INDICE (a cura di ANTONIO ALBANESE) 1) COMUNIONE LEGALE, FONDO PATRIMONIALE E IMPRESA FAMILIARE: L'AMMINISTRAZIONE DEI BENI 2) LA TUTELA DEI FAMILIARI ATTRAVERSO L'AZIONE DI ARRICCHIMENTO 3) RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE IN MATERIA DI CONVENZIONI MATRIMONIALI (IN GENERALE: ARTT. 159-166 bis) E DI RESPONSBILITÀ DELLA COMUNIONE LEGALE (ARTT. 186 SS.) 4) LA TRASCRIZIONE DELLE CONVENZIONI MATRIMONIALI 5) AUTONOMIA PRIVATA NEL DIRITTO DI FAMIGLIA E PREDISPOSIZIONE SUCCESSORIA 6) LA GIURISPRUDENZA RECENTE IN MATERIA DI FAMIGLIA DI FATTO 7) SENTENZE RECENTI IN MATERIA DI COMUNIONE LEGALE 8) COMUNIONE LEGALE E SUCCESSIONE DEL CONIUGE 1 COMUNIONE LEGALE, FONDO PATRIMONIALE E IMPRESA FAMILIARE: L'AMMINISTRAZIONE DEI BENI di Antonio Albanese (Estratto dalla monografia Gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione nel diritto privato, Utet, Torino, 2007). SOMMARIO: 1. Ordinarietà e straordinarietà nell’amministrazione della comunione legale. – 2. La sorte degli atti di straordinaria amministrazione compiuti senza il consenso dell’altro coniuge. La posizione dei terzi contraenti. – 3. Amministrazione delegata ad uno dei coniugi ed amministrazione esclusiva di uno dei coniugi. – 4. Amministrazione ordinaria e straordinaria nel fondo patrimoniale. – 5. La gestione straordinaria dell’impresa familiare. BIBLIOGRAFIA: - Ricca 1973 - A. e M. Finocchiaro 1975 – Costi 1976 - Detti 1976 – De Paola e Macrì 1978 - Cendon 1979 - A. e M. Finocchiaro 1979 - Corsi 1979 - Colussi 1981 - Panuccio 1981 - Grasso 1982 - Cian e Casarotto 1982 Gabrielli 1982 - Cattaneo 1983 - De Martini 1983 - Majello 1988 - Natucci 1988 - Tanzi 1988 - Carresi 1988 - Cartoni Moscatelli 1989 - Giusti 1989 - Jannuzzi 1990 - Oberto 1991 - Bruscuglia 1992 - Oppo 1992 – Colussi 1992 - Balestra 1996 – Panico 1997 – Mazzacane 1997 - Oberto 2003 – Albanese 2004 - Albanese 2005 - Demarchi 2005 – Bianca 2005 – Sesta 2005 - Gazzoni 2006. 34. Ordinarietà e straordinarietà nell’amministrazione della comunione legale. LEGISLAZIONE: c.c. 144, 179, 180, 181, 184, 320, 179. Un’esigenza primaria della Riforma del diritto di famiglia del 1975 era assicurare la partecipazione paritaria dei coniugi all’amministrazione dei beni comuni. Questa esigenza andava però contemperata con quella di non creare eccessivi intralci all’attività di godimento e di uso dei beni ricadenti nella comunione. Il contemperamento è ottenuto attraverso la distinzione tra amministrazione ordinaria e amministrazione straordinaria. Il primo comma dell’art. 180 c.c., al fine di snellire lo svolgimento delle operazioni più ricorrenti nella quotidianità, stabilisce che l’amministrazione dei beni della comunione e la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa relativi spettano disgiuntamente ad entrambi i coniugi. Il secondo comma norma cit., per converso, in sintonia con una concezione egualitaria del rapporto di coppia, garantisce il controllo reciproco dei coniugi, a garanzia di una gestione più oculata, per gli atti di maggior rilievo. Il compimento degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, nonché la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni, spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi. Riservare ogni potere decisorio in materia a una persona sola – ad esempio al marito, come aveva fatto il legislatore francese del 1804 – significa predisporre le migliori condizioni per un’agile circolazione dei diritti, proprio perché il terzo non dovrà preoccuparsi di accertare se anche il coniuge di colui con cui egli stipula è d’accordo: il contratto, comunque, resta valido e produce senz’altro i suoi effetti. Domandando la partecipazione di ambedue gli sposi, viene invece realizzata e assicurata, sul piano dinamico dell’attività negoziale, l’ispirazione paritaria che è stata propria di una coppia al momento in cui essa ha optato, tacitamente o espressamente, per il regime della comunione: c’è però il rischio che la necessità di ottenere un duplice consenso, rendendo alquanto più complessa l’operazione, distolga il terzo addirittura dall’intraprenderla, o che l’indugio si prolunghi quanto basta a far sfumare un affare conveniente (...). In ipotesi, l’equilibrio fra i contrapposti motivi di cui s’è detto mostra ormai di realizzarsi, negli ordinamenti moderni, ammettendo che ciascuno dei coniugi possa concludere efficacemente da solo tutti gli atti di minore importanza, mentre è richiesto il consenso di entrambi per le iniziative destinate a incidere più profondamente sul patrimonio della famiglia. (Cendon 1979, 62). Imponendo la previa valutazione di entrambi i coniugi sull’opportunità dell’atto di straordinaria amministrazione, e la loro convergenza sulla soluzione positiva, l’art. 180 c.c. detta una regola inderogabile, che fa dubitare della possibilità di ammettere il conferimento di procure generali da un coniuge all’altro o dai coniugi ai terzi, ferma restando la legittimità di una procura speciale per singoli atti. La dottrina maggioritaria ritiene però ammissibile ogni sorta di procura tra coniugi, sia essa generale o speciale, con esclusione di quella irrevocabile, mentre più dubbia è la questione della conferibilità a soggetti diversi dal coniuge: Non pare invece possibile il conferimento di procura generale a terzi, in quanto provocherebbe una spoliazione del potere di amministrazione a vantaggio di un terzo con cui l’altro coniuge si troverebbe ad amministrare. Questa opinione non è condivisa da una parte della dottrina, la quale ammette anche il conferimento di procura generale a terzi, sul rilievo che le norme sulla comunione legale riguardanti l’amministrazione non prevedono limitazioni, che, d’altro canto, non possono desumersi dai principi generali, giusta i quali l’indelegabilità è prevista esclusivamente per i diritti di natura personalissima. (Sesta 2005, 204). Per desumere quale atto sia “normale” con riferimento ai beni della comunione legale, non è possibile ricorrere alle conclusioni elaborate con riguardo alla comunione ordinaria. A differenza di quest’ultima, che ha per scopo precipuo la manutenzione e il godimento della cosa comune, qui l’amministrazione dei beni comprende anche gli atti di disposizione. La comunione legale, poi, riguarda un insieme di beni «in evoluzione», suscettibili di accrescimento e di sostituzione: l’alienazione del bene comune, che nella comunione ordinaria significa estinzione della comunione, nella comunione legale comporta la sua continuazione, in attesa che vi entrino altri beni che per legge saranno comuni, e soggetti a quelle regole. Si parla, in proposito, di dinamismo contrapposto allo staticismo (Detti 1976, 1221). Sul piano degli scopi, infine, l’interesse familiare impedisce di accomunare la comunione legale tra coniugi alla mera contitolarità di diritti sui beni. D’altro canto, il fine dell’amministrazione nella comunione legale non è neanche un fine produttivistico, sicché non può soccorrere il criterio vigente per le società. Su queste basi, si è affermato che il criterio distintivo andrebbe dedotto dalla disciplina dell’amministrazione dei beni dei figli minori da parte dei genitori esercenti la potestà; e se n’è trovata una conferma nel fatto che anche l’art. 320 c.c., proprio come l’art. 180 c.c., esclude dall’amministrazione ordinaria i contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento (Majello 1988, § 4.2; Detti 1976, 1221). Ovviamente, vanno tenute in debito conto le differenze disciplinari: il criterio dell’ordinarietà o straordinarietà dell’atto è qui l’unico da considerare, e solo al fine di capire se l’atto rientri nell’autonomia patrimoniale di uno solo dei coniugi. Ma se così è, o se l’atto è stato compiuto congiuntamente da entrambi i coniugi, nessuna valutazione ulteriore può trovare spazio in ordine alla loro facoltà di azione. Essi hanno pieni poteri di amministrazione su di un patrimonio rispetto al quale non sono terzi, ma pieni titolari a tutti gli effetti; sicché non si pone, per loro, il limite della necessità o dell’utilità evidente dell’atto, imposto dalla legge agli amministratori dei beni degli incapaci. Una valutazione della necessarietà dell’atto, che, nella specie, coincide con la necessità della famiglia, potrebbe semmai essere rimessa ad un terzo, ossia al giudice, soltanto quando un coniuge lamenti che l’altro ha compiuto un atto di straordinaria amministrazione senza il suo consenso. Ma la valutazione del giudice, in questo caso, non verte tanto sulla necessità (né tanto meno sull’utilità), quanto sulla normalità dell’atto; giacché se il coniuge convenuto con l’azione di annullamento dimostra che l’atto non eccedeva i confini di una normale gestione, il giudice dovrà confermarne efficacia e validità nonostante il mancato preventivo consenso del coniuge impugnante. In altre parole, tocca ai coniugi, e non al giudice, stabilire se l’atto è vantaggioso per la famiglia; al giudice compete solo valutare se si trattava di un caso di obbligatoria amministrazione congiuntiva. In applicazione della disciplina dei minori, e degli incapaci legali in genere, gli atti di ordinaria amministrazione della comunione legale sarebbero quelli diretti alla conservazione, alla normale utilizzazione e al miglioramento della cosa comune: si va quindi dalle riparazioni alla riscossione dei frutti naturali e civili, agli atti di assicurazione, sino al pagamento dei debiti inerenti la gestione. Sarebbero atti di straordinaria amministrazione, per converso, quelli che presentano pericoli per la sostanza e la consistenza del patrimonio, quelli idonei a mutare la struttura e la destinazione dei beni: pertanto, gli atti dispositivi in genere, «le riparazioni straordinarie di una certa importanza, la locazione, il comodato» (Detti 1976, 1222, considera senz’altro la locazione atto di straordinaria amministrazione, indipendentemente dalla sua durata). Pertanto, dopo aver rilevato le distinzioni intercorrenti tra comunione ordinaria e legale, la dottrina ne deduce che il criterio distintivo non può essere il medesimo, e risolve il problema del regime coniugale adottando i criteri formulati per gli incapaci; ma non si avvede, così facendo, che si tratta esattamente della stessa soluzione tradizionalmente applicata alla gestione dei beni in comunione ordinaria. È una soluzione, peraltro, che continua ad assimilare due fenomeni in realtà contrapposti, non tenendo conto della dinamicità della gestione nel caso de quo. (Su questo aspetto insiste Giusti 1989, 82 s.). Affermare poi che «la straordinarietà della natura dell’atto di amministrazione è da valutarsi in relazione alla sua rilevanza obiettiva» (Detti 1976, 1222), non fa che confermare che il discrimen tra ordinarietà e straordinarietà dell’atto sta nella sua normalità, nella importanza delle sue conseguenze economiche, ma nulla aggiunge verso la soluzione dei casi concreti. Una cosa è dire che le norme di legge, tra le quali spiccano quelle sugli incapaci, fissano la categoria dell’ordinaria amministrazione tout court e sanciscono, una volta per tutte, quali atti sconfinano da questa categoria; altra è applicare il criterio della normalità a casi determinati facendo rinvio ai risultati che questo criterio ha elaborato in merito al patrimonio degli incapaci. Se si applica il criterio della normalità, non ha senso il collegamento tra situazioni diverse, perché la riuscita dell’operazione, sta proprio nella ricerca particolare di ciò che è normale in relazione allo scopo della norma implicata e, aggiungo, alle qualità dei soggetti e del patrimonio interessati. Nella specie, occorre quindi comprendere cosa sia normale per il soddisfacimento delle esigenze della famiglia: lo sono, innanzitutto, gli atti diretti alla manutenzione del patrimonio e alle usuali necessità familiari. Ma poiché ogni famiglia è diversa dall’altra, sia per tenore di vita sia per capacità reddituali, si dovrà avere riguardo anche al singolo patrimonio di cui essa può disporre, perché ciò che è una spesa eccezionale per una famiglia media può rientrare nella quotidianità di una famiglia più agiata; ciò che altera in maniera significativa la consistenza del primo patrimonio, può lasciare sostanzialmente immutata quella del secondo; l’atto, compiuto da uno solo dei coniugi, che incide sulle condizioni di vita di un nucleo familiare, può risultare privo di incidente significato per un altro, o addirittura fare parte di quella “normalità” di cui è riflesso la quotidianità o ripetitività dell’azione. Come si fa, dunque, a parlare di “normali esigenze” se poi queste sono identificate in astratto e aprioristicamente in base ad un criterio oggettivo, finendo, così, per essere identiche per tutti i consociati? È davvero questo che la legge ha voluto quando ha rinviato l’interprete ad un criterio elastico, quello dell’amministrazione straordinaria? Quanto, poi, alla previsione, accanto agli atti di straordinaria amministrazione, dei contratti relativi ai diritti personali di godimento, ciò non significa affatto che detti atti rientrino, sempre e comunque, in quella categoria. La norma ha solo il più limitato fine di imporre anche per queste operazioni il sistema di amministrazione congiuntiva, ma non le qualifica. Anche sul piano letterale, basti riflettere sulla dizione di cui all’art. 180, comma 2°, c.c. (atti di straordinaria amministrazione «nonché» la stipula di detti contratti) e su quella usata dall’art. 181 c.c. (che inerisce al rifiuto del consenso per un atto di amministrazione straordinaria «o per gli altri atti per cui il consenso è richiesto»). Se nell’art. 180, 2° comma, c.c. sono compresi unitariamente atti di straordinaria amministrazione e contratti che non necessariamente esulano da una normale gestione, significa che la necessità del consenso congiunto non trova giustificazione nell’eccezionalità (o straordinarietà) dell’atto, ma nel fatto che queste operazioni economiche concretano scelte decisionali che influiscono sull’indirizzo della famiglia ex art. 144 c.c. (così Jannuzzi 1990, 536). Quanto alla sorte di questi atti, mi pare si debba distinguere. Per i contratti con i quali si acquistano diritti personali di godimento, è testualmente previsto il sistema di amministrazione congiuntiva; pertanto essi rimangono validi anche se compiuti disgiuntamente, con l’unica conseguenza che le relative obbligazioni graveranno solamente a carico del coniuge che ha partecipato al contratto. Diversamente, sono inefficaci i contratti, stipulati separatamente da un solo coniuge, con i quali si concedono diritti personali di godimento, giacché questi coinvolgono necessariamente il bene comune e non possono quindi prescindere dal consenso anche dell’altro coniuge. Il consenso congiunto dei coniugi è certamente necessario per accettare le donazioni o le eredità provenienti da un terzo, quando nell’atto di liberalità o nel testamento è specificato che i beni sono attribuiti alla comunione, ex art. 179, lett. b). La comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza da quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei. Ne consegue che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell'intero bene comune, ponendosi il consenso dell'altro coniuge come un «negozio unilaterale autorizzativo» che rimuove un limite all'esercizio del potere dispositivo sul bene e che rappresenta un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell'atto di disposizione, la cui mancanza (ove si tratti di bene immobile o di bene mobile registrato) si traduce in un vizio da far valere nei termini fissati dall'art. 184 c.c. (Cass. 14.1.1997, n. 284, FD, 1997, 285: nella specie, un soggetto, prima dell'entrata in vigore della l. n. 151 del 1975, aveva promesso in vendita un appartamento che non era ancora entrato nella sua proprietà. Verificatosi l'acquisto della proprietà alcuni anni dopo, quando era ormai in vigore il nuovo regime patrimoniale tra i coniugi, il promissario acquirente aveva convenuto in giudizio il solo promittente per ottenere, ex art. 2932 c.c., l'esecuzione in forma specifica del contratto. Il giudice del merito, in secondo grado, dichiarava trasferita al promissario acquirente soltanto la metà della proprietà dell'immobile, ossia quella spettante al promittente, e non anche l'altra metà spettante al suo coniuge non consenziente al trasferimento. La S.C., in applicazione dell'enunciato principio, ha dichiarato la nullità delle sentenze di entrambi i gradi ed ha rinviato la causa al primo giudice, rilevando che era stata omessa l'integrazione del contraddittorio nei confronti del coniuge del promittente venditore, la cui posizione era inevitabilmente coinvolta in una controversia che doveva avere ad oggetto l'immobile nel suo intero, stante l'inconcepibilità dell'ingresso di estranei nella comunione e la conseguente impossibilità di trasferimento della sola quota del coniuge promittente). Più recentemente, la Cassazione ha escluso che il consenso dell'altro coniuge possa essere configurato quale negozio unilaterale autorizzativo, ma lo ha fatto, in realtà, al fine di evidenziare che esso non è un atto attributivo di un potere, quanto piuttosto un atto che rimuove un limite all'esercizio di un potere; sicché la soluzione non diverge nella sostanza da quella enunciata supra. (Da tale premessa, Cass. 24.11.2000, n. 15177, FD, 2001, 211 e 385, con nota di Frascaroli Santi, ha fatto conseguire che l'atto di disposizione del bene in comunione, posto in essere da uno solo dei coniugi, esplica i suoi effetti anche in relazione alla "quota" di comunione spettante al coniuge che sia eventualmente fallito, successivamente al compimento del menzionato atto, senza avere proposto l'azione d'annullamento prevista dal comma 2 art. 184 c.c.; con l'ulteriore conseguenza che è ammissibile l'azione revocatoria fallimentare, quale unico rimedio esperibile dalla curatela per ottenere la declaratoria d'inefficacia dell'atto in relazione alla quota di bene spettante al fallito. All'ammissibilità di tale azione non osta, infatti, la circostanza che il coniuge fallito non abbia partecipato all'atto, in quanto egli, non avendo proposto la menzionata azione d'annullamento, ha assunto, attraverso l'implicita convalida, la posizione di contraente occulto in relazione alla propria quota). È stato considerato atto di straordinaria amministrazione ai sensi dell'art. 180, comma 2°, c.c., il contratto preliminare di vendita di bene immobile, osservando che esso si pone quale momento originario di una sequenza obbligatoria e successiva il cui esito necessitato è il trasferimento della proprietà del bene. (Cass. 21.12.2001, n. 16177, FD, 2002, 191, RN, 2002, 980, con nota di Vocatura, SI, 2002, 525 e V NOT, 2002, 335). Ne deriva che se il preliminare è stato stipulato da un coniuge senza la partecipazione o il consenso dell'altro, è soggetto alla disciplina dell'art. 184, comma 1°, c.c. e non è pertanto inefficace nei confronti della comunione, ma solamente esposto all'azione di annullamento da parte del coniuge non consenziente, nel breve termine prescrizionale visto supra, decorrente dalla conoscenza effettiva dell'atto, ovvero, in via sussidiaria, dalla trascrizione o dallo scioglimento della comunione. Nella soluzione del caso si innesta evidentemente la più ampia questione, risolta positivamente nella sentenza citata, se oggetto della comunione legale siano anche gli atti obbligatori. Per la Corte, l’applicazione dell’art. 184 c.c. non va restrittivamente intesa come limitata agli atti dispositivi con effetto reale e non anche a quelli con effetto meramente obbligatorio, non trovando tale interpretazione fondamento alla stregua né della lettera né dell'interpretazione sistematica della norma. Tra gli atti, riguardanti beni immobili ed eccedenti l'ordinaria amministrazione, annullabili ex art. 184 c.c. se compiuti da un coniuge senza il consenso dell'altro, rientra certamente l'atto comportante definitiva rinuncia alla possibilità di fare entrare nella comunione coniugale la proprietà di un immobile per il quale era stata invocata l'usucapione, a nulla rilevando che si trattasse di una situazione soltanto in fieri prodromica all'acquisto di un diritto reale su detto immobile (Cass. 3.11.2000, n. 14347, GI, 2001, 1848, con nota di Piscitelli ). Rientrerebbe nella amministrazione ordinaria, invece, il recesso dal contratto di comodato a tempo indeterminato avente ad oggetto un bene immobile facente parte della comunione. Pertanto il recesso, che può essere esercitato a nutum qualora sopravvenga un imprevisto ed urgente bisogno a carico della parte comodante, non deve essere necessariamente esercitato in modo congiunto dai coniugi (presumendosi, tra l’altro, una conforme volontà di entrambi i comodanti. (Pret. Pisa, 9.6.1999, D FAM, 2001, 628, con nota di Pulidori. Tuttavia, si è anche aggiunto che se la volontà di comodare fu espressa unitariamente dai coniugi, anche il recesso deve corrispondere ad una volontà unitaria: se manchi una volontà unitaria di recedere, l'atto di recesso di un solo coniuge è insufficiente ad estinguere il rapporto di comodato). Stessa soluzione vale per il recesso dal contratto di locazione, che può essere esercitato anche da uno solo dei coniugi comproprietari dell'immobile locato. L'altro coniuge, tuttavia, riveste la qualità di litisconsorte necessario nel giudizio di rilascio ed è l'unico legittimato a far valere l'eventuale difetto di integrità del contraddittorio con intervento in causa o proponendo opposizione di terzo (Cass. 17.8.1990, n. 8379, NGCC, 1991, I, 299). Parimenti, non è atto di straordinaria amministrazione l'atto con il quale chi richiede il contributo per la ristrutturazione di un immobile, si impegna a destinare l'immobile stesso ad uso esclusivo di ricettività alberghiera per almeno otto anni. Pertanto, ai fini dell'ammissibilità della domanda non occorre l'assenso dell’altro coniuge (T.A.R. Friuli V.G. 16.2.1999, n. 80, T.A.R., 1999, I, 1369). Gli atti di cui si è parlato sin qui, attengono, come ovvio, a beni in comunione legale. Se invece uno dei coniugi compie un atto di straordinaria amministrazione che non riguarda i beni comuni, questo atto è valido ed efficace anche se manca il consenso dell'altro coniuge. La conseguenza si riflette però sul piano della responsabilità, giacché il coniuge agente risponde ugualmente con i beni della comunione in via sussidiaria (nei limiti della quota su ciascun bene) (Cfr., per un caso in cui l’atto compiuto, ritenuto dai giudici di straordinaria amministrazione, era la prestazione di una fideiussione, Cass. 10.5.1991, n. 5244, NGCC, 1992, I, 678, con nota di Putti). IN SINTESI – Il compimento degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, nonché la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni, spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi. Per desumere quale atto sia “normale” con riferimento ai beni della comunione legale, non è possibile ricorrere alle conclusioni elaborate con riguardo alla comunione ordinaria, che è caratterizzata da un’amministrazione di tipo statico, nè può soccorrere il criterio vigente per le società, la cui gestione ha alla base un fine produttivistico. Secondo l’opinione comune, quindi, il criterio distintivo andrebbe dedotto dalla disciplina dell’amministrazione dei beni dei figli minori da parte dei genitori esercenti la potestà. In applicazione della disciplina dei minori, e degli incapaci legali in genere, gli atti di ordinaria amministrazione della comunione legale sarebbero quelli diretti alla conservazione, alla normale utilizzazione e al miglioramento della cosa comune; sarebbero atti di straordinaria amministrazione, per converso, quelli che presentano pericoli per la sostanza e la consistenza del patrimonio, e quelli idonei a mutare la struttura e la destinazione dei beni. 2. La sorte degli atti di straordinaria amministrazione compiuti senza il consenso dell’altro coniuge. La posizione dei terzi contraenti. LEGISLAZIONE: c.c. 184, 189, 322, 377, 396, 1442, 1445 - Cost. 3, 24, 29, 42. Quel che interessa in questa sede sono le conseguenze che l’art. 184 c.c. riconnette al compimento di un atto di amministrazione straordinaria non autorizzato: finché l'azione di annullamento non venga proposta, l'atto è produttivo di effetti nei confronti dei terzi. La fattispecie dell’amministrazione nella comunione legale, è sintomatica dell’interferenza, sul reperimento di un criterio distintivo, della problematica inerente la tutela dei terzi. Della distinzione tra i due tipi di amministrazione, infatti, e dunque dell’esercizio disgiunto o congiunto dell’amministrazione, sono evidenti i riflessi esterni: la qualificazione dell’atto compiuto da un solo coniuge in un senso o nell’altro, si riflette sulla validità e sull’efficacia dell’atto nei confronti dell’altro contraente. Rilevanza meramente interna ha però la distinzione con riferimento agli acquisti. L’interpretazione prevalente, infatti, nega che gli acquisti rientrino nell’ambito dell’amministrazione congiuntiva. La conclusione si basa sulla lettera del primo comma dell’art. 180 c.c., che parla di «beni della comunione». Non sono oggetto di comunione i diritti di obbligazione e l'art. 184 (che prevede l'annullabilità, su iniziativa del coniuge non consenziente, degli atti compiuti senza il suo necessario consenso) disciplina solo gli atti di disposizione dei beni comuni. (Cass. 10.5.1991, n. 5244, NGCC, 1992, I, 678, con nota di Putti, in motivazione). Si esclude, pertanto, che gli acquisti siano annullabili: se compiuti durante il matrimonio, entrano sempre in comunione, anche se fatti separatamente da uno dei coniugi. Se l’acquisto è di straordinaria amministrazione, l’atto è comunque valido; unica conseguenza del mancato consenso di entrambi, è che le obbligazioni derivanti dalla stipulazione non graveranno sul patrimonio comune. Pertanto il consenso di entrambi i coniugi per gli acquisti di straordinaria amministrazione rileva solo ai fini dell’imputazione della spesa a carico del patrimonio comune. (Il primo comma dell’art. 189 c.c. stabilisce che i beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato, rispondono, quando i creditori non possono soddisfarsi sui beni personali, delle obbligazioni contratte, dopo il matrimonio, da uno dei coniugi per il compimento di atti eccedenti l’ordinaria amministrazione senza il necessario consenso dell’altro). Le conseguenze dell’atto di straordinaria amministrazione compiuto da un coniuge senza il consenso dell’altro (e da questo non convalidati: si ritiene che la convalida non abbia bisogno di forma scritta: Smiroldo 1989, 725) sono sancite dall’art. 184 c.c.: l’atto è annullabile se riguarda beni immobili o beni mobili registrati. In tal caso, l’azione di annullamento può essere proposta dal coniuge il cui consenso era necessario, entro un anno dalla data in cui ha avuto conoscenza dell’atto e in ogni caso entro un anno dalla data di trascrizione. Dubbio è se il termine annuale sia di prescrizione o di decadenza. Nel primo senso si pronuncia la giurisprudenza. Il termine annuale previsto dall'art. 184 c.c. per l'esercizio dell'azione di annullamento degli atti compiuti dal coniuge in regime di comunione legale senza il necessario consenso dell'altro è di prescrizione, e non di decadenza, al pari del termine previsto dall'art. 1442 c.c. per la generale azione di annullamento dei contratti, dal quale si distingue solo per la diversa durata; tale termine inizia dalla data in cui il coniuge che non ha prestato il suo necessario consenso ha avuto conoscenza dell'atto o dalla data della eventuale trascrizione di questo atto nei registri della conservatoria. L'eccezione di annullamento del contratto è proponibile anche dopo il termine di prescrizione dell'azione di annullamento solo dalla parte convenuta per l'esecuzione del contratto in forma chiara ed univoca (art. 1442 comma 4 c.c.) e non può essere utilmente opposta, quindi, dopo che il contratto ha avuto esecuzione, al fine di resistere alla domanda di accertamento della sua esistenza e della sua efficacia neppure se, trattandosi del contratto di compravendita di un immobile stipulato con scrittura privata non autenticata, tale domanda sia strumentale a quella di trascrizione o di condanna alla stipulazione del contratto riproduttivo in forma pubblica». (Cass. 19.2.1996, n. 1279, GI, 1997, I, 1, 962). Proposta, da uno dei coniugi - in via riconvenzionale - domanda di annullamento di un negozio traslativo relativo a bene immobile (in regime di comunione legale) posto in essere dall'altro (conferimento, in società, d'un appartamento), l'eccezione, formulata con il ricorso per cassazione, di sospensione del termine annuale previsto per l'esperibilità di tale azione, sotto il profilo che la prescrizione rimane sospesa, tra coniugi, è, oltreché inammissibile - perché fatta valere, per la prima volta, in sede di legittimità - infondata, atteso che rispetto al principio generale contenuto nell'art. 2941 n. 1 c.c. la norma di cui all'art. 184, comma 2, stesso codice, si pone come speciale e derogativa. (Cass. 22.7.1987, n. 6369, GC, 1988, I, 135, e D FAM, 1988, 786). Se l’atto non è stato trascritto, e quando il coniuge non ne ha avuto conoscenza prima dello scioglimento della comunione, l’azione non può essere proposta oltre l’anno dallo scioglimento stesso. Se l’atto compiuto senza il necessario consenso, invece, riguarda beni mobili, il coniuge che lo ha posto in essere è obbligato, su istanza dell’altro, a ricostruire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell’atto. Se ciò non è possibile, è obbligato al pagamento dell’equivalente secondo i valori correnti all’epoca della ricostruzione della comunione (art. 184, comma 3°, c.c.). L’art. 184 c.c. ha una portata generale, giacché riguarda tutti gli atti di amministrazione, abbiano essi natura reale o obbligatoria. (Contra, Ricca 1973, 472, il quale esclude che l’art. 184 c.c. riguardi gli acquisti e l’assunzione di obbligazioni, e ritiene che la norma operi soltanto per gli atti di alienazione di beni diversi dal denaro). La previsione dell’azione di annullamento quale rimedio fornito al coniuge contrario all’atto, è stata al centro di un ampio dibattito, non del tutto sopito, perché giudicata in contrasto sia con i principi generali della relatività del contratto sia con lo spirito della riforma, che reclamerebbe una maggiore tutela per il coniuge debole. Infatti, il contratto non dovrebbe poter produrre alcun effetto nei confronti dell’altro coniuge, che rispetto ad esso si pone come terzo. Il rimedio dell’annullamento, d’altronde, è solitamente concesso a tutela di chi è stato parte del contratto, non invece rispetto a chi, come nella specie, non dovrebbe subirne alcuna conseguenza, salvo quella derivante dall’acquisto a non domino di bene mobile ad opera del terzo contraente di buona fede. Né la concessione di un’azione di annullamento potrebbe trovare più razionale spiegazione se si ritenesse che la comunione legale è, essa stessa, un soggetto di diritti: anche in questo caso l’atto compiuto dal non legittimato non dovrebbe essere efficace nei confronti della comunione. La soluzione legislativa più adeguata sarebbe stata, pertanto, l’inefficacia del contratto concluso senza il necessario consenso dell’altro coniuge. In verità se si ritiene che il terzo acquisti a non domino, la sanzione sarebbe dovuta essere l’inefficacia. Sarebbe peraltro erroneo dire che l’annullabilità si avrebbe solo in caso di alienazione ad opera del coniuge intestatario nei registri immobiliari, perché se l’intestazione è congiunta o a nome dell’altro coniuge vi sarebbe inefficacia ex art. 1478: il regime della comunione, infatti, prescinde totalmente, anche sul piano della pubblicità, dalle formalità dei registri immobiliari, che comunque non attengono alla titolarità. Secono altra tesi i coniugi sarebbero solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto i beni della comunione. Nei rapporti con i terzi ciascun coniuge avrebbe il potere di disporre dei beni, perché il consenso dell’altro non lo costituisce, ma solo rimuove un limite al suo esercizio, essendo così requisito di regolarità per la formazione dell’atto di alienazione, la cui mancanza si traduce in un vizio dell’atto stesso. Il terzo acquisterebbe pertanto a domino, ma con titolo viziato e quindi annullabile, con conseguenze anche sul piano processuale, per assenza di litisconsorzio necessario, attesa la solidarietà. In tal modo, però, sembra quasi che i beni siano di proprietà della comunione, intesa come società civile e non commerciale, e, in analogia con l’art. 2266, solo amministrati dai coniugi. Senonché il nostro ordinamento non conosce una titolarità solidale di diritti, analoga a quella della proprietà collettiva romana. Essa non sarebbe nemmeno assimilabile alla comunione a mani riunite di tipo germanico, la cui disciplina è comunque diversa da quella della comunione legale, che non dà vita ad un patrimonio di destinazione o separazione, come si desume dagli artt. 186 d), 189. (Gazzoni 2006, 378 s.). Sulla base di analoghe argomentazioni, è stata anche prospettata la questione di legittimità costituzionale del primo comma dell’art. 184 c.c. in riferimento agli art. 3, 24 comma 1, 29 comma 2, 42 comma 2 cost.: caratteristica peculiare della comunione legale, così come configurata dalla legge, è quella di dar luogo, non soltanto ad una speciale figura di contitolarità su beni e diritti, ma anche di essere un modo di acquisto di tale contitolarità, e cioè sostanzialmente un modo di acquisto del bene stesso, sicché il coniuge, solo per tale sua qualità, diviene automaticamente comproprietario del bene anche se questo è stato acquistato esclusivamente dall'altro ed egli non ha partecipato all'acquisto. La scelta operata dal legislatore di sanzionare come annullabilità (anziché come "nullità") l'atto compiuto da un coniuge senza il consenso dell'altro non appare quindi coerente con il sistema comportando la violazione dell'art. 42 comma 2 cost., risultandone indebolito il diritto di proprietà del coniuge sul bene comune a scapito della famiglia, con pregiudizio della funzione sociale della proprietà; profilandosi altresì il contrasto con il principio di eguaglianza, (non sussistendo ragioni giustificative della deroga al regime ordinario della comunione) e con l'art. 29 cost. restando incisa la dignità del coniuge il cui consenso è stato pretermesso, che è