento del
passaggio in giudicato del capo sulla separazione personale - Efficacia di giudicato esterno nei
confronti dell'acquirente - Configurabilità - Esclusione - Conseguenze - Autonoma determinazione
del momento di scioglimento della comunione nel giudizio sulla validità della compravendita Necessità
COSA GIUDICATA CIVILE - Interpretazione del giudicato - Giudicato esterno - Compravendita
immobiliare di bene in comunione compiuta da un solo coniuge - Annullamento ex art. 184 cod.
civ. - Condizioni - Sentenza intervenuta in altra causa tra i coniugi relativa ad accertamento del
passaggio in giudicato del capo sulla separazione personale - Efficacia di giudicato esterno nei
confronti dell'acquirente - Configurabilità - Esclusione - Conseguenze - Autonoma determinazione
del momento di scioglimento della comunione nel giudizio sulla validità della compravendita Necessità
In tema di comunione legale tra coniugi, il terzo che abbia acquistato da uno dei coniugi, "ante rem
iudicatam", la quota di contitolarità di un bene immobile ad essa appartenente, non è vincolato dal
successivo giudicato, derivante da sentenze pronunciate tra i coniugi (nella specie, in cause di
divorzio e di caduta in comunione di altro bene), le quali abbiano ritenuto inidonea a determinare
l'allentamento del legame matrimoniale la sentenza di primo grado di separazione personale in
pendenza di appello sul titolo della separazione stessa, l'affidamento dei figli e la misura
dell'assegno di mantenimento. Ne consegue che nel successivo giudizio, cui partecipi anche
l'acquirente, avente ad oggetto la validità di detta alienazione di quota in relazione alla regola
dell'amministrazione congiuntiva dettata dall'art. 184 cod. civ., il giudice deve stabilire
autonomamente quando sia passata in giudicato la sentenza di separazione personale dei coniugi, al
fine di determinare il momento di scioglimento del regime di comunione legale. (Rigetta, App.
Lecce, 19/07/2007)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FELICETTI Francesco - Presidente
Dott. MAZZACANE Vincenzo - Consigliere
Dott. BIANCHINI Bruno - Consigliere
Dott. BERTUZZI Mario - Consigliere
Dott. GIUSTI Alberto - rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
C.D., rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale a margine del ricorso, dall'Avv. Massa
Gianfranco, elettivamente domiciliata nello studio dell'Avv. Ferri Alessandro in Roma, via Carlo
Mirabello, n. 11;
- ricorrente contro
L.G. e E.R.;
- intimati avverso la sentenza della Corte d'appello di Lecce n. 508 depositata il 19 luglio 2007;
Udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del 2 aprile 2012 dal Consigliere relatore
Dott. GIUSTI Alberto;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE Ignazio,
che ha concluso per il rigetto del ricorso.
FAMIGLIA
(REGIME
PATRIMONIALE)
VENDITA
Vendita
di immobili
Fatto Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FELICETTI Francesco - Presidente
Dott. MAZZACANE Vincenzo - Consigliere
Dott. BIANCHINI Bruno - Consigliere
Dott. BERTUZZI Mario - Consigliere
Dott. GIUSTI Alberto - rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
C.D., rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale a margine del ricorso, dall'Avv. Massa
Gianfranco, elettivamente domiciliata nello studio dell'Avv. Ferri Alessandro in Roma, via Carlo
Mirabello, n. 11;
- ricorrente contro
L.G. e E.R.;
- intimati -
avverso la sentenza della Corte d'appello di Lecce n. 508 depositata il 19 luglio 2007;
Udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del 2 aprile 2012 dal Consigliere relatore
Dott. GIUSTI Alberto;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE Ignazio,
che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. - Con sentenza in data 1 marzo 2005, il Tribunale di Lecce ha annullato, su domanda di C.D.,
l'atto pubblico stipulato il 1 marzo 1996 per notar Rossi, con il quale il marito dell'attrice, L.G.,
aveva venduto a E.R. la nuda proprietà della quota indivisa di 1/2 dell'immobile sito in (OMISSIS)
e censito in catasto al foglio 15, p.lla 548 sub 1 e sub 2.
Ha rilevato il Tribunale che la vendita era avvenuta in violazione del disposto di cui all'art. 184 c.c.:
il bene era stato infatti acquistato dal L. con la moglie C.D. in regime di comunione legale, mentre
la vendita di cui all'atto impugnato era intervenuta prima della cessazione della comunione legale,
avutasi solo a seguito della separazione tra i predetti coniugi pronunciata in via definitiva con
sentenza della Corte d'appello di Lecce in data 7 marzo 1997. 2. - La Corte d'appello di Lecce, con
sentenza depositata il 19 luglio 2007, ha accolto il gravame del L. e, in riforma della pronuncia di
primo grado, ha rigettato la domanda di annullamento del contratto avanzata dalla C..
2.1. - La Corte territoriale ha rilevato:
- che quando il L. alienò la sua quota di proprietà dell'immobile con l'atto pubblico del 1 marzo
1996, il bene non era più soggetto al regime della comunione legale, essendo la comunione legale
cessata, ex art. 191 c.c., a seguito della separazione personale dei coniugi pronunciata dal Tribunale
di Brindisi in data 10 giugno 1989;
- che la formazione del giudicato sulla separazione non era stata impedita dal fatto che la sentenza
di primo grado era stata appellata, dal momento che il gravame aveva riguardato esclusivamente il
rigetto della domanda di addebito: l'appello non aveva quindi riguardato la separazione in sè ed il
relativo capo della sentenza doveva ritenersi coperto dal giudicato allo spirare del termine di
impugnazione della sentenza 10 giugno 1989, ben prima che sull'impugnazione pronunciasse la
Corte d'appello con la sentenza 7 marzo 1997;
- che l'atto di disposizione del quale la C. ha chiesto l'annullamento, riguardando appunto un bene
regolato oramai dalle norme sulla comunione ordinaria, non è invalido per difetto di legittimazione
dell'alienante, giacchè ciascun comproprietario può liberamente disporre della sua quota ideale del
bene, indipendentemente dal consenso prestato dall'altro o dagli altri comproprietari (art. 1103 c.c.).
3. - Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello la C. ha proposto ricorso, con atto
notificato il 2 ed il 3 settembre 2 008, sulla base di due motivi, illustrati con memoria.
Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.
Motivi della decisione
1. - Con il primo mezzo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 184 e 2909
c.c. e art. 324 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3.
Premette la ricorrente che, nelle more dell'appello avverso la sentenza di separazione del Tribunale
di Brindisi in data 26 aprile 1989, il L. aveva proposto domanda di cessazione degli effetti civili del
matrimonio: e mentre il Tribunale di Lecce aveva accolto la domanda, la Corte d'appello, con
sentenza in data 3 dicembre 1998, ne aveva dichiarato l'inammissibilità, perchè il divorzio era stato
richiesto prima della definitività della sentenza del Tribunale di Brindisi, avutasi soltanto con il
passaggio in giudicato della decisione della Corte di Lecce del 7 marzo 1997.
Tanto premesso, la ricorrente osserva che la decisione impugnata avrebbe violato il giudicato,
quello derivante dalla sentenza della Corte salentina del 3 dicembre 1998, la quale, dichiarando
inammissibile la domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio, ha dichiarato che la
separazione tra i coniugi L. - C. si è prodotta solo con il passaggio in giudicato della sentenza in
data 7 marzo 1997.
Di qui l'invalidità dell'alienazione, perchè effettuata - come eccepito già nel grado di merito - prima
del passaggio in giudicato della sentenza di separazione, quindi in persistenza del regime di
comunione dei beni.
Facendo seguito ad analoga prospettazione avanzata nel corso del giudizio di gravame, la ricorrente
richiama anche la sentenza della Corte d'appello di Lecce in data 17 ottobre 2003, con la quale è
stato accertato che "il bene immobile acquistato da L.G. e C.S., in comunione tra loro, a seguito di
decreti emessi dal giudice delegato ai fallimenti del Tribunale di Lecce, in data 19 aprile 1993, nelle
more del giudizio di appello avverso la indicata sentenza di separazione, è entrato, ope legis, ex art.
177 c.c., quanto alla quota di spettanza del L., in comunione con il coniuge C., a nulla rilevando che
quest'ultimo non abbia partecipato all'atto di acquisto". 1.1. - Il motivo è infondato.
La complessiva doglianza muove dall'assunto che la statuizione, contenuta nella sentenza (divenuta
definitiva) del giudice investito della domanda di divorzio, di inammissibilità di detta domanda, per
non essersi verificato il passaggio in giudicato della pronuncia sullo status di separazione nella
pendenza dell'appello sulla richiesta di addebito, costituisca un giudicato esterno sull'interpretazione
da dare alla sentenza di separazione del Tribunale di Brindisi del 26 aprile 1989, rilevante anche nel
presente giudizio, nel quale - per stabilire se sia o meno valida la vendita della quota compiuta
separatamente da un coniuge, senza il consenso dell'altro - occorre stabilire se, al momento
dell'alienazione, sussistesse ancora il regime di comunione legale tra gli stessi o se esso non si fosse
sciolto a seguito della separazione personale tra i coniugi.
Al medesimo risultato condurrebbe, ad avviso della ricorrente, un'altra sentenza, pronunciata tra la
C. ed il L., la quale, nel ricomprendere nella comunione legale un bene acquistato dal marito nella
pendenza del giudizio di appello avverso la sentenza di separazione, ha rilevato che "lo
scioglimento del regime di comunione tra i coniugi è avvenuto... solo con il passaggio in giudicato
della sentenza di separazione emessa, in sede di gravame contro quella del Tribunale di Brindisi,
dalla Corte d'appello di Lecce in data 7 marzo 1997".
L'assunto alla base della doglianza è radicato su un erroneo presupposto interpretativo.
In primo luogo, perchè, ai fini della preclusione derivante dall'esistenza di un giudicato esterno,
fondamentale ed imprescindibile risulta il raffronto della situazione contenuta nella precedente
decisione con l'oggetto specifico del processo nell'ambito del quale il giudicato dovrebbe fare stato,
e quindi il riscontro dell'esistenza di una relazione giuridica tra i diritti dedotti nei due giudizi
(Cass., Sez. Un., 16 giugno 2006, n. 13916; Cass., Sez. 5, 5 febbraio 2007, n. 2438; Cass., Sez.
Lav., 10 novembre 2008, n. 26927). Nella specie siffatta preclusione deve essere esclusa, mancando
la riferibilità al medesimo rapporto giuridico: nella presente controversia, infatti, non si discute nè
di ammissibilità del divorzio nè di ricomprensione nella comunione legale tra i coniugi del bene
acquistato dal L. dal fallimento, ma della validità dell'alienazione compiuta dal L. in relazione ad un
altro cespite. Tale evidente diversità non viene meno per il fatto che il giudice si sia trovato, allora,
e si trovi, ora, a dare soluzione ad una questione relativa ad un punto comune, vale a dire l'essere o
meno i coniugi L. - C. già separati a seguito della sentenza del Tribunale di Brindisi del 10 giugno
1989, prima della definizione del giudizio di appello avverso quella sentenza.
Inoltre, condizione dell'efficacia del giudicato esterno è che esso si sia formato tra le stesse parti,
non essendo sufficiente che esso riguardi un accertamento riferibile ad una questione di fatto
comune ad entrambe le cause (tra le tante, Cass., Sez. 3, 24 gennaio 2007, n. 1514; Cass., Sez. 5, 15
settembre 2008, n. 23658); e tale condizione di identità soggettiva nella specie non sussiste, giacchè
mentre al giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio e alla controversia sull'ambito
oggettivo della comunione legale (in relazione al bene acquistato in data 19 aprile 1993 da un
fallimento) hanno preso parte i coniugi, a questo procedimento partecipa anche l'acquirente della
quota, il quale non può trovarsi vincolato ad una accertamento compiuto in un giudizio al quale non
ha partecipato.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. 3, 22 maggio 1979, n. 2959; Cass., Sez. 2,
24 febbraio 1981, n. 1131; Cass., Sez. 3, 23 ottobre 1985, n. 5194), infatti, gli aventi causa nei cui
confronti, a norma dell'art. 2909 c.c., fa stato l'accertamento contenuto nella sentenza passata in
giudicato, sono quei soggetti che, dopo la formazione del giudicato, sono subentrati nella titolarità
delle correlative situazioni giuridiche, attive e passive, dedotte in giudizio e sulle quali incide il
comando giurisdizionale passato in giudicato.
Nella specie, per un verso la E. ha acquistato la contitolarità del bene in un momento
cronologicamente anteriore alla formazione del giudicato, ossia nel marzo 1996, laddove la
sentenza che ha dichiarato l'inammissibilità del divorzio è stata pronunciata nel dicembre 1998 e la
sentenza che ha ritenuto ricompreso nella comunione legale altro bene acquistato in comunione con
un terzo dal L. in un'asta fallimentare dell'aprile 1993, è dell'ottobre 2003; per l'altro verso, il diritto
che l' E. ha acquistato a titolo derivativo dal L. non è il medesimo oggetto dell'uno o dell'altro
giudicato nè un diritto diverso ma che tuttavia da uno dei due tragga origine.
Conclusivamente, deve affermarsi il principio secondo cui le sentenze, pronunciate tra i coniugi e
passate in cosa giudicata (in cause, rispettivamente, di divorzio e di caduta in comunione legale di
altro bene acquistato separatamente da uno dei coniugi), le quali, nell'interpretare il contenuto e la
portata precettiva di una precedente pronuncia intervenuta tra le stesse parti, abbiano ritenuto non
idonea a determinare l'allentamento del legame matrimoniale la sentenza di primo grado di
separazione personale in pendenza di un appello sul titolo della separazione stessa, sull'affidamento
dei figli e sulla misura dell'assegno di mantenimento, non vincolano, in relazione a detto
accertamento incidentale, il terzo che, ante rem iudicatam, abbia acquistato da uno dei coniugi la
quota di contitolarità di un bene immobile; ne consegue che, nel successivo giudizio, al quale
partecipi anche l'acquirente, in cui si controverta della validità di detta alienazione di quota in
relazione alla regola dell'amministrazione congiuntiva dettata dall'art. 184 c.c., il giudice è abilitato
a stabilire autonomamente quando è passata in giudicato la sentenza che ha pronunciato la
separazione personale tra i coniugi, al fine di determinare il momento di scioglimento del regime di
comunione legale.