sempre il coniuge più debole e neppure apparendo giustificata la compressione di tutela rappresentata dalla configurazione dell'azione come annullabilità anziché sancire la piena inefficacia dell'atto. (Trib. Bari 14.1.1987, G COST, 1987, II, 2, 645). Particolarmente pertinente sembra il richiamo al principio di eguaglianza, e quindi al contrasto dell’art. 184 c.c. con l’art. 3 Cost.: chi partecipa alla comunione legale si trova in una situazione di svantaggio, rispetto a chi prende parte ad una comunione ordinaria, che non trova giustificazione né in esigenze di tutela del terzo contraente, né nella protezione dell’interesse familiare. Il partecipante alla comunione legale vede distorta la tutela giudiziale dei propri diritti, senza che l’incongrua tutela offertagli dall’art. 184 c.c. garantisca l’eguaglianza morale dei coniugi, giacché essa consente al coniuge più prepotente di compiere atti giuridici in dispregio dei diritti dell’altro coniuge, indipendentemente dall’effettivo interesse della famiglia. (Majello 1988, § 4.4.). È un fatto che, innanzi alle incongruenze della soluzione normativa, non si è riusciti a fornire soluzioni alternative che abbiano approdato ad un risultato condiviso. Non ha avuto successo, ad esempio, l’autorevole ricostruzione (Corsi 1979, 144 ss.) secondo cui l’art. 184 c.c. si riferirebbe esclusivamente ad una delle possibili ipotesi: quella che il coniuge che ha compiuto l’atto sia il coniuge formalmente intestatario del bene. Si può obiettare che, così facendo, si attribuisce all’intestazione un valore anche sostanziale che non trova riscontro nel dettato normativo La Corte costituzionale ha respinto con decisione ogni sospetto di incostituzionalità della norma, ribadendo che gli atti di alienazione dei beni, mobili o immobili, compiuti abusivamente da un coniuge senza il necessario consenso dell’altro non sono inefficaci, e che essi sono annullabili se riguardano beni immobili o beni mobili registrati: ciò in quanto la norma non può considerarsi derogatoria alla regola di inefficacia dell'atto di disposizione della cosa comune posto in essere da un comproprietario senza la partecipazione degli altri e pertanto non viola il principio di eguaglianza né quello alla difesa e nemmeno mortifica il diritto di proprietà del coniuge pretermesso o l'interesse della famiglia cui sono destinati i beni della comunione, ma anzi li protegge con la sanzione di invalidità dell'alienazione stipulata da uno dei coniugi. (Corte Cost., 17.3.1988, n. 311, GC, 1988, I, 1388, con nota di Natucci, V NOT, 1988, 640 e RN, 1988, 1306). Successivamente, la Cassazione ha ribadito che tutti gli atti di disposizione di beni immobili o beni mobili registrati appartenenti alla comunione coniugale, compiuti da uno solo dei coniugi senza il necessario consenso dell'altro, ovverosia in violazione della regola dell'amministrazione congiunta, sono validi ed efficaci e sottoposti alla sola sanzione dell'annullamento, in forza dell'azione proponibile dal coniuge, il cui consenso era necessario, entro i limiti previsti dall'art. 184 c.c. (Cass. 2.2.1995, n. 1252, RN, 1999, 361, con nota di De Michel; Cass. 17.12.1994, n. 10872, GCM, 1994, fasc. 12). L’unica spiegazione possibile sembra quella di prendere atto, allora, che il legislatore ha concepito la facoltà di disporre dei beni della comunione legale quale potere che inerisce per l’intero a ciascun coniuge disgiuntamente, ma abbia ritenuto di limitare questo potere prescrivendo il necessario consenso dell’altro coniuge. Ne consegue che l’atto non è efficace, perché il coniuge agente, che ha esercitato un diritto che gli appartiene, non è guardato dalla legge alla stregua di un qualunque “non legittimato”. L’atto è soltanto annullabile su iniziativa dell’altro coniuge, il quale fa così valere in giudizio il suo diritto alla partecipazione alla vita familiare, violato dal comportamento del partner. Infatti, la Corte Suprema ha espressamente richiamato le motivazione della sent. n. 311 del 1988 della Consulta, ribadendo che la comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza da quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei. Ne consegue che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell'intero bene comune, ponendosi il consenso dell'altro coniuge (richiesto dal comma 2 dell'art. 180 c.c. per gli atti di straordinaria amministrazione) come un negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite all'esercizio del potere dispositivo sul bene e che rappresenta un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell'atto di disposizione, la cui mancanza (ove si tratti di bene immobile o di bene mobile registrato) si traduce in un vizio da far valere nei termini fissati dall'art. 184 c.c. (Cass. 14.1.1997, n. 284, FD, 1997, 285. Nella specie, un soggetto, prima dell'entrata in vigore della l. n. 151 del 1975, aveva promesso in vendita un appartamento che non era ancora entrato nella sua proprietà. Verificatosi l'acquisto della proprietà alcuni anni dopo, quando era ormai in vigore il nuovo regime patrimoniale tra i coniugi, il promissario acquirente aveva convenuto in giudizio il solo promittente per ottenere, ex art. 2932 c.c., l'esecuzione in forma specifica del contratto. Il giudice del merito, in secondo grado, dichiarava trasferita al promissario acquirente soltanto la metà della proprietà dell'immobile, ossia quella spettante al promittente, e non anche l'altra metà spettante al suo coniuge non consenziente al trasferimento. La S.C., in applicazione dell'enunciato principio, ha dichiarato la nullità delle sentenze di entrambi i gradi ed ha rinviato la causa al primo giudice, rilevando che era stata omessa l'integrazione del contraddittorio nei confronti del coniuge del promittente venditore, la cui posizione era inevitabilmente coinvolta in una controversia che doveva avere ad oggetto l'immobile nel suo intero, stante l'inconcepibilità dell'ingresso di estranei nella comunione e la conseguente impossibilità di trasferimento della sola quota del coniuge promittente). Sin qui si è detto della scarsa tutela che la norma offre al coniuge non consenziente, ed è su questo punto che si appuntano, solitamente, le attenzioni degli studiosi. Ma che dire della posizione dei terzi contraenti? Il terzo, se l’azione è esercitata nei termini, non ha possibilità di scampo, giacché il suo acquisto cade anche se egli era in buona fede, non avendo il suo stato soggettivo, ai fini dell’applicazione dell’art. 184 c.c., rilevanza alcuna. Si può cogliere l’eccezione alla regola generale in materia di annullabilità: contrariamente a quanto sancito dall’art. 1445 c.c., l’art. 184 c.c. non fa cenno alla tutela della buona fede dei terzi. La stessa cosa accade, come visto a suo luogo, per le norme che sanciscono l’annullamento degli atti compiuti senza autorizzazione in materia di incapacità legale (artt. 322, 377 e 396 c.c.). Nel primo caso, la posizione dei terzi soccombe di fronte all’interesse della famiglia; nel secondo, è l’interesse alla protezione dell’incapace a prevalere sulla tutela dei terzi. Ma non è questa l’unica similitudine tra i due casi, incapacità e comunione legale, perché l’analogia si spinge oltre: in entrambi si rinvia al criterio distintivo, di incidenza pratica decisiva, tra amministrazione ordinaria e straordinaria; e, si badi anche, non è una distinzione, come spesso accade, utilizzata dall’interprete per ragioni ricostruttive o sistematiche, ma si tratta di uno dei rari casi nei quali alla distinzione è direttamente la legge a fare rinvio. Anche in questo caso, valgono pertanto gli spunti ricostruttivi tentati nel corso del cap. I in ordine alla presunzione di straordinarietà dell’atto. Quanto alla previsione di cui al terzo comma della norma, relativa ai beni mobili (cfr. Cendon 1979; Natucci 1988, 117), essa va interpretata nel senso che gli atti, seppure di straordinaria amministrazione, compiuti senza il necessario consenso e aventi ad oggetto questi beni, sono a tutti gli effetti validi ed efficaci, anche nei confronti dei terzi contraenti di mala fede, comportando soltanto una regolamentazione interna tra i coniugi. (Di questo avviso è la dottrina prevalente: cfr., ex multis, Finocchiaro 1975, 565 ss.; Bruscuglia 1992, 309. Contra: Corsi 1979, 144 ss., secondo il quale la norma trova attuazione soltanto nei casi in cui il bene è definitivamente acquistato dal terzo per effetto della regola «possesso vale titolo» ex art. 1153 c.c.; Bianca 2005, 113). Il coniuge che ha compiuto l’atto può essere obbligato dall’altro, con una domanda non necessariamente giudiziale (l’art. 184, comma 3°, c.c. non parla di azione, ma di «istanza»; è dubbio, invece, se la domanda debba avere forma scritta: per la tesi affermativa, Bianca 2005, 113, il quale osserva che «tale domanda si configura come una costituzione in mora, e deve quindi avere la forma scritta quale requisito formale necessario a conferirle il carattere di richiesta seria»; diversamente, Bruscuglia 1992, 312), ad una reintegrazione in forma specifica, vale a dire a recuperare i beni alienati; se ciò non è possibile, la reintegrazione avverrà per equivalente, attraverso il pagamento di una somma di denaro attualizzata al valore della moneta al momento della ricostituzione della comunione. Il problema della tutela dei terzi contraenti, non si pone soltanto riguardo ai coniugi in comunione legale, ma anche nel caso di coniugi in regime di separazione dei beni e di conviventi more uxorio. Il riferimento è ai terzi che abbiano ricevuto incarichi o ordinazioni dal coniuge o dal convivente: se il terzo che ha offerto un servizio di cui la coppia o l’intero nucleo familiare abbia profittato, non può soddisfare il proprio credito nei confronti del partner o del familiare convivente con cui aveva contrattato (ad esempio perché quest’ultimo è divenuto insolvente), gli istituti pertinenti sono la gestione di affari e la rappresentanza tacita. Accanto a questi, non va poi sottovalutato lo spazio che residua all’actio de in rem verso; con il limite ad essa intrinseco, ovviamente, che l’interesse del terzo troverebbe soddisfazione solamente nella misura in cui il convenuto si è giovato della prestazione: dunque, nel caso di coniugio o di convivenza more uxorio, presumibilmente, per la metà. (Per l’operatività dell’art. 2041 c.c. in ambito familiare, cfr. Albanese 2005, 249 ss.; Oberto 1991, 573, ove ampia bibliografia; questo autore è tornato poi sul tema con un’opera monografica: Oberto 2003. Per le difficoltà relative all’applicazione dell’azione di arricchimento nella convivenza, v. Panico 1997, 256. Con riferimento al rimedio della ripetizione dell’indebito: Albanese 2004, 650 ss.). IN SINTESI – Le conseguenze dell’atto di straordinaria amministrazione compiuto da un coniuge senza il consenso dell’altro (e da questo non convalidati) sono sancite dall’art. 184 c.c.: l’atto è annullabile se riguarda beni immobili o beni mobili registrati. La previsione dell’azione di annullamento quale rimedio fornito al coniuge contrario all’atto, è stata al centro di un ampio dibattito, non del tutto sopito, perché giudicata in contrasto sia con i principi generali della relatività del contratto sia con lo spirito della riforma, che reclamerebbe una maggiore tutela per il coniuge debole. 3. Amministrazione delegata ad uno dei coniugi ed amministrazione esclusiva di uno dei coniugi. LEGISLAZIONE: c.c. 177, 181-183 - c.p.c. 23, 737. L’art. 181 c.c., prevede l’emanazione di provvedimenti autorizzativi, nell’ambito di un procedimento non contenzioso (art. 737 e ss. c.p.c.), al fine di superare il rifiuto di consenso che uno dei coniugi frapponga al compimento di atti di straordinaria amministrazione od alla stipula di contratti per la concessione o per l’acquisto di diritti reali di godimento. Se uno dei coniugi rifiuta il consenso per la stipulazione di un atto di straordinaria amministrazione o per gli altri atti per cui il consenso è richiesto, l’altro coniuge può rivolgersi al giudice per ottenere l’autorizzazione; ottenuta la quale, può liberamente compiere l’atto da solo senza timore di future impugnative ex art. 184 c.c. da parte dell’altro coniuge. Si evita così che il rifiuto di un coniuge inerente un atto obiettivamente necessario per la comunione ne paralizzi il compimento (Cartoni Moscatelli 1989, 595). L’atto può essere autorizzato soltanto se necessario nell’interesse della famiglia o dell’azienda di cui alla lett. d dell’art. 177 c.c., non rilevando l’utilità (Mazzacane 1997, 131; Jannuzzi 1990, 538. Contra: A. e M. Finocchiaro 1975, 542). Competente è il tribunale ordinario del luogo di residenza della famiglia. (Ritengono invece A. e M. Finocchiaro 1975, III, 62, che rilevi, ex art. 23 c.p.c., il luogo dove si trovano i beni comuni). Lo stesso giudice è competente nel caso di lontananza o di impedimento di uno dei coniugi. Se si verifica questa situazione, e non v’è una procura del coniuge lontano o impedito, l’altro coniuge può compiere, previa autorizzazione del giudice e con le cautele eventualmente da questo stabilite (tra le possibili cautele: l’accantonamento di somme di denaro, il vincolo per il loro reimpiego, l’imposizione di una cauzione), gli atti necessari per i quali è richiesto, a norma dell’art. 180, il consenso di entrambi i coniugi (art. 182, comma primo, c.c.). (Il secondo comma della stessa norma prevede la possibilità, per il caso di gestione comune di azienda, che uno dei coniugi sia delegato dall’altro al compimento di tutti gli atti necessari all’attività dell’impresa. Questa possibilità, espressione di un particolare favor per lo svolgimento dell’attività imprenditoriale, si giustifica col fatto che il coniuge delegante può in ogni momento revocare la delega o ingerirsi nella gestione). Qui l’interesse della comunione prevale sull’interesse individuale, sicché un coniuge, sebbene capace di agire, è vincolato dalla scelta dell’altro che, previa autorizzazione, acquisisce il potere esclusivo di rappresentare la comunione per singoli atti determinati. Si parla, pertanto, di rappresentanza legale di persone capaci. Lontananza o impedimento devono essere tali da impedire al coniuge la prestazione del consenso; non devono però essere necessariamente di lunga durata, perché, anche quando temporanei, possono essere decisivi qualora l’atto da compiere abbia carattere di urgenza. Non condivido pertanto la tesi, sostenuta da una Corte d’Appello, secondo cui In tema di comunione legale, il compimento di atti eccedenti l'ordinaria amministrazione, da parte di uno solo dei coniugi, può essere autorizzato dall'autorità giudiziaria solo in caso di lontananza o di un impedimento temporaneo dell'altro. Pertanto, in caso di impedimento permanente o destinato a protrarsi per un tempo superiore a quello che può ragionevolmente essere considerato normale (nella specie, condizioni di salute di uno dei coniugi che apparivano tali da imporre la sua interdizione), si deve far ricorso agli ordinari mezzi di rappresentanza e non al procedimento previsto dall'art. 182 c.c. (App. Torino 18.5.1998, GC, 1999, I, 585, con nota adesiva di M. Finocchiaro). L'impedimento, in particolare, è generalmente inteso in senso ampio, comprensivo anche della scomparsa e dell’incapacità di intendere e di volere conseguente a malattia (Trib. Torino 29.4.1997, GI, 1998, 62 e RN, 1998, 682. La dichiarazione di assenza, invece, scioglie la comunione). L’atto deve essere necessario. L’autorizzazione non riguarda tutti gli atti di amministrazione, ma i singoli atti per i quali è stata specificamente rilasciata. La norma ora vista riguarda casi nei quali l’impossibilità di un coniuge ad amministrare costituisce l’ostacolo per uno o più atti determinati. Ma la legge provvede anche per il caso che la persona non sia idonea all’amministrazione: l’art. 183, comma primo, c.c. stabilisce che se uno dei coniugi è minore o non può amministrare ovvero se ha male amministrato, l’altro coniuge può chiedere al giudice di escluderlo dall’amministrazione. Si tratta di un provvedimento di volontaria giurisdizione, perché l’interesse tutelato è unico: la corretta amministrazione dei beni della comunione (Mazzacane 1997, 132. La esclusione opera invece di diritto riguardo al coniuge interdetto giudizialmente o legalmente). Il coniuge è privato del potere di compiere atti di ordinaria o straordinaria amministrazione, ma può chiedere al giudice di esservi reintegrato, se sono venuti meno i motivi che hanno determinato l’esclusione. Il coniuge legittimato dall’autorizzazione del giudice a compiere l’atto da solo, non agisce come rappresentante dell’altro: dell’obbligazione, pertanto, risponderanno i beni della comunione e il patrimonio personale del coniuge autore dell’atto, ma non i beni personali dell’altro coniuge. La responsabilità personale di quest’ultimo potrà essere coinvolta soltanto se l’atto era destinato a soddisfare le normali esigenze di mantenimento della famiglia (Bianca 2005, 116). IN SINTESI – Se uno dei coniugi rifiuta il consenso per la stipulazione di un atto di straordinaria amministrazione, l’altro coniuge può rivolgersi al giudice per ottenere l’autorizzazione a compiere l’atto da solo. L’atto può essere autorizzato soltanto se necessario nell’interesse della famiglia o dell’azienda di cui alla lett. d dell’art. 177 c.c., non rilevando l’utilità. Nel caso di lontananza o di impedimento di uno dei coniugi, se non v’è una procura del coniuge lontano o impedito, l’altro coniuge può compiere, previa autorizzazione del giudice e con le cautele eventualmente da questo stabilite gli atti necessari per i quali sarebbe richiesto il consenso di entrambi i coniugi. Infine, se uno dei coniugi è minore o non può amministrare ovvero se ha male amministrato, l’altro coniuge può chiedere al giudice di escluderlo dall’amministrazione. 4. Amministrazione ordinaria e straordinaria nel fondo patrimoniale. LEGISLAZIONE: c.c. 167, 168, 169, 171, 183 - disp. att. c.c. 38. I limiti posti dalla legge all’amministrazione del fondo patrimoniale derivano dalla sua natura di patrimonio separato destinato a «far fronte ai bisogni della famiglia» (art. 167, comma 1°, c.c.). Questo scopo, che coinvolge non solo i beni costituiti in fondo ma anche i loro frutti (art. 168, comma 2°, c.c.) impedisce che gli atti dispositivi possano essere liberamente compiuti, e spiega perché l’art. 169 c.c., rubricato «alienazione dei beni del fondo», distingua tra differenti ipotesi e imponga determinate garanzie. Prima della Riforma del diritto di famiglia, l’alienazione dei beni costituenti il patrimonio familiare era sottoposta a una disciplina più rigorosa: l’art. 170 c.c., testo originario, richiedeva sempre l’autorizzazione del tribunale, che la consentiva solo per necessità o utilità evidente, disponendo le modalità di reimpiego del prezzo. Il problema del rapporto tra vecchio art. 170 c.c. e nuovo art. 169 c.c. è stato affrontato dalla Corte Costituzionale: non rientra nei compiti della Corte costituzionale emanare una pronunzia additiva che estenda la disciplina del fondo patrimoniale, prevista dall'art. 169 c.c. novellato dalla l. 19.5.1975 n. 151, al patrimonio familiare previsto dall'art. 170 c.c. e conservato in via transitoria in ossequio al principio di diritto intertemporale della immutabilità delle convenzioni matrimoniali in precedenza stabilite; pertanto, è inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 227 l. 19.5.1975 n. 151, sollevata con riferimento agli art. 3 e 29 comma 2 cost., sotto il profilo che l'articolo stesso, sancendo l'ultrattività del principio dell'alienabilità del patrimonio familiare, potrebbe essere una discriminazione fra i coniugi, che abbiano costituito un patrimonio familiare, sotto il vigore del codice previgente, e i coniugi che abbiano successivamente costituito beni in fondo patrimoniale, che sono inalienabili, in relazione ai reali bisogni della famiglia. (Corte cost. 24.1.1992, n. 18, G COST, 1992, 93, GC, 1992, 859, GI, 1992, I, 1, 1404, D FAM, 1992, 497). Una corte di merito ha affermato che è ammissibile la trasformazione in fondo patrimoniale del patrimonio familiare, con facoltà per i coniugi di procedere all'alienazione dei beni relativi senza autorizzazione del tribunale, compiendo gli adempimenti a ciò finalizzati, comunque necessari (Trib. Genova, 3.2.1989, D FAM, 1991, 580). Precisamente, l’art. 169 c.c. sancisce che, se non è stato espressamente consentito nell’atto di costituzione, non si possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del fondo patrimoniale senza il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori, con l’autorizzazione concessa dal giudice, con provvedimento emesso in camera di consiglio, nei soli casi di necessità od utilità evidente. La norma va coordinata con il terzo comma dell’art. 168 c.c., che rinvia alle norme sulla comunione legale per la regolamentazione dell’amministrazione dei beni costituenti il fondo patrimoniale. Il rapporto tra le due norme si presta a diverse interpretazioni, ma la corretta applicazione della lettera dell’art. 169 c.c., la quale non distingue tra amministrazione ordinaria e straordinaria, rende operative tutte le norme relative all’amministrazione della comunione legale (artt. 180 – 185 c.c.) per ogni tipo di atti, salvo che per gli atti enunciati all’art. 169 c.c. Quella del fondo patrimoniale è pertanto un’amministrazione speciale, modellata su quella della comunione legale, ma che se ne differenzia per gli atti che maggiormente distoglierebbero i beni dalla loro precipua destinazione. Diversamente, si è anche sostenuta la suddivisione disciplinare secondo lo schema ordinaria/straordinaria amministrazione, nel senso che l’art. 168 disciplinerebbe gli atti di gestione normale, mentre l’art. 169 c.c. recherebbe la regola valevole per tutti gli atti di straordinaria amministrazione (A. e M. Finocchiaro 1979, 406). In realtà, la legge non si affida, nell’art. 169 c.c., ad un criterio distintivo elastico, ma si limita a prescrivere che per singoli determinati atti, non si può prescindere dalle cautele contemplate. La conseguenza è che per tutti gli atti, ad eccezione di quelli di cui alla norma citata, vale la regola generale: se rientranti nell’amministrazione ordinaria, possono essere compiuti disgiuntamente; se eccedenti, occorre il consenso congiunto dei coniugi (i quali devono agire congiuntamente anche per gli atti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento, ex art. 180 c.c.) e, in caso di rifiuto ingiustificato di uno di loro, l’atto potrà essere compiuto dall’altro con l’autorizzazione del tribunale ordinario (art. 38, comma 2°, disp. att. c.c.). L’assoggettamento dei beni ad una speciale disciplina di amministrazione e a limiti di alienabilità e espropriabilità in virtù del loro vincolo funzionale, incide sulla natura stessa dell’atto di costituzione di beni in fondo patrimoniale, che è atto di disposizione potenzialmente pregiudizievole per i creditori (Trib. Catania 31.10.1985, BBTC, 1987, II, 613). Pertanto detta costituzione restringe la garanzia patrimoniale generica dei creditori ed è assoggettabile ad azione revocatoria ordinaria. Ove la costituzione dei beni in fondo patrimoniale sia stipulata da un coniuge in favore dell'altro, il consilium fraudis può presumersi e non va provato ai fini della dichiarazione di inefficacia relativa (Trib. Napoli 27.1.1993, BBTC, 1994, II, 580). L’atto di destinazione di un bene al fondo patrimoniale è assoggettabile ad azione revocatoria in quanto comporta una disposizione del patrimonio del debitore ed è potenzialmente pregiudizievole per il creditore il quale può perdere la possibilità di agire esecutivamente su quel bene e sui relativi frutti, qualora sia consapevole dell'estraneità ai bisogni della famiglia del credito per il quale egli agisce. (Trib. Perugia 12.2.1987, V NOT, 1988, 604. Conformi: Trib. Catania 31.10.1985, BBTC, 1987, II, 613; App. Milano 8.4.1986, BBTC, 1987, II, 611). L’amministrazione dei beni del fondo spetta sempre ad entrambi i coniugi, anche qualora solo uno dei due fosse titolare del diritto di proprietà sui beni medesimi: trova applicazione anche a questa ipotesi, infatti, l’inderogabilità, ex art. 210 c.c., del criterio legale previsto per l’amministrazione dei beni in comunione legale. D’altra parte, l’affidamento dell’amministrazione ad uno solo dei coniugi, non solo contraddirebbe la parità tra coniugi voluta dalla Riforma del ’75, ma provocherebbe il rischio di reintrodurre sotto mentite spoglie l’istituto della dote, in spregio al divieto contenuto nell’art. 166-bis c.c. Il pericolo ricorre effettivamente, quantomeno nel caso in cui il coniuge cui venga affidata l’amministrazione non sia anche il proprietario dei beni (poco importando, invece che sia il marito o la moglie, posto che il divieto di costituzione dei beni in dote deve intendersi bilaterale, essendo diretto ad attuare una piena parità dei coniugi all’interno della famiglia). La giurisprudenza sembra orientata verso analoga posizione, ritenendo talmente grave la violazione della regola di amministrazione comune, da farne seguire una responsabilità del notaio rogante ex art. 28 l. 16 febbraio 1913 n. 89. (Demarchi 2005, 225, il quale richiama a conferma dell’ultima affermazione Trib. Foggia 9.6.2000, RN, 2001, 692). Visto il rinvio alle norme sull’amministrazione della comunione legale, si potrebbe pensare che in questo caso non si proponga il problema di enucleare, in relazione agli scopi della norma e alle peculiarità della fattispecie, un criterio distintivo diverso da quello formulato in quella sede. L’unica differenza, così ragionando, sarebbe nel fatto che per gli atti espressamente elencati dall’art. 169 c.c., non sarà sufficiente il consenso congiunto normalmente bastevole per gli atti di amministrazione straordinaria, ma occorreranno le ulteriori cautele previste dalla norma. In effetti, chi applica il tradizionale “criterio giuridico”, non perviene a risultati differenti da quelli adottati per la comunione legale, né, consequenzialmente, a quelli vigenti in materia di incapaci legali: ciascuno dei coniugi può compiere da solo tutti gli atti diretti alla conservazione dei beni, alla loro fruttificazione, alla riscossione delle rendite ed alla utilizzazione dei frutti secondo le esigenze delle famiglia; mentre eccedono l’amministrazione ordinaria, e vanno compiuti insieme, gli atti che alterano la consistenza del patrimonio o ne mettono in pericolo la conservazione, e che comunque distolgono i beni dal fine cui sono destinati, nonché, stante la precisa dizione dell’art. 180 c.c., i contratti con i quali si acquistano o si concedono diritti personali di godimento e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni (Jannuzzi 1990, 529). Si può obiettare che il rinvio all’art. 180 c.c. vale solamente riguardo alla disciplina dell’agire separato ovvero congiunto dei coniugi, e quindi riguardo alla circostanza che anche qui assume rilevanza, correlativa, la distinzione fra amministrazione ordinaria e straordinaria. Il punto cruciale, però, non può essere risolto affidandosi a quella norma. Occorre ancora capire in base a quale parametro vada commisurata la normalità dell’atto: ciò che è normale in relazione ad un patrimonio di cui sono titolari coniugi in regime patrimoniale legale, non è necessariamente coincidente con la normalità dell’attività svolta su un patrimonio soggetto ad ulteriore e più pregnante vincolo: la destinazione dei beni e l’impiego dei relativi frutti per i bisogni della famiglia. Il fatto stesso che per alcuni specifici atti siano prescritte garanzie diverse secondo che il bene ricada semplicemente nella comunione legale o sia oggetto del fondo, conferma che quello di normalità è concetto elastico, variabile in un caso rispetto all’altro. Quanto invece all’elencazione prevista dall’art. 169 c.c., questa norma aggiunge una categoria particolare a quelle tradizionali della ordinaria e della straordinaria amministrazione, giacché, come visto, parla solamente di alienazione, garanzie reali e costituzione di vincoli. La necessità, sentita nella prassi, di ampliare l’elenco, per ricomprendervi ogni tipo di atto che comporti la definitiva uscita di utilità dei beni dal fondo, è legittima e coerente con gli scopi della norma. Si tratta di necessità, tuttavia, che non può essere soddisfatta ricorrendo all’usuale allargamento della griglia degli atti elencati, intendendoli, genericamente, quali atti di amministrazione straordinaria; questo concetto, infatti, è già stato utilizzato per scriminare gli atti che non possono essere compiuti separatamente dai coniugi, e non può essere ancora richiamato per altri atti che vanno ulteriormente distinti da questi ultimi. Il problema va risolto, invece, correttamente interpretando il termine “alienazione” di cui all’art. 169 c.c., che permette di far rientrare nell’ambito operativo della norma tutti gli atti che costituiscono alienazione in senso lato: non solo la vendita, ma anche la permuta, la divisione, la transazione, la costituzione di diritti reali minori, la cessione di diritti, la costituzione di rendite. Tutti atti, peraltro, che, seguendo l’espressione adottata dall’art. 169 c.c., «comunque vincolano beni del fondo patrimoniale». In via interpretativa, l’ambigua formulazione dell’art. 169 c.c., ha dato luogo a non poche difficoltà in punto di applicazione concreta, essendo decisivo diversificare l’indagine a seconda di quanto si sia previsto in sede di costituzione del fondo patrimoniale: 1) Se l’atto con il quale si è costituito il fondo autorizza i coniugi a compiere ogni atto di ordinaria e straordinaria amministrazione, essi possono compiere gli atti enunciati all’art. 169 c.c. anche se hanno figli minori, purché li compiano congiuntamente (e salva la possibilità di ricorrere al giudice ex art. 181 c.c. in caso di rifiuto di uno dei due coniugi). Qualora l'atto di costituzione di beni immobili in fondo patrimoniale preveda che, anche in presenza di figli minori, i coniugi possano concordemente, senza autorizzazione giudiziale, alienare tali beni, il tribunale deve dichiarare il non luogo a procedere in ordine alla richiesta d'autorizzazione avanzata da entrambi i coniugi genitori di figli minori. (Trib. Verona 30.5.2000, D FAM, 2001, 594). Pur in presenza di figli minori la disciplina legale sancita dall’art. 169 c.c. – e quindi la preventiva autorizzazione del giudice alla alienazione di beni del fondo – si rende applicabile solo in mancanza di deroga prevista nell’atto di costituzione del fondo patrimoniale. (Trib. Roma 27.6.1979, RN, 1979, 952). Contra, Trib. Savona 24.4.2003, FD, 2004, 67, per il quale è nulla e priva di effetto la pattuizione contenuta nell’atto costitutivo del fondo patrimoniale escludente l’autorizzazione giudiziale richiesta dall’art. 169 c.c. per il compimento di atti di alienazione dei beni conferiti in fondo patrimoniale in caso di presenza di figli minori. L’atto non può essere compiuto singolarmente neanche se chi ha costituito il fondo ha formulato un’apposita clausola dell’atto costitutivo che concede questa possibilità: si tratta, infatti, di un diritto inderogabile, posto a favore e a carico dei coniugi, a tutela dell’interesse della famiglia (Jannuzzi 1990, 530, nt. 13. Contra: Grasso 1982, 395). Sebbene la formula normativa non escluda questa eventualità, deve anche osservarsi che se una simile clausola fosse consentita alla luce dell’art. 169 c.c., non lo sarebbe comunque al cospetto di una norma, sicuramente inderogabile, come è l’art. 180 c.c., che pretende in ogni caso il consenso congiunto per questo genere di atti. 2) Se invece l’atto costitutivo del fondo non prevede la facoltà dei coniugi di compiere ogni tipo di atto, occorre ulteriormente distinguere a seconda se vi siano o no dei figli minori. 2a) Se non vi sono figli minori, deve ritenersi che i genitori non possano compiere disgiuntamente gli atti in oggetto. Ciascuno dei coniugi può invece svolgere separatamente l’attività conservativa, nella quale rientra anche, se i beni sono fruttiferi, la disposizione delle rendite; fermo restando l’obbligo di reimpiegarle nel soddisfacimento dei bisogni della famiglia, disatteso il quale, il coniuge agente può essere escluso dalla gestione per cattiva amministrazione, se l’altro ne fa istanza al giudice ai sensi dell’art. 183 c.c. (De Paola e Macrì 1978, 243. Per Gabrielli 1982, 298 s., oltre che la rimozione ex art. 183 c.c., i figli o in loro mancanza chiunque ne abbia interesse potrebbero chiedere al giudice di irrogare una sanzione ai coniugi che non abbiano destinato i beni ai bisogni della famiglia. Secondo questo autore non rientrerebbero tra i «bisogni della famiglia» le necessità proprie di uno soltanto dei familiari). Assume decisivo rilievo, quindi, capire quando le rendite siano state destinate alla soddisfazione dei bisogni familiari, suggerendo gli studiosi di procedere con criterio oggettivo ponderato tenendo quindi conto della classe sociale, delle condizioni economiche e delle abitudini di vita dei coniugi, nonché dell’indirizzo della vita familiare eventualmente concordato fra di essi. (Carresi 1988, § 3.1.). Per compiere invece gli atti dispositivi elencati dall’art. 169 c.c., e dunque per «alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del fondo patrimoniale», occorre sempre il consenso congiunto dei coniugi, o, in sua assenza, che il giudice autorizzi uno dei due, ex art. 181 c.c., a compiere l’atto separatamente. Altrimenti, secondo alcuni, l’atto sarà soggetto ai rimedi previsti dall’art. 184 c.c. se il coniuge non consenziente intenda provocarli (Carresi 1988, § 3.1.); secondo altri, invece, l’atto sarà inefficace (A. e M. Finocchiaro 1979, 409 s.; Cian e Casarotto 1982, 834; Gabrielli 1982, 304 s.), ovvero nullo (De Paola e Macrì 1978, 252, secondo i quali l’atto sarebbe invece annullabile nella diversa ipotesi in cui la possibilità di alienare fosse prevista nell’atto costitutivo del fondo ma uno dei due coniugi abbia agito senza autorizzazione del giudice. In giurisprudenza, Trib. Napoli 25.11.1998, in Notariato, 1999, 451: «l’atto di alienazione dei beni del fondo patrimoniale realizzato in violazione dell'art. 169 c.c. è nullo perché illecito»). La situazione in cui versano i coniugi senza figli minori è pertanto identica a quella, vista al n. 1, dei coniugi con figli minori che abbiano espressamente previsto (o, per loro, il terzo costituente) la facoltà di compiere gli atti ex art. 169 c.c.: sarà sufficiente che essi siano d’accordo sull’opportunità di compiere l’operazione economica. 