2. - Il secondo motivo lamenta violazione dell'art. 191 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3. La
ricorrente contesta che possa esservi "autonomia decisoria sulla domanda di separazione rispetto
all'effettivo titolo di cui alla pronuncia". E precisa che, in ogni caso, l'autonomia della richiesta di
addebito è stata affermata, in giurisprudenza, soltanto a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite 4
dicembre 2001, n. 15279, laddove l'indirizzo precedente era di segno contrario: sicchè, ove i giudici
avessero deciso tempestivamente la causa, che era stata proposta dalla C. con citazione del 23 luglio
1996, l'esito dell'impugnazione sarebbe stato diverso, in applicazione del precedente orientamento.
2.1. - Il motivo è privo di fondamento.
Lo scioglimento della comunione legale dei beni tra i coniugi si verifica ex nunc con il passaggio in
giudicato della sentenza di separazione personale; e poichè l'appello proposto con esclusivo
riferimento all'addebito, all'affidamento dei figli e agli aspetti economici della separazione segna
acquiescenza alla pronuncia sulla separazione, e quindi definitività della stessa, quale parte
autonoma della decisione, deve escludersi che la pendenza del gravame su tali aspetti precluda il
passaggio in giudicato della separazione stessa ed impedisca la cessazione del regime di comunione
legale, cessazione alla quale si riconnettono l'inoperatività del complesso normativo di cui agli artt.
177 e segg. c.c. (e, in particolare, dell'art. 184 c.c.) e l'automatica instaurazione delle regole proprie
della comunione legale, ivi compresa quella, ex art. 1103 c.c., che abilita ciascun contitolare a
disporre del suo diritto nei limiti della quota senza il consenso dell'altro comunista.
Inoltre, contrariamente a quanto ritiene la ricorrente (la quale sostiene di avere riposto un legittimo
affidamento sul precedente, costante orientamento giurisprudenziale che negava la possibilità di
scindere la pronuncia di separazione e quella di addebito all'interno dello stesso processo in cui
l'una e l'altra fossero state richieste), l'indirizzo interpretativo inaugurato da Cass., Sez. Un., 4
dicembre 2001, n. 15279, non è suscettibile di operare solo per il futuro, cioè per le cause introdotte
in data successiva.
Infatti, dal mutamento di indirizzo discendente dalla citata pronuncia delle Sezioni Unite non
derivano preclusioni o decadenze per la parte, il cui diritto di azione e difesa non è compromesso;
pertanto, non trova applicazione il principio, in tema di overruling, secondo cui il mutamento da
parte della Corte della propria precedente interpretazione di una norma processuale non opera nei
confronti della parte che in detta interpretazione abbia incolpevolmente confidato (Cass., Sez. lav.,
27 dicembre 2011, n. 28967; Cass., Sez. 6 - 1, 30 dicembre 2011, n. 30111).
3. - Il ricorso è rigettato.
Nessuna statuizione sulle spese deve essere adottata, non avendo gli intimati svolto attività
difensiva in questa sede.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.
Trib. Trento, 29-09-2011
Ta.Na. c. Gi.An.
FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE)
I titoli obbligazionari, le azioni ed i crediti rientrano nell'ambito della comunione legale coniugale,
in quanto istituto, regolato dagli artt. 177 e ss. c.c., recante uno schema normativo non finalizzato,
come quello della comunione ordinaria, alla tutela della proprietà individuale, bensì alla tutela della
famiglia attraverso particolari forme di protezione della posizione dei coniugi nel suo ambito, con
speciale riferimento al regime degli acquisti. In relazione a tale aspetto, la ratio della disciplina, che
è quella di attribuirli in comunione ad entrambi i coniugi, trascende il carattere del bene della vita
che venga acquisito e la natura reale o personale del diritto che ne forma oggetto. Anche i crediti,
pertanto, in quanto beni ex artt. 810, 812 e 813 c.c. sono suscettibili di entrare nella comunione
legale, qualora non ricorra una delle eccezioni contemplate dagli artt. 177 e 179 c.c.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI TRENTO
SEZIONE CIVILE
in composizione monocratica, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al n. 530 del ruolo affari contenziosi dell'anno 2006 e promossa con atto di
citazione notificato il 14.2.2006
da
Ta.Na. elettivamente domiciliata in Trento, presso l'avv. M.Ro. che la rappresenta e difende in virtù
di procura speciale a margine dell'atto di citazione
Attrice
contro
Gi.An. elettivamente domiciliato in Trento, presso l'avv. A.Ca. che lo rappresenta e difende in virtù
di procura speciale a margine della comparsa di costituzione
Convenuto
avente ad oggetto: scioglimento comunione legale
FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE)
Fatto - Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI TRENTO
SEZIONE CIVILE
in composizione monocratica, ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nella causa iscritta al n. 530 del ruolo affari contenziosi dell'anno 2006 e promossa con atto di
citazione notificato il 14.2.2006
da
Ta.Na. elettivamente domiciliata in Trento, presso l'avv. M.Ro. che la rappresenta e difende in virtù
di procura speciale a margine dell'atto di citazione
Attrice
contro
Gi.An. elettivamente domiciliato in Trento, presso l'avv. A.Ca. che lo rappresenta e difende in virtù
di procura speciale a margine della comparsa di costituzione
Convenuto
avente ad oggetto: scioglimento comunione legale
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Con atto di citazione notificato il 14.2.2006 Na.Ta. ha convenuto in giudizio An.Gi. asserendo che
le parti si erano sposate il 21.5.1983 e che nel corso del matrimonio avevano acquistato la casa di
abitazione sita in Pergine Valsugana (...)), avevano aperto un conto corrente presso la Ca.Ru. ed
avevano sottoscritto una polizza Cresco con il Mo.Pa. di Siena (denaro sempre gestito
autonomamente dal convenuto).
Ha precisato che i coniugi si erano separati con sentenza dd.29.1.2004 ed ha chiesto che venga
disposto lo scioglimento della comunione ed alla divisione dei beni, con assegnazione
dell'abitazione al convenuto e liquidazione della metà del valore all'attrice.
Con comparsa dd.5.4.2006 si è costituito An.Gi. asserendo che l'abitazione coniugale era stata
acquistata grazie ai proventi del proprio lavoro professionale, così come anche il conto corrente e la
polizza Cr..
Ha affermato che la attrice si era impossessata di alcuni buoni postali fruttiferi destinati ai figli
minori ed ha chiesto, quindi, che la stessa sia condannata a restituire la metà dell'importo.
Ha, inoltre, asserito che moglie lo aveva diffamato di fronte agli insegnati dei figli ed ha chiesto il
risarcimento dei danni.
Deve, preliminarmente rilevarsi come le parti, in corso di causa, abbiano definito le questioni
relative agli autoveicoli Lancia Y 10 e Caravan 6 posti e che, pertanto, la causa di divisione non
debba comprendere tali beni.
Inoltre, nella comparsa conclusionale il convenuto ha dato atto che anche la questione relativa alla
riscossione dei buoni postali infruttiferi è stata definita tra le parti ed ha chiesto che venga dichiarata
cessata la materia del contendere in relazione a tale aspetto.
L'intervenuto passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale dei coniugi (in data 23
gennaio 2005) comporta l'intervenuto scioglimento della comunione legale (Sentenza n. 8707 del
2.9.1998: "lo scioglimento della comunione legale dei beni fra coniugi si verifica, con effetto "ex
nunc", dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di separazione ovvero
dell'omologazione degli accordi di separazione consensuale, non spiegando, per converso, alcun
effetto, al riguardo, il provvedimento presidenziale di cui all'art. 708 del codice di rito (autorizzativo
dell'interruzione della convivenza tra i coniugi), attesone il contenuto (del tutto limitato) e la
funzione (meramente provvisoria)").
Tuttavia, la prospettazione giuridica della vertenza - effettuata sia da parte attrice che da parte
convenuta - non pare corretta: invero, l'attrice pretende una ricostruzione e restituzione di tutte le
somme percepite ed utilizzate dal marito a partire dal 1998, mentre il convenuto asserisce che
l'immobile è stato comperato solo attraverso i propri guadagni (dato che la moglie era casalinga) ed
in parte utilizzando somme ricevute dai genitori ed afferma, quindi, che la domanda attorea
dovrebbe essere respinta.
Tale impostazione contrasta con la disciplina della comunione legale predisposta dal Codice Civile.
Invero, ai sensi dell'art. 177 c.c. rientrano nell'oggetto della comunione gli acquisti effettuati dai due
coniugi insieme o separatamente, durante il matrimonio ed è del tutto irrilevante, al riguardo, che le
somme utilizzate provengano o meno dal lavoro professionale di uno solo dei coniugi (Sentenza n.
10896 del 24.5.2005: "in tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, la norma dell'art.
192, terzo comma, cod. civ. attribuisce a ciascuno di essi il diritto alla restituzione delle somme
prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune (ad
es., quelle impiegate per la ristrutturazione di bene immobile appartenente alla comunione), e non
già alla ripetizione - totale o parziale - del denaro personale e dei proventi dell'attività separata (che
cadono nella comunione "de residuo" solamente per la parte non consumata al momento dello
scioglimento) impiegati per l'acquisto di beni costituenti oggetto della comunione legale "ex" art.
177, primo comma lett. a), cod. civ., rispetto ai quali trova applicazione il principio inderogabile,
posto dall'art. 194, primo comma, cod. civ., secondo cui, in sede di divisione, l'attivo e il passivo
sono ripartiti in parti eguali indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei
coniugi agli esborsi necessari per l'acquisto dei beni caduti in comunione").
Non vi è prova, inoltre, che le somme versate dai genitori del convenuto siano direttamente state
utilizzate per il pagamento del prezzo di acquisto dell'abitazione (ben potendo tali importi essere
stati impiegati per investimenti di borsa o per spese di altro genere).
Inoltre - all'atto dell'acquisto dell'immobile - non è stata resa la dichiarazione prevista dall'art. 179
u.c.c.c., necessaria per impedire che il bene rientri in comunione (Sentenza n. 19250 del
24.9.2004:"in tema di regime della comunione legale fra i coniugi, la dichiarazione di cui è onerato
il coniuge acquirente, prevista nella lettera f) del primo comma dell'art. 179 cod. civ. al fine di
conseguire l'esclusione, dalla comunione, dei beni acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni
strettamente personali o con il loro scambio, non è meramente facoltativa. Quanto poi al profilo per
cui, allorché l'acquisto esclusivamente personale si indirizzi ad avere ad oggetto beni immobili o
beni mobili registrati, il secondo comma dell'art. 179 cod. civ. fissi l'ulteriore requisito della
necessaria partecipazione, all'atto, dell'altro coniuge, un tale trattamento differenziato si pone in
relazione agli evidenti profili di particolare certezza che (nell'ottica del codice del 1942) debbono
accompagnarsi alla circolazione di un tale tipo di beni; esigenze di certezza sottolineate dal
particolare meccanismo di pubblicità per essi contemplato e rappresentato dalla "trascrizione". Tale
partecipazione all'atto, dell'altro coniuge acquista i contenuti di un'"adesione" alla dichiarazione
resa dal coniuge acquirente e di ricognizione del ricorso dei presupposti per l'operatività della
natura meramente "personale" dell'acquisto. Ne emergono i tratti di una fattispecie complessa al cui
perfezionamento concorrono, ad un tempo, il ricorso effettivo dei presupposti di cui alla lettera f) (o
alle lettere c) ed)) dell'art. 179 cod. civ.; la relativa dichiarazione resa dal coniuge il quale si rende
"acquirente esclusivo", e la "adesiva" partecipazione - all'atto - dell'altro coniuge").
Deve, quindi, ritenersi che l'immobile in oggetto rientri nella comunione tra i coniugi.
La p.m. (...) Pergine, e la quote delle (...) c.c. Pergine sono costituite da un appartamento, con
garage e sottotetto, e da un andito a forma rettangolare che circonda l'edificio.
Il ctu, geom. Lu., ha stimato tali immobili in Euro 196.500,00 ed ha escluso che l'appartamento sia
comodamente divisibile.
Il ctu, inoltre, ha precisato che gli arredi presenti all'interno dell'appartamento - stimati in Euro
15.000,00 - sono "funzionali alla conduzione dello stesso e quindi una loro divisione sarebbe
antieconomica".
Ne consegue che - non avendo nessun comproprietario chiesto l'assegnazione del bene l'appartamento (ammobiliato) dovrà essere venduto all'asta ed il ricavato di tale vendita dovrà,
essere diviso tra i comproprietari in parti uguali.
L'attrice ha asserito, inoltre, che il Gi. aveva acceso una polizza (...) e che tale polizza era stata
liquidata al convenuto il 25.6.2001 (il quale aveva ricevuto l'importo di Euro 17.404,62); inoltre ha
precisato che a partire dal 1998 il convenuto aveva aperto un conto (...) e relativo dossier titoli,
provvedendo - nel corso degli anni successivi - ad acquisti e vendite di titoli on line.
Ha chiesto, quindi, che la metà delle somme liquidate a titolo di rimborso della polizza e dei
complessivi conferimenti effettuati sul conto (...) le siano riconosciuti.
Deve, al riguardo, rilevarsi come anche i titoli obbligazionari, le azioni ed i crediti rientrino nella
comunione legale; invero, la Suprema Corte ha statuito (Sentenza n. 21098 del 9.10.2007) che "la
comunione legale fra i coniugi, come regolata dagli artt. 177 e segg. cod. civ., costituisce un istituto
che prevede uno schema normativo non finalizzato, come quello della comunione ordinaria regolata
dagli artt. 1100 e segg. cod. civ., alla tutela della proprietà individuale, ma alla tutela della famiglia
attraverso particolari forme di protezione della posizione dei coniugi nel suo ambito, con speciale
riferimento al regime degli acquisti, in relazione al quale la ratio della disciplina, che è quella di
attribuirli in comunione ad entrambi i coniugi, trascende il carattere del bene della vita che venga
acquisito e la natura reale o personale del diritto che ne forma oggetto; ne consegue che anche i
crediti - così come i diritti a struttura complessa, come i diritti azionari - in quanto "beni" ai sensi
degli art. 810, 812 e 813 cod. civ., sono suscettibili di entrare nella comunione, ove non ricorra una
delle eccezioni alla regola generale dell'art. 177 cod. civ. poste dall'art. 179 cod. civ.".
E' pacifico che il credito nascente dalla Po.Cr. è stato liquidato, incassato e trattenuto solo dal signor
Gi. (nonostante fosse da ritenersi in comunione) e proprio nel luglio 2001 e quindi in un periodo in
cui era già in atto la crisi familiare (la richiesta di separazione è, infatti, stata depositata il
24.8.2001).
Ne consegue che - per tale motivo - deve essere riconosciuto all'attrice il diritto ad ottenere la
restituzione della metà di tale importo, pari ad Euro 8.702,31.
Per quanto concerne l'acquisto dei titoli azionari effettuato mediante il conto (...) anche tali beni
rientravano nella comunione legale ex art. 177 c.c..
Dalla documentazione prodotta risulta che nel corso degli anni di matrimonio, a partire dal 1998, il
Gi. ha effettuato continui acquisti e vendite di tali titoli.
Non può, al riguardo, essere accolta la domanda attorea, la quale pretende che tutti gli importi di
denaro movimentati durante il periodo matrimoniale siano restituiti alla comunione.
Invero - come ammesso anche dalla attrice nell'atto di citazione - deve ritenersi che gli acquisti dei
titoli (e le successive vendite) siano stati effettuati (quantomeno inizialmente) con il consenso
dell'altro coniuge: infatti, la stessa signora Ta. ha affermato che era il marito che si interessava di
tali investimenti e che lei gli aveva completamente delegato tale compito.
Si deve escludere, quindi, che le varie contrattazioni siano state perfezionate senza il consenso (sia
pure espresso in via generale) dall'altro coniuge.
Diversa valutazione deve essere effettuata a partire dal momento in cui è stata presentata dalla
signora Ta. la domanda di separazione personale: invero, la formalizzazione della crisi coniugale
porta ad escludere che la moglie possa aver successivamente autorizzato il marito ad effettuare
ulteriori vendite dei titoli di cui erano in quel momento comproprietari (ed è quindi evidente che quantomeno da quel momento in poi - le successive operazioni sono state compiute dal signor Gi.
unilateralmente ed anche con la piena consapevolezza che il mandato originariamente affiato era
oramai venuto meno).
Ne consegue che deve trovare applicazione l'art. 184 u.c. c.c. e che - pertanto - il convenuto (il
quale ha venduto beni mobili appartenenti alla comunione senza il consenso dell'altro coniuge) è
obbligato "a ricostruire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell'atto o,
qualora ciò non sia possibile, al pagamento dell'equivalente secondo i valori correnti all'epoca della
ricostruzione della comunione".
Per tali motivi che la causa deve essere rimessa in istruttoria al fine di fare accertare quali fossero i
titoli azionari appartenenti ai coniugi alla data del 23.8.2001 e di farne determinare il valore di tali
titoli alla data odierna.
Per quanto concerne, infine, le somme di denaro presenti sul conto corrente n.(...), cointestato ai
coniugi ed acceso presso la Ca.Ru., deve ritenersi che le somme ivi depositate (risultanti soprattutto
dai proventi dell'attività lavorativa personale del convenuto) costituiscano la c.d. comunione de
residuo.
Tale termine denota quella comunione meramente residuale e differita che viene a formarsi all'atto
stesso dello scioglimento del regime legale, a condizione che i beni che ne costituiscono l'oggetto
non siano stati consumati prima di tale momento, secondo quanto stabilito dagli artt. 177, lett. b) e
c), nonché 178 c.c..
Tale principio, unitamente al fatto che lo scioglimento della comunione legale presuppone il
passaggio in giudicato della sentenza di separazione, determinane il rischio (rectius la quasi
certezza) che - di fatto - molto raramente tali beni siano presenti sui vari conti correnti al momento
dello scioglimento della comunione.
Tale problema e l'esigenza di tutelare "il coniuge debole" ha fattosi che la Suprema Corte - in talune
pronunce - abbia affermato che (Sentenza n. 14897 del 17.11.2000) "costituiscono oggetto della
comunione cosiddetta "de residuo", ai sensi dell'articolo 177 lett. c) cod. civ., non solo quei redditi
per i quali si riesca a dimostrare che sussistano ancora al momento dello scioglimento della
comunione ma anche quelli, percetti e percipiendi, rispetto ai quali il coniuge titolare non riesca a
dimostrare che siano stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per
investimenti già caduti in comunione (nella specie la S.C. ha confermato la decisione di merito
secondo cui ricadevano in comunione de residuo le somme depositate su un conto corrente
cointestato, ritirate prima della separazione e asseritamente utilizzate per l'attività d'impresa del
coniuge prelevante)".
Questo orientamento è stato disatteso da pronunce più recenti, le quali, al contrario, hanno stabilito in conformità ad una lettura (a parere di questo Tribunale) maggiormente corretta dell'art. 177 c.c. che (Sentenza n. 2597 del 7.2.2006) "l'art. 177 lett. c) del codice civile esclude dalla comunione
legale i proventi dell'attività separata svolta da ciascuno dei coniugi e consumati, anche per fini
personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione".
Ed hanno escluso, pertanto, che vi possa essere un obbligo di rendiconto ed un correlato potere di
controllo dell'altro coniuge sui proventi che costituiscono la comunione de residuo, i quali, fino allo
scioglimento, rimangono di esclusiva titolarità del percettore.
La corretta esigenza di tutela del coniuge debole, al contrario, può e deve essere soddisfatta
mediante un altro e difforme approccio interpretativo, operando, cioè, una distinzione tra
consumazione e sottrazione.
In altre parole, costituisce una massima di comune esperienza il principio secondo cui (salvo prova
contraria offerta dal titolare) i proventi soprattutto se vi è stato (come nel caso in esame) una
repentina ed improvvisa chiusura del conto in prossimità della formalizzazione della domanda di
separazione - una volta che ne sia stata accertata la percezione, si possono reputare esistenti al
momento di scioglimento della comunione, in quanto o accantonati o reinvestiti.
Ne consegue che il convenuto deve corrispondere alla attrice anche la somma di Euro 542,49, pari
alla metà dell'importo trattenuto al momento della chiusura improvvisa del conto corrente, non
essendo stata fornita prova della consumazione di tale somma.
Complessivamente, quindi, il signor Gi. deve essere condannato a corrispondere alla sinora Ta. la
somma di Euro 9.244,80 oltre ad interessi legali dal 23.1.2005 al saldo.
La causa deve essere rimessa in istruttoria al fine di assumere la ctu sopra indicata e di provvedere
alla vendita del bene immobile.
Le spese saranno liquidate con la sentenza definitiva.
P.Q.M.
Il Tribunale di Trento, in composizione monocratica, non definitivamente pronunciando, ogni
contraria istanza ed eccezione respinta, così provvede:
1. dichiara lo scioglimento della comunione legale tra Ta.Na. e Gi.An.;
2. accerta che la (...) Pergine, e la quote delle (...) Pergine - che rientrano nella comunione - non
sono comodamente divisibili;
3. condanna Gi.An. a corrispondere a Ta.Na. la somma di Euro 9.244,80 oltre ad interessi legali dal
23.1.2005 al saldo;
4. rimette la causa in istruttoria come da separata ordinanza;
5. spese al definitivo.
Cass. civ. Sez. II, 09-12-2010, n. 24921
M.G. c. Ma.Ma.Mi.
FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE)
Nell'ipotesi in cui la costruzione di un immobile sia stata realizzata su un suolo di proprietà
esclusiva di uno dei coniugi in regime di comunione dei beni, al coniuge non proprietario che abbia
contribuito all'onere della costruzione, spetta, ai sensi dell'art. 2033 c.c., il diritto di ripetere nei
confronti dell'altro coniuge le somme spese, stante la natura meramente obbligatoria dei suoi diritti.
FONTI
Notariato, 2011, 2, 136
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROVELLI Luigi - Presidente
Dott. PICCIALLI Luigi - Consigliere
Dott. MIGLIUCCI Emilio - Consigliere
Dott. CORRENTI Vincenzo - Consigliere
Dott. GIUSTI Alberto - rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
M.G., rappresentato e difeso, in forza di procura speciale a margine del ricorso, dall'Avv.
PASANISI Alfredo, per legge domiciliato presso la cancelleria civile della Corte di Cassazione,
Piazza Cavour, Roma;
- ricorrente contro
MA.Ma.Mi., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a margine del controricorso,
dall'Avv. PARCO Cosimo, elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio dell'Avv. Giuliano
Pela, Via Lucio Apuleio, n. 22;
- controricorrente e sul ricorso promosso da:
MA.Ma.Mi., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a margine del controricorso,
dall'Avv. Cosimo Parco, elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio dell'Avv. Giuliano
Pela, Via Lucio Apuleio, n. 22;
- ricorrente in via incidentale condizionata contro
M.G.;
- intimato avverso la sentenza della Corte d'appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, n. 34, depositata il
10 febbraio 2004.
Udita la relazione della causa svolta nell'udienza Pubblica del 12 ottobre 2010 dal Consigliere
relatore Dott. Alberto Giusti;
udito l'Avv. Cosimo Parco;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARINELLI
Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e l'assorbimento dell'incidentale.
COMODATO
FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE)
Fatto Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROVELLI Luigi - Presidente
Dott. PICCIALLI Luigi - Consigliere
Dott. MIGLIUCCI Emilio - Consigliere
Dott. CORRENTI Vincenzo - Consigliere
Dott. GIUSTI Alberto - rel. Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
M.G., rappresentato e difeso, in forza di procura speciale a margine del ricorso, dall'Avv.
PASANISI Alfredo, per legge domiciliato presso la cancelleria civile della Corte di Cassazione,
Piazza Cavour, Roma;
- ricorrente contro
MA.Ma.Mi., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a margine del controricorso,
dall'Avv. PARCO Cosimo, elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio dell'Avv. Giuliano
Pela, Via Lucio Apuleio, n. 22;
- controricorrente e sul ricorso promosso da:
MA.Ma.Mi., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a margine del controricorso,
dall'Avv. Cosimo Parco, elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio dell'Avv. Giuliano
Pela, Via Lucio Apuleio, n. 22;
- ricorrente in via incidentale condizionata contro
M.G.;
- intimato avverso la sentenza della Corte d'appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, n. 34, depositata il
10 febbraio 2004.
Udita la relazione della causa svolta nell'udienza Pubblica del 12 ottobre 2010 dal Consigliere
relatore Dott. Alberto Giusti;
udito l'Avv. Cosimo Parco;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARINELLI
Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e l'assorbimento dell'incidentale.
Svolgimento del processo
Ma.Ma.Mi. - premesso che in sede di separazione dal marito M.G. le era stata assegnata la causa
coniugale di (OMISSIS), mentre essa aveva concesso al coniuge in comodato gratuito, per due mesi
e per consentirgli di trovare altro alloggio, la casa arredata, di sua esclusiva proprietà, posta in
(OMISSIS) alla contrada (OMISSIS), costruita su terreno acquistato con atto notar Adami del
(OMISSIS) - convenne in giudizio il M. per sentire dichiarare risolto il contratto di comodato e per
ottenere la condanna del convenuto al rilascio dell'immobile che egli, pur sollecitato, si era rifiutato
di restituire.
Resistette il convenuto, precisando che la casa, costruita tra il 1979 ed il 1988, doveva ritenersi
caduta in comunione legale, quanto meno per tutte le opere eseguite sino al 1984, data in cui le parti
avevano optato per il regime della separazione legale.
Il M. domandò l'indennizzo ex art. 936 cod. civ., anche per le opere e i miglioramenti eseguiti dopo
la stipulazione della convenzione di separazione.
A questo giudizio ne venne riunito altro, pendente tra le stesse parti dinanzi al medesimo Tribunale,
con cui il M. chiese la condanna della Ma. a rimborsargli le "notevoli somme sopportate per la
totale trasformazione e il miglioramento del suo immobile".
Con sentenza non definitiva in data 20 giugno 2000, il Tribunale di Tarante condannò il M. a
rilasciare l'immobile di contrada (OMISSIS), disponendo il prosieguo dell'istruttoria sulla domanda
riconvenzionale formulata dal convenuto.
La Corte d'appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, con sentenza n. 34 depositata il 10
febbraio 2004, ha rigettato il gravame del M., condannandolo al rimborso delle spese sostenute
dall'appellata.
Esaminando il motivo con cui l'appellante censurava la decisione di primo grado per violazione
dell'art. 112 cod. proc. civ., per averlo condannato al rilascio dell'abitazione in virtù della ritenuta
fondatezza dell'azione di rivendica, in realtà mai proposta dall'attrice, la Corte territoriale ha rilevato
che "se ... dal canto suo l'istante non ha provato il contratto di comodato concluso con il marito - e
non ha neppure esperito azione di rivendica sul bene, come invece opinato impropriamente dal
Tribunale - dal canto suo il M. non ha dimostrato, come doveva, perchè stava in quella casa, che di
conseguenza deve ritenersi occupata senza titolo, e dunque va restituita alla proprie-taria a sua
semplice richiesta, come nella specie è stato".