2b) Nemmeno questa comunione di intenti è però sufficiente se vi sono figli minori: in tal caso occorrerà sempre l’autorizzazione giudiziale, che sarà concessa nei soli casi di necessità o di utilità evidente. L’autorità competente è il tribunale ordinario, ex art. 38, comma 2°, disp. att. c.c. La diversa tesi, peraltro, che sostiene l’idoneità di un’apposita clausola dell’atto costitutivo a rendere superflua l’autorizzazione giudiziale anche in presenza di figli minori, finisce con attribuire agli stessi soggetti sottoposti al controllo giudiziale il potere di esserne esentati. Si è così affermato che l’autorizzazione all'alienazione dell'unico bene del fondo patrimoniale, subordinata dalla legge all'accertamento, da parte del giudice, della comprovata necessità e/o evidente utilità per il nucleo familiare, deve essere denegata laddove non venga adeguatamente provata l'evidente utilità per la famiglia dell'alienazione del bene e del trasferimento del vincolo di destinazione sul nuovo bene e laddove il prezzo di acquisto dello stesso (anche in considerazione delle riparazioni ed adattamenti che il nuovo bene richiede) contrasti con le modeste capacità reddituali della famiglia, a nulla rilevando a questo proposito il possibile ricorso a forme di finanziamento nonché ad aiuti economici da parte dei familiari e dei conoscenti. (Trib. Trani 3.5.1999, GC, 2000, I, 201, con osserv. di Patruno). In sede di gravame la corte di appello (App. Bari 15.7.1999, GC, 2000, I, 200, con osserv. di Patruno) affermava: L’acquisto di un bene, da inserire nel fondo patrimoniale, che sia più consono alle mutate esigenze familiari e di maggior valore è, di per sé, di evidente utilità ai sensi dell'art. 169 c.c., a nulla rilevando a tale scopo il reddito dichiarato, in sede fiscale, dai coniugi ed essendo, peraltro, sufficiente per il giudice 'aver ottenuto da parte degli interessati la dichiarazione di avere la possibilità economica di acquistare il bene e di provvedere alla sua (eventuale) ristrutturazione. In caso di alienazione dell'unico bene del fondo patrimoniale, il giudice ha il potere-dovere di disporre che la somma ricavata da tale vendita venga reinvestita nell'acquisto di un nuovo bene sul quale trasferire il vincolo del fondo patrimoniale. Insiste sul potere ed il dovere del giudice di ordinare il reimpiego in caso di alienazione di un bene in presenza di figli minori, Trib. Genova 26.1.1998, NGCC, 1999, I, 215, con nota di Viotti, e V NOT, 1999, 81, con nota di Giletta. Interessante, anche, è la parte del provvedimento in cui si afferma che il vincolo nascente dal fondo patrimoniale non cessa per effetto dell'alienazione del bene, ma unicamente a seguito di una delle cause indicate dall'art. 171 c.c. In proposito può richiamarsi anche Trib. minor. Perugia 20.3.2001, RN, 2001, 1189, con nota di Viani, che sulla medesima premessa che al di fuori dei casi tassativi previsti dagli artt. 169 c.c. e 171 c.c. non é possibile porre fine alla destinazione impressa dalla costituzione di un fondo patrimoniale, ha negato che sia possibile sciogliere convenzionalmente tale convenzione matrimoniale. IN SINTESI – L’art. 169 c.c. sancisce che, se non è stato espressamente consentito nell’atto di costituzione, non si possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del fondo patrimoniale senza il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori, con l’autorizzazione concessa dal giudice, con provvedimento emesso in camera di consiglio, nei soli casi di necessità od utilità evidente. La norma va coordinata con il terzo comma dell’art. 168 c.c., che rinvia alle norme sulla comunione legale per la regolamentazione dell’amministrazione dei beni costituenti il fondo patrimoniale, e dunque alla distinzione tra amministrazione ordinaria e straordinaria. Il rapporto tra le due norme si presta a diverse interpretazioni che hanno diviso la dottrina. Anche l’ambigua formulazione dell’art. 169 c.c. ha dato luogo a non poche difficoltà in punto di applicazione concreta, non essendo chiaro in quali ipotesi i coniugi siano esentati dall’ottenere l’autorizzzione giudiziale. Sembra decisivo, in proposito, diversificare l’indagine a seconda di quanto si sia previsto in sede di costituzione del fondo patrimoniale. 5. La gestione straordinaria dell’impresa familiare. LEGISLAZIONE: c.c. 230 bis. L’art. 230 bis c.c. stabilisce che «le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano alla impresa stessa». Questa disposizione attribuisce ai partecipanti un potere di controllo sulla gestione dell’imprenditore, che essi eserciteranno grazie alla partecipazione alle decisioni più importanti e alle scelte programmatiche relative all’azienda. Si tratta di uno strumento che tutela i diritti patrimoniali e la posizione di prestatore d’opera del familiare lavoratore, il quale non fruisce della garanzia di un salario minimo e la cui partecipazione agli utili e agli incrementi è esposta al rischio di impresa (Tanzi 1988, § 7.1.). A queste riunioni partecipano solo i familiari che collaborano nell’impresa, non invece l’imprenditore, il quale è il destinatario delle decisioni adottate in quella sede: l’organizzazione prevista dalla norma è «organizzazione dei collaboratori come parte contrapposta all’imprenditore» (Oppo 1992, § 17. Diversamente, Cattaneo 1983, 150). Il problema relativo agli atti che possono farsi rientrare nella nozione di gestione straordinaria, come tali di competenza dei familiari, viene tradizionalmente risolto facendo ricorso alla distinzione tra atti di ordinaria amministrazione e atti di straordinaria amministrazione. (Balestra 1996, 274). Per gestione straordinaria nell’ambito dell’impresa familiare, si intende l’attività di amministrazione che è potenzialmente idonea ad alterare la consistenza dell’impresa. La dottrina dell’impresa familiare, dopo aver premesso che la distinzione è relativa, osserva che nel caso di specie essa dipende dal carattere dell’attività svolta, da quanto si pratica normalmente in imprese dello stesso tipo, dalla dimensione dell’azienda e dall’incidenza che l’atto può avere sulla consistenza del patrimonio imprenditoriale o sulla libertà di esercizio dell’attività. (Tanzi 1988, § 7.4.). Tenuto conto della relatività del criterio di distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione, occorre ricomprendere nella gestione straordinaria tutti quegli atti che in relazione alle dimensioni dell’azienda, all’importanza patrimoniale dell’atto, alle conseguenze da esso nascenti, non assumono carattere di normalità nell’esercizio dell’attività imprenditoriale. (Sesta 2005, 272). In questo ambito, pertanto, è più che mai evidente che il concetto di normalità non può non essere riconnesso all’entità del patrimonio considerato. È indubbio che un atto che di per sé potrebbe rientrare nella gestione ordinaria ne esula qualora comporti un investimento così importante da porre in pericolo la stessa esistenza dell’impresa: consci, di ciò, gli studiosi si interrogano su quali poteri decisionali abbiano i partecipanti rispetto ad un atto che «appartiene alla gestione ordinaria per l’entità della spesa che esso comporta» (Tanzi 1988, § 7.4.), qualora l’imprenditore se ne assuma l’intero onere. (Nega ogni rilevanza alla volontà del gruppo Oppo 1992, § 17. Diversamente, Colussi 1981, 689). L’interpretazione della disciplina dell’amministrazione è evidentemente consequenziale alla concezione alla base dello stesso istituto dell’impresa familiare, che non può essere approfondita in questa sede. Basti qui notare che se si sostiene che tutti i partecipanti all’impresa siano imprenditori, deve inferirsi che ciascuno di essi è abilitato a compiere, disgiuntamente, gli atti di ordinaria amministrazione. L'impresa familiare è istituto nato per apprestare una tutela giuridica minima e inderogabile a garanzia del lavoro prestato da familiari affectionis vel benevolentiae causa, affinché la loro opera non venga più sfruttata e sia adeguatamente valorizzata. L'attribuzione del diritto di partecipare agli utili e agli incrementi, nonché ad alcune decisioni inerenti la gestione dell'impresa, evidenzia la natura associativa del rapporto, ragion per cui i familiari collaboratori assumono la qualifica di imprenditori e la responsabilità per le obbligazioni contratte per l'esercizio. (Pret. Santhia 14.7.1986, GI, 1987, I, 2, 518). Se al contrario, seguendo l’interpretazione dominante (Costi 1976; Colussi 1992, 173; Cattaneo 1983, 125), si condivide che imprenditore è il familiare che ha assunto l’iniziativa ed è titolare del patrimonio aziendale, sarà solo costui che potrà compiere ogni genere di atto, sia questo di amministrazione ordinaria ovvero straordinaria. Di questo secondo parere è la giurisprudenza della Suprema Corte, la quale afferma che il potere di gestione ordinaria dell'impresa familiare spetta, ex art. 230 bis c.c., esclusivamente al titolare della stessa, e l'eventuale esercizio di tale potere in violazione degli obblighi scaturenti dalla norma suddetta comporta non l'invalidità degli atti posti in essere, ma unicamente l'obbligo di risarcire i danni provocati (Cass., sez. lav., 4.10.1995, n. 10412, SI, 1996, 363. In dottrina, ex multis: Sesta 2005, 271). Rimane da stabilire se il fatto che la norma affidi alla maggioranza dei partecipanti le decisioni di maggiore importanza, impedisca all’imprenditore di compiere, in piena autonomia, gli atti inquadrabili nell’amministrazione straordinaria. Si è giustamente notato, che poiché le decisioni relative alla gestione straordinaria (così come quelle attinenti agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa) coinvolgono l’interesse di tutti, è evidente che non si sarebbe potuto tenere lontani i collaboratori partecipanti all’impresa da tali decisioni che riguardano i frutti del lavoro e la prestazione stessa del lavoro in un’impresa che hanno concorso a costituire, a mantenere ed a far progredire». (Jannuzzi 1990, 558). Tuttavia il potere di iniziativa non passa dall’imprenditore ai collaboratori. L’intervento dei familiari ha una mera rilevanza interna, perché non attiene all’attività amministrativa quale momento operativo ed esecutivo, ma inerisce esclusivamente al momento decisionale, esprimendosi attraverso il diritto di voto nelle decisioni, l’attuazione concreta delle quali appartiene soltanto all’imprenditore (cfr. Oppo 1992, § 17; Colussi 1981, 684 s.; De Martini 1983, 180). L’impresa familiare (…) non costituisce un genus di imprenditore collettivo differenziato rispetto alle forme societarie già tipicizzate dal codice civile, ma disciplina unicamente i reciproci diritti ed obblighi dei partecipanti, senza rilevanza determinante nei rapporti esterni. (Trib. Roma 17.3.1984, D FALL, 1984, II, 600). In senso contrario si è affermato che nell'impresa familiare le decisioni prese dai componenti del nucleo familiare hanno rilevanza esterna perché non è concepibile che gli atti di gestione straordinaria e di cessazione dell'impresa - cui quelle decisioni si riferiscono - possano prescindere del tutto dall'intervento di terzi estranei. (App. Ancona 10.7.1981, NDA, 1982, 219). Una cosa è partecipazione al voto, altra è l’amministrazione. L’imprenditore è libero di compiere qualsiasi atto di gestione, sia essa ordinaria o straordinaria, rimanendo i suoi atti validi ed efficaci. (Trib. Roma 17.3.1984, D FALL, 1984, II, 600; Pret. Palermo 28.1.1985, D FAM, 1985, I, 642, che dopo aver evidenziato che l’art. 230 bis c.c. attribuisce ai partecipanti all'impresa familiare diritti e poteri specifici e predeterminati, ha concluso, tra l’altro, che in mancanza di una esplicita previsione, deve negarsi a colui che partecipa all'impresa familiare il diritto di escludere il titolare della stessa dall'amministrazione e di sostituirvisi, nell'ipotesi di precarie condizioni di salute o di cattiva gestione). Nel senso opposto, App. Ancona 10.7.1981, NDA, 1982, 219, ha affermato che con l'estensione della disciplina dell'impresa familiare contenuta nell'art. 230 bis c.c. alla comunione tacita familiare, questa ha finito per perdere la tradizionale struttura piramidale e ha assunto una connotazione più democratica dal momento che tutte le decisioni di rilevante interesse per il gruppo familiare - in particolare quelle attinenti alla straordinaria amministrazione e alla cessazione dell'impresa - sono valide e operanti solo se adottate a maggioranza dei componenti della comunione familiare. In un caso particolare la Cassazione ha applicato la norma sul conflitto di interessi del rappresentato, risultandone l’annullabilità dell’atto compiuto dall’imprenditore senza attenersi alle decisioni del gruppo: l’istituto dell'impresa familiare, introdotto e regolato dall'art. 230-bis c.c. in via residuale o suppletiva, trova applicazione nella mezzadria, nell'ambito della normativa previgente alla nuova disciplina di cui alla l. 3.5.1982 n. 203, con riguardo a quelle situazioni che non sono oggetto di specifiche disposizioni di detta normativa, e, quindi, è operante con riguardo ai rapporti fra i componenti della famiglia colonica, da individuarsi in quei membri del nucleo familiare, che, indipendentemente da enunciazioni formali e da elementi secondari o sussidiari (quali la coabitazione nella casa colonica), prestino effettivamente la loro opera per la normale conduzione del fondo mezzadrile, in modo continuativo e coordinato con la direzione della azienda. Da ciò deriva che il potere di rappresentanza spettante al mezzadro nei confronti del concedente, secondo la previsione dell'art. 2150 c.c., va coordinato con il disposto del citato art. 230-bis, nella parte in cui tutela gli altri componenti della famiglia colonica, prescrivendo la deliberazione a maggioranza per gli atti di gestione straordinaria, di indirizzo produttivo o di cessazione dell'impresa. Pertanto, qualora uno di tali atti (nella specie, rinuncia al regime della proroga legale del rapporto di mezzadria) venga posto in essere dal mezzadro, quale capo della famiglia colonica, senza detta preventiva decisione maggioritaria, si verifica un'ipotesi di vizio della rappresentanza per conflitto d'interessi, la quale implica, in applicazione dell'art. 1394 c.c., su impugnazione del rappresentato, l'inefficacia dell'atto stesso ove il conflitto sia conosciuto al terzo (nella specie, del concedente). (Cass. 13.10.1984, n. 5124, GCM, 1984, fasc. 10). D’altra parte, il fatto che la legge non disponga nulla per il caso che non si riesca a formare una maggioranza tra i collaboratori o per il caso che vi sia disaccordo tra i collaboratori e l’imprenditore, depone a favore dell’autonomia operativa di quest’ultimo; così come la mancata previsione di un sistema di pubblicità, esclude che la decisione del gruppo possa essere opposta ai terzi che hanno contrattato direttamente con l’imprenditore, i quali non hanno modo di identificare quali siano i familiari con diritto di partecipazione e di voto (Tanzi 1988, § 7.1.). Parimenti, egli può rifiutarsi di compiere atti di gestione anche se questi sono stati deliberati dalla maggioranza dei partecipanti, i quali possono, in tal caso, porre fine alla loro collaborazione recedendo dall’impresa, ma non possono ottenere l’esecuzione coattiva della deliberazione. Sembra però corretto ritenere che essi possano altresì agire per il risarcimento del danno se l’imprenditore non si è uniformato alle decisioni della maggioranza, sempre che queste non siano contrarie alla legge (Cass., sez. lav., 4.10.1995, n. 10412, SI, 1996, 363; Trib. Roma, 17.3.1984, D FALL, 1984, II, 600; Pret. Palermo 28.1.1985, D FAM, 1985, I, 642; Panuccio 1981, 142; Costi 1976, 98; De Martini 1983, 180). Poiché, però, solo il proprietario può disporre dei suoi beni, egli non potrà essere chiamato a risarcire il danno se non abbia eseguito una delibera di alienazione di un suo bene, o, in generale, una delibera esorbitante dalle competenze del gruppo. Se, al contrario, è egli stesso che vuole alienare i beni al di fuori della volontà del gruppo, occore valutare se essi sono stati concessi in uso ai familiari collaboratori. Solamente in tal caso, egli è obbligato a destinarli all’impresa finché dura il vincolo partecipativo. IN SINTESI – L’art. 230 bis c.c. stabilisce che le decisioni inerenti alla gestione straordinaria sono adottate dai familiari a maggioranza. Per gestione straordinaria nell’ambito dell’impresa familiare, si intende l’attività di amministrazione che è potenzialmente idonea ad alterare la consistenza dell’impresa. Si tratta di una distinzione relativa, che dipende, tra l’altro, dal carattere dell’attività svolta e dalla dimensione dell’azienda. Se, seguendo l’interpretazione dominante, si condivide che imprenditore è il familiare che ha assunto l’iniziativa ed è titolare del patrimonio aziendale, sarà solo costui che potrà compiere ogni genere di atto, compresi gli atti di amministrazione straordinaria. Egli può rifiutarsi di compiere atti di gestione anche se questi sono stati deliberati dalla maggioranza dei partecipanti, i quali possono, in tal caso, porre fine alla loro collaborazione recedendo dall’impresa, ma non possono ottenere l’esecuzione coattiva della deliberazione. Il compimento dell’atto di gestione straordinaria in violazione delle decisioni della maggioranza non comporta l’invalidità dell’atto posto in essere, ma unicamente l'obbligo di risarcire i danni provocati. 2 LA TUTELA DEI FAMILIARI ATTRAVERSO L'AZIONE DI ARRICCHIMENTO di Antonio Albanese (APPUNTI TRATTI DALLA MONOGRAFIA “INGIUSTIZIA DEL PROFITTO E ARRICCHIMENTO SENZA CAUSA”, CEDAM, PADOVA, 2005) 1. Le attività a vantaggio altrui compiute nell’ambito dei rapporti di cortesia, affetto o convivenza. – 2. Segue: la restituzione come “terza via” tra donazione e obbligazione naturale. – 3. Verso un superamento della presunzione di gratuità. – 4. La necessità di tutelare l’impoverito che abbia riposto un legittimo affidamento nelle conseguenze del proprio sacrificio patrimoniale. 1. Le attività a vantaggio altrui compiute nell’ambito dei rapporti di cortesia, affetto o convivenza. Nell’esaminare il requisito della causa dell’arricchimento, va premesso che sbaglia quella giurisprudenza che, ogniqualvolta ravvisa la volontà dell’impoverito di prendere un’iniziativa diretta a beneficiare il terzo, ritiene che ciò sia sufficiente ad escludere l’operatività del rimedio restitutorio. Occorre, invece, che la volontà attributiva si identifichi specificamente con l’intenzione liberale dell’impoverito, affinché sussista una «giusta causa» dell’arricchimento. Inoltre, si è anche visto che può accadere che all’obbligazione restitutoria si sovrapponga, assorbendola, la regola dell’irripetibilità delle prestazioni eseguite in adempimento di una obbligazione naturale. Si tratta di due regole che hanno importanti risvolti nel campo delle attività prestate all’interno dei rapporti familiari: nell’ambito del rapporto tra coniugi conviventi, ma spesso anche in quello di convivenza more uxorio, i giudici ravvisano una presunzione di gratuità delle prestazioni effettuate affectionis vel benevolentiae causa. Particolarmente complessi sembrano i problemi qualificatori legati alla convivenza more uxorio, risolvendosi questa in una situazione caratterizzata da un complesso di rapporti unificati, sotto il profilo personale dalla affectio coniugalis, sotto il profilo economico dall’animus donandi, alla quale si tende a negare, nel nostro ordinamento, la configurazione di fonte di obbligazione, «non potendo considerarsi né un fatto illecito, né un contratto e nemmeno un quasi contratto e, in particolare, una promessa di matrimonio»1. Dalla presunzione di gratuità che, per comune ammissione, presiederebbe a questi rapporti, consegue che per vedere riconosciuto il proprio diritto ad agire in arricchimento si dovrà fornire la 1 Trib. Roma, 10 ottobre 1985, in Temi rom., 1985, p. 953. prova contraria, ossia dimostrare che la prestazione è stata effettuata in conseguenza di un rapporto di lavoro subordinato2. Quanto alla famiglia legittima, occorre tenere conto della reciprocità del dovere di contribuzione nella gestione della famiglia che fa capo ad entrambi i coniugi: l’azione di arricchimento, in tale prospettiva, potrà essere accolta soltanto se sussiste «un palese squilibrio in ordine ai contributi apportati alla vita in comune» 3. Ma in genere in tutte le ipotesi di servizi resi amicitiae vel benevolentiae causa, i giudici sono pervicacemente restii a concedere tutela all’impoverito. Ritengo, però, che esista un’ampia quanto inesplorata zona d’ombra all’interno della quale all’azione di arricchimento può essere riservato uno spazio importante: la “giusta causa” deve essere reperita caso per caso, e non ogni prestazione resa “spontaneamente” può essere ricondotta nell’alveo della liberalità o delle obbligazioni naturali. La sussistenza di uno spirito di liberalità idoneo a giustificare la locupletazione non può essere presunta, ma deve invece essere vagliata in concreto: accertando, innanzitutto, che vi sia l’effettiva sussistenza di una comunanza di vita spirituale e materiale. Lo stesso ragionamento vale anche per i doveri morali e sociali: se la prestazione è stata il riflesso di un dovere morale largamente condiviso, essa non può essere ripetuta, ma se il giudice vi scorge l’esecuzione di un dovere avvertito come tale dal solo solvens, o fondato sulla mera cortesia o sul galateo, i rimedi restitutori non possono essere a priori esclusi. La base da cui occorre partire è che la prestazione spontanea dell’impoverito non è di per sé preclusiva dell’azione. Il giudice dovrà effettuare una duplice valutazione: la prima, per accertarsi se vi sia una giustificazione giuridica dello spostamento patrimoniale: norma di legge, contratto, liberalità, adempimento di doveri morali o sociali. Se questa prima valutazione avrà esito negativo, 2 Trib. Catania, 24 ottobre 1994, in Riv. crit. dir. lav., 1995, p. 650: «le prestazioni lavorative fra conviventi, nell’ambito di una comunità familiare anche di fatto – nella fattispecie l’asserito dipendente conviveva more uxorio con la figlia dell’asserito datore di lavoro nell’abitazione di quest’ultimo – si presumono rese a titolo gratuito, dovendosi ritenere espletate al di fuori di qualsiasi incontro di volontà contrattuale e determinate da impulsi affettivi e dalla comunanza di interessi, che escludono il carattere oneroso del rapporto; tale presunzione di gratuità può essere superata dalla prova rigorosa, incombente sulla parte che sostiene l’esistenza del rapporto di lavoro, circa i requisiti della subordinazione e della onerosità della prestazione». 3 GALLO, Arricchimento senza causa e quasi contratti (i rimedi restitutori), cit., p. 213. Cfr. anche OBERTO, Impresa familiare e ingiustificato arricchimento tra conviventi «more uxorio», nota a Trib. Torino, 24 novembre 1990, in Giur. it., 1991, I, 2, c. 573, ove ampia bibliografia. (Questo autore è tornato sul tema, recentemente, con un’opera monografica: Le prestazioni lavorative del convivente more uxorio, Padova, 2003). Per le difficoltà relative all’applicazione dell’azione di arricchimento nella convivenza, v. PANICO, Sull’esperibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento nel caso di cessazione della convivenza more uxorio, in Giur. it., 1997, IV, c. 256. dovrà operare con una seconda valutazione, questa volta basata sui dati del comune sentire sociale, al fine di qualificare la locupletazione in termini di giustizia o di ingiustizia. Se, ad esempio, un soggetto, senza esservi tenuto e senza essere legato all’altra parte da un rapporto personale, affettivo o parentale che possa far ravvisare la presenza di un animus donandi, ha somministrato alimenti ad un altro soggetto confidando nella sua promessa di futura rimunerazione, qualora sia impossibile dimostrare la promessa (e quindi la responsabilità contrattuale dell’arricchito), sembra equo riconoscergli ristoro attraverso il rimedio restitutorio4. In questo caso, infatti, non è ravvisabile né il carattere di liberalità dell’attribuzione, in presenza del quale saremmo innanzi ad una liberalità d’uso ex art. 770, comma 2º, c.c., né il carattere di doverosità dell’attribuzione che contraddistingue la fattispecie di cui all’art. 2034 c.c. Né, ancora, la situazione potrebbe essere ricondotta all’ipotesi contemplata dal primo comma dell’art. 770 c.c., poiché l’attribuzione non era fatta per riconoscenza o in considerazione dei meriti del donatario o per speciale remunerazione5. In questo caso, inoltre, occorre che i giudici, valutando tutti gli elementi di fatto, abbiano avuto la possibilità di escludere di essere innanzi ad un caso di arricchimento imposto. Parimenti, non può parlarsi né di presunzione di liberalità né di obbligazione naturale nel 4 Reputo quindi corretta la decisione di Trib. S.M. Capua Vetere, 10 giugno 1957: «la corresponsione di prestazioni continuative di viveri, da parte di chi non sia tenuto a fornire gli alimenti, allorché manchi la pattuizione di un corrispettivo, ma sia stata effettuata nella speranza di futuri vantaggi, non può trovare inquadramento nello schema negoziale della somministrazione di cui all’articolo 1559 c.c., che è di spiccata natura sinallagmatica. Tuttavia è certo che il vantaggio dal (convenuto) fruito non è stato adeguatamente remunerato, onde da una parte un ingiustificato arricchimento, cui fa riscontro, dall’altra, un depauperamento, legati da evidente nesso di causa ad effetto». Il Tribunale ha concesso pertanto all’attore il rimedio ex art. 2041 c.c., anche in considerazione del fatto che egli «non è in condizioni di esercitare azione contrattuale perché contratto non vi fu, come è pacifico, ove si eccettuino delle evanescenti promesse, naturalmente contestate dal convenuto». 5 Senza addentrarmi nel tema specifico della distinzione tra la liberalità fatta per riconoscenza e gli altri doveri morali e sociali ex art. 2034 c.c., mi limito a riportare le significative conclusioni cui era giunto BARASSI, Teoria generale delle obbligazioni, II, Milano, 1948, p. 396, secondo il quale mentre nella donazione remuneratoria l’adempimento del dovere morale è soltanto un «motivo» che determina l’animus solvendi, nella obbligazione naturale esso è la «causa» dell’obbligazione. Quanto alla distinzione tra donazione remuneratoria e liberalità d’uso, v. Cass., 1° gennaio 1992, n. 1077, in Arch. civ., 1992, p. 671, in Nuova giur. civ. comm., 1992, I, p. 654, con nota di REGINE e in Vita not., 1992, p. 604, secondo cui per la prima deve intendersi l’attribuzione gratuita compiuta spontaneamente e nella consapevolezza di non dover adempiere alcun obbligo giuridico, morale o sociale per compensare i servizi resi e/o promessi dal donatario, mentre per la configurabilità della seconda si richiede non solo che l’attribuzione patrimoniale gratuita sia effettuata per speciale apprezzamento dei servizi in precedenza ricevuti dal donante o per rispettare l’uso che consiglia di compierla in determinate occasioni, ma anche una certa equivalenza economica tra il valore delle cose donate e quello dei servizi ricevuti dal disponente. soccorso prestato da una persona ad un amico che si trova in stato di indigenza, e, in generale, nelle prestazioni effettuate al di fuori di qualsiasi comunanza di vita o di interessi6. Ma mentre, in teoria, non dovrebbe essere particolarmente complicato scorgere la presenza di una norma di legge o di un valido accordo che fungano da giustificazione dell’arricchimento, i maggiori problemi sorgono proprio in relazione alle altre due ipotesi, liberalità e obbligazione naturale, essendo radicata la convinzione che i servizi prestati spontaneamente, soprattutto se resi in ambito familiare o di convivenza, debbano presuntivamente farsi rientrare nell’una o nell’altra7. La difficoltà principale è poi dovuta alla facilità di sconfinamento da un concetto all’altro. Il settore che ha salutato un’inversione di tendenza piuttosto evidente è quello della effettuazione di elargizioni in favore della convivente more uxorio: da una qualificazione in termini di donazione rimuneratoria, si è passati negli ultimi quaranta anni a ritenere che esse configurino adempimento di una obbligazione naturale, svincolando così la validità dell’attribuzione dall’obbligo di rispettare le prescrizioni formali8. Ai nostri fini, in ogni caso, è sufficiente escludere, da un lato la sussistenza di un animus donandi dell’impoverito9, dall’altro che egli abbia agito spontaneamente in adempimento di doveri morali o sociali: né l’una né l’altra circostanza possono presumersi dal mero fatto della 6 A volte è l’elemento della convivenza more uxorio ad essere considerato decisivo ai fini della presunzione di gratuità: per Trib., 2 luglio 1997, in Rass. giur. umbra, 1998, p. 423, «qualora tra due persone vi sia stata una semplice relazione sentimentale e non una convivenza more uxorio … non è esclusa la possibilità della ripetizione nell’ipotesi in cui uno dei soggetti abbia effettuato delle spese a favore dell’altro». 7 Trib. Larino, 21 ottobre 1994, in Nuovo dir., 1995, p. 519, con nota di FRONTINI, ha affermato che in una relazione di convivenza more uxorio, il convivente, che ai sensi del diritto può essere assimilato ad un ospite, non ha diritto al pagamento di una somma corrispondente all’incremento di valore del fabbricato in proprietà dell’altro convivente in dipendenza di lavori di ristrutturazione ed ampliamento che egli abbia eseguiti, a meno che non provi che le sue dazioni eccedano dall’esecuzione dei doveri morali e sociali di cui all’art. 2034 c.c. 8 Per tutti. V. CARBONE, Terminata la convivenza vanno restituiti i regali: la cassazione «ripiomba» nel medioevo, commento a Cass., 24 novembre 1998, in Corr. giur., 1999, p. 62: «la convivenza di fatto … fa scaturire tra i partners doveri morali e sociali, e, quindi, obbligazioni naturali e non donazioni». 9 Affinché si possa escludere di trovarsi in presenza di una liberalità d’uso, occorre far capo al fatto che l’attribuzione è tale solo quando caratterizzata dal fatto che colui che la compie intende osservare un uso, cioè adeguarsi ad un costume vigente nell’ambiente sociale d’appartenenza, costume che determina anche la misura dell’elargizione in funzione della diversa posizione sociale delle parti, delle diverse occasioni ed in proporzione delle loro condizioni economiche, nel senso che comunque la donazione non debba comportare un depauperamento apprezzabile nel patrimonio di chi la compie: non può parlarsi di liberalità d’uso, ad esempio, nel caso di un’elargizione di gioielli fatta allo scopo di consentire la prosecuzione di una convivenza (Cass., 24 novembre 1998, n. 11894, in Guida al dir., 1998, fasc. 48, p. 32, con nota di FINOCCHIARO). convivenza.10 2. Segue: la restituzione come “terza via” tra donazione e obbligazione naturale. Sempre ai nostri limitati fini basti ricordare che, per comune convinzione, l’indagine sulla sussistenza di un’obbligazione naturale è duplice, dovendo accertarsi, da un lato, se nel caso dedotto sussista un dovere morale o sociale in rapporto alla valutazione corrente nella società e, dall’altro, se tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità ed adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso11. Pertanto, una prestazione può configurare esecuzione di doveri morali o sociali solo qualora corrisponda a regole correntemente e diffusamente osservate nella collettività in determinate contingenze12. È questo il primo punto che il giudice di merito dovrà valutare anche per reperire una giustificazione dell’arricchimento: in presenza, ad esempio, di elargizioni di denaro effettuate da una persona al proprio partner nel corso di una relazione sentimentale, dovrà accertare in concreto se da tale relazione possano scaturire, a carico del solvens, doveri morali e sociali tali da indurlo alle attribuzioni patrimoniali anzidette13. In secondo luogo, occorrerà valutare se l’attribuzione patrimoniale, ad esempio quella 10 Sembra che il ragionamento di cui nel testo sia stato correttamente applicato da Trib. Genova, 27 marzo 1998, in Nuova giur. ligure, 1999, fasc. 1, p. 24: «la domanda del convivente more uxorio, il quale, avendo provveduto, in favore di una cooperativa edilizia di cui era socia la convivente, a pagamenti in conto delle contribuzioni da quest’ultima dovute per la prenotazione di un appartamento, chiede la restituzione da parte della convivente delle somme pagate, deve essere accolta, dovendosi escludere: a) che si tratti di obbligazione naturale, non essendo state le erogazioni destinate ai bisogni della vita della famiglia di fatto; b) che si tratti di liberalità d’uso, non sussistendo una sostanziale equivalenza economica tra le dazioni del convivente e i servizi allo stesso resi dalla beneficiaria nel corso della coabitazione; c) che si tratti di altro tipo di liberalità, mancando la prova dell’animus donandi, che non può presumersi dal mero fatto della convivenza». 11 Cfr., tra le tante, Cass., 12 febbraio 1980, n. 1007, in Giust. civ. Mass., 1980, fasc. 2, ove si dà anche atto della nota distinzione, contenuta nell’art. 2034 c.c., di due categorie di obbligazioni naturali, essendo previste al comma 2º fattispecie tipiche di obbligazioni naturali (casi, cioè, esplicitamente contemplati dalla legge di atti socialmente e moralmente leciti, che non assurgono però a vincoli giuridici e sono quindi sforniti di azione, quali l’adempimento della disposizione fiduciaria e il pagamento del debito prescritto e del debito di gioco) e al comma 1º con disposizione molto più ampia, l’esecuzione spontanea di un dovere morale (o di coscienza) o sociale. Con riferimento a tale disposizione di carattere generico, varrebbe la duplice indagine di cui è fatto cenno nel testo. 12 La giurisprudenza non ritiene sufficiente il convincimento soggettivo del solvens ma considera indispensabile che il dovere appaia tale, secondo i parametri comunemente recepiti nella vita di relazione. Ciò permette, ad esempio, di escludere che costituiscano adempimento di un’obbligazione naturale le sovvenzioni private a partiti ed uomini politici (cfr., in argomento, Trib. Roma, 18 maggio 1982, in Foro amm., 1982, c. 1307). 13 Per un riferimento a tale accertamento v. Cass., 26 gennaio 1980, n. 651, in Giust. civ. Mass., 1980, fasc. 1. effettuata in favore del convivente more uxorio, risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio ed alle condizioni sociali del solvens14. Se non ricorre un rapporto di proporzionalità tra prestazione e dovere che ne è alla base, ossia se la prestazione ha un valore sproporzionato rispetto all’obbligo morale o sociale del comportamento, si ritiene che per l’eccedenza si ricada nell’ambito della donazione, con annesso obbligo di ricorrere alle formalità previste dalla legge. Questo automatismo, a parte la sua inconciliabilità con le norme sulla liberalità (in specie quelle attinenti alla forma), non dà alcuna certezza15; così come è da rifiutare anche l’automatismo inverso, in base al quale ogniqualvolta una attribuzione a titolo gratuito manca dei presupposti per la configurabilità di una obbligazione naturale, si richiama in causa la figura della donazione, in specie rimuneratoria: come avvenuto, ad esempio16, nel caso della elargizione di una somma di denaro effettuata da una persona anziana a favore della domestica inviatale dal comune nel quadro dell’assistenza domiciliare. Invero, la qualificazione di donazione rimuneratoria, permette comunque al solvens di essere reintegrato della diminuzione patrimoniale subita quando la elargizione non sia di modico valore (nella specie, si trattava di venti milioni di lire, versati su di un libretto al portatore), poiché l’inosservanza della forma dell’atto pubblico, prescritta dall’art. 782 c.c., comporta la nullità dell’attribuzione. La considerazione del considerevole valore della elargizione, commisurata a tutte le circostanze di fatto, dovrebbe però far riflettere sulla reale possibilità di configurare, senza innaturali forzature, l’esistenza di un animus donandi: poiché quest’ultimo, specie in assenza di forma, deve essere dimostrato, riterrei più corretto il ricorso alla clausola generale ex art. 2041 c.c. in ogni ipotesi nella quale l’arricchito non ha offerto la prova della «giusta causa» del proprio arricchimento e questo appaia ingiusto dalla rilevazione delle circostanze di fatto. Prima di procedere alla degiuridificazione del rapporto occorre insomma molta cautela17. 14 Cfr. App. Napoli, 5 novembre 1999, in Giur. Nap, 2000, p. 232: l’attribuzione patrimoniale era stata effettuata a titolo di ristoro per il sacrificio della sua aspirazione ad un’esistenza autonoma ed indipendente, nonché al fine di assicurargli un’autosufficienza economica per il tempo successivo alla cessazione del rapporto. 15 BRECCIA, L’arricchimento senza causa, cit., p. 993, dubita che, nel silenzio della legge, «si possa procedere alla costruzione di schemi atipici se non addirittura «astratti», i quali portino alle stesse conseguenze di una liberalità, pur nel difetto dei rigidi presupposti a cui … sono subordinate l’efficacia e la stabilità delle attribuzioni gratuite». 16 App. Genova, 18 gennaio 1988, in Vita not.,1988, p. 128, con nota di FONTANA. 17 Bene ha fatto quindi la Suprema Corte ad escludere la gratuità del lavoro svolto da un soggetto in favore del proprio cugino, con la motivazione che «l’elemento che giustifica la gratuità di prestazioni lavorative obbiettivamente riconducibili ad un rapporto di lavoro subordinato, e quindi ad un contratto naturalmente oneroso, deve essere accertato con indagine particolarmente rigorosa, tenendo comunque conto che il fine di acquisire particolari cognizioni può giustificare la D’altra parte la disciplina dell’indebito ha già tracciato il solco, quale importante esempio di superamento dell’automatismo spontaneità (assenza di errore) = liberalità. Si ricorderà infatti la ormai acclarata ripetibilità anche del pagamento sciente dell’indebito. 3. Verso un superamento della presunzione di gratuità. Negli ultimi anni, è in corso un progressivo superamento della presunzione di liberalità nell’ambito dei rapporti sin qui descritti, anche per effetto dell’introduzione, ad opera della riforma del diritto di famiglia del 1975, dell’istituto dell’impresa familiare (art. 230 bis c.c.)18. Rimane tuttavia molto controverso, se questa lenta inversione di tendenza sia estensibile anche alla famiglia di fatto19, posto che la stessa estensione analogica dell’art. 230 bis c.c. alla convivente more uxorio incontra tuttora ostacoli20. gratuità del rapporto solo nel caso di sussistenza, nel concreto svolgimento dell’attività lavorativa, di elementi coerenti con il fine suddetto, quali una particolare perizia del datore di lavoro e la possibilità del lavoratore di sfruttarla mediante l’insegnamento o, almeno, il lavoro in comune» (Cass., sez. lav., 23 febbraio 1989, n. 1009, in Foro it., 1989, I, c. 1482). 18 Per un approfondimento della ratio dell’art. 230 bis c.c., con ampi riferimenti giurisprudenziali e bibliografici, rinvio a BALESTRA, L’impresa familiare, Milano, 1996, p. 14 ss. 19 Alla considerazione in cui deve essere tenuto, anche in materia di famiglia di fatto, il «ridimensionamento della presunzione di gratuità delle prestazioni rese anche nell’ambito della famiglia legittima a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 230 bis c.c.» ha fatto riferimento Cass., 13 dicembre 1986, n. 7486, in Giust. civ. Mass., 1986, fasc. 12, concludendo che il giudice «può escludere l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato solo in presenza della dimostrazione rigorosa di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi (famiglia di fatto), che non si esaurisca in un rapporto meramente spirituale, affettivo e sessuale, ma, analogamente al rapporto coniugale, dia luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, della convivente more uxorio alle risorse della famiglia di fatto». Conforme: Pret. Sampierdarena, 26 ottobre 1987, in Dir. lav., 1991, II, p. 373, con nota di FONTANA. Cass., sez. lav., 29 maggio 1991, n. 6083, in Dir. lav., 1991, II, p. 373, con nota di FONTANA, ha affermato che la prova del carattere contrattuale del rapporto (di lavoro subordinato) incombe su chi, per avvantaggiarsene, lo invoca; mentre accertarne la sussistenza è compito del giudice di merito, il quale è libero di formare il proprio convincimento utilizzando gli elementi probatori ritenuti rilevanti; la sua valutazione, se adeguatamente motivata ed immune da errori logico-giuridici, non è censurabile in sede di legittimità. 20 La giurisprudenza prevalente è infatti contraria; cfr., ad esempio, Cass., sez. lav., 2 maggio 1994, n. 4204: «l’art. 230 bis c.c., che disciplina l’impresa familiare, costituisce norma eccezionale, in quanto si pone come eccezione rispetto alle norme generali in tema di prestazioni lavorative ed è pertanto insuscettibile di interpretazione analogica; deve peraltro ritenersi manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 230 bis nella parte in cui esclude dall’ambito dei soggetti tutelati il convivente more uxorio, posto che elemento saliente dell’impresa familiare è la famiglia legittima, individuata nei più stretti congiunti, e che un’equiparazione fra coniuge e convivente si pone in contrasto con la circostanza che il matrimonio determina a carico dei coniugi conseguenze perenni ed ineludibili (quale il dovere di mantenimento o di alimenti al coniuge, che persiste anche dopo il divorzio), mentre la convivenza è una situazione di fatto caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale ad nutum». L’abbandono graduale della presunzione di gratuità deve essere salutato con favore ed incentivato: una volta dimostrato che la collaborazione del convivente nell’impresa è idonea ad incrementare il patrimonio dell’altro, i rimedi restitutori saranno i più idonei a colmare il vuoto di tutela che per lungo tempo ha contraddistinto la materia. Basterà, come “ultimo atto”, vedere se ricorrano gli estremi per ravvisare la sussistenza tra i due conviventi di una società di fatto; in caso contrario, poiché l’arricchimento non trova giustificazione né nello spirito di liberalità, né in un contratto né in una disposizione di legge (sempre che non si voglia applicare analogicamente l’art. 230 bis c.c.), il convivente “debole” potrà avere ristoro con l’azione di arricchimento. La vigenza di un divieto generale di arricchimenti ingiustificati impone una rimeditazione della posizione patrimoniale dei conviventi, e consente di sanare gli antichi quanto anacronistici pregiudizi verso la famiglia di fatto incarnati dalla alternativa donazione rimuneratoria – obbligazione naturale. Il generale risultato cui i giudici sono nel tempo pervenuti, consistente nella affermazione di una obbligazione naturale di mantenimento e di reciproca assistenza (paragonabile in certo senso agli obblighi giuridici previsti per i coniugi dall’art. 143 c.c.), ha dato vita ad una prima forma di riconoscimento dei diritti spettanti ai conviventi more uxorio; ma è la mancanza di certezza formale e della conseguente pubblicità, che caratterizza i rapporti che si svolgono all’interno della famiglia di fatto, esclude ogni possibilità di pretendere l’adempimento coattivo dei citati obblighi di assistenza e mantenimento21. Laddove gli interessati non siano intervenuti preventivamente con gli strumenti dell’autonomia negoziale, come la stipulazione di un contratto di lavoro subordinato o di un contratto di convivenza22, le sperequazioni possono essere rimediate ex post attraverso le obbligazioni restitutorie, proprio perché né la legge, né la volontà delle parti, hanno derogato alla vigenza del principio dell’arricchimento senza causa: la presenza di una obbligazione naturale è esclusa dall’assenza di proporzionalità e adeguatezza delle prestazioni; non vi è liberalità perché l’impoverito riponeva un proprio legittimo affidamento nella stabilità della situazione di fatto instauratasi. Contra, Trib. Torino, 24 novembre 1990, in Giur. it., 1991, I, 2, c. 574, con nota di OBERTO, ha statuito che le disposizioni di cui all’art. 230 bis c.c. in tema di impresa familiare sono applicabili anche al lavoro prestato nella famiglia o nell’impresa familiare dal convivente more uxorio. 21 PIEPOLI, Realtà sociale e modello normativo nella tutela della famiglia di fatto, in Riv. trim. proc. civ., 1972, p. 1451. 22 Sui contratti di convivenza v. FRANZONI, I contratti tra conviventi «more uxorio», in Riv. trim. proc. civ., 1994, p. 737 ss.; ID., Le convenzioni patrimoniali tra conviventi more uxorio, in Il diritto di famiglia, Tratt. dir. da G. Bonilini e G. Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1997, p. 463; BALESTRA, Gli effetti della dissoluzione della convivenza, in Riv. dir. priv., 2000, p. 486; OBERTO, Convivenza (contratti di ), in Contr. e impr., 1991, p. 373. Con particolare riguardo alla famiglia di fatto, l’azione di arricchimento innalza il livello della tutela, troppo mortificato dal confronto con la protezione della famiglia legale, «i cui capisaldi possono essere indicati nella comunione dei beni, nell’istituto di cui all’art. 230 bis c.c., negli alimenti, nell’attribuzione al coniuge della qualità di legittimario», e trova ragione in fondamentali esigenze di giustizia sostanziale: «sarebbe curioso che in nome della affectio un convivente fosse legittimato ad appropriarsi del lavoro dell’altro e che, alla fine della convivenza, l’affectio producesse l’effetto perverso di lasciare un convivente ancora più ricco e l’altro ancora più povero».23 Più in generale, l’azione di arricchimento può divenire un importante strumento di parificazione socio-economica per soggetti, quali la casalinga o chi collabora all’attività del padre o del marito, tradizionalmente estromessi dalla tutela dei diritti di natura patrimoniale. Quanto ai coniugi, dovrà sempre tenersi presente che essi sono reciprocamente tenuti alla contribuzione ai bisogni della famiglia, ciascuno in proporzione alle proprie sostanze e capacità lavorative (art. 143, comma 3º, c.c.); cosicché, per potersi parlare di arricchimento ingiustificato di uno a carico dell’altro, dovrà previamente compiersi una valutazione globale dell’apporto che i due coniugi hanno dato alla gestione della famiglia, per vedere se quella che a prima vista appare come una ingiusta locupletazione non sia in realtà compensata dal maggior contributo al menage familiare dato dal coniuge presunto arricchito. L’azione di arricchimento, è apparsa anche come il rimedio più idoneo nei casi nei quali un immobile intestato ad uno solo dei coniugi, sia stato in realtà acquistato col denaro di entrambi, e non sia possibile accertarne la contitolarità24. L’azione di arricchimento (insieme con quella di ripetizione) è spesso invocata, nel caso di rottura del matrimonio, nei confronti del coniuge che, pendente il vincolo coniugale, aveva acquistato un immobile, risultandone unico intestatario, con denaro sborsato dall’altro coniuge. Ma giudici ravvisano nella fattispecie una donazione indiretta tra coniugi, negando sia che l’arricchimento sia ingiustificato, sia che il pagamento sia privo di titolo e dunque indebito: «la mancanza di una precisa causa onerosa del pagamento, giuridicamente rilevante, nonché la 23 Così Trib. Milano, 5 ottobre 1988, in Lav. 80, 1989, p. 549. La sentenza è commentata adesivamente da BALESTRA, L’impresa familiare, cit., p. 188-195, il quale (p. 194 s.) sottolinea come «il rimedio dell’arricchimento senza causa … si erge a strumento di tutela del convivente (debole) nel caso di prestazioni spontaneamente effettuate a favore del partner. Un rimedio residuale dunque, per la tutela di una situazione che in questa prospettiva viene ad essere relegata ai margini dell’ordinamento, non al di là perché fornita di questo strumento pur minimo di tutela, ma pur sempre distante da quel ruolo e da quelle forme di garanzia che una parte considerevole della dottrina e un sentimento comune sempre crescente sono orientati ad attribuirle». 24 Cfr. GALLO, Arricchimento senza causa e quasi contratti (i rimedi restitutori), Torino, 1996, p. 214. spontaneità del pagamento, unitamente, si pongono come sicuri indici dello spirito liberale del pagamento effettuato, da valutarsi al momento della donazione»25. Oltre che nei rapporti interni, tra coniugi o conviventi, infine, l’azione può giocare un ruolo non marginale nei rapporti esterni, ossia a vantaggio dei terzi che abbiano ricevuto incarichi o ordinazioni dal coniuge o dal convivente: se il terzo che ha offerto un servizio di cui la coppia o l’intero nucleo familiare abbia profittato, non può soddisfare il proprio credito nei confronti del partner o del familiare convivente con cui aveva contrattato (ad esempio perché quest’ultimo è divenuto insolvente), ben potrebbe trovare spazio, accanto agli istituti della gestione di affari e della rappresentanza tacita, l’actio de in rem verso; con il limite ad essa intrinseco, ovviamente, che l’interesse del terzo troverebbe soddisfazione solamente nella misura in cui il convenuto si è giovato della prestazione: dunque, nel caso di coniugio o di convivenza more uxorio, presumibilmente, per la metà. 3. La necessità di tutelare l’impoverito che abbia riposto un legittimo affidamento nelle conseguenze del proprio sacrificio patrimoniale. La base da cui partire è che in tutti i casi in cui l’impoverito è stato spinto ad effettuare la prestazione (o la dazione) da fini leciti e non diretti ad imporre maliziosamente un arricchimento non voluto, se in seguito sopravvengono dei fatti imprevisti che contraddicono quei fini e mortificano le sue legittime aspettative, non vi è ragione per escludere un ripristino dello status quo ante che rimedi allo squilibrio ingiustificatamente venuto in essere. Se il parente, l’amico o il convivente ha dato per anni il proprio gratuito contributo ad una attività comune, senza esservi obbligato da uno specifico contratto ma facendo affidamento sul duraturo rapporto affettivo con l’altra persona, e quindi sulla duratura possibilità di ricevere, da questa, conforto e appoggio anche sotto il profilo economico, qualora il rapporto o la relazione si concludano non è giuridicamente infondato, alla luce della vigenza del principio ex art. 2041 c.c., il diritto di ottenere un qualche ristoro inteso al riequilibrio delle posizioni patrimoniali, con conseguente obbligo di natura patrimoniale dell’altro soggetto. L’art. 2041 c.c. può trovare spazio ogni volta sia possibile ravvisare il mancato rispetto delle regole della normale remuneratività del lavoro, salvo che la deroga a quelle regole sia giustificata dall’autonomia negoziale delle parti del rapporto o dalla gratuità dell’attribuzione, che va comunque provata e deve fondarsi su di un titolo specifico. Quanto in particolare alla convivenza, che è una scelta, in certo senso, di libertà nei confronti del diritto e delle sue forme, lo squilibrio patrimoniale che, in assenza di norme morali e sociali, 25 Trib. Milano, 17 settembre 1998, riportato per esteso in ALBANESE, Il pagamento dell’indebito, cit., p. 660 ss. deriva dalla situazione ora descritta, non ha nulla a che vedere con i profili personali interni dei conviventi, la cui posizione, di fronte al principio dell’arricchimento senza causa, è identica a quella di qualsiasi altro soggetto. Detto principio generale può essere escluso soltanto se il rapporto di convivenza (o di amicizia, parentela, ecc.) sia stato caratterizzato da una partecipazione equa ed effettiva del soggetto “debole” ai risultati dell’attività posta in essere: in tal caso l’arricchimento ha una adeguata giustificazione. In caso contrario, l’attività prestata equivale ad un trasferimento patrimoniale, da un soggetto che si impoverisce ad un altro che se ne arricchisce, non sorretto da idonea causa giuridica. Alla luce delle considerazioni sin qui svolte è possibile pervenire, a mero titolo esemplificativo, e in contrasto con le statuizioni giurisprudenziali, al risultato che l’azione di arricchimento andava concessa: a) nel caso delle prestazioni effettuate dai genitori in favore di un figlio in occasione dell’inizio di una sua convivenza more uxorio26, qualora a seguito della rottura del rapporto fosse risultato l’arricchimento della partner. Analoga situazione si verifica nel caso delle spese sostenute dai genitori dei futuri sposi per l’arredamento o la ristrutturazione della casa: si ritiene che esse, essendo dirette a rispettare il costume sociale (che prevede da parte di tali soggetti una partecipazione economica, di regola, in proporzione delle loro sostanze), configurino le liberalità d’uso di cui all’art. 770, comma 2º, c.c.27. In realtà, quando le spese per l’arredamento (o, ad esempio, per la ristrutturazione dell’appartamento), come spesso accade, sono state sostenute dai genitori di uno dei due fidanzati mentre la casa era stata messa a disposizione dall’altro partner o dai suoi genitori, se prima del matrimonio il fidanzamento si rompe e la coabitazione non ha luogo si verifica una palese situazione di arricchimento ingiustificato dei proprietari della casa: negare la restituzione ai soggetti impoveriti significherebbe frustrare, con la fictio dell’intenzione liberale, un loro legittimo affidamento nella stabilità di una comunanza di vita e di affetti. b) nel caso di doni tra fidanzati, i quali vengono di norma considerati come vere e proprie donazioni28 e che andrebbero pertanto sottoposti ai requisiti di sostanza e di forma previsti dal 26 Contra Trib. Ravenna, 9 marzo 1994, in GIUS, 1994, fasc. 11, p. 177, con nota di ASTONE, Ingiustificato arricchimento senza causa, che come già visto ha affermato che le elargizioni costituivano liberalità d’uso e non davano quindi luogo ad un’ipotesi di ingiustificato arricchimento. L’indennizzo era invece stato concesso, in un caso analogo, da App. Venezia, 20 dicembre 1957, in Giust. civ. Mass., 1957, p. 1815. Anche in Spagna la questione è stata risolta grazie al principio dell’arricchimento ingiustificato: S. 27 maggio 1958. 27 Trib. Napoli, 9 ottobre 1981, in Arch. civ., 1982, p. 392, in Dir. e giur., 1981, p. 880, in Giur. it., 1982, I, 2, c. 524 e in Dir. fam. pers., 1982, p. 942. 28 Così Cass., 8 febbraio 1994, n. 1260, la quale ha invece escluso che essi siano equiparabili alla liberalità in occasione di servizio, o alle donazioni fatte in segno tangibile di speciale riconoscenza per i servizi resi in precedenza dal donatario, o alle liberalità d’uso. codice. La giurisprudenza tende però a ravvisare con una certa larghezza il carattere della modicità dell’oggetto donato (che va apprezzata, come noto, in relazione alla capacità economica del donante) al fine di poter considerare il trasferimento legittimamente perfezionato in base alla mera traditio. Altre volte il medesimo risultato è raggiunto, quando è evidente la impossibilità di ravvedere una donazione di modico valore ai sensi e per gli effetti dell’art. 783 c.c., attraverso la configurazione di una liberalità d’uso prevista dall’art. 770, comma 2º, c.c. (non costituente donazione in senso stretto e perciò non soggetta alla forma propria di questa)29. La soluzione da me data non deve stupire: il § 1301 BGB richiama espressamente la disciplina dell’arricchimento senza causa con riguardo alla rottura del fidanzamento. Il diritto di famiglia ed i rapporti di convivenza sembrano i terreni più fertili perché possa sviluppare le proprie potenzialità la clausola generale, attraverso la quale toccherà al giudice precisare il concetto di “ingiustizia” in relazione ai singoli casi di arricchimento. In altre parole, una volta che il primo passaggio interpretativo si sia risolto con l’esclusione di trovarsi innanzi ad una elargizione fatta con intenzione liberale o in esecuzione di una obbligazione naturale, il secondo e definitivo passaggio, nell’impossibilità di dare soluzioni univoche al problema, consisterà nella valutazione di tutte le circostanze di fatto, al fine di pervenire ad una soluzione in grado di tenere presenti tutti gli interessi in conflitto, la loro natura e gli scopi da cui era animata l’iniziativa dell’impoverito 30. N.B.: In materia di diritto di famiglia, si segnala ora, per la valorizzazione del ruolo di clausola generale dell’art. 2041 c.c., Cass., 15 maggio 2009, n. 11330, che ha concesso il rimedio al convivente more uxorio che aveva arricchito il partner con prestazioni economiche e lavorative esorbitanti dai limiti di proporzionalità e adeguatezza. MASSIMA Cass. civ. Sez. III, 15 maggio 2009, n. 11330, in Famiglia e Diritto, 2010, 4, 380, con nota di GELLI: Il diritto a richiedere l'indennizzo per l'altrui ingiustificato arricchimento si prescrive in dieci anni dal momento in cui l'arricchimento si è verificato. Nel caso in cui un convivente "more 29 Cass., 9 dicembre 1993, n. 12142, in Giust. civ. Mass., 1993, fasc. 12. Interessante la decisione di Trib. Palermo, 3 settembre 1999, in Fam. e dir., 2000, p. 284, con nota di FERRANDO: «l’attribuzione gratuita di alcuni gioielli a favore della convivente more uxorio costituisce donazione di modico valore, dovendo questo essere commisurato non al valore in sé delle cose donate, ma alle condizioni economiche del donante. Anche a voler escludere la modicità del valore, si tratterebbe in ogni caso di liberalità d’uso, non soggetta ai requisiti formali prescritti per la donazione». 30 Sull’importanza di detti scopi, e sulla condivisione dell’iniziativa da parte del beneficiario, insiste BRECCIA, L’arricchimento senza causa, cit., p. 996, il quale rileva come questi fatti, se meritevoli di tutela ed erronei o successivamente frustrati, potrebbero eliminare ogni dubbio sulla possibilità di trovarsi innanzi ad una fattispecie di arricchimento imposto. uxorio" presti nei confronti dell'altro rilevanti contributi economico-patrimoniali in maniera continuativa, la prescrizione dell'azione di arricchimento decorre dalla cessazione del rapporto di convivenza. SENTENZA Con citazione notificata in data 21/6/1990 A.T. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Milano V.R., per sentirla condannare al pagamento delle somme percepite e/o prelevate dai beni ereditari del padre dell'attrice, A.S., deceduto senza lasciare testamento il (OMISSIS). La convenuta, costituendosi in giudizio, contestava la domanda e, precisato che aveva convissuto con A.S. more uxorio sin dal 1952, chiedeva, in via riconvenzionale, di accertare e dichiarare il proprio diritto di comunione in ragione del 50% su tre appartamenti e relativi accessori e pertinenze, siti tutti a (OMISSIS) - e, precisamente, in Via (OMISSIS) e Via (OMISSIS) - che assumeva essere stati acquistati da A. S. durante il lungo periodo di convivenza con il proprio determinante contributo economico; in subordine, chiedeva di accertare e dichiarare l'arricchimento senza giusta causa di A. S. in misura pari al 50% del valore di detti immobili, con la condanna degli eredi al pagamento del relativo indennizzo. Integrato il contraddittorio con l'intervento dell'altra erede e coniuge dell' A., G.A., la causa era istruita con prova orale e documentale e decisa con sentenza in data 16/1/2003, con la quale l'adito Tribunale rigettava sia la domanda principale che quella riconvenzionale, compensando interamente le spese di lite tra le parti. In particolare - per quanto qui interessa - il Tribunale, precisato che le risultanze istruttorie comprovavano la convivenza more uxorio protrattasi nel tempo tra A.S. e la convenuta, nonchè il contributo lavorativo ed economico da quest'ultima fornito al convivente sino al momento della sua morte, riteneva prescritta l'azione di arricchimento, avuto riguardo alla data dell'ultimo acquisto immobiliare, avvenuto il (OMISSIS). La sentenza di primo grado era gravata da appello da parte della sola V., cui nelle more succedeva D.G.P., intervenuto nel giudizio quale unico erede testamentario. Con sentenza non definitiva in data 8-2/25-7-2005, la Corte di appello, in parziale riforma, così provvedeva: dichiarava e accertava l'avvenuto indebito arricchimento conseguito da A. S. nel periodo di convivenza trascorso con V.R. a fronte del rilevante contributo lavorativo ed economico allo stesso fornito dalla V. nei lunghi anni di convivenza e sino al momento del decesso dell' A.; dichiarava tenute e condannava le appellate A.T. e G.A., nella loro qualità di eredi legittime di A.S., a corrispondere, in via solidale tra loro, a V.R. un congruo indennizzo determinato nella misura del 50% del valore di mercato alla data del decesso di A.S. dei tre appartamenti, individuati in atti, acquistati dal loro dante causa nel corso della convivenza, secondo l'accertamento da effettuarsi nel prosieguo del giudizio. La Corte di appello riteneva che la prescrizione fosse stata dichiarata di ufficio e, comunque, che non fosse decorsa al momento della domanda riconvenzionale, nonchè fondata la pretesa di pagamento dell'indennizzo ex art. 2041 c.c., di cui fissava i criteri di determinazione nei termini in dispositivo. Proposta riserva di impugnazione da parte delle appellate, nel successivo iter processuale veniva espletata una c.t.u. e, all'esito, con sentenza in data 12/27-6-2007, la Corte di appello di Milano condannava A.T. e G.A. al pagamento in favore di D.G.P. della somma di Euro 118.293,62 oltre rivalutazione monetaria secondo indici ISTAT dal 16/4/1988 alla data della sentenza e oltre interessi legali sulla somma rivalutata per il prosieguo; con condanna delle appellate al pagamento delle spese di entrambi i gradi. Hanno proposto ricorso per cassazione G.A. e A. T., svolgendo sei motivi e chiedendo di cassare, eventualmente senza rinvio, la sentenza non definitiva e quella definitiva. Ha resistito D.G.P., depositando tempestivo controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memorie illustrative. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo parte ricorrente censura la sentenza non definitiva nel punto in cui ha affermato l'inconferenza della spontaneità delle elargizioni effettuate dalla V. in favore del suo convivente A.S.. 1.1. Le ricorrenti denunciano violazione dell'art. 2041 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3, osservando che la motivazione, molto succinta in parte qua, si risolve nella generica affermazione della sussistenza dei presupposti dell'azione di arricchimento, nonchè nella considerazione che la V. "confidava legittimamente, dopo un'intera vita trascorsa col convivente ed al suo esclusivo servizio, in una sistemazione matrimoniale sempre promessa (...), ma mai mantenuta" (pag. 8 della sentenza non definitiva); sottolineano che quest'ultima argomentazione non smentisce il rilievo che si trattava di prestazioni patrimoniali rese all'interno della coppia di conviventi more uxorio, con la conseguenza che esse andrebbero inquadrate nell'ambito delle obbligazioni naturali, costituendo un semplice dovere morale e sociale, e non giuridico, quello di fornire all'altro convivente i mezzi per vivere. A parere delle ricorrenti la decisione si collocherebbe al di fuori dei parametri che governano l'arricchimento senza giusta causa e in contrasto con un orientamento costante nell'escludere l'azione di cui all'art. 2041 c.c., nell'ambito della convivenza more uxorio, trattandosi di prestazioni rese affectionis vel benevolentiae causa e caratterizzate dalla spontaneità dell'adempimento; il che dovrebbe escludere l'arricchimento, quali che siano, per ciascuno degli interessati, le conseguenze economiche vantaggiose o svantaggiose, in quanto causate dalla libera e concorde determinazione delle loro volontà. 1.2. Il motivo è infondato. Innanzitutto occorre osservare che l'affermazione, contenuta nella sentenza non definitiva, dell'inconferenza della riconducibilità eziologica del danno subito alla volontà della depauperata risulta complementare al precedente rilievo della sussistenza, nel caso all'esame, di tutti gli elementi costitutivi dell'istituto di cui all'art. 2041 c.c., e, in specie, del requisito dell'assenza di una "giusta causa" della locupletazione dell'uno in danno dell'altro convivente, id est dell'assenza di una giuridica giustificazione, che, avuto riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, ivi incluso il rapporto di convivenza tra le parti, giustificasse lo spostamento economico-patrimoniale tra le stesse. Del resto l'argomentazione sopra testualmente riportata, su cui si appunta la censura di parte ricorrente, non esaurisce la sua portata nel rilievo dell'aspettativa di una "sistemazione matrimoniale" della depauperata, ma appare, piuttosto, incentrata nella considerazione della diretta dipendenza causale dell'arricchimento dell' A. dall'"esclusivo servizio" ad esso prestato nel corso di tutta la convivenza dalla V. e va letta unitamente ai ripetuti riferimenti, contenuti nel corpo della stessa sentenza, alla provenienza della provvista per gli acquisti immobiliari del primo "anche e soprattutto" dai proventi del lavoro della seconda (pag. 6 della sentenza non definitiva) e all'assenza di una giusta causa del "rilevante contributo economico e lavorativo" fornito dalla V. per gli acquisti effettuati dall' A. durante tutto il periodo di ultratrentennale convivenza (pagg. 8 e 9 della stessa sentenza). In sostanza - precisato che il motivo all'esame non attiene alla congruità della motivazione, denunciando, piuttosto, violazione di legge - ciò che emerge dal complesso argomentativo della sentenza non definitiva (non particolarmente brillante nell'esposizione, ma, comunque, esaustivo e non censurabile in questa sede) è che l'arricchimento dell' A. è stato conseguente alla conversione a suo esclusivo profitto, mediante l'acquisto di proprietà immobiliari ad esso solo intestate, di contributi economici e lavorativi della V., resi in assenza di un titolo (neppure gratuito) che giustificasse lo spostamento patrimoniale e tali - per rilevanza, continuità e unilateralità degli apporti - da non costituire adempimento dei doveri morali, conseguenti all'instaurazione del rapporto di convivenza. 1.3. Così individuati i presupposti della pretesa indennitaria, ritiene il Collegio che la decisione impugnata si colloca correttamente nell'ambito normativo dell'arricchimento senza giusta causa. Valga considerare che l'art. 2041 c.c., costituisce una norma di chiusura della disciplina delle obbligazione, concedendo uno strumento di tutela, esperibile in tutti i casi in cui tra due soggetti si verifica uno spostamento patrimoniale (c.d. utiliter versum), tale che uno subisca danno e l'altro si arricchisca, "senza una giusta causa" e, cioè, senza che sussista una ragione che, secondo l'ordinamento, giustifichi il profitto o il vantaggio dell'arricchito. L'azione ha carattere generale, perchè è esperibile in una serie indeterminata di casi, in quanto espressione del principio per cui non è ammissibile l'altrui pregiudizio patrimoniale, senza una ragione giustificativa; ha, inoltre, carattere sussidiario, perchè è esercitabile solo quando al depauperato non spetti nessun'altra azione, basata su un contratto, su un fatto illecito o su altro atto o fatto produttivo dell'obbligazione restitutoria o risarcitoria (art. 2042 c.c.). Invero se l'arricchimento costituisce la conseguenza di un contratto o di un rapporto compiutamente regolato, non è dato invocare la mancanza o l'ingiustizia della causa, almeno fino a quando il rapporto o il contratto mantengano la loro efficacia obbligatoria (cfr. Cass. n. 2312 del 2008; Sez. Unite, n. 14215 del 2002). Da quanto sopra precisato risulta chiaro che nella formula "senza una giusta causa" di cui all'art. 2041 c.c., rientrano, anche, i casi di arricchimento senza la volontà del depauperato, risolvendosi la mancanza di volontà in un'ipotesi di mancanza di causa; e, tuttavia, la non volontarietà dello spostamento patrimoniale non costituisce il tratto esclusivo dell'istituto in questione. Invero l'arricchimento/depauperamento deve avere una giustificazione giuridicamente valida (secundum ius), intendendosi per tale un titolo legale o negoziale idoneo a sorreggere sia l'incremento, sia la connessa diminuzione patrimoniale. Al contrario l'arricchimento risulterà "senza una giusta causa", quando non ha tale giustificazione e, cioè, quando è correlato ad un impoverimento non remunerato, nè conseguente ad un atto liberalità e neppure all'adempimento di un'obbligazione naturale; e ciò in quanto l'ordinamento esige che ogni arricchimento dipenda dalla realizzazione di un interesse meritevole di tutela. E' il caso di puntualizzare - per quanto qui ci occupa - che il riferimento ad esigenze di tipo solidaristico non è di per sè sufficiente a prefigurare una "giusta causa" dello spostamento patrimoniale, giacchè ai fini dell'art. 2034 c.c., comma 1, occorre allegare e dimostrare non solo l'esistenza di un dovere morale o sociale in rapporto alla valutazione corrente nella società, ma anche che tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità e adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso (cfr. Cass. n. 1007 del 1980). 