La Corte d'appello ha inoltre ritenuto corretto il rigetto, da parte del Tribunale, della richiesta del
convenuto di sentirsi dichiarare comproprietario della casa di contrada (OMISSIS); ed esente da
censure sia la decisione del primo giudice di considerare partitamente i periodi compresi fra gli anni
1977 e 1988, sia - per il periodo che va dal 13 gennaio 1984 al 19 febbraio 1988 - la riserva al
prosieguo dell'accertamento della data dei lavori di miglioramento assuntivamente effettuati
sull'immobile e sull'incremento di valore ad esso conseguito.
Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello il M. ha proposto ricorso, sulla base di quattro
motivi.
Ha resistito, con controricorso, la Ma., proponendo a sua volta ricorso incidentale condizionato,
affidato ad un motivo.
In prossimità dell'udienza il ricorrente ha depositato una memoria illustrativa.
Motivi della decisione
1. - Preliminarmente, il ricorso principale ed il ricorso incidentale (condizionato) devono essere
riuniti, essendo entrambe le impugnazioni riferite alla stessa sentenza.
2. - Con il primo motivo (violazione dell'art. 2697 cod. civ. e art. 112 cod. proc. civ., nonchè vizio
di motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e
5), il ricorrente in via principale censura il capo della sentenza che ha confermato l'accoglimento
della domanda di rilascio, essendo mancata da parte del convenuto la prova del titolo della sua
detenzione. Avrebbe errato la Corte territoriale a ritenere che, pur in mancanza di prova atta a
sostenere la fondatezza dell'azione restitutoria di natura personale, la domanda andasse comunque
accolta in mancanza di dimostrazione da parte del convenuto del titolo della sua detenzione. La
sentenza impugnata avrebbe incidentalmente riconosciuto un diritto di proprietà il cui accertamento
non era stato richiesto.
2.1. - Il motivo è privo di fondamento.
In tema di difesa della proprietà, l'azione di rivendicazione e quella di restituzione, pur tendendo al
medesimo risultato pratico del recupero della materiale disponibilità del bene, hanno natura e
presupposti diversi: con la prima, di carattere reale, l'attore assume di essere proprietario del bene e,
non essendone in possesso, agisce contro chiunque di fatto ne disponga onde conseguirne
nuovamente il possesso, previo riconoscimento del suo diritto di proprietà; con la seconda, di natura
personale, l'attore non mira ad ottenere il riconoscimento di tale diritto, del quale non deve,
pertanto, fornire la prova, ma solo ad ottenere la riconsegna del bene stesso, e, quindi, può limitarsi
alla dimostrazione dell'avvenuta consegna in base ad un titolo e del successivo venir meno di questo
per qualsiasi causa, o ad allegare l'insussistenza ab origine di qualsiasi titolo. In tale seconda ipotesi,
la difesa del convenuto che pretenda di essere proprietario del bene in contestazione, non è idonea a
trasformare in reale l'azione personale proposta nei suoi confronti, atteso che, per un verso, la
controversia va decisa con esclusivo riferimento alla pretesa dedotta, e, per altro verso, la semplice
contestazione del convenuto non costituisce strumento idoneo a determinare l'immutazione, oltre
che dell'azione, anche dell'onere della prova incombente sull'attore, imponendogli una prova ben
più onerosa - la probatio diabolica, della rivendica - di quella cui sarebbe tenuto alla stregua
dell'azione inizialmente introdotta (Cass., Sez. 2^, 26 febbraio 2007, n. 4416; Cass., Sez. 2^, 27
gennaio 2009, n. 1929).
A tale principio si è correttamente attenuta la Corte territoriale, la quale ha accertato che la Ma. esclusiva proprietaria del terreno su cui venne realizzata la casa di abitazione - non ha esperito
alcuna azione di rivendica, ma ha esercitato un'azione personale deducendo l'insussistenza di un
titolo di detenzione del bene da parte del convenuto, che attualmente la occupava, laddove questi
non ha dimostrato il titolo giuridico che lo legittimava alla detenzione del bene nei confronti
dell'attrice ed ha fallito nella pretesa di vedersi riconosciuta la comproprietà dell'immobile.
3. - Con il secondo mezzo del medesimo ricorso (violazione dell'art. 177 cod. civ., in relazione
all'art. 360 cod. proc. civ., n. 3) ci si duole che la Corte d'appello abbia negato il diritto del M. a
riceve indennizzo o comunque ad essere riconosciuto creditore per le spese relative alle opere di
costruzione eseguite tra la data del matrimonio ed il 1934 (data in cui venne stipulata tra le parti la
convenzione di separazione dei beni), sull'assunto che in base alle risultanze istruttorie lo stesso non
sarebbe risultato in tale arco di tempo percettore di redditi. Sostiene il ricorrente che, benchè la
costruzione realizzata durante il matrimonio sul suolo di proprietà esclusiva di uno dei coniugi
appartenga soltanto a quest'ultimo, in forza della normativa dell'accessione, e pertanto non formi
oggetto della comunione legale, ciononostante la tutela del coniuge non proprietario operi sul piano
obbligatorio, spettando a costui un diritto di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della
manodopera impiegati nella costruzione. Avrebbe errato la Corte di merito a dare rilievo alla
provenienza del denaro utilizzato per gli acquisti.
Con il terzo motivo il ricorrente in via principale denuncia violazione degli artt. 115 e 116 cod.
proc. civ. e dell'art. 2697 cod. civ., nonchè vizio di motivazione nella parte in cui si è riconosciuta la
proprietà in capo alla Ma. del denaro utilizzato dal M. per effettuare i pagamenti per la costruzione
della casa.
Il quarto mezzo prospetta violazione degli artt. 1362 e 1262 cod. civ. e dell'art. 179 cod. civ., e vizio
di motivazione "nella parte in cui si è implicitamente dichiarata la natura personale degli acquisti
della Ma. precedenti al 1984 sulla base della dichiarazione scritta in data 8 novembre 1983 e della
deposizione del teste m.". 3.1. - Tutti e tre i motivi - i quali, stante la loro connessione, possono
essere esaminati congiuntamente - sono infondati, per la parte in cui non sono inammissibili.
Questa Corte ha precisato che, in caso di costruzione realizzata su un suolo di proprietà esclusiva di
uno dei coniugi in regime di comunione dei beni, al coniuga non proprietario che abbia contribuito
all'onere della costruzione spetta, ai sensi dell'art. 2033 cod. civ., il diritto di ripetere nei confronti
dell'altro coniuge le somme spese, stante la natura meramente obbligatoria dei suoi diritti (Cass.,
Sez. 2^, 11 agosto 1999, n. 8585; Cass., Sez. 1^, 14 aprile 2004, n. 7060; Cass., Sez. 1^, 4 febbraio
2005, n. 2354).
La sentenza impugnata, confermando la statuizione di primo grado, ha escluso che, nel periodo
considerato, il M. abbia contribuito, in qualche modo, alla realizzazione della costruzione. A tal
fine, la Corte ha fatto leva: sul fatto che il M., all'epoca studente universitario, non esercitava alcuna
attività lavorativa ed era nullatenente; sulla circostanza che la Ma., più grande di età rispetto al
marito di circa quindici anni e svolgente una propria attività lavorativa, ha impiegato, per la
realizzazione dei primi stadi di costruzione del predetto immobile, somme di denaro di cui aveva la
disponibilità, derivanti sia dalla vendita di un fondo rustico, sia dai proventi della propria attività,
sia dai risparmi della madre. La Corte territoriale ha dato altresì rilievo, al pari del primo giudice,
alla dichiarazione in data 8 novembre 1983, con cui il M. ha riconosciuto che la costruzione era
stata realizzata con i soldi della moglie.
La sentenza impugnata riposa su una motivazione congrua ed esente da vizi logici e giuridici.
Nè nel ragionamento della Corte di merito vi è traccia del mancato (o insufficiente) esame di punti
decisivi della controversia.
Condividendo la motivazione della sentenza del Tribunale, la Corte d'appello ha infatti fatto propria
la scelta del primo giudice di non includere nel novero delle risultanze processuali decisive le prove
testimoniali valorizzate dal M., perchè l'effettuazione, da parte di questo, dei pagamenti in favore
degli artigiani che realizzarono la costruzione non significa che "il denaro versato sia di proprietà di
chi effettua materialmente il pagamento".
Le censure articolate dal ricorrente si risolvono nella prospettazione di una diversa soluzione del
merito della causa e nella pretesa di contrastare apprezzamenti di fatto che sono inalienabile
prerogativa del giudice di merito e la cui motivazione al riguardo non è censurabile se - come nel
caso di specie - sufficiente ed esente da vizi logici ed errori di diritto.
4. - Il ricorso principale è rigettato.
L'esame del ricorso incidentale condizionato resta assorbito.
Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte, rivaliti i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale
condizionato; condanna il ricorrente in via principale al rimborso delle spese processuali sostenute
dalla controricorrente, liquidate in complessivi Euro 2.200,00 di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre
a spese processuali e ad accessori di legge.
Cass. civ. Sez. I, 30-09-2010, n. 20508
D.A. c. C.L.
FAMIGLIA
PROPRIETA'
Accessione
(REGIME
E
PATRIMONIALE)
CONFINI
Resta escluso dalla comunione legale l'immobile costruito, in costanza di matrimonio, sul terreno di
proprietà esclusiva di uno dei due coniugi, posto che le disposizioni sull'accessione prevalgono
sempre sulla disciplina che regola i rapporti patrimoniali dei coniugi, fatto salvo, per il coniuge non
proprietario, il riconoscimento del diritto di ripetere nei confronti dell'altro quanto eventualmente
speso per la costruzione.
FONTI
Foro It., 2011, 5, 1, 1468
Cass. civ. Sez. I, 04-08-2010, n. 18114
D.S. c. V.F.
FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE)
Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di
comunione legale, la partecipazione all'atto dell'altro coniuge non acquirente, prevista dall'art. 179,
comma 2, c.c., si pone come condizione necessaria ma non sufficiente per l'esclusione del bene
dalla comunione: occorrendo, a tal fine, non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi
della natura personale del bene - richiesto esclusivamente in funzione della necessaria
documentazione di tale natura - ma anche l'effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione
dalla comunione tassativamente indicate dall'art. 179, comma 1, lett. c), d) ed f). c.c.. Con la
conseguenza che l'eventuale inesistenza di tali presupposti può essere fatta valere con una
successiva azione di accertamento negativo, non risultando precluso tale accertamento dalla
circostanza che il coniuge non acquirente sia intervenuto nel contratto per aderirvi.
FONTI
Notariato,
2010,
Famiglia e Diritto, 2011, 5, 475 nota di FAROLFI
6,
608
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Presidente
Dott. FORTE Fabrizio - Consigliere
Dott. NAPPI Aniello - Consigliere
Dott. BERNABAI Renato - rel. Consigliere
Dott. GIANCOLA Maria Cristina - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
D.S. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE CARSO 51, presso l'avvocato
MORANDI NICOLETTA, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrente contro
V.F.;
- intimato sul ricorso 1736-2007 proposto da:
V.F. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SARDEGNA 38 presso
l'avvocato DI GIOVANNI FRANCESCO, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine
del controricorso e ricorso incidentale condizionato;
- controricorrente e ricorrente incidentale contro
D.P.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE CARSO 51, presso l'avvocato MORANDI
NICOLETTA, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso principale;
- controricorrente al ricorso incidentale avverso la sentenza n. 1424/2006 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 22/03/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/06/2010 dal Consigliere Dott.
RENATO BERNABAI;
udito, per la ricorrente, l'Avvocato NICOLETTA MORANDI che ha chiesto l'accoglimento del
ricorso principale, il rigetto dell'incidentale;
udito, per il controricorrente e ricorrente incidentale, l'Avvocato FRANCESCO DI GIOVANNI che
ha chiesto il rigetto del ricorso principale o l'accoglimento dell'incidentale;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CENICCOLA Raffaele che ha
concluso per il rigetto del ricorso principale, per l'assorbimento dell'incidentale.
CONFESSIONE
IN
MATERIA
CIVILE
FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE)
Fatto Diritto P.Q.M.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Presidente
Dott. FORTE Fabrizio - Consigliere
Dott. NAPPI Aniello - Consigliere
Dott. BERNABAI Renato - rel. Consigliere
Dott. GIANCOLA Maria Cristina - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
D.S. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE CARSO 51, presso l'avvocato
MORANDI NICOLETTA, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;
- ricorrente contro
V.F.;
- intimato sul ricorso 1736-2007 proposto da:
V.F. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SARDEGNA 38 presso
l'avvocato DI GIOVANNI FRANCESCO, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine
del controricorso e ricorso incidentale condizionato;
- controricorrente e ricorrente incidentale contro
D.P.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE CARSO 51, presso l'avvocato MORANDI
NICOLETTA, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso principale;
- controricorrente al ricorso incidentale -
avverso la sentenza n. 1424/2006 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 22/03/2006;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/06/2010 dal Consigliere Dott.
RENATO BERNABAI;
udito, per la ricorrente, l'Avvocato NICOLETTA MORANDI che ha chiesto l'accoglimento del
ricorso principale, il rigetto dell'incidentale;
udito, per il controricorrente e ricorrente incidentale, l'Avvocato FRANCESCO DI GIOVANNI che
ha chiesto il rigetto del ricorso principale o l'accoglimento dell'incidentale;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CENICCOLA Raffaele che ha
concluso per il rigetto del ricorso principale, per l'assorbimento dell'incidentale.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 10 aprile 2001 il sig. V. F. conveniva dinanzi al Tribunale di
Roma il proprio coniuge, signora D.S., con la quale era in corso il giudizio per la separazione
personale, per l'accertamento del proprio diritto di proprietà sulla quota indivisa del 50% di un
appartamento, con relativo box per automobile, sito in (OMISSIS), corso (OMISSIS), intestato solo
alla moglie benchè acquistato in regime di comunione legale.
Costituitasi ritualmente, la D. eccepiva di aver acquistato l'immobile con denaro proprio, come
emergeva dalla dichiarazione resa dallo stesso marito in sede di stipulazione dell'atto pubblico di
compravendita.
Con sentenza 12 dicembre 2002 il Tribunale di Roma rigettava la domanda, sulla base della predetta
dichiarazione, cui attribuiva valore di "testimonianza privilegiata".
In accoglimento del successivo gravame del V., la Corte d'appello di Roma con sentenza 22 marzo
2006 accertava la comunione legale sull'appartamento e relativa pertinenza.
Motivava:
- che la dichiarazione del coniuge formalmente non acquirente che assentiva all'altrui intestazione
esclusiva del bene, oggetto dell'acquisto, aveva mero valore ricognitivo, e non costitutivo, ed era
quindi efficace solo in concorso con i requisiti oggettivi di cui all'art. 179 c.c., comma 1, lett. c), d)
ed f);
- che dall'istruttoria esperita non era emersa la prova dell'origine personale della provvista
necessaria per il pagamento del prezzo, derivata dal trasferimento di beni già in proprietà esclusiva
della D. o da altrui atti di liberalità, o ancora, da risarcimento di danni in suo favore; ed anzi, vi
erano elementi di prova presuntiva in senso contrario, evincibili dal pagamento della somma di L.
40 milioni alla venditrice con assegno emesso dallo stesso V..
Avverso la sentenza, notificata il 29 settembre 2006, la signora D. proponeva ricorso per
Cassazione, articolato in quattro motivi, notificato il 24 novembre 2006.
Deduceva:
1) la violazione dell'art. 179 c.c., comma 2, e art. 2727 c.c., per avere attribuito valore presuntivo al
pagamento delle spese notarili da parte del coniuge non acquirente, senza considerare altre
spiegazioni dell'esborso, alternative alla volontà di coacquisto;
2) la contraddittorietà della motivazione, per inversione dell'onere della prova sulla provenienza del
denaro impiegato, in presenza di una espressa adesione del V. alla dichiarazione della moglie in
sede di rogito notarile;
3) la violazione dell'art. 179 c.c., comma 2, nella ritenuta insufficienza, ai fini dell'esclusione
dell'immobile acquistato dalla comunione legale, della dichiarazione confessoria del coniuge non
acquirente, revocabile solo per errore di fatto o violenza, indipendentemente dal ricorrere dei
requisiti oggettivi di cui all'art. 179 c.c., lett. c), d) e f);
4) la carenza di motivazione in ordine al punto controverso dall'appartenenza del denaro impiegato
per l'acquisto con riferimento alle asserite rimesse del coniuge sul conto corrente intestato alla D..
Resisteva con controricorso il sig. V. che proponeva, a sua volta, ricorso incidentale condizionato,
affidato a due motivi, in cui deduceva:
1) la violazione dell'art. 179, comma 1, lett. f), per l'omesso accertamento dell'inesistenza della ed.
dichiarazione di assenso, indispensabile per sottrarre l'acquisto alla comunione legale;
2) la carenza di motivazione per la mancata valorizzazione di elementi di prova emersi in istruttoria
dall'interrogatorio formale della D. sul carattere non personale del denaro utilizzato per il
pagamento del prezzo.
Entrambe le parti depositavano memorie illustrative ex art. 378 c.p.c..
All'udienza del 22 giugno 2010 il Procuratore generale e i difensori precisavano le rispettive
conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate.
Motivi della decisione
Dev'essere preliminarmente disposta la riunione del ricorso principale n. 32631 R.G. 2006 e del
ricorso incidentale n. 1.736 R.G. 2007, entrambi proposti avverso la medesima sentenza (art. 335
cod. proc. civ.).
Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione dell'art. 179 c.c., comma 2, e art. 2727 c.c..
Il motivo è inammissibile, ex art. 366 bis cod. proc. civ., per assoluta indeterminatezza del quesito
di diritto, che si limita a enunciare un principio di ordine generale, disancorato dagli elementi
concreti della fattispecie in esame ("se sia legittima la decisione assunta esclusivamente in base alla
prova per presunzione che non costituisca la conseguenza logica dei fatto noto, e in assenza dei
requisiti di gravità e concordanza rispetto al fatto ignorato, nella specie ove nell'ipotesi di cui all'art.
179 cod. civ., comma 2, il coniuge non acquirente e partecipante all'atto intenda successivamente
contestare la ricorrenza dei presupposti per l'acquisto personale").
E' appena il caso d'aggiungere, poi, che la censura si risolve in una diversa valutazione delle
circostanze apprezzate dalla Corte d'appello di Roma, volta ad introdurre un riesame del merito che
non può trovare ingresso in questo sede; anche prescindendo dal rilievo che essa è formalmente
rubricata come violazione di legge: laddove, in concreto, mira piuttosto a contestare l'impianto
argomentativo della sentenza sotto il profilo del rigore logico-consequenziale.
Con il secondo motivo si deduce la contraddittorietà della motivazione circa l'accertamento della
provenienza del denaro impiegato nella compravendita, con inversione dell'onere della prova.
Il motivo è infondato.
Ancora una volta vi è un'inesatta prospettazione della doglianza, sotto la rubrica della
contraddittorietà della motivazione, anzichè della violazione di legge (art. 2697 cod. civ.). In ogni
caso, anche se l'erroneo nomen juris non è preclusivo della disamina, riuscendo chiari, nel contesto
espositivo, contenuto e natura della censura, si osserva come il pur esatto rilievo che l'onere della
prova incombeva sul coniuge non acquirente, autore di una dichiarazione di adesione all'altrui
acquisto solitario consacrata nell'atto pubblico, resta il fatto che, al di là dell'enunciazione di
principio, la corte territoriale ha positivamente escluso, sulla base dell'interpretazione delle
deposizioni testimoniali e della praesumptio hominis tratta dal pagamento da parte del V. delle
spese notarili, che il prezzo dell'immobile fosse stato pagato con denaro appartenente alla sola D..
Accertamento riassunto nella proposizione conclusiva: "tali circostanze consentono di presumere
che, in realtà, detto appartamento sia stato pagato, quanto meno, in comune".
Con il terzo motivo si denunzia la violazione dell'art. 179 cod. civ., comma 2, nel diniego del valore
decisivo della dichiarazione del coniuge non acquirente ai fini dell'esclusione del bene acquistato
dalla comunione legale, a prescindere dall'effettiva sussistenza dei requisiti oggettivi elencati nella
norma e, nella specie, di quello indicato alla lett. f).
Il motivo è infondato.
Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di
comunione legale, la partecipazione all'atto dell'altro coniuge non acquirente, prevista dall'art. 179
cod. civ., comma 2, si pone come condizione necessaria ma non sufficiente per l'esclusione del bene
dalla comunione: occorrendo, a tal fine, non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi
della natura personale del bene - richiesto esclusivamente in funzione della necessaria
documentazione di tale natura - ma anche l'effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione
dalla comunione tassativamente indicate dall'art. 179 c.c., comma 1, lett. c), d) ed f). Con la
conseguenza che l'eventuale inesistenza di tali presupposti può essere fatta valere con una
successiva azione di accertamento negativo, non risultando precluso tale accertamento dalla
circostanza che il coniuge non acquirente sia intervenuto nel contratto per aderirvi (Cass. sez. unite,
28 Ottobre 2009, n. 22755).
Nè si può assegnare alla dichiarazione del V., verbalizzata nell'atto pubblico di compravendita e
riportata per esteso nel presente ricorso, valore di confessione di un fatto storico (pagamento del
prezzo con il ricavato del trasferimento di beni personali della D.): come tale, revocabile
successivamente solo per errore di fatto o violenza (art. 2732 cod. civ.), secondo l'insegnamento
delle sezioni unite, nella sentenza sopra citata.
L'espressione adottata ("L'acquirente dichiara di effettuare il presente acquisto con suo denaro
personale, come conferma il di lei consorte, signor V.F. al presente atto appositamente intervenuto
ai sensi dell'art. 179 c.c. ... pertanto gli immobili in oggetto costituiscono beni personali della sola
signora D. S., non facendo parte della comunione legale dei beni vigente tra essi coniugi") non fa
puntuale riferimento al fatto costitutivo del preteso diritto esclusivo della D. sul denaro utilizzato
per il pagamento: e cioè, ad una delle tipologie di beni personali descritte nelle lett. a, b, c, d, e) testualmente richiamate nella fattispecie di cui all'art. 179 c.c., lett. f), pertinente al caso in esame dalla cui vendita (o dal cui scambio) abbia tratto origine la provvista utilizzata per l'acquisto
esclusivo.
Definire sic et simpliciter personale il denaro con cui si è adempiuta l'obbligazione del prezzo non
identifica un fatto, bensì esprime una qualificazione giuridica; come tale, insuscettibile di
confessione, oltre che non vincolante per l'interprete, potendo anche discendere da un errore di
diritto del dichiarante.
Con l'ultimo motivo la ricorrente deduce la carenza di motivazione in ordine al punto controverso
dall'appartenenza del denaro impiegato per l'acquisto.
Anche questo motivo è infondato.
E' irrilevante la circostanza, valorizzata a sostegno della censura, che il prezzo dell'immobile sia
stato pagato con denaro proveniente dal conto corrente intestato alla sola D., dal momento che il
presupposto oggettivo richiesto dall'art. 179, comma 1, lett. f) è, come sopra chiarito, che esso
traesse origine dal prezzo di trasferimento di beni personali: restando, per contro, irrilevante che
costituisse risparmio derivante da reddito da lavoro, in costanza di matrimonio, stante il principio
solidaristico di pari valore degli apporti, immanente al regime di comunione legale dei beni tra
coniugi.
Ciò premesso in sede dogmatica, si osserva poi in punto di fatto che la corte territoriale ha escluso
che dalle prove raccolte fosse rimasto confermata la versione della D. secondo cui la provvista per
l'acquisto immobiliare costituiva oggetto di donazione da parte dei suoi genitori.
Si tratta di un accertamento di fatto, sorretto da adeguata motivazione, sulla base di un
apprezzamento critico delle deposizioni testimoniali raccolte, insuscettibile di sindacato di merito in
questa sede.
Il ricorso principale deve essere quindi rigettato, assorbito il ricorso incidentale condizionato del V..
L'incertezza oggettiva della fattispecie concreta, dovuta anche alla dichiarazione di tenore ambiguo
resa dal coniuge non acquirente in sede di stipulazione del contratto di compravendita, giustifica
l'integrale compensazione delle spese della fase di legittimità.
P.Q.M.
- Riunisce i ricorsi;
- rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale e compensa le spese di giudizio;
- dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri
dati significativi, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52 (Codice in materia di
protezione dei dati personali).
Cass. civ. Sez. II, 05-03-2010, n. 5424 (rv. 611877)
Barbarulo e altri c. Min. Giustizia e altri
La disciplina della comunione legale tra coniugi è animata dall'intento di tutelare la famiglia
attraverso una specifica protezione della posizione dei coniugi che si manifesta, a norma dell'art.
177, primo comma, lettera a), cod. civ., nel regime dell'attribuzione comune degli acquisti compiuti
durante il matrimonio. Tale finalità di protezione è del tutto assente nell'ipotesi in cui i beni
acquistati - astrattamente riconducibili al regime della comunione legale - abbiano una provenienza
illecita; pertanto, ove il giudice penale abbia sottoposto a confisca, ai sensi dell'art. 2-ter della legge
31 maggio 1965, n. 575, beni di persona sottoposta a procedimento di prevenzione per sospetta
appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, il coniuge non può invocare la disciplina della
comunione legale per sottrarre determinati beni alla predetta misura, salvo che dimostri di aver
contribuito all'acquisto con proprie disponibilità frutto di attività lecite. (Rigetta, App. Salerno,
19/11/2003)
FONTI
CED
Cassazione,
2010
Famiglia
e
Diritto,
2010,
6,
606
Famiglia e Diritto, 2010, 11, 1009 nota di ANTONUCCIO
8
COMUNIONE LEGALE E SUCCESSIONE DEL CONIUGE
di Antonio Albanese
(Paragrafi estratti dalla monografia Delle successioni legittime, in Cod. civ. Comm., fondato
da P. Schlesinger e dir. da F.D. Busnelli, Giuffrè, Milano, 2012).
1. L'incidenza, sulla vocazione legittima, del regime di comunione legale tra coniugi.
La comunione legale fra i coniugi, come regolata dagli artt. 177 ss. c.c., costituisce un
istituto che prevede uno schema normativo non finalizzato, come quello della comunione ordinaria
regolata dagli artt. 1100 ss. c.c., alla tutela della proprietà individuale, ma alla tutela della famiglia
attraverso particolari forme di protezione della posizione dei coniugi nel suo ambito, con speciale
riferimento al regime degli acquisti.
L’autonomia privata in ambito familiare ha visto aprirsi nuovi spazi dopo che la Riforma del
’75 ha introdotto la regola dell’accordo dei coniugi quale elemento centrale della disciplina della
famiglia, in ottemperanza ad un’esigenza primaria della stessa Riforma: quella di assicurare la
partecipazione paritaria dei coniugi all’amministrazione dei beni comuni, in aderenza al principio
costituzionale della “eguaglianza morale e giuridica dei coniugi” (art. 29 Cost.).
Le convenzioni patrimoniali stipulate in vita tra i coniugi hanno evidenti riflessi sugli assetti
successori, perché comportano che alla parte di patrimonio attribuito al superstite in via successoria
possa andare ad aggiungersi una parte ulteriore di beni. Inoltre, nel caso di morte di un coniuge, è
naturale pensare che i coniugi abbiano già, in certa misura, regolato in anticipo i riflessi di ordine
patrimoniale che quell’evento produce sugli assetti familiari.