1.4. Ciò premesso in via di principio, ritiene il Collegio che l'assunto di parte ricorrente, tendente a prefigurare una sorta di inconciliabilità logico-giuridica tra la convivenza more uxorio e l'azione di arricchimento senza giusta, sul presupposto dell'inquadramento delle prestazioni rese dai conviventi nell'ambito concettuale dell'obbligazione naturale, postula che le prestazioni stesse trovino la loro giustificazione, per l'appunto, nel rapporto di convivenza e, cioè, che sì tratti di prestazioni rese nell'adempimento dei doveri di carattere morale e civile di solidarietà e reciproca assistenza che, avuto riguardo alle condizioni sociali e patrimoniali delle parti, devono presiedere alla famiglia di fatto; mentre quando risulti - come nel caso all'esame - che le prestazioni rese da un convivente e convertite (in tutto o in parte) a vantaggio dell'altro esorbitano dagli indicati limiti di proporzionalità e adeguatezza, allora è configurabile una mera operazione economico-patrimoniale, comportante un ingiustificato arricchimento del convivente more uxorio con pregiudizio dell'altro. 1.5. E' appena il caso di aggiungere che, nella descritta situazione, non è neppure estensibile la presunzione di gratuità, propria delle prestazioni lavorative svolte nell'ambito di comunità familiari, la quale avrebbe richiesto la rigorosa dimostrazione di una comunanza spirituale ed economica analoga a quella inerente al rapporto coniugale (cfr. Cass. n. 3012 del 1978). Peraltro siffatta presunzione - da ritenersi operante nella famiglia di fatto nei limiti di cui all'art. 230 bis c.p.c. (cfr. Cass. n. 5803 del 1990) - potrebbe riferirsi solo alla collaborazione data per le esigenze del nucleo famigliare ovvero alla gestione dell'azienda dalla quale la famiglia stessa tragga i mezzi di sostentamento; il che non è dato ravvisare nel caso in esame, per quanto emerge dal testo della decisione impugnata. Invero la tesi delle ricorrenti in ordine alla gratuità delle prestazioni rese dalla V. e alla loro riferibilità causale all'adempimento del "dovere di fornire all'altro convivente all'altro convivente i mezzi per vivere" - prima ancora che alternativa rispetto a quella adottata in sede di merito - risulta riduttiva ed è, anzi, contraddetta dalle riferite risultanze fattuali. 2. I successivi tre motivi di ricorso verranno esaminati congiuntamente attesa la loro stretta connessione, riguardando, tutti, la questione della prescrizione dell'azione di arricchimento. 2.1. La Corte di appello ha ritenuto che la prescrizione fosse stata dichiarata dal Tribunale di ufficio, in quanto la relativa eccezione, solo accennata nella comparsa di intervento volontario in data 14/3/1991 della G., non risultava ribadita nelle conclusioni contenute nella stessa comparsa e, soprattutto, non era stata richiamata nelle conclusioni definitive precisate dall'interventrice e dall'originaria attrice, di modo che, quand'anche si ritenesse formulata, l'eccezione doveva, comunque, ritenersi abbandonata. In ogni caso la Corte territoriale ha precisato che il dies a quo della prescrizione non era costituito (come ritenuto dal Tribunale) dalla data del (OMISSIS) dell'ultimo acquisto immobiliare, ma andava individuato in quello della morte dell' A. e, cioè, nella data di cessazione del rapporto di convivenza, posto che (come, peraltro, rilevato anche dal primo giudice) la V. aveva fornito il proprio rilevante contributo economico e lavorativo, di cui si era avvantaggiato il convivente, fino al momento della morte di quest'ultimo. In particolare la Corte di appello, da un lato, ha escluso che fosse configurabile l'inerzia del creditore, ritenendo che prima del decesso dell' A. non vi era motivo (nè la volontà e la determinazione) da parte della V. di pretendere la cointestazione degli immobili, anche per le ripetute rassicurazioni provenienti dal primo (secondo cui "tutto ciò che era suo era anche della Sa.") e, dall'altro, ha evidenziato che l'impoverimento della V. si protrasse oltre la data del (OMISSIS) e fino alla morte del convivente, se non oltre, avendo la stessa continuato a pagare le rate di mutuo contratto per l'acquisto in comunione di un appartamento in (OMISSIS) e a "tamponare" altri impegni assunti dal suo convivente, tra cui quelli derivanti da cambiali emesse per L. 5.904.000 in relazione all'acquisto dell'appartamento in via (OMISSIS) e da un'iscrizione ipotecaria per L. 17.000.000 a favore di noto usuraio per l'acquisto dell'appartamento in via (OMISSIS). 2.2. Con il secondo motivo parte ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell'art. 189 c.p.c., per avere la Corte di appello illegittimamente ritenuto rinunciata l'eccezione di prescrizione, avanzata dalla interveniente con riferimento all'azione di indebito arricchimento proposta in via riconvenzionale dalla V.. In particolare le ricorrenti lamentano che la decisione sia frutto di una concezione formalistica del disposto dell'art. 189 cit., ed osservano che l'eccezione di prescrizione ritualmente formulata in giudizio, non può ritenersi rinunziata, pur in presenza di conclusioni genericamente formulate in termini di rigetto della domanda, in assenza di una condotta processuale incompatibile con la volontà di mantenere ferma l'eccezione di prescrizione. 2.3. Con il terzo motivo parte ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, contraddittorietà della motivazione in punto di decorrenza del termine di prescrizione dell'azione di indebito arricchimento, ritenuto coincidente, non già con l'ultima acquisizione patrimoniale, ma con la cessazione della convivenza. A tal riguardo le ricorrenti rilevano che la stipula del contratto ventennale di mutuo relativo all'immobile in (OMISSIS) e l'adempimento delle conseguenti obbligazioni non costituivano ragione per spostare la decorrenza della prescrizione dalla data dell'arricchimento dal (OMISSIS) a quella della morte dell' A.; denunciano, dunque, l'intrinseca contraddizione derivante dal fatto di ritenere un atto pacificamente privo di danno per la V. - qual era l'acquisto dell'appartamento di (OMISSIS), avvenuto in comproprietà tra la medesima e il suo convivente - come generativo di onerose obbligazioni future che, per contro, dovevano necessariamente gravare su entrambi gli acquirenti comproprietari; lamentano, infine, l'ulteriore erroneo riferimento alla sussistenza di mere ragioni di opportunità ai fini dello spostamento dei termine prescrizionale alla morte del convivente. 2.4. Con il quarto motivo parte ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 2935 c.c., per avere la Corte di appello erroneamente ritenuto che la prescrizione dell'azione di arricchimento decorra dalla morte del preteso arricchito e non già dall'ultimo atto di arricchimento del beneficiario e della correlativa diminuzione patrimoniale dell'altra parte. In particolare le ricorrenti deducono che, a mente dell'art. 2935 c.c., il corso della prescrizione dell'azione di indebito arricchimento è impedito dall'impossibilità legale di far valere il proprio diritto e osservano che tale non è il perdurare della convivenza successivamente al compimento dell'atto che si assume aver determinato l'arricchimento. Di conseguenza la Corte di appello avrebbe errato ad escludere la rilevanza dell'inerzia della V. sino alla data della cessazione del rapporto di convivenza. 2.5. Nessuna dei suesposti motivi coglie nel segno. Innanzitutto le censure delle ricorrenti non investono il punto della sentenza impugnata in cui si afferma che l'eccezione di prescrizione doveva intendersi, non già abbandonata, ma neppure proposta, atteso il non concludente riferimento contenuto nella memoria di intervento. Si rammenta a tal riguardo che l'interpretazione di qualsiasi domanda, eccezione o deduzione di parte da luogo a un giudizio di fatto, riservato al giudice del merito. E', poi, dirimente la considerazione che i giudici di appello si sono pronunciati sull'eccezione, ritenendola infondata, con argomentazioni che non si esauriscono nella valutazione dell'opportunità o meno dell'inerzia della V. a fronte delle specifiche rassicurazioni del convivente, ma contengono anche precisi riferimenti fattuali ad erogazioni effettuate dalla stessa in favore dell' A. successivamente alla data individuata dal primo giudice come dies a quo della prescrizione. Invero ribadito che il diritto a richiedere l'indennizzo per ingiustificato altrui arricchimento si prescrive in dieci anni dal momento in cui l'arricchimento si è verificato occorre dire che la decisione impugnata non si pone in contrasto con detto principio, giacchè essa poggia sulla considerazione della continuità dei rilevanti contributi economico- patrimoniali resi dalla V. in tutto il corso del rapporto di convivenza e, quindi, della definitività del corrispondente arricchimento dell' A. solo alla cessazione di siffatto rapporto. Inoltre il riferimento al pagamento da parte della V. di rate di mutuo relative all'acquisto dell'appartamento in (OMISSIS) (l'unico, acquistato in comproprietà dai due conviventi) non introduce alcun elemento scardinante dell'Iter argomentativo, dal momento che la sentenza continua ad avere il suo supporto motivazionale nella parte non contestata, relativa agli altri impegni, che la V. continuò a "tamponare", conseguenti all'acquisto (da parte del solo A.) dei due appartamenti in (OMISSIS) e, più in generale, nel rilievo, condiviso da entrambi i giudici di merito, del perdurante apporto economico e lavorativo della V. con indebita locupletazione del convivente sino alla morte di questi. 4. Il quinto e il sesto motivo (erroneamente individuati in ricorso con i numeri romani 4^ e 5^) si incentrano nella critica del criterio seguito per la determinazione e quantificazione dell'indennizzo per l'ingiustificato arricchimento. 4.1. L'indennizzo è stato parametrato, con la sentenza non definitiva, alla misura del 50% del valore di mercato, alla data del decesso dell' A., degli immobili dallo stesso acquistati durante il periodo di convivenza, considerando, da un lato, il dato temporale della lunghezza del periodo di convivenza tra le parti e, quindi, la conseguente durata, oltre che la rilevanza, del contributo lavorativo ed economico fornito dalla V. all' A. e, dall'altra, la quantità e il valore delle acquisizioni patrimoniali (tre appartamenti in (OMISSIS)) che in tal modo il secondo era riuscito a procurarsi, a fronte della modestia degli introiti di appartenente al corpo di Polizia (pag. 9 sentenza non definitiva). 4.2. Con il quinto motivo parte ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell'art. 2041 c.c.. A parere delle ricorrenti, il pregiudizio indennizzabile in base alla norma cit. sarebbe, esclusivamente, il danno patrimoniale emergente, mentre la Corte di appello avrebbe riconosciuto l'indennizzo sulla base di un "danno generico e indeterminato, in quanto non quantificato in termini economici, costituito dal mancato o ridotto godimento delle proprie risorse economiche da parte del soggetto che si assume impoverito e/o dal maggiore impiego delle proprie risorse umane da parte del medesimo soggetto nel rapporto di convivenza in concomitanza dell'arricchimento del soggetto convivente che si assume arricchito". Inoltre la determinazione dell'indennizzo sarebbe stata erroneamente effettuata con criterio forfetario, facendo esclusivo riferimento al valore complessivo del vantaggio economico conseguito dal soggetto arricchito e prescindendo dall'effettiva dimostrazione della partecipazione dell'impoverito al conseguimento di detto vantaggio economico. 4.2. Infine con il sesto motivo le ricorrenti denunciano, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 5, omessa o insufficiente motivazione sulla quantificazione dell'indennizzo per ingiustificato arricchimento. In particolare rilevano l'insufficienza della motivazione consistente in un mero richiamo alla durata della convivenza e al contributo di lavoro prestato dalla V., neppure approssimativamente indicato, a fronte del riconoscimento di un così cospicuo indennizzo; lamentano, quindi, l'omessa considerazione di altri dati determinanti ai fini del decidere - quali i proventi delle locazioni di altri beni di cui era pacificamente proprietario l' A. prima dell'inizio della convivenza e la cointestazione al 50% dell'appartamento di (OMISSIS) - di guisa che la pretesa sperequazione tra le risorse di ciascuno dei conviventi e l'effettivo contributo della V. si risolverebbe in mere presunzioni prive di riscontro nelle risultanze processuali. 4.3. Anche i suddetti motivi, che per l'affinità delle questioni si esaminano congiuntamente, sono infondati. Invero costituisce ius reception che la nozione di arricchimento di cui all'art. 2041 c.c., va intesa, indifferentemente, sia in senso qualitativo che in senso quantitativo e può consistere tanto in un incremento patrimoniale, quanto in un risparmio di spesa e, più in generale, in una mancata perdita economica; correlativamente il depauperamento può consistere tanto in erogazioni di un'entità pecuniaria, quanto in attività o prestazioni di cui si avvantaggia l'arricchito (cfr. ex plurimis, Cass. n. 21292 del 2007). E poichè l'indennizzo previsto dall'art. 2041 c.c., è finalizzato a reintegrare il patrimonio del depauperato, esso va commisurato all'arricchimento, riconoscendo, in via sostitutiva, al depauperato un quid monetario "nei limiti" dello stesso arricchimento (perchè, altrimenti, si verificherebbe un arricchimento nel senso inverso). Ciò posto e precisato che, nella specie, gli immobili acquistati in via esclusiva dall' A. durante il periodo di convivenza costituivano parametro di valutazione, oltre che limite massimo della liquidazione, al fine di desumerne l'incremento patrimoniale e/o il risparmio di spesa, dallo stesso conseguito per effetto del rilevante contributo economico-lavorativo della V., ritiene il Collegio che la Corte di appello non si è affatto discostata dal criterio normativo, pervenendo a quantificare l'indennizzo in misura corrispondente al valore del 50% degli immobili in questione. Gli elementi assunti ai fini di siffatta determinazione (sproporzione delle capacità economiche delle parti, prevalenza degli apporti della V. a fronte delle numerose acquisizioni patrimoniali fatte in via esclusiva dall' A.) risultano correttamente individuati e la valutazione, necessariamente equitatativa in relazione ai parametri enunciati, è valutazione di stretto merito e, come tale, non sindacabili in questa sede. Le ricorrenti deducono che la corretta determinazione dell'indennizzo sarebbe stata impedita dalla mancata considerazione di risultanze processuali ad essi favorevoli, quali l'esistenza di altre entrate dell' A. e l'acquisizione in comproprietà dell'immobile in (OMISSIS). Senonchè l'efficacia di tale difesa - a prescindere dalla carenza di autosufficienza - deve confrontarsi con l'altro dato oggettivo emergente dalla sentenza impugnata della prevalenza del contributo lavorativo ed economico fornito dalla V. a fronte dell'esclusiva acquisizione da parte dell' A. di ben tre appartamenti in (OMISSIS). Sotto questo profilo le doglianze delle ricorrente si risolvono in censure di merito, peraltro assolutamente generiche, sull'accertamento compiuto dai giudici di appello. In definitiva il ricorso va rigettato. Si ravvisano giusti motivi, attesa la natura delle questioni trattate, per compensare interamente le spese del giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso; compensa interamente tra le parti le spese del giudizio di Cassazione. Così deciso in Roma, il 3 aprile 2009. Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2009. IN MATERIA, V. ANCHE Cass. civ. Sez. II, 13 marzo 2003, n. 3713, in Guida al Diritto, 2003, 18, 49: Nell'ambito dei rapporti di convivenza more uxorio la presunzione di gratuità delle prestazioni rese da una parte in favore dell'altra viene meno allorché risulti che la prestazione stessa esula dai doveri di carattere morale e civile di mutua assistenza e collaborazione, in relazione alle qualità e condizioni sociali delle parti e si configuri come mera operazione economica patrimoniale che abbia determinato un inspiegabile e illogico arricchimento del convivente con proprio ingiusto danno. (Nella specie in costanza dì convivenza more uxorio la convenuta aveva acquisto un terreno e l'attore, acquistando i materiali e lavorando tutto il suo tempo libero aveva costruito sia la casa di abitazione che altro edificio di tre piani, al grezzo oltre ai locali accessori. Proposta domanda ex articolo 936 del c.c. e accolta questa in sede di merito, la convenuta aveva proposto ricorso per cassazione deducendo che nulla competeva a controparte trattandosi di adempimento, da parte sua, di un dovere morale, atteso il rapporto di convivenza. La Suprema corte ha rigettato la deduzione in considerazione dei principi sopra esposti). SENTENZA Con atto di citazione 22 giugno 1987, Antonio Atzori, premesso che aveva convissuto "more uxorio" per oltre 13 anni con Lucia Sanna; che durante tale periodo la Sanna aveva acquistato un terreno sito in agro di Quartucciu con denari da lui messi a disposizione; che su tale terreno esso attore, muratore di professione, aveva costruito, acquistando i materiali e lavorando tutto il suo tempo libero, la casa di abitazione ed altro edificio adiacente di tre piani al grezzo, oltre dei locali accessori; che dopo tanti anni di convivenza la Sanna gli aveva intimato di lasciare la casa di abitazione ed aveva pubblicato su un giornale locale l'offerta di vendita dell'intero edificio; che in tale comportamento della Sanna andava ravvisato il "periculum in mora" che giustificava il sequestro conservativo autorizzato dal Presidente del Tribunale il 16 maggio 1987, regolarmente eseguito; tutto ciò premesso convenne in giudizio, davanti al Tribunale di Cagliari, la Sanna al fine di ottenere la convalida del sequestro conservativo, e, nel merito, la condanna della Sanna al rimborso dei denari messi a sua disposizione per l'acquisto del terreno, nonché alla restituzione del valore dei materiali e della mano d'opera impiegati nella costruzione degli immobili su detto fondo, ovvero al pagamento dell'aumento di valore arrecato al fondo, nella misura di L. 120.000.000 o di altra somma, anche eventualmente a titolo di ingiustificato arricchimento. Costituitasi, la Sanna chiese il rigetto della domanda. Espletata l'istruttoria, anche mediante c.t.u., il Tribunale inquadrò la fattispecie nell'ambito dell'art. 936 c.c.; ritenne l'Atzori terzo ai sensi della citata norma in quanto aveva costruito in assenza di alcun vincolo giuridico che gli attribuisse la facoltà di edificare; escluse che la costruzione potesse ritenersi adempimento da parte del convivente "more uxorio" di un'obbligazione naturale nei confronti della famiglia di fatto; liquidò il "quantum" per impiego dei materiali e mano d'opera nella somma complessiva, compresa la rivalutazione, di L. 62.726.397; non liquidò gli interessi perché non richiesti; rigettò tutte le altre istanze; convalidò il sequestro conservativo e pose a carico della Sanna le spese del giudizio. La Corte d'appello di Cagliari, con sent. n. 77/01 del 01 dicembre 2000/27 febbraio 2001, accolse per quanto di ragione l'appello principale dell'Atzori e, in parziale riforma della sentenza del Tribunale, che confermò nel resto, condannò la Sanna a corrispondere all'Atzori gli interessi legali sulla suddetta somma di L. 62.726.307 dalla data della domanda alla data della decisione, nonché sulla stessa somma ulteriori interessi dalla data della notifica dell'atto di appello al saldo; rigettò l'appello incidentale della Sanna; dispose lo svincolo della cauzione di L. 10.000.000 e ne dispose la restituzione all'Atzori; condannò la Sanna al pagamento delle spese del grado. La Corte cagliaritana ritenne infondata la tesi della Sanna, secondo cui sussistendo tra lei e l'Atzori, conviventi "more uxorio", una famiglia di fatto, tutte le prestazioni reciprocamente eseguite nell'ambito di tale rapporto avevano natura di obbligazioni naturali, con conseguente irripetibilità di quanto dato e prestato reciprocamente. Osservò che ai fini dell'adempimento dell'obbligazione naturale, nel rapporto di convivenza "more uxorio", si richiedeva che vi fosse un rapporto di proporzionalità tra le somme sborsate e i doveri morali e sociali assunti reciprocamente dai conviventi. Nel caso specifico tale rapporto di proporzionalità non sussisteva, anzi non poteva neppure parlarsi di adempimento di un dovere morale, dato che la prestazione dell'Atzori non si era esaurita nel procurare alla famiglia di fatto un'abitazione dignitosa e confortevole, ma aveva avuto come effetto l'arricchimento esclusivo della Sanna, che era diventata proprietaria, in base al principio dell'accessione, non solo della casa ma anche di un fabbricato di tre piani e di tre locali. La Corte d'appello escluse che l'Atzori avesse rinunziato a far valere il suo credito, perché dalla scrittura del 31 maggio 1987 emergeva soltanto che l'Atzori e la Sanna avevano diviso tra loro i beni mobili, senza manifestare alcuna volontà abdicativa in relazione agli altri beni. A tal riguardo la prova per testi dedotta dalla Sanna era inammissibile perché irrilevante, risultando anzi dal suo contenuto e dalla dichiarazione agli atti di Chiara Luisa Muscas il contrario, cioè che l'Atzori non intendeva affatto rinunciare a chiedere alla Sanna quanto dovutogli per la costruzione degli immobili. Rilevò, inoltre, che il diritto dell'Atzori non poteva venir meno per il fatto che la Sanna avesse dato un rilevante contributo economico per il soddisfacimento delle necessità della famiglia di fatto, donde l'irrilevanza sul punto della prova dedotta. Infine la Corte territoriale, ritenuto per ferma la qualificazione giuridica dell'azione promossa dall'Atzori, inquadrata dal Tribunale nell'ambito dell'art. 936 c.c., per non essere stato proposto al riguardo uno specifico motivo di appello, nonché per la stessa ragione il "quantum" liquidato dal Tribunale, osservò che l'Atzori aveva chiesto il rimborso dei materiali e della mano d'opera ovvero il corrispettivo dell'aumento di valore del fondo con rivalutazione e interessi sino alla data della liquidazione, per cui aveva diritto agli interessi che il primo giudice aveva omesso di attribuirgli. Contro tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione la Sanna deducendo quattro motivi di annullamento. L'Atzori ha resistito con controricorso. Motivi della decisione A fondamento dell'impugnazione la ricorrente deduce: 1) Omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalla parte e rilevabile d'ufficio in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5 oltreché violazione e falsa applicazione dell'art. 936 c.c. in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3. Sostiene la ricorrente che la Corte d'appello avrebbe inquadrato la fattispecie nell'ambito dell'art. 936 c.c. sull'erroneo presupposto che la decisione del Tribunale, sul punto, non sarebbe stata investita da uno specifico motivo di impugnazione, senza considerare che, invece, con l'atto di appello incidentale era stata proposta la questione riguardante l'inapplicabilità dell'art. 936 c.c., posto che la Sanna aveva dedotto che l'Atzori non poteva essere considerato terzo nei suoi confronti "visto il rapporto di convivenza tra di loro esistente", all'epoca dei fatti di causa, e che trattandosi di "un vero e proprio rapporto giuridico" occorreva, nella fattispecie, fare riferimento non già alla disciplina contenuta nell'art. 936 c.c. ma al "regime della famiglia di fatto" nell'ambito del quale il contributo dato da uno dei "partner" nell'opera edificatoria doveva qualificarsi come adempimento di una obbligazione naturale. Aggiunge la ricorrente che, in ogni caso, l'art. 936 c.c. non poteva trovare applicazione e nessun indennizzo era dovuto all'Atzori perché le opere erano state da lui realizzate abusivamente tanto che essa ricorrente aveva dovuto subire un procedimento penale ed aveva dovuto chiedere la sanatoria edilizia. Inoltre vi era stata prevalenza della mano d'opera fornita dall'Atzori rispetto al valore dei materiali impiegati, il cui importo non era superiore a L. 1.800.000. Infine l'Atzori aveva eseguito non una costruzione "ex novo", ma solo opere di ristrutturazione di un precedente edificio, per cui anche sotto tale profilo erroneamente la Corte d'appello aveva ritenuto applicabile l'art. 936 c.c., anziché l'art. 1150 c.c. riguardante le addizioni migliorative, norma quest'ultima che neppure poteva trovare applicazione, essendo da escludere l'indennizzo nell'ipotesi di costruzione abusiva, anche se successivamente sanata. 2) Motivazione insufficiente circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti e rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5 oltreché violazione e falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c., dell'art. 2729 c.c. e dell'art. 3 Cost., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3. Assume la ricorrente che la sentenza impugnata ha erroneamente escluso che le opere realizzate dall'Atzori fossero state eseguite in adempimento di un'obbligazione naturale, ritenendo che non ricorrevano i requisiti di adeguatezza e proporzionalità, senza considerare che la prestazione del convivente era stata effettuata in adempimento dell'obbligo di assicurare alla famiglia di fatto un'abitazione sicura e dignitosa, e l'impegno economico sostenuto a tal fine non era certo sproporzionato rispetto a quello che sarebbe stato normale pretendere; inoltre la sentenza impugnata erroneamente ha ritenuto irrilevante il contributo della Sanna alle necessità domestiche e alla cura della casa, pur risultando dai documenti e dalla prova testimoniale il suo apporto economico alle attività del convivente e all'acquisto di una motozappa da questi utilizzata per i propri lavori di campagna. Anche dalla complessità delle opere realizzate si doveva trarre per presunzioni il convincimento che esse avevano richiesto l'attività di più persone, per cui l'apporto dell'Atzori avrebbe dovuto essere ridimensionato e conseguentemente la sua prestazione, da ritenere proporzionata e adeguata, essere considerata come adempimento di un'obbligazione naturale. In ogni caso, il lavoro svolto dall'Atzori nell'opera edificatoria, qualora non fosse stato inquadrabile nello schema dell'obbligazione naturale, era da ritenere soggetto alla presunzione di gratuità che è tipica delle prestazioni di lavoro effettuate nell'ambito dei rapporti interfamiliari, ivi compresi quelli di convivenza "more uxorio". Erroneamente la corte d'appello ha attribuito all'Atzori il diritto all'indennizzo in base al medesimo principio che, nella stessa situazione, tale diritto è riconosciuto a favore del coniuge (che abbia costruito su suolo di proprietà dell'altro), senza considerare la differenza che sussiste tra il rapporto coniugale e quello "more uxorio", che non possono essere trattati allo stesso modo senza violare il principio costituzionale di uguaglianza. 3) Omessa o, almeno, insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti e rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5 oltreché violazione e falsa applicazione dell'art. 345 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3. Sostiene la ricorrente che, una volta chiarito, in base al motivo precedente, che la fattispecie andava inquadrata nell'ambito del regime giuridico tipico delle obbligazioni naturali, la sentenza impugnata avrebbe dovuto ammettere la prova testimoniale intesa a dimostrare l'apporto economico della Sanna alle esigenze della famiglia di fatto e la rinuncia dell'Atzori a far valere il diritto azionato. Né, riguardo a tale rinuncia, la prova del contrario poteva essere desunta, come ritenuto dalla Corte d'appello, dalla dichiarazione del 6 giugno 1988 sottoscritta da Chiara Luisa Muscas, né, comunque, tale dichiarazione poteva essere di preclusione alla prova testimoniale. 4) Omessa o, almeno, insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia prospettato dalla parte e rilevabile d'ufficio, in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 5 con violazione e falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c. e conseguente nullità della sentenza ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 4 Deduce la ricorrente che la sentenza impugnata erroneamente ha ritenuto che la domanda di pagamento degli interessi era stata proposta sia per le somme relative all'aumento di valore arrecato al fondo sia per il rimborso del valore dei materiali e della mano d'opera, mentre in effetti la domanda si riferiva soltanto al primo aspetto della vicenda. Correttamente il Tribunale non aveva liquidato gli interessi per il secondo aspetto perché non richiesti. La Corte d'appello, al contrario, violando il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, ha liquidato anche tali interessi. 1.1. Il primo motivo è infondato sotto tutti i profili. La Corte d'appello ha ricondotto la pretesa dell'Atzori nell'ambito dell'art. 936 c.c., confermando la qualificazione giuridica data dal Tribunale, dopo aver esaminato ed escluso la fondatezza dei contrari rilievi della Sanna diretti a sostenere che le opere realizzate dal convivente erano state eseguite in adempimento di un'obbligazione naturale. Ed in effetti la Sanna, con il suo appello incidentale (il quale conteneva indistintamente, all'interno di un unico corpo argomentativo, formato da una serie di proposizioni progressivamente numerate (da 1 a 35) sia l'esposizione dei fatti sia i motivi di gravame) aveva sostanzialmente dedotto che il Tribunale erroneamente aveva fatto riferimento all'art. 936 c.c., quando nella specie doveva trovare applicazione il "regime della famiglia di fatto" e conseguentemente la disciplina dell'obbligazione naturale. La Corte d'appello doveva, quindi, occuparsi essenzialmente del problema attinente la sussistenza o meno di un'obbligazione naturale nell'ambito dei rapporti di convivenza "more uxorio" tra le parti, per verificare se la fattispecie concreta fosse riconducibile alla disciplina dell'art. 2034 c.c., la cui eventuale applicabilità avrebbe conseguentemente condotto a negare il diritto alla ripetizione dell'indennizzo di cui all'art. 936 c.c. Ed una volta esclusa, con adeguata e congrua motivazione la sussistenza di un'obbligazione naturale in relazione a tutte le circostanze del caso concreto, ivi compresi i rapporti tra le parti nell'ambito della famiglia di fatto, non vi era alcuna ragione per cui la Corte d'appello doveva esaminare altre questioni attinenti ai presupposti di applicabilità dell'art. 936 c.c. non specificamente sottoposte al suo esame. Pertanto, correttamente, la Corte d'appello, dopo aver escluso che le prestazioni dell'Atzori fossero conducibili all'adempimento di un'obbligazione naturale, ha ritenuto di dover confermare la qualificazione giuridica dell'azione proposta dall'Atzori, inquadrata dal Tribunale nell'ambito dell'art. 936 c.c., non essendo stati proposti, al riguardo, specifici motivi di doglianza. 1.2. Né può trovare ingrosso l'ultima parte della doglianza perché con essa vengono sollevate questioni nuove, relative sia alla sussistenza dell'illecito edilizio e successiva sanatoria sia alla prevalenza della mano d'opera impiegata dall'Atzori rispetto ai materiali dallo stesso forniti, sia alla consistenza e tipologia dell'opera realizzata, mai dibattute tra le parti e mai sottoposte all'esame dei giudici di merito. Questioni che presuppongono nuovi accertamenti e indagini sicuramente riservati al giudice di merito e preclusi in sede di legittimità (v. fra le tane: Cass. 19 marzo 1996 n. 2294), dovendo i motivi del ricorso per cassazione investire, a pena di inammissibilità, questioni che abbiano formato oggetto del "thema decidendum" come fissato dalle impugnazioni e dalle richieste delle parti (cfr. "ex plurimis": Cass. 29 ottobre 2001 n. 13403). 2.1. Anche il secondo motivo è infondato. Ed invero, riaffermato il principio di diritto (peraltro non contestato dalla ricorrente) che un'attribuzione patrimoniale a favore del convivente "more uxorio" può configurarsi come adempimento di un'obbligazione naturale allorché la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all'entità del patrimonio e alle condizioni sociali del "solvens", va detto che con il motivo si tende a sollecitare un riesame dei fatti di causa e delle risultanze probatorie, peraltro sulla base di considerazioni ipotetiche ed elementi presuntivi. Trattasi in altri termini di doglianza di merito tendente alla rivalutazione dei dati processuali, non deducibile in sede di legittimità, se non nei limiti della mancanza, insufficienza o contraddittorietà di motivazione, che nel caso specifico non ricorre avendo i giudici di merito correttamente giustificato il loro convincimento, circa la non configurabilità della prestazione dell'Atzori come adempimento di un'obbligazione naturale, allorché hanno rilevato che, in base alle prove acquisite e alla c.t.u., non sussisteva un rapporto di proporzionalità tra l'opera edificatoria realizzata dall'Atzori e l'adempimento dei doveri morali e sociali da lui assunti nell'ambito della convivenza di fatto. La sentenza impugnata ha anche evidenziato come non era neppure da parlarsi di adempimento di un dovere morale in relazione alle prestazioni dell'Atzori, dato che queste non si erano esaurite nel procurare alla famiglia di fatto un'abitazione dignitosa e confortevole, ma avevano avuto come effetto l'arricchimento esclusivo della Sanna, per effetto dell'accessione, non solo della proprietà di un appartamento di circa mq. 175, ma anche di un fabbricato di tre piani di circa mc. 860 non ultimato, autonomamente utilizzabile con destinazione commerciale o residenziale, nonché tre locali di sgombero di mc. 154. L'indagine sulla sussistenza di un dovere morale e sociale e lo stabilire se una prestazione abbia il carattere della adeguatezza e della proporzionalità si risolve in accertamento di fatto, riservato al giudice di merito, incensurabile in Cassazione se sorretto da motivazione sufficiente e immune da vizi logici e da errori di diritto. Inammissibilmente, pertanto, la ricorrente pretende disattendere tale accertamento e sostenere, sulla base di un discutibile dato presuntivo costituito dalla rilevante mole dell'opera realizzata, che l'attività edificatoria non sarebbe il frutto del lavoro di una sola persona, per inferirne, anche in considerazione del suo contributo economico, un ridimensionamento dell'apporto dato dall'Atzori nella costruzione dei fabbricati. 