Non è un caso, d'altronde, se un importante sistema successorio straniero, come quello
contenuto nel BGB, abbia espressamente previsto un coordinamento tra trasmissione mortis causa e
regime patrimoniale dei coniugi: il legislatore tedesco, infatti, non si è limitato all'applicazione delle
regole della successione intestata nel caso di separazione o di comunione dei beni (par. 1414 BGB),
ma ha anche previsto per il regime di comunione nella partecipazione agli acquisti
(Zugewinngemeinschaft) che il congiunto riceva la metà della successione (par. 1931 coordinato al
par. 1371 BGB) se concorre con eredi della prima classe ed i tre quarti se concorre con eredi della
seconda (31).
Si noti, peraltro, che esiste, anche nel nostro sistema, la possibilità di piegare a fini
successori l'autonomia conferita in ambito patrimoniale coniugale, ad esempio attraverso un uso
accorto del regime di partecipazione “differita” incarnato dalla c.d. comunione de residuo, la quale
comprende, come noto, nell'oggetto nella comunione determinati beni a patto che sussistano ancora
al momento dello scioglimento della comunione, momento, quindi, che può essere quello della
morte. Infatti, il «coniuge che volesse arricchire l’altro, con effetto dal verificarsi della propria
morte, potrebbe accantonare i frutti dei beni propri e i proventi della propria attività separata (art.
177 lett. b e c) e, precostituendo la prova della loro provenienza, disporre per testamento della metà
di essi e di quella dei beni destinati all’esercizio della propria impresa o degli incrementi di questa
costituita prima della comunione (art. 178)» (32).
Alcuni beni trasferiti attraverso l’operare delle convenzioni matrimoniali sono ritenuti
oggetto di donazioni indirette, e, come tali, rientrano nella massa ereditaria eventualmente
conseguente alla delazione legittima per effetto della collazione: si pensi alla costituzione da parte
di uno dei coniugi di beni in fondo patrimoniale, e all’acquisto di beni effettuato da un coniuge
mediante alienazione di beni personali ma con attribuzione alla comunione legale.
Quanto al fondo patrimoniale, è nota la sua natura di patrimonio separato destinato a « far
fronte ai bisogni della famiglia » (art. 167, 1° c., c.c.). Questo scopo, che coinvolge non solo i beni
costituiti in fondo ma anche i loro frutti (art. 168, cpv., c.c.) impedisce che gli atti dispositivi
possano essere liberamente compiuti, e spiega perché l’art. 169 c.c., rubricato «alienazione dei beni
del fondo», distingua tra differenti ipotesi e imponga determinate garanzie (33). La costituzione del
31
ZOPPINI, Le successioni in diritto comparato, in Tratt. dir. comparato, dir. da R.
Sacco, Torino, 2002, p. 63 s.
32
PALAZZO, Attribuzioni patrimoniali tra vivi e assetti successori per la trasmissione
della ricchezza familiare, in La trasmissione familiare della ricchezza. Limiti e prospettive di
riforma del sistema successorio, Padova, 1995, p. 69. V. anche BURDESE, Se, scioltosi il
matrimonio e venuto meno il regime di comunione legale tra coniugi per morte di uno di loro, il
regolamento della cosiddetta comunione de residuo trovi applicazione in concorso con la disciplina
delle successioni, e in caso affermativo come quest'ultima si coordini col primo, in Questioni di
diritto patrimoniale della famiglia, Padova, 1989.
33
Precisamente, l’art. 169 c.c. sancisce che, se non è stato espressamente consentito
nell’atto di costituzione, non si possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare
beni del fondo patrimoniale senza il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori, con
l’autorizzazione concessa dal giudice, con provvedimento emesso in camera di consiglio, nei soli
casi di necessità od utilità evidente. La norma va coordinata con il terzo comma dell’art. 168 c.c.,
fondo patrimoniale potrebbe concretizzare una liberalità in favore del coniuge tutte le volte in cui i
beni, costituiti in fondo da un solo coniuge, siano attribuiti anche all’altro al momento dello
scioglimento del fondo medesimo. Inoltre, sebbene questo profilo sia stato generalmente trascurato
in dottrina (mentre la prassi, come noto, ha apprezzato l’istituto a fini prevalentemente “ elusivi ”
delle pretese dei creditori), si tratta di uno strumento idoneo ad attuare « un trasferimento di
ricchezza (...) abbinato alla soddisfazione dei bisogni della famiglia, sì da assicurare, al di là della
morte, il mantenimento o la formazione educativa e professionale ». Quanto detto acquista
particolare valore in presenza di figli minori, giacché in tal caso alla cessazione del matrimonio non
corrisponde la cessazione del vincolo sui beni, con la conseguenza che, sia nell’ipotesi di
trasferimento del diritto di proprietà sia in quella della costituzione di un diritto di godimento, « vi è
il trasferimento di una ricchezza destinato a durare, nel suo vincolo di scopo, ben al di là nel tempo
» (34).
È da escludere che il regime della collazione, alla morte di un coniuge, obblighi l’altro a
conferire quanto conseguito per effetto della comunione legale: sebbene, in astratto, anche
un’attribuzione realizzata attraverso effetti legali possa rientrare nel concetto di donazione indiretta,
nella specie una tale soluzione confliggerebbe con lo stesso fondamento del regime patrimoniale
legale. Questo ragionamento cade, però, se l’arricchimento del coniuge superstite non è
direttamente prodotto dalla legge ma è imputabile al coniuge defunto, nel senso che l’ingresso del
bene in comunione è dipeso da una sua scelta: è, questo, il caso degli acquisti fatti con il prezzo del
trasferimento dei beni personali di un coniuge o con il loro scambio, i quali sono esclusi dalla
comunione solo se l’acquirente dichiara la provenienza personale del bene utilizzato per lo scambio
(art. 179 c.c.). In mancanza di questa dichiarazione, che è rimessa alla libera scelta del coniuge
che rinvia alle norme sulla comunione legale per la regolamentazione dell’amministrazione dei beni
costituenti il fondo patrimoniale. Il rapporto tra le due norme si presta a diverse interpretazioni, ma
la corretta applicazione della lettera dell’art. 169 c.c., la quale non distingue tra amministrazione
ordinaria e straordinaria, rende operative tutte le norme relative all’amministrazione della
comunione legale (artt. 180–185 c.c.) per ogni tipo di atti, salvo che per gli atti enunciati all’art. 169
c.c. Quella del fondo patrimoniale è pertanto un’amministrazione speciale, modellata su quella della
comunione legale, ma che se ne differenzia per gli atti che maggiormente distoglierebbero i beni
dalla loro precipua destinazione.
Prima della Riforma del diritto di famiglia, l’alienazione dei beni costituenti il patrimonio
familiare era sottoposta a una disciplina ancora più rigorosa: l’art. 170 c.c., testo originario,
richiedeva sempre l’autorizzazione del tribunale, che la consentiva solo per necessità o utilità
evidente, disponendo le modalità di reimpiego del prezzo. Sul rapporto tra vecchio art. 170 c.c. e
nuovo art. 169 c.c. v. Corte Cost., 24 gennaio 1992, n. 18, in Giur. cost., 1992, p. 93, in Giust. civ.,
1992, p. 859, in Giur. it., 1992, I, 1, c. 1404, in Dir. fam. pers., 1992, p. 497.
34
ORRICO, Il fondo patrimoniale: un istituto da valorizzare, in La trasmissione
familiare della ricchezza. Limiti e prospettive di riforma del sistema successorio, Padova, 1995, p.
196.
acquirente, il bene cade in comunione, con conseguente arricchimento a favore dell’altro coniuge: il
quale, pertanto, all’apertura della successione sarà obbligato a conferire il bene, per la sua quota, in
collazione (35).
Vanno altresì ricordate le norme che fanno diretto riferimento alla successione o agli eredi.
L'art. 179 c.c. nell'escludere dalla comunione i beni acquisiti da uno dei coniugi per
successione, fa salva l'ipotesi che essi siano stati attribuiti, per testamento, alla comunione legale
(36).
L'art. 195 c.c. stabilisce il diritto non solo dei coniugi, ma anche dei loro eredi, nella
divisione, «di prelevare i beni mobili che appartenevano ai coniugi stessi prima della comunione o
che sono ad essi pervenuti durante la medesima per successione o donazione. In mancanza di prova
contraria si presume che i beni mobili facciano parte della comunione» (37). E le due norme
successive aggiungono che «Se non si trovano i beni mobili che il coniuge o i suoi eredi hanno
diritto di prelevare a norma dell'articolo precedente essi possono ripeterne il valore, provandone
l'ammontare anche per notorietà, salvo che la mancanza di quei beni sia dovuta a consumazione per
uso o perimento o per altra causa non imputabile all'altro coniuge» (art. 196 c.c.). E che «Il
prelevamento autorizzato dagli articoli precedenti non può farsi, a pregiudizio dei terzi, qualora la
proprietà individuale dei beni non risulti da atto avente data certa. È fatto salvo al coniuge o ai suoi
eredi il diritto di regresso sui beni della comunione spettanti all'altro coniuge nonché sugli altri beni
di lui» (art. 197 c.c.).
Non va poi sottaciuta l'incidenza, sugli assetti successori futuri, del regime di
amministrazione dei beni.
Tradizionalmente, nello scorso secolo, esistevano due sistemi di gestione della ricchezza
35
BIANCA, Comunione legale e collazione, in Vita not., 1981, I, p. 805 ss.
In tema: ZUDDAS, L'acquisto dei beni pervenuti al coniuge per donazione o
successione, in La comunione legale, a cura di Bianca, Milano, 1989; SALANITRO, Comunione
legale tra i coniugi e acquisti per donazione o successione, in Familia, 2003, p. 369.
Si noti che, ex art. 188 c.c., i beni della comunione (salvo quanto disposto nell'articolo 189
c.c.) non rispondono delle obbligazioni da cui sono gravate le donazioni e le successioni conseguite
dai coniugi durante il matrimonio e non attribuite alla comunione.
37
In tema di comunione legale tra coniugi, poiché l'art. 195 (ultima parte) — il quale
prevede, con riguardo al prelevamento dei beni mobili nell'ambito della divisione dei beni della
comunione, che, in mancanza di prova contraria, si presume che i beni mobili facciano parte della
comunione — non richiede una prova qualificata, è sufficiente, per rovesciare la presunzione, una
prova libera, e quindi anche una prova testimoniale o indiziaria. Tale sistema probatorio, pur se
dettato per disciplinare la divisione tra i coniugi (o i loro eredi) di beni ad essi appartenenti prima
della comunione o ad essi pervenuti durante la medesima per successione o donazione, ha carattere
generale, sicché è applicabile anche quando debba giudicarsi, nei rapporti tra i coniugi (rispetto ai
terzi vale, invece, la regola prevista dall'art. 197), se determinati beni siano di proprietà esclusiva di
uno di essi o siano in comunione (nella specie, tale accertamento aveva per oggetto titoli azionari
nell'ambito di un procedimento di separazione personale) (Cass., 18 agosto 1994, n. 7437, cit.).
36
all'interno della famiglia nucleare, entrambi fondati sul presupposto di una netta divisione del
lavoro fra i due coniugi e di una forte asimmetria di potere fra marito e moglie. Con il primo, detto
“ad assegnazione periodica”, il marito dava una parte delle entrate alla moglie, la quale se ne
serviva per le spese quotidiane necessarie a mandare avanti la casa. Con il secondo, detto “a salario
completo”, più frequente nelle famiglie con basso reddito, il marito tratteneva il denaro per le sue
spese personali e dava tutta la somma restante alla moglie, affinché la amministrasse (38).
Nell'ultimo ventennio del Novecento, il sistema più diffuso divenne la gestione congiunta:
marito e moglie formano con i loro redditi una cassa comune, alla quale hanno entrambi libero
accesso per le spese familiari e personali (39). A seguito dell'aumento dei livelli di istruzione e di
reddito delle donne, nell'ultimo periodo, si è diffuso anche il sistema a gestione indipendente: i
redditi rimangono separati e ciascuno dei coniugi provvede per proprio conto alle esigenze familiari
e personali.
Tratto comune di tutti gli enunciati sistemi è la struttura monogamica della famiglia, alla
quale, nella tradizione del pensiero occidentale, si lega indissolubilmente la necessità del
trasferimento in via ereditaria della ricchezza, tanto che, a volte, il rapporto è stato rovesciato nel
senso di attribuire allo stesso diritto successorio la nascita della monogamia (40). I sistemi di
38
BARBAGLI e KERTZER, in AA.VV., Storia della famiglia in Europa. Il novecento, a
cura di M. Barbagli e D.I. Kertzer, Roma-Bari, 2005, p. 16 s.: «Nelle famiglie in cui dominava il
primo sistema succedeva spesso che il marito controllasse come venivano spesi i soldi dalla moglie,
mentre questa non aveva informazioni precise sull'ammontare e sulle fonti del reddito che entrava
in casa. In quelle dove vigeva il sistema a salario completo, l'incarico di gestire il poco denaro era
affidato alla moglie perché questo compito era fonte non di potere, ma di problemi e
preoccupazioni».
39
BARBAGLI e KERTZER, in AA.VV., Storia della famiglia in Europa. Il novecento,
cit., p. 17: «Coloro che usano questo sistema si rifanno ai valori della reciprocità e dell'altruismo e
ritengono che il denaro non appartenga a chi lo ha guadagnato, ma sia patrimonio comune della
famiglia».
40
Per un'immagine dell'accoglienza, poi, di questa idea tra i pensatori, basti pensare
alla contrapposizione radicale tra Hegel ed Engels. Per il primo (HEGEL, Lineamenti di filosofia del
diritto, cit., § 167), «Il matrimonio, ed essenzialmente la monogamia, è uno dei princìpi assoluti su
cui si fonda l'eticità di una comunità». Per il secondo (F. ENGELS, L'origine della famiglia della
proprietà privata e dello Stato, prima ed. 1884, trad. it. di D. Della Terza, a cura di F. Codino,
Roma, 2005, p. 102), «La monogamia sorse dalla concentrazione di grandi ricchezze nelle stesse
mani, e precisamente in quelle di un uomo, e dal bisogno di lasciare queste ricchezze in eredità ai
figli di questo uomo e di nessun altro». Engels quindi auspicava l'eliminazione della famiglia
monogamica in quanto unità economica della società (p. 101). Tale eliminazione avrebbe portato
con sé la scomparsa del fenomeno ereditario (p. 102): «Poiché dunque la monogamia è sorta da
cause economiche, scomparirà se queste cause scompaiono». E ancora (p. 103): «Col passaggio dei
mezzi di produzione in proprietà comune, la famiglia singola cessa di essere l'unità economica della
società. L'amministrazione domestica privata si trasforma in un'industria sociale. La cura e
l'educazione dei fanciulli diventa un fatto di pubblico interesse; la società ha cura in egual modo di
tutti i fanciulli, legittimi e illegittimi».
ripartizione della ricchezza in vita e quelli inerenti la gestione dei beni, ad ogni modo, non sono
calibrati alla disciplina legale delle attribuzioni mortis causa. E ciò può comportare gravi iniquità,
in specie nel concorso tra coniuge e figli.
Ebbene, il sistema di amministrazione dei beni approntato per i coniugi in comunione legale
ha un riflesso indiscusso, anche se poco studiato in dottrina, sul futuro regime successorio. Si tratta
di un sistema che tenta di contemperare un’esigenza primaria della Riforma del diritto di famiglia,
che era quella di assicurare la partecipazione paritaria dei coniugi alla gestione dei beni comuni, con
l’esigenza di non creare eccessivi intralci all’attività di godimento e di uso dei beni ricadenti nella
comunione.
Il contemperamento, come noto, è stato attuato attraverso la distinzione tra amministrazione
ordinaria e amministrazione straordinaria: il primo comma dell’art. 180 c.c., al fine di snellire lo
svolgimento delle operazioni più ricorrenti nella quotidianità, stabilisce che l’amministrazione dei
beni della comunione e la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa relativi spettano
disgiuntamente ad entrambi i coniugi. Il secondo comma norma cit., per converso, in sintonia con
una concezione egualitaria del rapporto di coppia, garantisce il controllo reciproco dei coniugi, a
garanzia di una gestione più oculata, per gli atti di maggior rilievo. Il compimento degli atti
eccedenti l’ordinaria amministrazione, nonché la stipula dei contratti con i quali si concedono o si
acquistano diritti personali di godimento e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni,
spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi.
Imponendo la previa valutazione di entrambi i coniugi sull’opportunità degli atti più
importanti, e la loro convergenza sulla soluzione positiva, l’art. 180 c.c. non prende minimamente
in considerazione gli effetti che questo vincolo può avere sulla predisposizione successoria o
viceversa. A ciascun coniuge, infatti, è consentito di opporsi alla alienazione di un bene, a sua
tempo acquistato dall’altro (e non rientrante tra i beni personali) al solo scopo di vedere quel bene,
in futuro, ricadere nella successione del partner. E questa stessa ragione, speculativa sulla morte
altrui, può fondare la decisione del coniuge, non intestatario formale di un bene immobile o mobile
registrato, di agire in giudizio per l’annullamento del contratto stipulato dall’altro (art. 184 c.c.).
(41). Il coniuge, solo per tale sua qualità, diviene automaticamente comproprietario del bene anche
41
La previsione dell’azione di annullamento, quale rimedio fornito al coniuge
contrario all’atto, è stata al centro di un ampio dibattito, non del tutto sopito, perché giudicata in
contrasto sia con i principi generali della relatività del contratto sia con lo spirito della riforma, che
reclamerebbe una maggiore tutela per il coniuge debole. Infatti, il contratto non dovrebbe poter
produrre alcun effetto nei confronti dell’altro coniuge, che rispetto ad esso si pone come terzo. Il
rimedio dell’annullamento, d’altronde, è solitamente concesso a tutela di chi è stato parte del
contratto, non invece rispetto a chi, come nella specie, non dovrebbe subirne alcuna conseguenza,
salvo quella derivante dall’acquisto a non domino di bene mobile ad opera del terzo contraente di
se questo è stato acquistato esclusivamente dall'altro ed egli non ha partecipato all'acquisto: se, ad
esempio, la moglie non acconsente alla vendita di un bene caduto in comunione che era stato
acquistato col denaro del marito, ed eventualmente domanda l’annullamento della vendita
comunque effettuata dal marito, il profilo successorio interviene con riferimento alla quota del
marito; perché l’altra quota è già acquisita al patrimonio della moglie. Questa, quindi, potrebbe
essere spinta ad un atteggiamento ostruzionistico dal solo fine di conservare, per il futuro, il diritto
ereditario anche sull’altra metà, e quindi sulla totalità del bene.
Si tratta di un comportamento unilaterale funzionalmente analogo a quello sanzionato dal
divieto dei patti successori dispositivi o rinunciativi (i quali, si badi, possono avere anche struttura
unilaterale), perché il bene alienato è considerato dal coniuge non alienante come entità di una
futura successione. Come avviene negli atti dispositivi e rinunciativi, si tratta di un’azione che
contrasta con l’esigenza morale, socialmente diffusa, di evitare speculazioni sulla vita del de cuius,
desiderandone la morte (c.d. votum captandae mortis).
E tuttavia, la legge non considera questo profilo psicologico del coniuge che agisce in
annullamento, che peraltro sarebbe di ardua dimostrazione. Non resta che prendere atto, allora, che
il legislatore ha concepito la facoltà di disporre dei beni della comunione legale quale potere che
inerisce per l’intero a ciascun coniuge disgiuntamente, ma ha ritenuto di limitare questo potere
prescrivendo il necessario consenso dell’altro coniuge; il quale, attraverso la domanda di
annullamento, fa valere in giudizio il suo diritto alla partecipazione alla vita familiare, violato dal
buona fede. Né la concessione di un’azione di annullamento potrebbe trovare più razionale
spiegazione se si ritenesse che la comunione legale è, essa stessa, un soggetto di diritti: anche in
questo caso l’atto compiuto dal non legittimato non dovrebbe essere efficace nei confronti della
comunione. La soluzione legislativa più adeguata sarebbe stata, pertanto, l’inefficacia del contratto
concluso senza il necessario consenso dell’altro coniuge.
Secondo altra tesi i coniugi sarebbero solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto i
beni della comunione. Nei rapporti con i terzi ciascun coniuge avrebbe il potere di disporre dei beni,
perché il consenso dell’altro non lo costituisce, ma solo rimuove un limite al suo esercizio, essendo
così requisito di regolarità per la formazione dell’atto di alienazione, la cui mancanza si traduce in
un vizio dell’atto stesso. Il terzo acquisterebbe pertanto a domino, ma con titolo viziato e quindi
annullabile, con conseguenze anche sul piano processuale, per assenza di litisconsorzio necessario,
attesa la solidarietà. In tal modo, però, sembra quasi che i beni siano di proprietà della comunione,
intesa come società civile e non commerciale, e, in analogia con l’art. 2266, solo amministrati dai
coniugi. Sennonché, il nostro ordinamento non conosce una titolarità solidale di diritti, analoga a
quella della proprietà collettiva romana. Essa non sarebbe nemmeno assimilabile alla comunione a
mani riunite di tipo germanico, la cui disciplina è comunque diversa da quella della comunione
legale, che non dà vita ad un patrimonio di destinazione o separazione, come si desume dagli artt.
186 d), 189.
La Corte costituzionale ha respinto con decisione ogni sospetto di incostituzionalità della
norma: v. Corte Cost., 17 marzo 1988, n. 311, in Giust. civ., 1988, I, p. 1388, con nota di Natucci;
in Vita not., 1988, p. 640; in Riv. notar., 1988, p. 1306.
comportamento del partner (42).
Analoghe considerazioni possono farsi per la previsione di cui al terzo comma dell’art. 184
c.c., relativa ai beni mobili, in base alla quale gli atti straordinari compiuti senza il necessario
consenso e aventi ad oggetto questi beni, sono a tutti gli effetti validi ed efficaci, anche nei confronti
dei terzi contraenti di mala fede, comportando soltanto una regolamentazione interna tra i coniugi
(43). Il coniuge che ha compiuto l’atto può essere obbligato dall’altro, con una domanda non
necessariamente giudiziale, ad una reintegrazione in forma specifica, vale a dire a recuperare i beni
alienati; se ciò non è possibile, la reintegrazione avverrà per equivalente, attraverso il pagamento di
una somma di denaro attualizzata al valore della moneta al momento della ricostituzione della
comunione.
Il problema qui enunciato non è del tutto risolto dal fatto che l’art. 181 c.c. prevede, per il
caso che uno dei coniugi rifiuti il consenso, che l'altro coniuge possa rivolgersi al giudice per
ottenere l'autorizzazione allo scopo di compiere l’atto da solo senza timore di future impugnative ex
art. 184 c.c. da parte dell’altro coniuge. L’atto può essere autorizzato, infatti, soltanto se necessario
42
Recentemente, infatti, la Corte Suprema ha espressamente richiamato le motivazione
della sent. n. 311 del 1988 della Consulta, ribadendo che «la comunione legale dei beni tra i
coniugi, a differenza da quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono
solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è
ammessa la partecipazione di estranei. Ne consegue che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge,
mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell'intero bene comune,
ponendosi il consenso dell'altro coniuge (richiesto dal comma 2 dell'art. 180 c.c. per gli atti di
straordinaria amministrazione) come un negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite
all'esercizio del potere dispositivo sul bene e che rappresenta un requisito di regolarità del
procedimento di formazione dell'atto di disposizione, la cui mancanza (ove si tratti di bene
immobile o di bene mobile registrato) si traduce in un vizio da far valere nei termini fissati dall'art.
184 c.c.» (Cass. 14 gennaio 1997, n. 284, in Fam. e dir., 1997, p. 285. Nella specie, un soggetto,
prima dell'entrata in vigore della l. n. 151 del 1975, aveva promesso in vendita un appartamento che
non era ancora entrato nella sua proprietà. Verificatosi l'acquisto della proprietà alcuni anni dopo,
quando era ormai in vigore il nuovo regime patrimoniale tra i coniugi, il promissario acquirente
aveva convenuto in giudizio il solo promittente per ottenere, ex art. 2932 c.c., l'esecuzione in forma
specifica del contratto. Il giudice del merito, in secondo grado, dichiarava trasferita al promissario
acquirente soltanto la metà della proprietà dell'immobile, ossia quella spettante al promittente, e non
anche l'altra metà spettante al suo coniuge non consenziente al trasferimento. La S.C., in
applicazione dell'enunciato principio, ha dichiarato la nullità delle sentenze di entrambi i gradi ed ha
rinviato la causa al primo giudice, rilevando che era stata omessa l'integrazione del contraddittorio
nei confronti del coniuge del promittente venditore, la cui posizione era inevitabilmente coinvolta in
una controversia che doveva avere ad oggetto l'immobile nel suo intero, stante l'inconcepibilità
dell'ingresso di estranei nella comunione e la conseguente impossibilità di trasferimento della sola
quota del coniuge promittente).
43
Contra, ma con posizione minoritaria: CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia,
in Trattato di dir. civ. e comm., fondato da A. Cicu e F. Messineo, VI, 2, Milano, 1984, p. 144 ss.,
secondo il quale la norma trova attuazione soltanto nei casi in cui il bene è definitivamente
acquistato dal terzo per effetto della regola «possesso vale titolo» ex art. 1153 c.c.; BIANCA, Diritto
civile. 2. La famiglia. Le successioni, cit., p. 113.
nell’interesse della famiglia o dell’azienda di cui alla lett. d dell’art. 177 c.c., non rilevando l’utilità.
Altra circostanza che, sotto il profilo funzionale, ricorda una deroga ai patti successori, è la
possibilità – ricavabile dal primo comma, lett. b) dell’art. 179 c.c. e dal 2° comma dell’art. 210 c.c.
– di attribuire alla comunione fra coniugi i futuri beni acquistati per successione mortis causa.
2. Segue. L’ampliamento del lascito al coniuge per effetto del regime patrimoniale
legale.
Lo scioglimento della comunione legale, correlato al verificarsi di una delle cause indicate
nell'art. 191 c.c., implica, oltre alla caducazione del regime di comunione legale per i rapporti
giuridici successivi, la permanenza, per quanto attiene ai rapporti anteriori già ricadenti nella
comunione legale, dello stato di contitolarità indivisa dei diritti sui beni comuni, senza ultrattività
della disciplina della comunione legale e con la sostituzione ad essa della disciplina della
comunione ordinaria (44).
In caso, pertanto, di apertura della successione legittima del coniuge che ha effettuato
l'acquisto (purché di beni non ricadenti tra quelli personali elencati dall'art. 179 c.c.), il coniuge che
gli sopravvive si troverà nella titolarità di una metà indivisa del bene per effetto dell'acquisto
automatico alla comunione legale, mentre, nell'altra metà, se concorre, ad esempio, con un solo
figlio, succederà per un mezzo, con la conseguenza che sarà proprietario del bene per ¾, mentre i
diritti del figlio saranno limitati ad un quarto. Se, poi, il bene in questione fosse la casa coniugale, in
aggiunta alla suddescritta quota di piena proprietà il coniuge vanterebbe i diritti di abitazione e di
44
Mentre è indiscusso che sia, agli effetti dell’art. 191 c.c., irrilevante la separazione di
fatto, diverse tesi sono state avanzate in giurisprudenza a proposito del momento a partire dal quale
la comunione legale si scioglie. Una prima tesi vuole che gli effetti risalgano al momento della
proposizione della domanda; altra soluzione fa discendere lo scioglimento della comunione
dall'emissione del provvedimento interinale ex art. 708 c.p.c. che autorizza i coniugi a vivere
separati. La soluzione, infine, che prevale tra i giudici (v. ad es., ora, Cass., 26 febbraio 2010, n.