2.2. Quanto all'assunto della ricorrente che, qualora la prestazione dell'Atzori non possa inquadrarsi nello schema concettuale dell'obbligazione naturale, la prestazione stessa dovrebbe presumersi gratuita, essendo stata resa nell'ambito dei rapporti di convivenza "more uxorio", va osservato che ciò, nel caso specifico, non può trovare applicazione. Invero la presunzione di gratuità è da ritenere che venga meno quando risulti che la prestazione esuli dai doveri di carattere morale e civile di mutua assistenza e collaborazione, in relazione alle qualità e condizioni sociali delle parti, e si configuri come mera operazione economico-patrimoniale, che abbia determinato un inspiegabile e illogico arricchimento del convivente "more uxorio", con proprio ingiusto danno. 2.3. Pertanto, correttamente la Corte d'appello ha riconosciuto all'Atzori il diritto all'indennizzo, che non può essere contestato in base a ipotetica violazione dei principi costituzionali (in particolare quello di uguaglianza). 3.1. Il terzo motivo è, nella prima parte, superato dalla qualificazione dell'azione come ipotesi dell'art. 936 c.c., e non come obbligazione naturale; ed è infondato nella restante parte avendo la Corte d'appello giustificato l'inammissibilità della prova orale perché irrilevante ed escluso la rinuncia dell'Atzori a far valere il suo diritto sia in base al contenuto della scrittura del 31 maggio 1987 sia in base alla deposizione di Chiara Luisa Muscas. Per il resto è sufficiente ricordare che la valutazione delle risultanze processuali nonché della prova testimoniale insieme al controllo sulla loro concludenza - come la scelta, fra le varie risultanze probatorie di quelle ritenute più idonee a sorreggere la decisione - involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale, nel porre a fondamento della sua decisione una fonte di prova ad esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere peraltro tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni avverse ("ex plurimis": Cass. 8 novembre 1996 n. 9744; 6 settembre 1995 n. 9384; Cass. 14 aprile 1994 n. 3498); onde la sentenza impugnata non è suscettibile di cassazione per il solo fatto che gli elementi considerati dal giudice di merito siano, secondo l'opinione del ricorrente, tali da consentire una diversa valutazione, conforme alla tesi da lui sostenuta. 4.1. Il quarto motivo è destituito di fondamento. La Corte d'appello ha chiarito che l'Atzori aveva chiesto in primo grado gli interessi sia sul valore del materiale e della mano d'opera sia sull'aumento del valore arrecato al fondo e che tale richiesta si riferiva alternativamente all'uno o all'altro titolo. Sul punto vi era stata omissione da parte del Tribunale, per cui andavano riconosciuti gli interessi sulla somma liquidata. In base alle considerazioni svolte, il ricorso va, quindi, rigettato con condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi € 140,00, oltre € 2.000,00 per onorario. Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 2ª Sezione Civile, il 4 dicembre 2002. DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 13 MAR. 2003 3 RASSEGNA GIURISPRUDENZIALE A CURA DI ANTONIO ALBANESE (tratta dal Comm. Giuffrè dir. da Cesare Ruperto) CAPO VI Del regime patrimoniale della famiglia Bibliografia: In termini generali, in tema di regime patrimoniale della famiglia: BUSNELLI, Convenzione matrimoniale, Enc. dir., X, Milano, 1962; MESSINEO, Convenzione, Enc. dir., X, Milano, 1962; PROSPERI, La famiglia non fondata sul matrimonio, Napoli, 1980; GABRIELLI, I rapporti patrimoniali tra coniugi, Trieste, 1981; SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia.. Il regime patrimoniale della famiglia, Comm. cod. civ., I, 1, Torino, 1983; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, Tratt. Cicu, Messineo, VI, 2, Milano, 1984; A. FINOCCHIARO, M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984; MAIORCA, Regime patrimoniale della famiglia, Digesto civ., App., VI, Torino, 1986; ROPPO, Convenzioni matrimoniali, Enc. Giur., IX, Roma, 1988; MOSCARINI, Convenzioni matrimoniali in generale, La comunione legale, a cura di Bianca, II, Milano, 1989; OPPO, sub art. 230 bis c.c., Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; FRANZONI, I contratti tra conviventi more uxorio, Riv. trim. dir. proc. civ. 1994; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, Milano, 1995; UCCELLA (a cura di), Diritto di famiglia, Milano, 1996; MORELLI, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1996; ANGELONI, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997; GABRIELLI, Regime patrimoniale della famiglia, Digesto civ., XVI, Torino, 1997; GABRIELLI, CUBEDDU, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997; PINO, Diritto di famiglia, 3ª ed., Padova, 1998; AULETTA, La comunione legale, Tratt. Bessone, IV, 3, Torino, 1999; BERRUTI, Convenzioni tra coniugi e benefici fiscali ex art. 228, 3° comma, l. 151 del 1975, Gius 1999; PALADINI, La comunione convenzionale, Tratt. Bessone, IV, 3, Torino, 1999; BARGELLI, BUSNELLI, Convenzione matrimoniale, Enc. dir., IV, Milano, 2000; BIANCA, I rapporti personali nella famiglia e gli obblighi di contribuzione, La riforma del diritto di famiglia dieci anni dopo, Padova, 2001; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, 2ª ed., Milano, 2002; OBERTO, Famiglia e rapporti patrimoniali, Milano, 2002; SANTOSUOSSO, Beni ed attività economica della famiglia, 2ª ed., Torino, 2002; IEVA, Le convenzioni matrimoniali, Tratt. Zatti, III, Milano, 2002; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 159-230, Bologna-Roma, 2003; MINNITI F., MINNITI M., Non sono validi gli atti di rinuncia in deroga al regime di comunione legale, Dir. e giust. 2003, f. 18, 66; DI GREGORIO, Programmazione dei rapporti familiari e libertà di contrarre, Milano 2003; VECCHI, La scelta della legge regolatrice il regime patrimoniale dei coniugi, Famiglia 2003, 67; OBERTO, L'autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), Famiglia 2003, 617; IBBA, Professioni, imprese e diritto di famiglia, Riv. giur. Sarda 2004, 319; RIMATO, La comunione patrimoniale dei coniugi alla luce dei principi costituzionali, PQM 2004, f. 1, 55; AUTORINO STANZIONE, Autonomia negoziale e rapporti coniugali, Rass. dir. civ. 2004, 1; RUSSO, Le convenzioni matrimoniali, Comm. Schlesinger, Milano, 2004; CEROLINI, Comunione legale e autonomia privata, Giur. it. 2004, 283; FORTINO, Diritto di famiglia, 2ª ed., Milano, 2004; RUSSO, Lo statuto della casa coniugale tra ragioni proprietarie e familiari: il comodato nuziale, Famiglia 2005, 231; BIANCA, Diritto civile, II, La famiglia. Le successioni, 4ª ed., Milano, 2005; SANTOSUOSSO, Evoluzione normativa degli aspetti economico patrimoniali della famiglia, Dir. famiglia 2005, 600; SOLIMENE, Comunione legale e nullità del matrimonio, Familia 2005, 157; DELL'UTRI, Autonomia familiare e tutela dei terzi (parte I), Familia 2006, 483; QUADRI, I rapporti patrimoniali tra i coniugi a trent'anni dalla riforma del diritto di famiglia, Familia 2006, 15; CARNEVALI, Le convenzioni matrimoniali, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, 2ª ed., Torino, 2007; DI MARTINO, La comunione legale tra coniugi, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, 2ª ed., Torino, 2007; CONFORTINI, La comunione convenzionale tra coniugi, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, 2ª ed., Torino, 2007; AULETTA, Il diritto di famiglia, 9ª ed., Torino, 2008; RAIOLA, SALOMONE, Il regime patrimoniale della famiglia: questioni controverse, profili di responsabilità e tutela del coniuge debole, Padova, 2008; AA.VV., Il regime patrimoniale della famiglia, a cura di A. ARCERI e M. BERNARDINI, Santarcangelo di Romagna, 2009; ASPREA, La famiglia di fatto, 2ª ed., Milano, 2009; MURITANO, PISCHETOLA, Accordi patrimoniali tra conviventi e attività notarile, Milano, 2009; AA.VV., Codice della famiglia, a cura di M. SESTA, 2ª ed., Milano, 2009; BALESTRA, Attività d'impresa e rapporti familiari, Padova, 2009; TESTA, Rapporti patrimoniali e famiglia nell'evoluzione interpretativa della riforma del diritto di famiglia, Milano, 2010; BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, 5ª ed., Torino, 2010; OBERTO, La comunione legale tra coniugi, Tratt. Cicu, Messineo, Milano, 2010. Sezione I. Disposizioni generali. Art. 159. Del regime patrimoniale legale tra i coniugi. Il regime patrimoniale legale della famiglia, in mancanza di diversa convenzione stipulata a norma dell'articolo 162, è costituito dalla comunione dei beni, regolata dalla sezione III del presente capo. Sommario: 1. Fondamento delle nuove norme, in materia patrimoniale, introdotte dalla l. 19 maggio 1975 n. 151. — 2. Natura giuridica della « comunione legale tra coniugi ». Caratteristiche. — 3. Incapacità a testimoniare del coniuge in regime di comunione legale dei beni. Questione di legittimità costituzionale, non fondatezza. — 4. Coniuge comproprietario del veicolo, in regime di comunione legale e assicurazione obbligatoria della responsabilità civile. — 5. Regime di comunione legale e deducibilità delle spese mediche sostenute per il coniuge titolare di autonoma posizione contributiva. Esclusione. — 6. Coniugi di diversa cittadinanza. — 7. Cessazione del regime legale per separazione dei coniugi e decorrenza dei relativi effetti. Rinvio. Riconciliazione dei coniugi giudizialmente separati e ripristino della comunione dei beni. — 8. Nuovo regime patrimoniale familiare e convivenza more uxorio. — 9. Segue: prestazioni lavorative, svolte nell'ambito di una convivenza more uxorio. — 10. Segue: rapporti patrimoniali tra conviventi e arricchimento senza causa: posizione della dottrina. — 11. Segue: la restituzione come “terza via” tra donazione e obbligazione naturale: una recente pronuncia della Cassazione. — 12. Segue: Verso un superamento della presunzione di gratuità. — 13. Segue: richiami di dottrina, sulle famiglie di fatto. 1. Fondamento delle nuove norme, in materia patrimoniale, introdotte dalla l. 19 maggio 1975 n. 151. — Il regime patrimoniale dei coniugi (o della famiglia, come sovente detto, ma con espressione senz'altro meno appropriata) costituisce il regime patrimoniale secondario, così denominato per distinguerlo dal regime patrimoniale primario racchiuso nelle disposizioni di cui agli artt. 143, 147 e 148 c.c. Il regime patrimoniale primario è caratterizzato da una funzione “contributiva”, dal bisogno della famiglia e dal correlato dovere di solidarietà dei suoi componenti, sicché suoi connotati sono, anche qualora i coniugi abbiano adottato il regime di separazione dei beni, il potere di ciascuno di essi di impegnare il patrimonio comune e il patrimonio dell'altro per i bisogni del gruppo e la responsabilità solidale per le obbligazioni assunte nell'interesse della famiglia (Cass. 7 luglio 1995 n. 7501, Giust civ. 1996, I, 142; Dir. famiglia 1996, 95; Famiglia e diritto 1996, 140; Studium Juris 1996, 229; Cass. 25 luglio 1992 n. 8995, Dir. famiglia 1993, 91; Vita not. 1993, 219; Giur. it. 1993, I, 1, 1512; Nuova giur. civ. comm. 1994, I, 26; Cass. 28 aprile 1992 n. 5063, Foro it. 1992, I, 3000; Dir. famiglia 1992, 997). Il regime patrimoniale secondario, al contrario, è connotato da una funzione “distributiva” e il suo fondamento, per la giurisprudenza di poco successiva alla Riforma (Trib. Vigevano, 20 febbraio 1979, Riv. dir. agr. 1980, II, 92, in motivazione), risiede nell'intenzione di « esaltare l'apporto costruttivo di ciascun coniuge nell'accrescimento del patrimonio familiare » e di « sostituire l'istituto della dote con il regime della comunione legale dei beni ». In dottrina, tra gli altri, in senso sostanzialmente diverso, SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, il regime patrimoniale della famiglia, Torino, 1983, 27-28, secondo cui la nuova normativa tende alla distribuzione, fra i coniugi, d'una certa parte della ricchezza prodotta nel corso della convivenza matrimoniale, nonché a favorire la collaborazione dei coniugi. In termini parzialmente diversi, BARBIERA, Trattato di diritto privato, diretto da RESCIGNO, Torino 1982, 406, per il quale la comunione legale, tra coniugi, mira alla realizzazione della parità sostanziale tra i coniugi (in questo senso, altresì, RUSSO, L'autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, Vita not. 1982, 488 ss., in part. 490). Criticamente, su tali affermazioni — peraltro ricorrenti nella dottrina che si è interessata al nuovo regime patrimoniale tra i coniugi — CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, Trattato di diritto civile e commerciale, diretto da CICU, MESSINEO e MENGONI, Milano 1979, 55, che esclude che la nuova normativa abbia inteso attuare il principio di parità di cui all'art. 29 Cost. e che la stessa abbia, quale scopo, quello di assicurare una retribuzione alla donna « casalinga ». Sempre nel senso che il regime patrimoniale legale della comunione dei beni non ha, affatto, inteso valorizzare, e retribuire, il lavoro domestico della donna, CATAUDELLA, « Ratio » dell'istituto e « ratio » della norma nella comunione legale tra coniugi, Diritto di famiglia, Raccolta di scritti in onore di R. Nicolò, Milano 1982, 299 ss., in part. 302. V. ora, ampiamente, OBERTO, La comunione legale tra coniugi, Tratt. Cicu, Messineo, Milano, 2010, 1 ss. Ampio spazio, peraltro, la Riforma riserva all’autonomia privata, perché la comunione vige soltanto « in mancanza di una diversa convenzione stipulata a norma dell'art. 162 » (in dottrina, tra gli altri: ANGELONI, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997; CEROLINI, Comunione legale e autonomia privata, Giur. it. 2004, 283; DELL'UTRI, Autonomia familiare e tutela dei terzi (parte I), Familia 2006, 483; DI GREGORIO, Programmazione dei rapporti familiari e libertà di contrarre, Milano 2003; FRANZONI, I contratti tra conviventi more uxorio, Riv. trim. dir. proc. civ. 1994, 737; OBERTO, L'autonomia negoziale nei rapporti patrimoniali tra coniugi (non in crisi), Familia 2003, 617). Sebbene la convenzione matrimoniale (v. anche sub art. 162) consista di norma nell'accordo dei coniugi, e quindi in un negozio bilaterale, essa può essere costituita, da un lato, da un negozio complesso (come avviene quando vi partecipa il terzo costituente nel caso del fondo patrimoniale), dall'altro in un negozio unilaterale (come accade per la dichiarazione unilaterale del coniuge di cui all'art. 228, comma 1°, l. 19 maggio 1975, n. 151, o per il fondo patrimoniale istituito da uno solo dei coniugi o dal terzo per testamento: v. ROPPO, Convenzioni matrimoniali, Enc. Giur., IX, Roma, 1988, 2). La dottrina è divisa sull'applicazione della disciplina contrattuale in via diretta ovvero soltanto in via analogica: la soluzione riflette la qualificazione delle convenzioni matrimoniali, rispettivamente, come veri e propri contratti (MOSCARINI, Convenzioni matrimoniali in generale, in BIANCA (a cura di), La comunione legale, II, Milano, 1989, 1003; GABRIELLI, CUBEDDU, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997, 236), o invece come negozi autonomi e funzionalmente differenti dal contratto. 2. Natura giuridica della « comunione legale tra coniugi ». Caratteristiche. — La comunione legale fra i coniugi, come regolata dagli artt. 177 ss., costituisce un istituto che prevede uno schema normativo non finalizzato, come quello della comunione ordinaria regolata dagli artt. 1100 ss., alla tutela della proprietà individuale, ma alla tutela della famiglia attraverso particolari forme di protezione della posizione dei coniugi nel suo ambito, con speciale riferimento al regime degli acquisti, in relazione al quale la ratio della disciplina, che è quella di attribuirli in comunione ad entrambi i coniugi, trascende il carattere del bene della vita che venga acquisito e la natura reale o personale del diritto che ne forma oggetto (Cass. 9 ottobre 2007, n. 21098, Famiglia dir. 2008, 5, che da tale premessa, ha tratto la conclusione — che anche i crediti, così come i diritti a struttura complessa come i diritti azionari — in quanto beni ai sensi degli artt. 810, 812 e 813 sono suscettibili di entrare nella comunione, ove non ricorra una delle eccezioni alla regola generale dell'art. 177 poste dal successivo art. 179). In dottrina, adesivamente in margine a Cass. 9 ottobre 2007, n. 21098, cit., RIMINI, Cadono in comunione i diritti di credito acquistati durante il matrimonio, Famiglia e dir., 2008, 8. In termini generali, da parte di un giudice di merito si è affermato — ancora — che la comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza da quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei (Trib. Ferrara 15 novembre 2005, Redazione Giuffrè 2006). Sempre sulla questione specifica della compatibilità con il regime della comunione legale dei diritti di obbligazione, v. infra, sub art. 177 nn. 1 e ss. Sullo specifico tema della natura giuridica della « comunione legale tra coniugi », da parte di un giudice di merito si è affermato che « la comunione fra i coniugi rende possibile la formazione di un patrimonio distinto dai patrimoni personali, costituito ope legis dagli acquisti (compresi i crediti) compiuti da un solo coniuge o da entrambi, vincolato all'interesse della famiglia, sul quale i coniugi vantano poteri uguali e complementari » (Trib. Ivrea 27 giugno 1978, Riv. dir. ipotec. 1979, 66). « La comunione come patrimonio vincolato — prosegue la ricordata pronuncia — può essere plasticamente rappresentata da un serbatoio con saracinesca di entrata manovrabile da uno o da entrambi i coniugi, e da un serbatoio d'uscita manovrabile soltanto da entrambi congiuntamente ». Occorre, peraltro, avvertire che giusta la tesi sopra richiamata (che ripete, pressoché acriticamente, quanto sostenuto, in dottrina, da MAZZOLA e RE, Proposta per un diverso modo d'intendere la comunione dei beni tra coniugi, Riv. not. 1978, 757 ss.) « prima dello scioglimento della comunione ciascun coniuge, quand'anche sia l'acquirente esclusivo di un bene entrato a formare il patrimonio distinto, non è titolare di un diritto reale, bensì di un'aspettativa a conseguire un valore pari al 50% del patrimonio in comunione; per effetto dello scioglimento della comunione, quest'aspettativa diviene diritto ad una ripartizione contabile che non implica necessariamente lo spostamento della precedente titolarità dei beni » (Trib. Ivrea 27 giugno 1978, cit., in motivazione). In margine alla detta ricostruzione, in dottrina, in termini critici, oltre M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, Milano 1984, 854-861; MATTIACE, Riv. dir. ipotec. 1979, 72 ss.; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, Milano 1979, 68, in nota, nonché la pressoché totalità degli interventi sulla tavola rotonda Natura giuridica della comunione legale fra coniugi: contitolarità o vincolo?, Riv. not. 1980, 405 ss. Sempre in dottrina, nel senso che la comunione legale non costituisca affatto un « patrimonio separato » o « distinto » o, comunque, vincolato in qualche modo agli scopi della famiglia e della prole: SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, il regime patrimoniale della famiglia, cit., 28-30; RAGUSA MAGGIORE, Presunzione muciana e riforma del diritto di famiglia, Banca, borsa, tit. cred. 1981, I, 98 ss., in part. 100; DI MAJO, Doveri di contribuzione e regime dei beni nei rapporti patrimoniali tra coniugi (in una prospettiva comparatistica), Diritto di famiglia, Raccolta di scritti in onore di R. Nicolò, Milano 1982, 311 ss. in part. 347; RUSSO, L'autonomia privata nella stipulazione di convenzioni matrimoniali, Vita not. 1982, 488 ss., in part. 491; SACCO, Commentario al diritto italiano della famiglia, III, Padova 1992, 3 ss. 3. Incapacità a testimoniare del coniuge in regime di comunione legale dei beni. Limiti. Questione di legittimità costituzionale, non fondatezza. — In tema di incapacità del coniuge in regime di comunione legale a testimoniare nelle controversie in cui sia parte l'altro coniuge, non è configurabile, nell'ordinamento vigente, un generale divieto di testimonianza, dovendosi invece verificare di volta in volta la natura del diritto oggetto della controversia, avuto anche riguardo al carattere di norme di stretta interpretazione delle disposizioni sulla incapacità a testimoniare, che introducono una deroga al generale dovere di testimonianza. Deriva da quanto precede, pertanto, che nella controversia concernente l'accertamento della responsabilità civile a seguito di sinistro stradale, in cui sia convenuto uno dei coniugi in regime di comunione legale, trattandosi di una obbligazione di natura extracontrattuale e personale, della quale, in linea di principio, la comunione legale non dovrebbe rispondere, la corresponsabilità della stessa è ipotizzabile solo ai sensi dell'art. 2054, comma 3, sempre che risulti che il veicolo coinvolto nel sinistro non sia di proprietà, o nella disponibilità, esclusiva di uno dei coniugi; sicché, in presenza dell'accertamento che detto veicolo era condotto dal proprietario, non è sufficiente invocare il regime patrimoniale di comunione legale dei coniugi per inferirne la sussistenza di un interesse del coniuge del convenuto idoneo a legittimare la sua partecipazione al giudizio, e, quindi, la sua incapacità a deporre, ai sensi dell'art. 246 c.p.c. (Cass. 9 febbraio 2005, n. 2621). Per altri riferimenti, in particolare con riguardo al rilievo che il coniuge in regime di comunione legale non è incapace a testimoniare nelle controversie in cui sia parte l'altro coniuge, ove esse abbiano ad oggetto crediti derivanti dall'esercizio dell'impresa di cui sia titolare esclusivo l'altro coniuge, Cass. 5 marzo 2004 n. 4532, infra sub art. 178. Cui altresì il rilievo che tale incapacità sussiste, qualora il credito non sia sorto nell'esercizio di impresa (Cass. 22 aprile 2008, n. 10398). Sempre in tema, da parte del S.C. si è osservato, altresì, — comunque — che se oggetto di una controversia è la violazione della disciplina delle distanze di una costruzione dal confine, il coniuge del convenuto, in regime di comunione legale dei beni con questi, non è incapace di testimoniare (art. 246 c.p.c.), perché l'incremento eventuale del patrimonio comune non è strettamente connesso e dipendente dall'oggetto della lite, e perciò l'interesse del coniuge escusso è di mero fatto, influente sulla valutazione della sua attendibilità, ma inidoneo a legittimare la sua partecipazione al giudizio (Cass. 9 ottobre 1997 n. 9786). La situazione dei coniugi in comunione di beni e quella dei coniugi in regime di separazione dei beni non sono omogenee: in particolare, la comunione dei beni fra i coniugi determina la legittimazione di un coniuge a partecipare ai giudizi, nei quali sia parte l'altro coniuge, dai quali possano derivare incrementi o decrementi del patrimonio comune. Ne deriva — si è ritenuto, pertanto — che non è fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 159 c.c. e 246 c.p.c., sollevata, con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., sotto il profilo che mentre per i primi sussiste il divieto di testimonianza, in cause relative a beni che possono essere incrementati o decurtati in dipendenza del giudizio in cui è parte in causa l'altro coniuge, per i secondi invece tale possibilità è aperta, in seguito alla dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 247 c.p.c. pronunziata con sentenza 23 luglio 1974 n. 248 della Corte costituzionale (Corte cost. 24 febbraio 1995 n. 62, Giust. civ. 1995, I, 1141; Giur. it. 1995, I, 537; Foro it. 1996, I, 83; Dir. famiglia 1996, 9; Cons. Stato 1995, I, 268; Giur. cost. 1995, 530). 4. Coniuge comproprietario del veicolo, in regime di comunione legale e assicurazione obbligatoria della responsabilità civile. — È manifestamente infondata l'eccezione di incostituzionalità dell'art. 4, lett. a) l. 24 dicembre 1969 n. 990, nella formulazione precedente all'art. 28 l. 19 febbraio 1992 n. 142, perché l'esclusione del coniuge comproprietario del veicolo dalla copertura assicurativa derivava dalla sua corresponsabilità per il sinistro (art. 2054 c.c.), ostativa alla sua qualità di terzo (Cass. 6 febbraio 1998 n. 1292, Famiglia e diritto 1998, 278). In materia di assicurazione della responsabilità civile automobilistica, ai sensi dell'art. 4 l. n. 990 del 1969, nel testo sia anteriore (che faceva richiamo all'art. 2054, comma 3) sia posteriore (da tale momento essendo il coniuge considerato, in relazione ai danni alla persona — biologico e morale — come terzo trasportato coperto da assicurazione) alla novella introdotta dall'art. 28 l. n. 142 del 1992, in caso di incidente stradale a bordo di autovettura facente parte del regime patrimoniale di comunione legale, i danni subiti dal coniuge trasportato e imputabili alla condotta di guida dell'altro coniuge debbono essere risarciti per l'intero (seppure nei limiti del massimale da parte dell'assicuratore), non essendo al riguardo configurabile alcuna limitazione nemmeno in ragione della contitolarità dell'autovettura tra i coniugi scaturente dal regime di comunione legale, giacché essendo la comunione dei beni tra i coniugi pro indiviso, il diritto di ciascuno di essi investe l'intera cosa o — qualora non si tratti di diritto reale — l'intera titolarità soggettiva (Cass. 15 gennaio 2003 n. 487). 5. Regime di comunione legale e deducibilità delle spese mediche sostenute per il coniuge titolare di autonoma posizione contributiva. Esclusione. — In tema di imposte sul reddito, l'art. 10, comma 1, lett. b, d.P.R. 22 dicembre 1986 n. 917, il quale prevede la deducibilità delle spese mediche necessarie nei casi di grave e permanente invalidità dei soggetti a carico del contribuente, ivi compreso il coniuge, a condizione che gli stessi non siano a loro volta titolari di reddito, detta una norma specifica, che, escludendo l'applicabilità della disciplina civilistica relativa alla comunione legale dei beni tra i coniugi, già derogata in via generale dalla previsione di dichiarazioni distinte da parte dei coniugi che siano autonomi soggetti d'imposta, non consente di portare in deduzione, sia pure pro quota, le spese mediche sostenute dal coniuge che, indipendentemente dal regime patrimoniale di comunione legale eventualmente in atto, sia titolare di un'autonoma posizione impositiva (Cass. 23 ottobre 2006, n. 22789). 6. Coniugi di diversa cittadinanza. — Qualora le rispettive leggi nazionali dei coniugi siano insuscettibili di un'applicazione cumulativa, deve applicarsi, per analogia, la norma, dettata in materia di rapporti personali tra coniugi, di cui all'art. 18 delle preleggi, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 19 delle preleggi, nella parte che stabiliva l'applicazione della legge nazionale del marito al tempo della celebrazione del matrimonio; pertanto, anche i rapporti patrimoniali tra coniugi devono, al pari dei rapporti personali, intendersi regolati dall'ultima legge nazionale che sia stata loro comune durante il vincolo matrimoniale. Nella specie, la legge nazionale della moglie, cittadina italiana, prevedeva quale regime patrimoniale legale la comunione dei beni, mentre la legge nazionale del marito, cittadino austriaco, prevedeva, quale regime patrimoniale legale, la separazione dei beni; durante il matrimonio, il marito era divenuto cittadino italiano (Cass. 24 gennaio 2007, n. 1609, Dir. famiglia 2007, 1136). 7. Cessazione del regime legale per separazione dei coniugi e decorrenza dei relativi effetti. Rinvio. Riconciliazione dei coniugi giudizialmente separati e ripristino della comunione dei beni. — Sulla cessazione del regime di comunione legale dei beni tra i coniugi, a causa della pronuncia di separazione personale dei coniugi stessi e sulla decorrenza degli effetti dello scioglimento, ampiamente, infra, sub art. 191. Si è precisato, da parte del S.C., che la riconciliazione, intervenuta tra coniugi separati, fa cessare con effetto ex nunc tutti gli effetti della separazione, sia personali che patrimoniali, con il conseguente ripristino del regime della comunione dei beni esistente in origine tra i coniugi, venuto meno in seguito al provvedimento di separazione (Cass. 12 novembre 1998 n. 11418, Giust. civ. 1999, I, 1033, Corr. giur. 1999, 190; Famiglia e diritto 1999, 185; Studium Juris 1999, 195; Dir. famiglia 1999, 582; Foro it. 1999, I, 1953; Riv. not. 1999, 686). Si è osservato, al riguardo, a sostegno di una tale conclusione tra l'altro: — nella disciplina dettata dalla legge di riforma del diritto di famiglia, ispirata al canone sovraordinato della parità delle posizioni dei coniugi, la comunione legale dei beni costituisce puntuale applicazione del principio fondamentale di uguaglianza, idonea a riempire il concetto formale di contenuto sostanziale, mentre la separazione dei beni non è più il regime legale, ma l'effetto di una apposita convenzione degli stessi coniugi, che da un lato ne esprime l'intenzione di evitare commistioni di patrimoni, dall'altro, su un piano economico-sociale, tende a ricollegarsi statisticamente ad una situazione fattuale in cui entrambi i coniugi dispongono di proprie e distinte fonti di reddito; — la riconciliazione disciplinata quanto agli effetti dagli artt. 154 e 157, consiste nella ricostituzione del consorzio familiare nell'insieme dei suoi rapporti materiali e spirituali, animata dal proposito di dare nuova vita al vincolo coniugale, ponendo fine allo stato di separazione in atto; — l'evento riconciliativo si configura come vicenda diretta a rimuovere detto stato [di separazione], tanto che ai sensi dell'art. 157 cpv. possono essere presi in esame, quali unici fatti e comportamenti potenzialmente determinanti una nuova separazione, solo quelli successivi alla riconciliazione; — appare del tutto aderente al sistema delineato dal legislatore della riforma che, posta nell'art. 191 la separazione personale come causa dello scioglimento della comunione dei beni, si ripristini automaticamente tra le parti, una volta rimossa con la riconciliazione la causa di scioglimento della comunione, quel regime di comunione originariamente adottato, esclusa ovviamente ogni retroattività per gli acquisti effettuati durante il periodo di separazione; — non appare condivisibile la tesi di quegli Autori che ritengono debba distinguersi nell'ambito degli effetti della sentenza di separazione, ai fini dell'art. 157, tra quelli permanenti (come l'autorizzazione a vivere separati, l'affidamento dei figli o l'attribuzione dell'assegno destinati a cessare con la riconciliazione, e quelli istantanei come appunto la cessazione del regime legale dei beni che in quanto usciti dalla disponibilità delle parti non sarebbero più caducabili, argomentando a sostegno di tale distinzione che la separazione dei beni conseguente alla separazione personale non è un effetto proprio della sentenza, o quanto meno non ne è un effetto diretto e immediato, in quanto discende non dalla sentenza, ma direttamente dalla legge, che lo ricollega alla sentenza; — l'ampia formulazione dell'art. 157 e la mancanza di qualsiasi indicazione in termini limitativi della sua operatività inducono a ravvisare in detta disposizione un principio generale — peraltro in piena coerenza con la natura e la portata del fatto determinativo — secondo il quale con la riconciliazione vengono meno tutti gli effetti della separazione; né vale in contrario rilevare che dagli artt. 162 e 163 si desume che le convenzioni nel corso del matrimonio dirette a modificare il regime esistente devono essere stipulate con atto pubblico, atteso che nell'ipotesi di riconciliazione il regime di riferimento per la sua eventuale variazione non si identifica con quello di separazione derivante ex lege dalla separazione personale ed ormai travolto dalla riconciliazione, bensì in quello scelto all'atto del matrimonio (Cass. 12 novembre 1998 n. 11418, cit.). In dottrina, in margine alla ricordata pronunzia, in termini critici, M. FINOCCHIARO, La mancanza di qualsiasi forma di pubblicità pregiudica le esigenze di tutela dei terzi, Guida dir. 1998, f. 46, 26, nonché P. SCHLESINGER, Famiglia separazione dei coniugi ed effetti della riconciliazione sulla comunione legale, Corr. giur. 1999, 190; M. FOCOSI, Comunione legale e riconcilaizione successiva alla separazione personale dei coniugi, Riv. not. 1999, 686 e A. DI SAPIO, Effetti della riconciliazione sul regime patrimoniale della famiglia: … dalle staccionate alle bandierine, passando da Cadmo ad Armonia, Dir. famiglia 1999, 582. Sempre in margine a Cass. 12 novembre 1998 n. 11418, cfr., altresì, in vario senso, RENGA, Giust. civ. 1999, I, 1033; A. NICOLUSSI, Riconciliazione e comunione dei beni, Foro it. 1999, 1953; R. DE MICHEL, Rapporti patrimoniali tra coniugi; riconciliazione fra coniugi separati e regime patrimoniale della famiglia, Famiglia e diritto 1999, 252; PARENTE, Dir. famiglia 1999, 1059. Sempre sulla questione specifica — in termini sostanzialmente opposti — in sede di merito, peraltro, si è affermato: — l'avvenuta riconciliazione dei coniugi ritualmente separati spiega effetti soltanto interni alla coppia e non può operare esternamente al fine di travolgere atti dispositivi compiuti da uno dei coniugi in favore di terzi di buona fede, l'asserita riconciliazione dei coniugi in regime di separazione omologata non può essere opposta agli acquirenti di un bene immobile dalle mani del coniuge che si è dichiarato legittimato a disporne, dopo che l'avvenuta separazione aveva sciolto il precedente regime di comunione legale (Trib. Palermo 29 marzo 1997, Dir. famiglia 1998, 985); — l'eventuale carattere simulatorio del verbale di separazione consensuale omologata non può, ex art. 1415, essere opposto ai terzi, e l'eventuale rinconciliazione dei coniugi ritualmente separati può spiegare effetti soltanto interni alla coppia, non potendo rilevare al fine di travolgere atti dispositivi compiuti da uno dei coniugi in favore di terzi di buona fede, né l'asserita simulazione della separazione, né l'asserita riconciliazione dei partners dopo l'omologa possono essere opposte agli acquirenti di un bene immobile dalle mani di un coniuge legittimato a disporne per avere acquistato il bene dopo l'omologa della separazione, che aveva sciolto il precedente regime di comunione legale (Trib. Bologna 28 gennaio 1998, Dir. famiglia 1998, 1047, con nota adesiva di M. CONTE, Sull'opponibilità ai terzi della riconciliazione di coniugi ritualmente separati); — qualora sia stata annotata a margine dell'atto di matrimonio l'avvenuta separazione personale dei coniugi, il tribunale, ritualmente richiesto, deve ordinare l'annotazione dell'avvenuta riconciliazione delle parti, a tutela dei terzi, che hanno interesse a conoscere sia la separazione, costituente causa di scioglimento della comunione legale dei beni, sia la riconciliazione (Trib. S. Maria Capua V. 2 maggio 1997, Dir. famiglia 1998, 1469, ricordata infra, sub art. 162, n. 2); — il contratto di compravendita, quando ne sia oggetto un bene acquistato successivamente al passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale (o alla omologazione della separazione consensuale), non è annullabile (art. 184), pur se i coniugi, che avevano adottato con il matrimonio la comunione legale, abbiano ripreso a convivere, in quanto, pronunciata la separazione, la successiva riconciliazione di fatto (art. 157) non comporta l'automatica reviviscenza del regime patrimoniale della comunione legale (art. 191), se essi non abbiano dato alcuna pubblicità, di diritto o di fatto, alla riconciliazione (Trib. Napoli 21 dicembre 1998, Foro nap. 1999, 246). 