4757) fa valere il principio generale sancito dall'art. 2909 c.c., secondo il quale la sentenza produce
i suoi effetti dal momento in cui passa in giudicato. Questo indirizzo, nel richiedere la necessità del
passaggio in giudicato, afferma di regola che la declaratoria di scioglimento della comunione non
possa essere richiesta antecedentemente alla formazione del giudicato sulla separazione dei coniugi,
e che la domanda in tale senso, eventualmente formulata prima di tale data, debba essere dichiarata
improponibile: il passaggio in giudicato della sentenza di separazione è quindi configurato come un
presupposto processuale. Fa eccezione, però, la sentenza del 2010 da ultimo citata, la quale ha
appunto esaminato la questione «se sia proponibile la domanda di scioglimento della comunione
legale ove, all'atto introduttivo del relativo giudizio, fosse ancora pendente la causa di separazione
personale, ma il passaggio in giudicato della relativa sentenza sia intervenuto anteriormente alla
decisione di primo grado sulla domanda stessa»; ed ha modificato il precedente orientamento,
ritenendo che il passaggio in giudicato della sentenza di separazione (o l'omologa) non costituisca
un presupposto processuale, bensì una condizione dell'azione.
uso di cui al 2° comma art. 540 c.c.
Si pensi, poi, all’ipotesi che, vigendo il regime di comunione legale, siano intestati ad uno
solo dei coniugi contratti di conto corrente o depositi bancari: anche il denaro depositato in un
istituto bancario resta oggetto della comunione in via di presunzione assoluta ai sensi degli artt. 177
e 195 c.c., e ciò sia che provenga dall'attività di uno solo dei coniugi sia che provenga dalle singole
attività di ciascuno di essi.
Inoltre, la portata di questo fenomeno diviene ancora maggiore seguendo un indirizzo
giurisprudenziale che tende ad ampliare l’oggetto della comunione legale, facendo entrare negli
“acquisti” di cui all’art. 177 c.c. anche i crediti (45).
In proposito, l'orientamento tradizionale ha sempre escluso l'ingresso dei crediti nella
comunione legale, perché si è ritenuto che il termine “acquisti” di cui all’art. 177, lett. a), c.c.,
riguardi gli atti implicanti l’effettivo trasferimento della proprietà della res o la costituzione di diritti
reali sulla medesima, non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i
quali per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali rispetto all'acquisizione di una
res, non sono suscettibili di cadere in comunione (46).
Sul punto, invero oggetto di fermento dottrinale e giurisprudenziale, una direzione opposta è
stata presa, però, da un’importante pronuncia nel 2007 (47), secondo cui anche i crediti — così come
45
In dottrina, sullo specifico problema dei rapporti tra diritti di obbligazione e regime
di comunione legale dei beni, v.: LEMMI, Comunione legale e vendita obbligatoria (sul concetto di
acquisti ex art. 177, lett. a) c.c.), in Giur. it. 1989, IV, c. 428; SANTARSIERE, Acquisizione per legge
alla comunione legale di bene promesso in vendita, in Arch. civ., 1988, p. 1193; VITUCCI, I diritti di
credito, in La comunione legale, a cura di C.M. Bianca, I, Milano 1989, p. 33; DE MARZO, Acquisto
in comunione ordinaria da parte di coniugi in regime di comunione legale, in Fam. e dir. 2003, p.
533; FINELLI, Un atteso revirement della Cassazione: i diritti di credito ricadono nella comunione
legale degli acquisti ex art. 177, comma 1, lett. a) c.c., in Corr. giur., 2008, p. 957; RIMINI, Cadono
in comunione i diritti di credito acquistati durante il matrimonio?, in Fam. e dir., 2008, p. 5;
RINALDI, Preliminare di vendita, diritti di credito: la problematica individuazione dell'oggetto della
comunione legale, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, p. 320; RIVA, Comunione legale tra coniugi e
diritti di credito, in Giur. it., 2008, p. 851; SCOTTI, Comunione legale e titoli di credito, in
Notariato, 2008, p. 148; TOSCANO, Un “nuovo” orientamento della Cassazione sulla caduta in
comunione legale dei diritti di credito, in Riv. notar., 2008, p. 411.
46
Cass., 11 settembre 1991, n. 9513; Cass., 9 luglio 1994, n. 6493, in Riv. giur.
edilizia, 1995, I, p. 114; Cass., 27 gennaio 1995 n. 987, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, p. 889,
p. 897, con nota critica di REGINE, Questioni in tema di contratto preliminare e comunione legale;
Cass., 18 febbraio 1999, n. 1363, in Studium Juris, 1999, p. 692; Cass., 22 settembre 2000, n.
12544; Cass., 1° aprile 2003, n. 4959. Per i giudici di merito, sempre nello stesso senso, Trib.
Roma, 17 maggio 1984, in Giust. civ. 1985, I, p. 1212, con nota adesiva di LUISI, Rapporti di
locazione e comunione legale dei beni, in Riv. notar., 1985, p. 1207; Cass. 4 marzo 2003, n. 3185,
in Giust. civ., 2004, I, p. 2832; Cass., 1° aprile 2003, n. 4959; Cass., 23 luglio 1987, n. 6424, in
Giust. civ., 1988, I, p. 459; App. Roma, 14 ottobre 2009.
47
Cass., 9 ottobre 2007, n. 21098, in Giust. civ., 2008, p. 360; in Riv. notar., 2008, p.
407. Per l'affermazione che rientrano nel regime patrimoniale di comunione legale tra i coniugi
i diritti a struttura complessa, come i diritti azionari — in quanto “beni” ai sensi degli artt. 810, 812
e 813 c.c., sono suscettibili di entrare nella comunione (ove non ricorra una delle eccezioni alla
regola generale dell'art. 177 c.c. poste dall'art. 179 c.c.).
L'accoglimento di codesta soluzione interpretativa comporta una serie di conseguenze che
ampliano ulteriormente la sfera, già notevole, dei diritti del coniuge superstite. Dall'applicazione di
tale principio, ad esempio, deriverebbe la legittimazione ad agire, per l'adempimento di un
preliminare di vendita stipulato da uno solo dei coniugi, anche del coniuge superstite rimasto
estraneo alla conclusione del preliminare stesso.
A conferma dell'indirizzo tradizionale è però intervenuta una nuova pronuncia della Suprema
Corte (48), la quale, in motivazione, ha affermato che anche a voler considerare superata o in via di
superamento la tesi secondo la quale possono qualificarsi come "acquisti" soltanto le acquisizioni
patrimoniali derivanti dal compimento di atti implicanti l'effettivo trasferimento della proprietà
della res o la costituzione di diritti reali sulla medesima e non quindi i diritti di credito pur se
strumentali all'acquisizione di una res, resta fermo che l'atto deve avere ad oggetto l'acquisizione di
un "bene", ai sensi degli artt. 810, 812 e 813 c.c., dovendosi escludere, pertanto, che la comunione
degli acquisti possa comprendere tutti indistintamente i diritti di credito che ciascun coniuge può
acquistare.
Ne deriva che se ben possono ritenersi acquisiti alla comunione legale i titoli di
partecipazione azionaria, le quote di fondi d'investimento o i titoli obbligazionari acquistati con
proventi di attività separata, in quanto entità che hanno una componente patrimoniale suscettibile di
acquisire un valore di scambio, restano esclusi i meri diritti di credito, come quelli derivanti da un
contratto preliminare di vendita, dalla partecipazione a una cooperativa edilizia a contributo erariale
o dal deposito bancario.
3. L'assegno alimentare spettante al coniuge dell'assente.
Una previsione particolare è prevista in favore del coniuge dell’assente. L’art. 51 c.c., così
sostituito ex art. 2 l. 19 marzo 1975, n. 15, gli concede, purché versi in stato di bisogno, la
anche gli acquisti conseguenti a negozi ad effetti obbligatori, conclusi in costanza di matrimonio dai
coniugi insieme ovvero da uno solo di essi, Trib. Trani, 28 febbraio 1983, in Giur. it., 1983, I, 2, c.
628, con nota adesiva di VENTURINI, Comunione legale e diritti di credito; in Rass. dir. civ., 1984,
p. 807, con nota di LA ROCCA, Comunione legale tra coniugi e diritti di credito; Trib. Monza, 25
ottobre 1983, in Giust. civ., 1984, I, p. 583, con osservazione critica di M. FINOCCHIARO,
Legittimazione del coniuge estraneo al contratto preliminare di compravendita a chiedere
l'esecuzione specifica in nome della comunione legale dei beni.
48
Cass., 15 gennaio 2009, n. 799, in Fam. e dir., 2009, p. 571, con nota di Rimini; in
Nuova giur. civ. comm., 2009, p. 706, con nota di Alvisi.
possibilità di ottenere dal tribunale un assegno alimentare da determinarsi secondo le condizioni
della famiglia e l’entità del patrimonio dell’assente.
In tal modo la legge soddisfa «l’interesse superiore di evitare perturbamenti nell’ordine delle
famiglie», assicurando che al coniuge siano riconosciuti, nei limiti del possibile, gli stessi diritti che
gli spetterebbero se l’assente fosse in vita (49).
Si tratta di una speciale applicazione dei principi che regolano l’istituto degli alimenti, che
trovano attuazione in punto di modalità della prestazione, di garanzie e di privilegi. La disciplina
delle prestazioni alimentari non trova invece applicazione quanto ai criteri di misura: infatti,
sebbene l’assegno spetti al coniuge che versa «in stato di bisogno», è pacifico che nella specie lo
stato di bisogno debba intendersi in senso atecnico, semplicemente come situazione di fatto di
disagio.
L’assegno spetta, quindi, al coniuge che, nonostante abbia esercitato i propri diritti sul
patrimonio dell’assente, non abbia mezzi sufficienti a conservare il tenore di vita di cui godeva in
precedenza, tenendosi però anche conto, oltre che dei mezzi che il coniuge può trarre dal patrimonio
dell’assente, delle sostanze patrimoniali di cui disponga egli stesso: deve escludersi, quindi, che il
coniuge astenutosi dal far valere i diritti che gli spettano a titolo successorio o per effetto delle
convenzioni matrimoniali possa chiedere la corresponsione dell’assegno alimentare (50).
L’assegno non può essere richiesto dal coniuge separato con addebito, neanche se goda degli
alimenti, avendo egli già diritto, in tal caso, all’assegno successorio di cui all’art. 548, cpv., c.c.,
richiedibile a titolo temporaneo ex art. 50, 3° c., c.c. Il diritto all’assegno viene meno se il coniuge
dell’assente ha contratto nuovo matrimonio (provvisoriamente non impugnabile ex art. 117 c.c.).
In concreto, le ipotesi più frequenti nelle quali la previsione dell’assegno al coniuge trova
attuazione sono quelle del coniuge che domandi l’attribuzione, a titolo di assegno alimentare, di una
quota della pensione dell’assente. In ordine a questa pretesa, si ritiene che l’INPS sia passivamente
legittimato nel giudizio inerente alla dichiarazione di assenza ed al regolamento interinale del
patrimonio dello scomparso (51). Inoltre, stante il diritto della moglie del pensionato assente alla
pensione di reversibilità che le spetta per legge iure proprio in caso di morte del marito, si può
ritenere che ella abbia diritto, durante l’assenza del pensionato, ad esigere l’erogazione pro-quota
dei ratei pensionistici sotto il profilo di una anticipata e provvisoria liquidazione della pensione di
reversibilità, nei limiti della quota a lei autonomamente riservata, nell’esercizio temporaneo di quei
49
ROMAGNOLI, Dell’assenza, in Commentario del c.c. Scialoja e Branca, BolognaRoma, 1970, p. 256.
50
ROMAGNOLI, Dell’assenza, cit., p. 256.
51
Cass., 19 marzo 1992, n. 3405, in Mass. Giust. civ., 1992, p. 447. In dottrina, v. G.
MAZZONI, Il diritto ai ratei pensionistici, in Nuova giur. civ. comm., 1990, I, p. 108.
diritti cui è abilitata per il combinato disposto degli artt. 50 e 51 c.c. (52). In tale ipotesi, peraltro,
non si configura alcun eventuale sacrificio degli interessi dell’istituto previdenziale, giacché questo,
se l’assente fa ritorno, deve corrispondergli solo la differenza fra l’importo a lui spettante e le
somme corrisposte alla moglie, non potendo il pensionato far valere a carico dell’ente alcuna azione
o pretesa ulteriore.
Si è infine affermato che « qualora, a seguito della dichiarazione di assenza di una persona, il
coniuge di quest’ultima si rivolga al giudice per ottenere dall’ente previdenziale (nella specie
l’Inps) l’erogazione della pensione di riversibilità quale coniuge superstite, se il diritto alla pensione
(diretta) del coniuge assente sia contestato dall’ente erogatore, va dichiarato il diritto del coniuge,
per il solo fatto della dichiarazione pregressa di assenza, di chiedere, in via amministrativa e, se del
caso, giudiziaria (davanti al giudice previdenziale) la pensione di riversibilità a seguito della morte
dell’assente; tale pronuncia sarà vincolante nel successivo procedimento, nel senso che il diritto alla
pensione non potrà essere negato per il fatto che non risulti la morte del coniuge dell’istante, ma
solo la sua assenza » (53).
52
Cfr. Cass., 5 novembre 1988, n. 5988, in Giust. civ., 1989, I, p. 947; in Dir. famiglia,
1989, p. 30.
53
Trib. Catania, 4 giugno 1993, in Dir. famiglia, 1994, I, p. 229.