8. Nuovo regime patrimoniale familiare e convivenza more uxorio. — Da parte di un giudice di merito si è osservato che « sulla base delle più attuali acquisizioni sociologiche fatte proprie dal legislatore in materia di famiglia, che ravvisano negli incrementi patrimoniali del gruppo il risultato di una collaborazione dei suoi componenti » deve escludersi — in una fattispecie, peraltro, completamente esauritasi anteriormente all'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151 — che possa ritenersi simulata l'intestazione di un immobile in favore di una donna, ad opera del suo convivente more uxorio, o, comunque, in qualche modo rilevante la dichiarazione scritta, di debito, rilasciata dalla donna all'uomo, per la parte di prezzo relativo, contestualmente all'intestazione medesima (Trib. Bari 21 gennaio 1977, Dir. famiglia 1979, 1186, con nota adesiva di BESSONE, « Favor matrimonii » e regime del convivere in assenza di matrimonio, che, dopo aver esposto i requisiti, perché una libera convivenza possa qualificarsi « famiglia di fatto » e rilevato che, in realtà, la Costituzione riconosce come società naturale la famiglia semplicemente naturale, quanto al punto specifico, oggetto di contestazione tra le parti, segnala « la concisa chiarezza degli argomenti » esposti in motivazione. Criticamente, in dottrina, in margine a tale pronuncia, FINOCCHIARO M., in A e M. FINOCCHIARO, op. cit., 719-721, nonché GAZZONI, Dal concubinato alla famiglia di fatto, Milano 1983, 126 ss. La dottrina, ad ogni modo, esclude che gli artt. 159 ss. possano essere applicati, in via diretta o analogica, alle convivenze more uxorio. Nel senso che nell'intenzione del legislatore deve escludersi sia ravvisabile la volontà di un pieno riconoscimento giuridico della convivenza more uxorio quanto ai rapporti patrimoniali tra gli stessi, tra gli altri, FARENGA, In tema di rapporto « more uxorio », famiglia di fatto e impresa familiare, Dir. fall. 1980, II, 611 ss., in part. 613; ALAGNA, La famiglia di fatto ad un bivio: rilevanza delle singole fattispecie o riconoscimento generalizzato di un fenomeno?, Giust. civ. 1982, II, 25 ss., in part. 38 (nonché Vita not. 1981, 492 ss., in part. 514); JEMOLO, La c.d. famiglia di fatto, Diritto di famiglia, Raccolta di scritti in onore di R. Nicolò, Milano 1982, 45 ss., in part. 56-57; SANTOSUOSSO, op. cit., 21-22. (In senso diverso, peraltro, e, in particolare, per l'affermazione che la comunione legale è applicabile anche in caso di coniugi di fatto, PROSPERI, La famiglia non fondata sul matrimonio, Napoli 1980, 286 ss.. Detto autore ravvisa infatti negli artt. 159 ss. un possibile punto di riferimento anche per disciplinare le situazioni patrimoniali della famiglia di fatto: ad es., con riguardo alla regola della pari dignità giuridica, nell'ambito della comunità familiare, del lavoro casalingo e di quello professionale. Per una affermazione giurisprudenziale che « la famiglia di fatto » è « una formazione sociale », tutelata dagli artt. 2 e 30 Cost., tra le altre, Pret. Genova 17 luglio 1979, Dir. famiglia 1981, 203 (riformata, sul punto, da Trib. Genova, 17 dicembre 1979, ivi 1981, 159) che ha ritenuto la nullità della clausola di un fondo di mutua assistenza ove interpretata nel senso di non estendere alla convivente dell'iscritto al fondo medesimo il diritto all'assistenza ed alla previdenza sociale esplicitamente riconosciuto in favore della moglie). 9. Segue: prestazioni lavorative, svolte nell'ambito di una convivenza more uxorio. — Al fine di stabilire se le prestazioni lavorative svolte nell'ambito di una convivenza more uxorio diano luogo ad un rapporto di lavoro subordinato oppure siano riconducibili ad una diversa relazione, dalla quale esuli il requisito della subordinazione, il giudice — specie nella considerazione del ridimensionamento della presunzione di gratuità delle prestazioni rese anche nell'ambito della famiglia legittima, a seguito dell'entrata in vigore dell'art. 230-bis — può escludere l'esistenza del rapporto di lavoro subordinato solo in presenza della dimostrazione rigorosa di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi (famiglia di fatto), che non si esaurisca in un rapporto meramente spirituale, affettivo e sessuale, ma, analogamente al rapporto coniugale, dia luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, della convivente more uxorio alle risorse della famiglia di fatto (Cass. 13 dicembre 1986 n. 7486). Sempre in argomento, cfr., altresì, Cass. 17 febbraio 1988 n. 1701, Foro it. 1988, I, 2306, con nota di CALÒ: la presunzione di gratuità delle prestazioni lavorative rese tra persone conviventi more uxorio può essere vinta solo dalla prova rigorosa, a carico di chi l'assume, dell'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato ed oneroso, prova che non può consistere né nella sola corresponsione di vitto ed alloggio o di ulteriori utilità dirette al soddisfacimento di altre esigenze di ordine materiale nell'ambito della normale solidarietà affettiva e materiale dei componenti della famiglia di fatto, né nella circostanza che le prestazioni lavorative, anziché svolgersi nello stretto ambito familiare, attengano all'esercizio di una impresa ove questa sia organizzata e gestita con criteri prevalentemente familiari, richiedendosi l'accertamento in concreto che vi sia un'equa ed effettiva partecipazione dei componenti alle risorse della famiglia di fatto. 10. Segue: rapporti patrimoniali tra conviventi e arricchimento senza causa: posizione della dottrina. — Da ultimo in dottrina, specie per i profili patrimoniali dei rapporti di convivenza more uxorio, è stato richiamato l’istituto dell’arricchimento senza causa (cfr. ampiamente ALBANESE, Ingiustizia del profitto e arricchimento senza causa, Padova, 2005, 249 ss.). Il ripristino dello status quo ante, attuato, in particolare, per mezzo del richiamo al divieto generale di arricchimenti ingiustificati, sembra costituire, per elasticità applicativa, la soluzione più idonea alla soluzione di numerose ipotesi concrete [OBERTO, Impresa familiare ed ingiustificato arricchimento tra conviventi more uxorio, Giur. it. 1991, I, 2, 577; CALÒ, La giurisprudenza come scienza inesatta (in tema di prestazioni lavorative in seno alla famiglia di fatto), Foro it. 1988, I, 2306; MASUCCI, Subordinazione e gratuità: quale tutela per il convivente di fatto nell’impresa familiare?, Giur. it. 1995, I, 1, 2113], sebbene alla concessione del rimedio ex art. 2041 c.c. sia pregiudiziale il previo accertamento della mancanza di una “giusta causa” dell’attribuzione patrimoniale. Infatti, come noto, accanto alla legge, altra causa idonea a giustificare l’altrui arricchimento è normalmente considerata la volontà dell’impoverito. La “volontà” di attuare uno spostamento patrimoniale può realizzarsi secondo modalità diverse. Innanzitutto, le parti possono avere stipulato un contratto tra loro: nella specie, un contratto di convivenza. In questo caso, se il contratto è valido, esso è certamente idoneo a costituire la “giusta causa” dell’attribuzione (TRABUCCHI, Arricchimento (Azione di ) (Diritto Civile), Enc. dir., III, Milano, 1959, 67 s. Sul punto c’è concordia in giurisprudenza: v., tra le tante, Cass. 30 marzo 2001, n. 4722, Giust. civ. Mass. 2001, 634) e dottrina, se escludiamo, per quest’ultima, BARCELLONA, Note critiche in tema di rapporti fra negozio e giusta causa dell’attribuzione, Riv. trim. dir. proc. civ. 1965, I, 21). Al contrario, non può parlarsi di “giusta causa” dell’arricchimento nei casi in cui esso risulti prodotto per effetto dell’esecuzione di contratti invalidi o inefficaci. Può infine accadere che nessun contratto sia intervenuto tra le parti e che l’impoverito non abbia posto in essere alcun atto unilaterale. Anche in questi casi si continua a sostenere che la prestazione volontaria escluda l’arricchimento, perché l’intenzione di produrre il trasferimento patrimoniale, o comunque il consenso da parte dell’impoverito, “giustifica” l’arricchimento. La dottrina più recente ha però osservato che la volontà, di produrre un arricchimento in capo al patrimonio altrui, può essere suffragata dalle motivazioni più varie. Non sarebbe quindi corretto sostenere, come sovente accade, che ogni attività compiuta in vantaggio altrui al di fuori di un contratto, e senza corrispettivo, sia sorretta da spirito di liberalità: quando vi è la volontà di porre in essere una liberalità, l’arricchimento è fornito di una giusta causa; ma dare per assodato lo spirito di liberalità in ogni ipotesi di volontario arricchimento di un altro soggetto equivale ad una finzione, perché non tiene conto di quella vasta zona d’ombra ove coabitano ipotesi in cui l’arricchimento non ha la sua causa né nello scambio né nello spirito di liberalità. Una cosa è la volontà della prestazione, altro è la volontà dell’arricchimento. Proprio osservando il campo dei rapporti familiari, è agevole rendersi conto che non sempre la volontà di prendere un’iniziativa diretta a beneficiare il terzo vale ad escludere le esigenze sottese al divieto generale di arricchimento ingiustificato. Nell’ambito, in genere, dei rapporti di affetto, di amicizia o di cortesia, capita di continuo di porre in essere degli “arricchimenti” in favore dell’amico, del conoscente o del familiare. Un esempio particolarmente suggestivo è quello del fidanzato che esegue lavori di ristrutturazione nella casa dei futuri suoceri ove prevede di andare a vivere con la futura sposa. Non pare che in questo caso si possa parlare di un soggetto che agisce (o che agisce soltanto) perché spinto dalla volontà di porre in essere un atto di liberalità: se il fidanzamento si rompe, sarebbe ingiusto negargli qualsivoglia ristoro. Nel senso opposto è però andato un giudice di merito, in un caso molto simile a quello appena esemplificato (Trib. Ravenna 9 marzo 1994, Gius 1994, 178). A ragione del fatto che gli oneri per la ristrutturazione erano stati sopportati dai genitori del ragazzo in funzione della sua intrapresa convivenza more uxorio con la figlia dei convenuti, detto giudice ha concluso che «tale dazione di denaro … deve essere sussunta nella fattispecie della liberalità d’uso prevista dall’art. 770, comma 2°, c.c., di cui riveste tutte le caratteristiche, a cominciare dalla già precisata occasione in cui avvenne, per finire alla conformità della stessa agli usi sociali ad alla proporzione dell’entità della dazione alle condizioni economiche degli attori». La corte ha ritenuto pertanto che la effettuazione di prestazioni d’opera senza corrispettivo da parte degli attori costituisse una liberalità d’uso, la quale aveva la propria causa «nell’intento di compiere la liberalità in favore del proprio figliolo», causa che di per sé esclude ogni possibilità di agire in arricchimento. I maggiori problemi sorgono proprio in relazione alla sussistenza di una liberalità o di una obbligazione naturale, essendo radicata, in giurisprudenza, la convinzione che i servizi prestati spontaneamente, soprattutto se resi in ambito familiare o di convivenza, debbano presuntivamente farsi rientrare nell’una o nell’altra. Trib. Larino 21 ottobre 1994, Nuovo dir. 1995, 519, con nota di FRONTINI, ha affermato che in una relazione di convivenza more uxorio, il convivente, che ai sensi del diritto può essere assimilato ad un ospite, non ha diritto al pagamento di una somma corrispondente all’incremento di valore del fabbricato in proprietà dell’altro convivente in dipendenza di lavori di ristrutturazione ed ampliamento che egli abbia eseguiti, a meno che non provi che le sue dazioni eccedano dall’esecuzione dei doveri morali e sociali di cui all’art. 2034 c.c. La difficoltà principale è poi dovuta alla facilità di sconfinamento da un concetto all’altro. Il settore che ha salutato un’inversione di tendenza piuttosto evidente è proprio quello della effettuazione di elargizioni in favore della convivente more uxorio: da una qualificazione in termini di donazione rimuneratoria, si è passati negli ultimi quaranta anni a ritenere che esse configurino adempimento di una obbligazione naturale, svincolando così la validità dell’attribuzione dall’obbligo di rispettare le prescrizioni formali. Cass., 24 novembre 1998, n. 11894, in Guida al dir. 1998, f. 48, 32, con nota di FINOCCHIARO, ha affermato: «La convivenza di fatto fa scaturire tra i partners doveri morali e sociali, e, quindi, obbligazioni naturali e non donazioni». Ai fini dell’azione restitutoria, in ogni caso, è sufficiente escludere, da un lato la sussistenza di un animus donandi dell’impoverito, dall’altro che egli abbia agito spontaneamente in adempimento di doveri morali o sociali: né l’una né l’altra circostanza possono presumersi dal mero fatto della convivenza. Affinché si possa escludere di trovarsi in presenza di una liberalità d’uso, occorre far capo al fatto che l’attribuzione è tale solo quando caratterizzata dal fatto che colui che la compie intende osservare un uso, cioè adeguarsi ad un costume vigente nell’ambiente sociale d’appartenenza, costume che determina anche la misura dell’elargizione in funzione della diversa posizione sociale delle parti, delle diverse occasioni ed in proporzione delle loro condizioni economiche, nel senso che comunque la donazione non debba comportare un depauperamento apprezzabile nel patrimonio di chi la compie: non può parlarsi di liberalità d’uso, ad esempio, nel caso di un’elargizione di gioielli fatta allo scopo di consentire la prosecuzione di una convivenza. Sembra che il ragionamento ora descritto sia stato applicato da Trib. Genova 27 marzo 1998, Nuova giur. ligure 1999, 24: «la domanda del convivente more uxorio, il quale, avendo provveduto, in favore di una cooperativa edilizia di cui era socia la convivente, a pagamenti in conto delle contribuzioni da quest’ultima dovute per la prenotazione di un appartamento, chiede la restituzione da parte della convivente delle somme pagate, deve essere accolta, dovendosi escludere: a) che si tratti di obbligazione naturale, non essendo state le erogazioni destinate ai bisogni della vita della famiglia di fatto; b) che si tratti di liberalità d’uso, non sussistendo una sostanziale equivalenza economica tra le dazioni del convivente e i servizi allo stesso resi dalla beneficiaria nel corso della coabitazione; c) che si tratti di altro tipo di liberalità, mancando la prova dell’animus donandi, che non può presumersi dal mero fatto della convivenza». Una volta che il primo passaggio interpretativo si sia risolto con l’esclusione di trovarsi innanzi ad una elargizione fatta con intenzione liberale o in esecuzione di una obbligazione naturale, il secondo e definitivo passaggio, nell’impossibilità di dare soluzioni univoche al problema, consisterà nella valutazione di tutte le circostanze di fatto, al fine di pervenire ad una soluzione in grado di tenere presenti tutti gli interessi in conflitto, la loro natura e gli scopi da cui era animata l’iniziativa dell’impoverito. Sull’importanza di detti scopi, e sulla condivisione dell’iniziativa da parte del beneficiario, insiste BRECCIA, L’arricchimento senza causa, Trattato di diritto privato, diretto da RESCIGNO, IX, Obbligazioni e contratti, tomo I, Torino, 1984, 996, il quale rileva come questi fatti, se meritevoli di tutela ed erronei o successivamente frustrati, potrebbero eliminare ogni dubbio sulla possibilità di trovarsi innanzi ad una fattispecie di arricchimento imposto. 11. Segue: la restituzione come “terza via” tra donazione e obbligazione naturale: una recente pronuncia della Cassazione. — Sempre ai nostri limitati fini basti ricordare che, per comune convinzione, l’indagine sulla sussistenza di un’obbligazione naturale è duplice, dovendo accertarsi, da un lato, se nel caso dedotto sussista un dovere morale o sociale in rapporto alla valutazione corrente nella società e, dall’altro, se tale dovere sia stato spontaneamente adempiuto con una prestazione avente carattere di proporzionalità ed adeguatezza in relazione a tutte le circostanze del caso. Pertanto, una prestazione può configurare esecuzione di doveri morali o sociali solo qualora corrisponda a regole correntemente e diffusamente osservate nella collettività in determinate contingenze (La giurisprudenza non ritiene sufficiente il convincimento soggettivo del solvens ma considera indispensabile che il dovere appaia tale, secondo i parametri comunemente recepiti nella vita di relazione. Ciò permette, ad esempio, di escludere che costituiscano adempimento di un’obbligazione naturale le sovvenzioni private a partiti ed uomini politici). Come è possibile desumere da Cass. 26 gennaio 1980, n. 651, è questo il primo punto che il giudice di merito dovrà valutare anche per reperire una giustificazione dell’arricchimento: in presenza, ad esempio, di elargizioni di denaro effettuate da una persona al proprio partner nel corso di una relazione sentimentale, dovrà accertare in concreto se da tale relazione possano scaturire, a carico del solvens, doveri morali e sociali tali da indurlo alle attribuzioni patrimoniali anzidette. In secondo luogo, occorrerà valutare se l’attribuzione patrimoniale effettuata in favore del convivente more uxorio, risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio ed alle condizioni sociali del solvens. Cfr. App. Napoli 5 novembre 1999, Giur. Nap. 2000, 232: l’attribuzione patrimoniale al convivente era stata effettuata a titolo di ristoro per il sacrificio della sua aspirazione ad un’esistenza autonoma ed indipendente, nonché al fine di assicurargli un’autosufficienza economica per il tempo successivo alla cessazione del rapporto. Se non ricorre un rapporto di proporzionalità tra prestazione e dovere che ne è alla base, ossia se la prestazione ha un valore sproporzionato rispetto all’obbligo morale o sociale del comportamento, si ritiene che per l’eccedenza si ricada nell’ambito della donazione, con annesso obbligo di ricorrere alle formalità previste dalla legge. Questo automatismo, a parte la sua inconciliabilità con le norme sulla liberalità (in specie quelle attinenti alla forma), non dà alcuna certezza; così come è da rifiutare anche l’automatismo inverso, in base al quale ogniqualvolta una attribuzione a titolo gratuito manca dei presupposti per la configurabilità di una obbligazione naturale, si richiama in causa la figura della donazione, in specie rimuneratoria: come avvenuto, ad esempio (App. Genova 18 gennaio 1988, Vita not. 1988, 128), nel caso della elargizione di una somma di denaro effettuata da una persona anziana a favore della domestica inviatale dal comune nel quadro dell’assistenza domiciliare. Invero, la qualificazione di donazione rimuneratoria, permette comunque al solvens di essere reintegrato della diminuzione patrimoniale subita quando la elargizione non sia di modico valore (nella specie, si trattava di venti milioni di lire, versati su di un libretto al portatore), poiché l’inosservanza della forma dell’atto pubblico, prescritta dall’art. 782 c.c., comporta la nullità dell’attribuzione. La considerazione del considerevole valore della elargizione, commisurata a tutte le circostanze di fatto, dovrebbe però far riflettere sulla reale possibilità di configurare, senza innaturali forzature, l’esistenza di un animus donandi. La Suprema Corte ha così escluso la gratuità del lavoro svolto da un soggetto in favore del proprio cugino, con la motivazione che «l’elemento che giustifica la gratuità di prestazioni lavorative obbiettivamente riconducibili ad un rapporto di lavoro subordinato, e quindi ad un contratto naturalmente oneroso, deve essere accertato con indagine particolarmente rigorosa, tenendo comunque conto che il fine di acquisire particolari cognizioni può giustificare la gratuità del rapporto solo nel caso di sussistenza, nel concreto svolgimento dell’attività lavorativa, di elementi coerenti con il fine suddetto, quali una particolare perizia del datore di lavoro e la possibilità del lavoratore di sfruttarla mediante l’insegnamento o, almeno, il lavoro in comune» (Cass., sez. lav., 23 febbraio 1989, n. 1009, Foro it. 1989, I, 1482). 12. Segue: Verso un superamento della presunzione di gratuità. — Negli ultimi anni, è in corso un progressivo superamento della presunzione di liberalità nell’ambito dei rapporti sin qui descritti, anche per effetto dell’introduzione, ad opera della riforma del diritto di famiglia del 1975, dell’istituto dell’impresa familiare (art. 230 bis c.c.). Rimane tuttavia molto controverso, se questa lenta inversione di tendenza sia estensibile anche alla famiglia di fatto. Alla considerazione in cui deve essere tenuto, anche in materia di famiglia di fatto, il «ridimensionamento della presunzione di gratuità delle prestazioni rese anche nell’ambito della famiglia legittima a seguito dell’entrata in vigore dell’art. 230 bis c.c.» ha fatto riferimento Cass. 13 dicembre 1986, n. 7486, Giust. civ. Mass. 1986, concludendo che il giudice «può escludere l’esistenza del rapporto di lavoro subordinato solo in presenza della dimostrazione rigorosa di una comunanza di vita e di interessi tra i conviventi (famiglia di fatto), che non si esaurisca in un rapporto meramente spirituale, affettivo e sessuale, ma, analogamente al rapporto coniugale, dia luogo anche alla partecipazione, effettiva ed equa, della convivente more uxorio alle risorse della famiglia di fatto». Conforme: Pret. Sampierdarena 26 ottobre 1987, Dir. lav. 1991, II, 373, con nota di FONTANA. Cass., sez. lav., 29 maggio 1991, n. 6083, Dir. lav. 1991, II, 373, con nota di FONTANA, ha affermato che la prova del carattere contrattuale del rapporto (di lavoro subordinato) incombe su chi, per avvantaggiarsene, lo invoca; mentre accertarne la sussistenza è compito del giudice di merito, il quale è libero di formare il proprio convincimento utilizzando gli elementi probatori ritenuti rilevanti; la sua valutazione, se adeguatamente motivata ed immune da errori logico-giuridici, non è censurabile in sede di legittimità. La stessa estensione analogica dell’art. 230 bis c.c. alla convivente more uxorio incontra tuttora ostacoli. La giurisprudenza prevalente è infatti contraria; cfr., ad esempio, Cass., sez. lav., 2 maggio 1994, n. 4204: «l’art. 230 bis c.c., che disciplina l’impresa familiare, costituisce norma eccezionale, in quanto si pone come eccezione rispetto alle norme generali in tema di prestazioni lavorative ed è pertanto insuscettibile di interpretazione analogica; deve peraltro ritenersi manifestamente infondata la questione di costituzionalità dell’art. 230 bis nella parte in cui esclude dall’ambito dei soggetti tutelati il convivente more uxorio, posto che elemento saliente dell’impresa familiare è la famiglia legittima, individuata nei più stretti congiunti, e che un’equiparazione fra coniuge e convivente si pone in contrasto con la circostanza che il matrimonio determina a carico dei coniugi conseguenze perenni ed ineludibili (quale il dovere di mantenimento o di alimenti al coniuge, che persiste anche dopo il divorzio), mentre la convivenza è una situazione di fatto caratterizzata dalla precarietà e dalla revocabilità unilaterale ad nutum». Contra, Trib. Torino, 24 novembre 1990, Giur. it. 1991, I, 2, c. 574, con nota di OBERTO, ha statuito che le disposizioni di cui all’art. 230 bis c.c. in tema di impresa familiare sono applicabili anche al lavoro prestato nella famiglia o nell’impresa familiare dal convivente more uxorio. Cfr. amplius sub art. 230 bis. I giudici di merito, negli ultimi anni, hanno preso atto che, con particolare riguardo alla famiglia di fatto, l’azione di arricchimento innalza il livello della tutela, troppo mortificato dal confronto con la protezione della famiglia legale, «i cui capisaldi possono essere indicati nella comunione dei beni, nell’istituto di cui all’art. 230 bis c.c., negli alimenti, nell’attribuzione al coniuge della qualità di legittimario», e trova ragione in fondamentali esigenze di giustizia sostanziale: «sarebbe curioso che in nome della affectio un convivente fosse legittimato ad appropriarsi del lavoro dell’altro e che, alla fine della convivenza, l’affectio producesse l’effetto perverso di lasciare un convivente ancora più ricco e l’altro ancora più povero» (Trib. Milano 5 ottobre 1988, Lav. 80 1989, 549). Quanto ai coniugi, dovrà sempre tenersi presente che essi sono reciprocamente tenuti alla contribuzione ai bisogni della famiglia, ciascuno in proporzione alle proprie sostanze e capacità lavorative (art. 143, comma 3º, c.c.); cosicché, per potersi parlare di arricchimento ingiustificato di uno a carico dell’altro, dovrà previamente compiersi una valutazione globale dell’apporto che i due coniugi hanno dato alla gestione della famiglia, per vedere se quella che a prima vista appare come una ingiusta locupletazione non sia in realtà compensata dal maggior contributo al menage familiare dato dal coniuge presunto arricchito. L’azione di arricchimento, è apparsa anche come il rimedio più idoneo nei casi nei quali un immobile intestato ad uno solo dei coniugi, sia stato in realtà acquistato col denaro di entrambi, e non sia possibile accertarne la contitolarità. L’azione di arricchimento (insieme con quella di ripetizione) è spesso invocata, nel caso di rottura del matrimonio, nei confronti del coniuge che, pendente il vincolo coniugale, aveva acquistato un immobile, risultandone unico intestatario, con denaro sborsato dall’altro coniuge. Ma i giudici ravvisano nella fattispecie una donazione indiretta tra coniugi, negando sia che l’arricchimento sia ingiustificato, sia che il pagamento sia privo di titolo e dunque indebito: «la mancanza di una precisa causa onerosa del pagamento, giuridicamente rilevante, nonché la spontaneità del pagamento, unitamente, si pongono come sicuri indici dello spirito liberale del pagamento effettuato, da valutarsi al momento della donazione» (Trib. Milano, 17 settembre 1998, riportato per esteso in ALBANESE, Il pagamento dell’indebito, Padova, 2004, 660). Di recente, si è segnalata all'attenzione degli interpreti una importante pronuncia della Corte di legittimità. Cass. 15 maggio 2009, n. 11330, Famiglia e Diritto 2010, 380, con nota di GELLI, ha riconosciuto il diritto a richiedere l'indennizzo per l'altrui ingiustificato arricchimento ad una convivente more uxorio che aveva prestato nei confronti dell'altro rilevanti contributi economico-patrimoniali in maniera continuativa, e sino al momento del decesso del partner. La Corte ha quindi condannato le eredi legittime del partner defunto a corrispondere, in via solidale tra loro, al partner superstite, un congruo indennizzo determinato nella misura del 50% del valore di mercato alla data del decesso dell'altro, di tre appartamenti che erano stati acquistati nel corso della convivenza. Le eredi avevano richiamato l'orientamento che esclude l'applicazione dell'azione di cui all'art. 2041 c.c. nell'ambito della convivenza more uxorio, trattandosi di prestazioni rese affectionis vel benevolentiae causa e caratterizzate dalla spontaneità dell'adempimento; il che dovrebbe escludere l'arricchimento, quali che siano, per ciascuno degli interessati, le conseguenze economiche vantaggiose o svantaggiose, in quanto causate dalla libera e concorde determinazione delle loro volontà. La Suprema Corte, al contrario, ha ritenuto tale motivo è infondato; ha obiettato, in particolare, che l'arricchimento del convivente defunto era stato conseguente alla conversione a suo esclusivo profitto, mediante l'acquisto di proprietà immobiliari ad esso solo intestate, di contributi economici e lavorativi della partner, resi in assenza di un titolo (neppure gratuito) che giustificasse lo spostamento patrimoniale e tali - per rilevanza, continuità e unilateralità degli apporti - da non costituire adempimento dei doveri morali, conseguenti all'instaurazione del rapporto di convivenza. Ha ritenuto il Collegio che l'assunto di parte ricorrente, tendente a prefigurare una sorta di inconciliabilità logico-giuridica tra la convivenza more uxorio e l'azione di arricchimento, sul presupposto dell'inquadramento delle prestazioni rese dai conviventi nell'ambito concettuale dell'obbligazione naturale, postuli che le prestazioni stesse trovino la loro giustificazione, per l'appunto, nel rapporto di convivenza e, cioè, che sì tratti di prestazioni rese nell'adempimento dei doveri di carattere morale e civile di solidarietà e reciproca assistenza che, avuto riguardo alle condizioni sociali e patrimoniali delle parti, devono presiedere alla famiglia di fatto; mentre quando risulti - come nel caso all'esame - che le prestazioni rese da un convivente e convertite (in tutto o in parte) a vantaggio dell'altro esorbitano dai limiti di proporzionalità e adeguatezza, allora è configurabile una mera operazione economico-patrimoniale, comportante un ingiustificato arricchimento del convivente more uxorio con pregiudizio dell'altro. Infine, diversamente da quanto aveva ritenuto il Tribunale, e d'accordo, invece, con i giudici di secondo grado, la Cassazione afferma che il dies a quo della prescrizione dell'azione di arricchimento non era costituito dalla data dell'ultimo acquisto immobiliare, ma andava individuato in quello della morte del convivente e, cioè, nella data di cessazione del rapporto di convivenza, posto che fino a quel momento l'altra partner aveva fornito il proprio rilevante contributo economico e lavorativo. Peraltro, da un lato, andava escluso che fosse configurabile l'inerzia del creditore, perché prima del decesso del convivente non vi era motivo (né la volontà e la determinazione) di pretendere la cointestazione degli immobili, anche per le ripetute rassicurazioni provenienti dal partner; dall'altro lato, andava evidenziato che l'impoverimento della convivente superstite si protrasse fino alla morte del convivente, se non oltre, avendo la stessa continuato a pagare le rate di mutuo contratto per l'acquisto in comunione di un appartamento e a "tamponare" altri impegni assunti dal suo convivente, tra cui quelli derivanti da cambiali emesse in relazione all'acquisto di altro appartamento e da un'iscrizione ipotecaria a favore di noto usuraio per l'acquisto di un ulteriore appartamento. 13. Segue: richiami di dottrina, sulle famiglie di fatto. — Da ultimo in dottrina specie per i profili patrimoniali dei rapporti di convivenza more uxorio v., M. BRONZINI, Convivenza a scopo assistenziale fra uomini, Nuovo dir. 1988, 321; F. D'ANGELI, Profili della famiglia di fatto: la fattispecie, Rass. civ. 1988, 225; A. DE CUPIS, I progetti di legge sulla disciplina della famiglia di fatto, Giur. it. 1988, IV, 276; C. DORE, Prova della simulazione da parte del legittimario che agisca per ottenere la riduzione di donazioni, Rilevanza giuridica della c.d. famiglia di fatto e diritti del convivente, Riv. giur. sarda 1988, 50; P. PERLINGIERI, La famiglia senza matrimonio tra l'irrilevanza giuridica e l'equiparazione alla famiglia legittima, Rass. civ. 1988, 601; A. TRABUCCHI, Morte della famiglia o famiglie senza famiglia?, Riv. civ. 1988, 1, 19; A. TRABUCCHI, Verrà disciplinata la famiglia « non fondata sul matrimonio »? (Rassegna di dottrina e giurisprudenza), Corr. giur. 1988, 866; G. ALPA, La famiglia di fatto: profili attuali, Giur. it. 1989, IV, 401; M. DOGLIOTTI, Due progetti di legge per la famiglia di fatto, Giust. civ. 1989, II, 328; G. FERRI, Convivenza « more uxorio », Studi patrim. famil. 431; F. GAZZONI, Commento alle proposte di legge: Disciplina della famiglia di fatto. Nuove norme in materia di diritto di famiglia, Rass. dir. civ. 1989, 239; E. MASCHIO, Prime considerazioni sulla proposta di legge riguardante la famiglia di fatto, Dir. famiglia 1988, 1179; G. NAPPI, Riconoscimento e limiti della famiglia di fatto nel rispetto del diritto vigente, Dir. famiglia 1988, 1818; A.M. PUNZI NICOLÒ, Famiglia di fatto e riconoscimento di diritto, Iustitia 1989, 135; A. ARCERI, Famiglia di fatto e giurisprudenza penale, Giust. pen. 1990, I, 307; M.E. CASELLATI ALBERTI, Convivenza di fatto e famiglia legittima: disparità di trattamento patrimoniale, Studi Chiesa Stati, 183; M.G. CUBEDDU, Il rapporto di convivenza, Giur. civ. comm. 1990, II, 323; G. FUÀ, Il legislatore ed il giudice di fronte alla famiglia di fatto, Dir. famiglia 1989, 775; P.A. PILLITU, La tutela della famiglia naturale nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo, Riv. dir. internaz. 1989, 793; G. SERVETTI, Brevi appunti sullo stato della giurisprudenza in tema di c.d. famiglia di fatto, Dir. famiglia 1989, 873; L. F. MELONI, I rapporti familiari, evoluzione della giurisprudenza civile e penale ed innovazioni normative, Resp. civ. e prev. 1991, 3; A.M. PUNZI NICOLÒ, Profili civilistici della famiglia di fatto. Dalla riforma del diritto di famiglia alla proposta di legge Cappiello, Iustitia 1990, 406; P. SORDI, Il lavoro nella famiglia di fatto, Nuovo dir. 1990, 945; P. VENTURA, Famiglia di fatto, famiglia legittima e giusta familiarità, Iustitia 1990, 415; V. VITALONE, C. ZAFFIRI, La famiglia di fatto, Giust. civ. 1991, II, 303; FRANZONI, I contratti tra conviventi more uxorio, Riv. trim. dir. proc. Civ. 1994, 737; BALESTRA, La famiglia di fatto, Padova, 2004; ASPREA, La famiglia di fatto, 2ª ed., Milano, 2009; MURITANO, PISCHETOLA, Accordi patrimoniali tra conviventi e attività notarile, Milano, 2009; AA.VV., Codice della famiglia, a cura di M. Sesta, 2ª ed., Milano, 2009; BALESTRA, Attività d'impresa e rapporti familiari, Padova, 2009; BARBIERA, Le convivenze: diritto civile nazionale e orientamenti europei, Bari, 2010. Art. 160. Diritti inderogabili. Gli sposi non possono derogare né ai diritti né ai doveri previsti dalla legge per effetto del matrimonio. Bibliografia: DE ROSA, Sulla validità degli accordi circa il cognome della moglie separata, Giur. it. 1957, I, 2; RUSSO, L'autonomia privata nella stipulazione delle convenzioni matrimoniali, Le convenzioni matrimoniali e altri saggi sul diritto di famiglia, Milano, 1983; SACCO, sub art. 160, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; FERRARI, Gli accordi relativi ai diritti e doveri reciproci dei coniugi, Rass. DC 1994; ANGELONI, Autonomia privata e potere di disposizione nei rapporti familiari, Padova, 1997; ZATTI, I diritti e i doveri che nascono dal matrimonio e la separazione dei coniugi, Tratt. Rescigno, 3, II, 2ª ed., Torino, 1997; QUADRI, Autonomia negoziale e regolamento tipico nei rapporti patrimoniali tra coniugi, Giur. it. 1997; PATTI, Sulla modificabilità del regime patrimoniale dei coniugi, Nuova giur. it. comm. 1998, II; ZACCARIA, Possono i coniugi optare per un regime patrimoniale "atipico"?, Studium Juris 2000; NATALI, L'indisponibilità del diritto al mantenimento da parte dei coniugi separati e l'invalidità della prestazione una tantum: due limiti, forse eccessivi, all'autonomia coniugale, Arch. Civ. 2004, 494. Sommario: 1. Diritti inderogabili: diritto-dovere di assistenza ex art. 143 c.c. Conseguenze. Richiami di dottrina. — 2. Transazione, tra i coniugi, per porre fine o per prevenire l'insorgenza di una lite tra le parti. Ammissibilità, condizioni. — 3. L'applicazione giurisprudenziale dell'art. 160 c.c. ai patti di separazione. — 4. Accordi tra i coniugi anteriori o successivi alla separazione (giudiziale o consensuale) e non omologati. Validità. Limiti, condizioni. — 5. Patto, anteriore alla separazione, col quale i coniugi si riconoscono un reciproco diritto di prelazione sugli immobili di proprietà esclusiva e comune. Validità. — 6. Patti di separazione stipulati al di fuori di accordi omologati. — 7. Patti modificativi degli accordi di separazione. — 8. Accordi, in sede di separazione, sul futuro regime giuridico del divorzio. Nullità, limiti. 1. Diritti inderogabili: diritto-dovere di assistenza ex art. 143 c.c. Conseguenze. Richiami di dottrina. — Si discute, in dottrina, se i diritti e doveri nascenti dal matrimonio, contemplati dalla presente norma, siano anche i diritti di natura personale (RUSSO, L'autonomia privata nella stipulazione delle convenzioni matrimoniali, in Le convenzioni matrimoniali ed altri saggi sul nuovo diritto di famiglia, Milano, 1983, 195) o esclusivamente quelli di natura patrimoniale (MAIORCA, Regime patrimoniale della famiglia. Disposizioni generali, Noviss. Dig. it., I., app., VI, Torino, 1986, 472). A favore di questa seconda soluzione, depongono la possibilità di evincere l’inderogabilità dei diritti di natura personale dall’art. 1322 c.c. (senza bisogno di ricorrere all’art. 160), nonché la natura contrattuale delle convenzioni matrimoniali, che quindi non possono avere ad oggetto che rapporti patrimoniali. In particolare, domina l’idea che l’art. 160 voglia riferirsi ai doveri, di natura patrimoniale, sanciti nel capo IV: il dovere di contribuzione (art. 143, comma 3°); l'obbligo di mantenimento dei figli (art. 148). Espressamente nel senso che l'art. 160 si riferisca, unicamente, ai doveri di contribuzione di cui agli artt. 143 e 148 c.c., GRASSO, Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, 3, Torino 1982, 377. Non diversamente, sempre nel senso che la disposizione in parola, tra l'altro, rende indisponibile, nei rapporti tra coniugi, il dovere di contribuzione di cui agli artt. 143, 148 e 433, PACIA DEPINGUENTE, Autonomia dei coniugi e mutamento del regime patrimoniale legale, Riv. dir. civ. 1980, II, 518 ss., in part. 573. Ampiamente sull'art. 160 a seguito della novella del 1975, SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, il regime patrimoniale della famiglia, Torino 1983, 46; M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, Milano 1984, 722-725; SACCO, Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di CIAN G., OPPO G., TRABUCCHI A., III, Padova 1992, 15-19. La Suprema Corte ha riconosciuto piena validità ed efficacia alla transazione indirizzata a regolare i reciproci rapporti patrimoniali fra i coniugi consensualmente separati (avente ad oggetto anche il trasferimento della proprietà di beni immobili), stabilendo che la transazione può intervenire tra i coniugi per disciplinare il rapporto patrimoniale oggetto di possibile od attuale controversia, a patto che essa non abbia ad oggetto diritti indisponibili dei contraenti (Cass. 9 luglio 2003, n. 10794, Dir. famiglia 2004, 81). Ha natura inderogabile, ai sensi dell'art. 160, il diritto-dovere d'assistenza, tra i coniugi, di cui al precedente art. 143 (Cass. 22 aprile 1982, n. 2481, secondo cui i patti modificativi delle condizioni economiche previste in sede di separazione consensuale sono validi ed efficaci, anche senza l'omologazione del tribunale purché non siano lesivi del diritto di mantenimento o di alimenti, che è riconducibile nel diritto-dovere di assistenza, avente, appunto, ai sensi dell'art. 160, natura inderogabile. Non diversamente, Cass. 24 febbraio 1993, n. 2277). È nulla, pertanto (appunto ai sensi dell'art. 160), la rinuncia al pagamento dell'assegno fissato per la moglie ed i figli in sede di separazione consensuale omologata, sia pure limitata agli arretrati, ove l'assegno medesimo abbia natura alimentare. Tale nullità può essere fatta valere dalla madre affidataria della prole anche per la quota di spettanza dei figli diventati maggiorenni, attesa la legittimazione della prima a richiedere il pagamento delle somme dovute per tale titolo per i secondi (Cass. 21 maggio 1984, n. 3115). 2. Transazione, tra i coniugi, per porre fine o per prevenire l'insorgenza di una lite tra le parti. Ammissibilità, condizioni. — Anche nella disciplina dei rapporti patrimoniali tra i coniugi è ammissibile il ricorso alla transazione per porre fine o per prevenire l'insorgenza di una lite tra le parti, sia pure nel rispetto della indisponibilità di talune posizioni soggettive (Cass. 12 maggio 1994, n. 4647, Giust. civ. 1995, I, 202; Vita not. 1994, 1357; Dir. famiglia 1995, 105; Nuova giur. civ. comm. 1995, I, 882, con nota critica di D. BUZZELLI, Contratto di transazione e rapporti di famiglia). Al riguardo — si è precisato sempre nella stessa occasione — è configurabile, altresì, la distinzione tra contratto di transazione novativo e non novativo, realizzandosi il primo tutte le volte che le parti diano luogo ad un regolamento d'interessi incompatibile con quello preesistente, in forza di una previsione contrattuale di fatti o di presupposti di fatto estranei al rapporto originario (Cass. 12 maggio 1994 n. 4647, cit.: nella specie, la S.C. ha confermato la decisione di merito che ha ritenuto novativa e, quindi, non suscettibile di risoluzione per inadempimento, a norma dell'art. 1976, la transazione con la quale il marito si obbligava espressamente, in vista della separazione consensuale, a far conseguire alla moglie la proprietà di un appartamento in costruzione, allo scopo di eliminare una situazione conflittuale tra le parti). Sempre in quest'ordine di idee, in altra occasione, ancora, si è osservato che poiché, ciascuno dei coniugi ha il diritto di condizionare il proprio consenso alla separazione personale ad un soddisfacente assetto dei propri interessi economici, sempre che in tal modo non si realizzi una lesione di diritti inderogabili, si è ritenuta la validità di un contratto preliminare con il quale uno dei coniugi, in vista di una futura separazione consensuale, prometteva di trasferire all'altro la proprietà di un immobile, anche se tale sistemazione dei rapporti patrimoniali era avvenuta al di fuori di qualsiasi controllo da parte del giudice che provvede alla omologazione della separazione, purché tale attribuzione non fosse lesiva delle norme relative al mantenimento e agli alimenti (e ciò a prescindere dalle condizioni economiche del coniuge beneficiario, una volta che il diritto al mantenimento di quest'ultimo fosse stato così riconosciuto dal coniuge obbligato) (Cass. 5 luglio 1984 n. 3940, Dir. famiglia 1984, 922). 3. L'applicazione giurisprudenziale dell'art. 160 c.c. ai patti di separazione. — Nonostante gli accordi di separazione non siano qualificabili come convenzioni matrimoniali, la giurisprudenza, in contrasto con parte della dottrina, applica anche a tali accordi, ed ai patti modificativi degli stessi, la norma in commento (cfr. Cass. 9 aprile 2008, n. 9174; Cass. 28 luglio 1997, n. 7029; Cass. 18 settembre 1997, n. 9287, Vita not. 1998, 217; Giust. civ. 1997, I, 2383). Qualora i coniugi, manifestando l'intenzione di procedere alla loro separazione ed impegnandosi, altresì, ad iniziare successivamente il relativo giudizio, stipulino un accordo, da essi chiamato impropriamente quietanza, in base al quale vengono regolati non solo i loro rapporti patrimoniali fino alla instaurazione di una rituale procedura, ma anche i loro rapporti patrimoniali dopo la separazione, un accordo siffatto è privo, ex art. 160, di validità, in quanto l'assetto patrimoniale e personale dei coniugi separati è regolato dalla legge e dal giudice, avanti al quale le parti devono manifestare la loro intenzione ex nunc di separarsi, intenzione certamente non collegabile ad un precedente obbligo convenzionale in tal senso. La nullità di una parte del negozio stipulato dalle parti provoca, peraltro, la nullità, ex art. 1419, dell'intero negozio familiare atipico, costituendo la futura separazione consensuale la causa determinante di tutti i trasferimenti patrimoniali progettati nella convenzione de qua (Trib. Tivoli 11 dicembre 2007, Dir. famiglia 2008, 1373). Sempre al riguardo, da parte del S.C., si è evidenziato che in tema di separazione consensuale, il regolamento concordato fra coniugi ed avente ad oggetto la definizione dei loro rapporti patrimoniali, pur trovando la sua fonte nell'accordo delle parti, acquista efficacia giuridica solo in seguito al provvedimento di omologazione, al quale compete l'essenziale funzione di controllare che i patti intervenuti siano conformi ai superiori interessi della famiglia. Deriva, da quanto precede, che, potendo le predette pattuizioni divenire parte costitutiva della separazione solo se questa è omologata, secondo la fattispecie complessa da cui dà vita il procedimento di cui all'art. 711 c.p.c. in relazione all'art. 158, comma 1, c.c., in difetto di tale omologazione le pattuizioni convenute antecedentemente sono prive di efficacia giuridica, a meno che non si collochino in una posizione di autonomia in quanto non collegate al regime di separazione consensuale (Cass. 9 aprile 2008, n. 9174, che ha enunciato il principio in questione con riguardo ad un accordo, avente ad oggetto la rinuncia alla comproprietà immobiliare da parte di un coniuge a favore dell'altro, ritenuto parte di un progetto di separazione consensuale non andato a buon fine, essendo intervenuta tra i coniugi separazione giudiziale con addebito). Cass. 6 febbraio 2009, n. 2997, Nuova giur. civ. comm., 2009, 791, ha statuito che qualora una coppia decida di sottoscrivere una scrittura privata per regolare i rapporti economici in caso di futura separazione, l'esecuzione integrale di tale accordo non può essere condizionata alla sola separazione consensuale. Nella specie, la Corte ha respinto il ricorso del marito contro la sentenza della Corte di Appello, la quale aveva ritenuto che la scrittura privata non fosse sottoposta alla condizione della separazione consensuale dei coniugi. Lo scopo dell'accordo, infatti, era quello di regolare i rapporti economici più importanti della coppia, prima di rivolgersi al giudice della separazione, eliminando così le controversie su questioni non strettamente attinenti alla fine dell'unione. Ma non solo, l'intento della scrittura privata era anche quello di definire i rapporti economici con i figli maggiorenni che con la separazione non avevano nulla a che vedere. Pertanto, la Corte di merito ha escluso che la separazione consensuale costituisse il presupposto della scrittura privata. 4. Accordi tra i coniugi anteriori o successivi alla separazione (giudiziale o consensuale) e non omologati. Validità. Limiti, condizioni. — In tema di separazione consensuale, le modificazioni pattuite dai coniugi successivamente all'omologazione, trovando fondamento nell'art. 1322, devono ritenersi valide ed efficaci, anche a prescindere dallo speciale procedimento disciplinato dall'art. 710 c.p.c., quando non varchino il limite di derogabilità consentito dall'art. 160 c.c. (Cass. 24 febbraio 1993 n. 2270, Giust. civ. 1994, I, 213, con nota adesiva, specie nella parte in cui viene riconosciuta validità ad un accordo non omologato, nei limiti in cui riguardi i soli rapporti patrimoniali tra i coniugi e non contravvenga ai limiti inderogabili di cui all'art. 160, di M. SALA, Accordi di separazione non omologati: un importante riconoscimento dell'autonomia negoziale dei coniugi; Dir. famiglia 1994, 554 con nota parzialmente critica di G. DORIA, Autonomia dei coniugi in occasione della separazione consensuale ed efficacia degli accordi non omologati, che auspica un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, al fine di superare le perplessità poste dal coordinamento di tale pronuncia con la giurisprudenza di legittimità anteriore in senso parzialmente diverso). Per contro, alle pattuizioni convenute dai coniugi prima del decreto di omologazione e non trasfuse nell'accordo omologato, può riconoscersi validità solo quando assicurino una maggiore vantaggiosità all'interesse protetto dalla norma (ad esempio concordando un assegno di mantenimento in misura superiore a quella sottoposta ad omologazione), o quando concernano un aspetto non preso in considerazione dall'accordo omologato e sicuramente compatibile con questo in quanto non modificativo della sua sostanza e dei suoi equilibri, o quando costituiscano clausole meramente specificative dell'accordo stesso, non essendo altrimenti consentito ai coniugi incidere sull'accordo omologato con soluzioni alternative di cui non sia certa a priori la uguale o migliore rispondenza all'interesse tutelato attraverso il controllo giudiziario di cui all'art. 158 (Cass. 24 febbraio 1993 n. 2270, cit.). I principi enunciati da Cass. 24 febbraio 1993 n. 2270, cit., sono stati sostanzialmente confermati dalla successiva Cass. 22 gennaio 1994 n. 657, secondo cui in tema di separazione consensuale, mentre le clausole concordate tra i coniugi successivamente all'omologazione della separazione stessa (e non soggette al vaglio giudiziario) incidono senz'altro sull'accordo omologato, col solo limite posto dall'art. 160, le clausole anteriori o contemporanee al procedimento di omologazione sono operanti soltanto se si collocano in posizione di non interferenza rispetto all'accordo omologato (come le clausole concernenti un aspetto della separazione, non disciplinato nell'accordo formale), oppure in posizione di conclamata e incontestabile maggior rispondenza rispetto all'interesse tutelato (come, ad esempio, allorché l'assegno di mantenimento sia stato preconcordato in misura superiore a quella sottoposta ad omologazione) (Cass. 22 gennaio 1994 n. 657, Giust. civ. 1994, I, 912; Dir. famiglia 1994, 868; Nuova giur. civ. comm. 1994, I, 710, con nota adesiva di M. FERRARI, Ancora in tema di accordi fuori dal verbale di separazione; Famiglia e diritto 1994, 139, con nota informativa di V. CARBONE, L'autonomia ed il diritto di famiglia; Giur. it. 1994, I, 1, 1476; Vita not. 1995, 126, con nota informativa di M. CURTI, sullo stato della dottrina e della giurisprudenza anteriori; Dir. eccl. 1995, I, 148; Foro it. 1995, I, 2984), nonché da Cass. 28 luglio 1997 n. 7029; 18 settembre 1997 n. 9287, Vita not. 1998, 217; Giust. civ. 1997, I, 2383, con osservazione parzialmente critica, su altra parte, di G. GIACALONE, Sul dovere di fedeltà dei coniugi dopo la separazione, e Cass. 11 giugno 1998 n. 5829. Sempre nella stessa ottica della giurisprudenza sopra ricordata, si è osservato in sede di merito, che emerge dall'art. 160, non già il divieto, per i coniugi, di far valere, anche nella materia familiare, la propria autonomia (che trova la propria fonte nel diritto-dovere di autorganizzare la propria vita di coppia e che sussiste anche quando tra i coniugi stessi vige una situazione di separazione personale) ma solo il divieto di porre in essere accordi che deroghino ai diritti ed ai doveri previsti dalla legge. Ne segue che, in presenza di un accordo consacrato nel verbale di separazione personale consensuale dei coniugi, che preveda la corresponsione, in favore di uno di essi, di una determinata somma mensile, è valida la scrittura coeva, tra gli stessi intervenuta, che preveda la corresponsione di una somma maggiore, ancorché non omologata dal Tribunale (App. Brescia 16 aprile 1987, Giur. merito 1987, 843. Non diversamente, Pret. Cavalese 21 gennaio 1987, ivi 1987, 843). Da parte di altro giudice giudice di merito si è osservato, ancora, altresì, che poiché gli accordi tra coniugi, successivi all'omologazione della loro separazione consensuale, concernenti materie non interferenti col contenuto tipico del negozio di separazione, vale a dire non riguardanti direttamente le condizioni della separazione, bensì collocabili nell'area del libero potere negoziale delle parti di meglio disciplinare i loro rapporti non riconducibili al novero degli obblighi e dei diritti, patrimoniali e non, discendenti dalla separazione, devono considerarsi sottratti all'esercizio della giurisdizione ex artt. 710 e 711 c.p.c., non vi è luogo a provvedere in ordine al ricorso col quale i coniugi, dopo l'omologazione della loro separazione, chiedano l'inserimento nel negozio di separazione di una clausola che preveda il trasferimento dall'uno all'altro dei coniugi dell'alloggio popolare che venisse assegnato al primo (Trib. Marsala 23 dicembre 1994, Dir. famiglia 1995, 246, con nota adesiva di M. CONTE, Accordi modificativi successivi alla separazione omologata e controllo giurisdizionale: tra moglie e marito non metter… l'omologa, nonché ivi 1995, 1488 con altra nota, adesiva di M. SALA, Accordi successivi all'omologazione della separazione ed autonomia negoziale dei coniugi). Parte della dottrina, invece, si mostra contraria alla suddescritta estensione, alla fase patologica del matrimonio, dell’ambito operativo della norma in commento. Si è sostenuto, in particolare, che l’art. 160 sarebbe inadeguato a regolare gli accordi di separazione, gli accordi per la corresponsione dell'assegno di divorzio in un’unica soluzione e gli accordi dei coniugi sottostanti alla domanda congiunta di divorzio (DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale. Il regime patrimoniale della famiglia, II, Milano, 2002, 48; OBERTO, Le convenzioni matrimoniali: lineamenti della parte generale, Famiglia e diritto 1995, 601. Interessanti osservazioni in BARGELLI, BUSNELLI, Convenzione matrimoniale, Enc. dir., agg., IV, Milano, 2000, 458, i quali considerano l'art. 160, invece, come una specificazione, nell’ambito coniugale, della clausola generale di ordine pubblico). 5. Patto, anteriore alla separazione, col quale i coniugi si riconoscono un reciproco diritto di prelazione sugli immobili di proprietà esclusiva e comune. Validità. — I patti anteriori alla separazione consensuale con i quali i coniugi si riconoscono un reciproco diritto di prelazione sugli immobili di proprietà esclusiva e comune, pur se privi di omologazione — si è affermato da parte di un giudice di merito — sono validi ed efficaci in quanto compatibili con le condizioni contenute nel verbale di separazione omologato (Trib. Bologna 25 gennaio 1995, Gius 1995, 1421). 6. Patti di separazione stipulati al di fuori di accordi omologati. — Anche se la separazione consensuale fra coniugi acquista efficacia con l'omologazione, non è peraltro preclusa ai medesimi la possibilità di stipulare pattuizioni fra loro, anche al di fuori di accordi omologati. Tali accordi possono essere sia posteriori all'omologazione, purché non varchino il limite di derogabilità dei diritti e doveri nascenti dal matrimonio, fissati dall'art. 160, sia anteriori o contemporanei all'accordo omologato, purché tali pattuizioni non ledano il contenuto minimo indispensabile del regime di separazione e non interferiscano con esso, ma si configurino in termini di maggior rispondenza all'interesse della famiglia (in quanto, ad esempio, perché volte ad incrementare la misura dell'assegno di mantenimento o concernano altro aspetto non incluso nell'accordo omologato e compatibile con esso) (Cass. 30 agosto 2004, n. 17434, Riv. not. 2005, 795). Sempre in argomento — sostanzialmente nella stessa ottica — in altre occasioni la S.C. ha evidenziato, ancora: — da un lato, che tali pattuizioni (nella specie: convenute dai coniugi prima del decreto di omologazione e non trasfuse nell'accordo omologato) si configurano come contratti atipici, aventi presupposti e finalità diversi sia dalle convenzioni matrimoniali che dagli atti di liberalità, nonché autonomi rispetto al contenuto tipico del regolamento concordato tra i coniugi, destinato ad acquistare efficacia giuridica soltanto in seguito al provvedimento di omologazione: ad esse, pertanto, può riconoscersi validità solo in quanto, alla stregua di un'indagine ermeneutica condotta nel quadro dei principi stabiliti dagli art. 1362 ss., risultino tali da assicurare una maggiore vantaggiosità all'interesse protetto dalla norma (ad esempio prevedendo una misura dell'assegno di mantenimento superiore a quella sottoposta ad omologazione), ovvero concernano un aspetto non preso in considerazione dall'accordo omologato e sicuramente compatibile con questo, in quanto non modificativo della sua sostanza e dei suoi equilibri, o ancora costituiscano clausole meramente specificative dell'accordo stesso, non essendo altrimenti consentito ai coniugi incidere sull'accordo omologato con soluzioni alternative di cui non sia certa a priori la uguale o migliore rispondenza all'interesse tutelato attraverso il controllo giudiziario di cui all'art. 158 (Cass. 8 novembre 2006, n. 23801, Foro it. 2007, I, 1189); — dall'altro, che le pattuizioni intervenute tra i coniugi anteriormente o contemporaneamente al decreto di omologazione della separazione consensuale, e non trasfuse nell'accordo omologato, sono operanti soltanto se si collocano, rispetto a quest'ultimo, in posizione di “non interferenza” — perché riguardano un aspetto che non è disciplinato nell'accordo formale e che è sicuramente compatibile con esso, in quanto non modificativo della sua sostanza e dei suoi equilibri, ovvero perché hanno un carattere meramente specificativo — oppure in posizione di conclamata e incontestabile maggiore o uguale rispondenza all'interesse tutelato attraverso il controllo di cui all'art. 158 (Cass. 20 ottobre 2005, n. 20290 che, in applicazione di tale principio, ha ritenuto correttamente motivata la sentenza impugnata, che aveva escluso l'invalidità dell'accordo intervenuto tra i coniugi per l'alienazione della casa coniugale, di proprietà esclusiva del marito ed assegnata alla moglie, e per la ripartizione del ricavato tra loro, in quanto la perdita dell'abitazione da parte del coniuge assegnatario era giustificata dall'intenzione di quest'ultimo di trasferirsi in un'altra città, ed era comunque compensata dal beneficio economico derivante dall'attribuzione di parte del corrispettivo, che avrebbe consentito alla moglie di far fronte più largamente alle proprie esigenze ed a quelle della figlia a lei affidata); —che la scrittura privata indirizzata a regolare i reciproci rapporti patrimoniali fra i coniugi consensualmente separati, avente ad oggetto, fra gli altri, anche il trasferimento della proprietà di beni immobili, può configurarsi come transazione ed ha piena validità ed efficacia. La transazione, infatti, può intervenire tra i coniugi per disciplinare il rapporto patrimoniale oggetto di possibile od attuale controversia, beninteso senza che essa possa avere ad oggetto diritti indisponibili dei contraenti. La libertà negoziale riconosciuta dalla legge ai coniugi contraenti è funzionale alla autonoma scelta della migliore soluzione delle controversie sorte in relazione alla separazione, ed in questo senso non merita censure pur in considerazione di una nozione alquanto ampia di « legittimo accordo patrimoniale » (Cass. 9 luglio 2003, n. 10794, Dir. Famiglia 2004, 81). 7. Patti modificativi degli accordi di separazione. — In tema di patti modificativi degli accordi di separazione tra coniugi, si è affermato da parte di un giudice di merito, è nullo per contrasto con l'art. 160 applicabile anche ai contratti della crisi familiare, l'accordo con il quale gli stessi decidano, con rinuncia ad ulteriori pretese da parte di un solo soggetto, di definitivamente esonerare per il futuro il coniuge onerato dalla corresponsione dell'assegno di mantenimento a favore del coniuge più debole a fronte di un unico versamento una tantum (Trib. Piacenza 6 febbraio 2003, Arch. Civ. 2004, 494). Sempre in argomento, da parte di altro giudice di merito, si è affermato che risponde ad una ottimale, anche perché incondizionata ed integrale, tutela della prole, e va perciò consentito il trasferimento, con atto formale, da un coniuge all'altro, a modifica del regime di separazione personale (o di divorzio) precedentemente instaurato, di taluni beni immobili con il vincolo erga omnes di cui all'art. 2645-ter, allo scopo di garantire ai figli minori un adeguato e sicuro mantenimento (Trib. Reggio Emilia 26 marzo 2007, Dir. famiglia 2007, 1726, ivi 2008, 194 con nota critica di FREZZA, Sull'effetto distintivo e non traslativo, della separazione ex art. 2645-ter c.c.). 8. Accordi, in sede di separazione, sul futuro regime giuridico del divorzio. Nullità, limiti. — Gli accordi con i quali i coniugi fissano in sede di separazione il regime giuridico del futuro ed eventuale divorzio devono considerarsi invalidi per illiceità della causa, sia nella parte riguardante i figli, sia in quella concernente l'assegno spettante all'ex coniuge, in forza della indisponibilità preventiva dei diritti patrimoniali conseguenti allo scioglimento del matrimonio (In termini, ad esempio, Cass. 20 marzo 1998 n. 2955, Foro it. 1999, I, 1306, con nota di OBERTO; Contratti 1998, 472, con nota di BONILINI; Giur. it. 1998, 217). Sempre in questa ottica, in altre occasioni, si è osservato che gli accordi economici intervenuti fra i coniugi al momento della separazione non possono spiegare efficacia preclusiva alla determinazione giudiziale dell'assegno di divorzio, atteso che, ove la causa di tali accordi fosse la liquidazione preventiva e forfettaria dell'assegno di divorzio, essi sarebbero nulli, sia per l'indisponibilità dell'assegno di divorzio (rafforzata dalla l. n. 74 del 1987, che ha conferito al suddetto assegno natura eminentemente assistenziale), sia per illiceità della causa (avendo tali accordi sempre l'effetto di condizionare il comportamento delle parti nel giudizio concernente uno status) (Cass. 11 giugno 1997 n. 5244, Studium Juris 1997, 122; Giur. it. 1998, 218; Vita not. 1997, 848). Analogamente nel senso che gli accordi in questione sono nulli perché diretti a circoscrivere la libertà di difendersi dal coniuge più debole, la cui domanda di assegno di divorzio potrebbe essere paralizzata, Cass. 12 febbraio 2003 n. 2076, Famiglia e diritto 2003, 344, con nota adesiva di PICCALUGA, Rapporti patrimoniali tra coniugi e divorzio. In altre occasioni, ancora, essendo sottratto alla disponibilità delle parti il potere di regolare in via preventiva ed autonoma gli effetti patrimoniali del divorzio, la S.C. ha dichiarato l'irrilevanza, ai fini del riconoscimento dell'assegno di divorzio, dell'accordo intervenuto tra i coniugi al momento della separazione con il quale essi abbiano regolato ogni loro rapporto patrimoniale e dichiarato di non avere l'un l'altro, alcunché a pretendere (Cass. 7 settembre 1995 n. 9416, Dir. famiglia 1996, 931; Studium Juris 1996, 232), o abbiano, quantificato ora per allora la misura dell'assegno di divorzio (Cass. 4 giugno 1992 n. 6857, Giur. it. 1993, I, 1, 338, con nota di DALMOTTO. Analogamente, Cass 10 aprile 1992 n. 4391, secondo la quale attesa la « struttura » del divorzio e la « indisponibilità » dei diritti patrimoniali che ne derivano è nullo per illiceità della causa, l'accordo fra coniugi separati, con cui si preveda la persistente operatività di patti aventi contenuto economico anche in regime di divorzio). Come evidenziato sopra, gli accordi con i quali i coniugi fissano, in sede di separazione, il regime giuridico — patrimoniale in vista di un futuro ed eventuale divorzio sono invalidi per illiceità della causa, perché stipulati in violazione del principio fondamentale di radicale indisponibilità dei diritti in materia matrimoniale, espresso dall'art. 160. Tale principio, peraltro, si è precisato, non trova applicazione né nell'ipotesi in cui la nullità del precedente accordo sia invocata non dal coniuge avente diritto all'assegno, ma dall'altro, che avrebbe potuto essere onerato di detto assegno né qualora il giudice del merito accerti che l'accordo — intervenuto in occasione della loro separazione personale e parzialmente recepito nel verbale di separazione — aveva la funzione di porre fine ad alcune controversie di natura patrimoniale tra i coniugi senza alcun riferimento, esplicito o implicito, al futuro assetto dei rapporti economici tra i coniugi conseguenti all'eventuale pronuncia di divorzio (Cass. 14 giugno 2000 n. 8109, Guida dir. 2000, f. 24, 40, con nota critica di FINOCCHIARO M., Sull'assetto dei rapporti patrimoniali tra coniugi una « rivoluzione » annunciata solo dalla stampa; Giust. civ. 2000, I, 2217, con osservazione informativa di GIACALONE, Sugli accordi in sede di separazione relativi al regime giuridico del divorzio; ivi, 2001, I, 457, con nota critica di GUARINI M., La Cassazione conferma la nullità dei « patti » anteriori al divorzio; Contratti 2001, 45, con nota di DELLACASA, Accordi stipulati in previsione del divorzio, giudizio di liceità della causa e tecnica dell'integrazione; Foro it. 2001, I, 1318, con nota di RUSSO, Il divorzio « all'americana »: ovverossia l'autonomia privata nel rapporto matrimoniale, e di CECCHERINI, I contratti tra coniugi in vista del divorzio: regole operative e limiti di liceità; Familia 2001, 243, con nota di FERRANDO, Crisi coniugale e accordi intesi a definire gli aspetti economici; Corr. giur. 2000, 1021, con nota di BALESTRA, Gli accordi in vista del divorzio: la Cassazione conferma il proprio orientamento; Famiglia e diritto 2000, 429, con nota di CARBONE, Accordi patrimoniali deflattivi della crisi coniugale; Nuova giur. civ. comm. 2000, I, 704, con nota di BARGELLI, Accordi in vista del divorzio, revirement incompiuto della Cassazione; Dir. e giust. 2000, f. 24, 6, con nota di DOSI, L'accordo è nullo, la transazione no). Di tali accordi non può tenersi conto non solo quando limitino o addirittura escludono il diritto del coniuge economicamente più debole al conseguimento di quanto è necessario per soddisfare le esigenze della vita, ma anche quando soddisfino pienamente dette esigenze, per il rilievo che una preventiva pattuizione — specie se allettante e condizionata alla non opposizione al divorzio (nella specie era stabilito che se la moglie si fosse opposta alla domanda di divorzio sarebbe stata obbligata al rilascio dell'immobile entro 10 giorni dalla richiesta) — potrebbe determinare il consenso alla dichiarazione degli effetti civili del matrimonio (Cass. 18 febbraio 2000 n. 1810, Corr. giur. 2000, 1021, con la già ricordata nota di BALESTRA, Gli accordi in vista del divorzio: la Cassazione conferma il proprio orientamento; Vita not. 2000, 890). Art. 161. Riferimento generico a leggi o agli usi. Gli sposi non possono pattuire in modo generico che i loro rapporti patrimoniali siano in tutto o in parte regolati da leggi alle quali non sono sottoposti o dagli usi, ma devono enunciare in modo concreto il contenuto dei patti con i quali intendono regolare questi loro rapporti. Art. 162. Forma delle convenzioni matrimoniali. Le convenzioni matrimoniali debbono essere stipulate per atto pubblico a pena di nullità. La scelta del regime di separazione può anche essere dichiarata nell'atto di celebrazione del matrimonio. Le convenzioni possono essere stipulate in ogni tempo, ferme restando le disposizioni dell'articolo 194 (1). Le convenzioni matrimoniali non possono essere opposte ai terzi quando a margine dell'atto di matrimonio non risultano annotati la data del contratto, il notaio rogante e le generalità dei contraenti, ovvero la scelta di cui al secondo comma. (1) Comma così modificato dall'art. 1 l. 10 aprile 1981 n. 142. Art. 34-bis (Disp. att. e trans.). Il notaio rogante deve, nel termine di 30 giorni dalla data del matrimonio o dalla data dell'atto pubblico di modifica delle convenzioni, ovvero di quella dell'omologazione nel caso previsto dal secondo comma dell'articolo 163 del codice, richiedere l'annotazione a margine dell'atto di matrimonio della convenzione matrimoniale dell'atto di modifica della stessa. Nello stesso termine deve richiedere l'annotazione di cui all'ultimo comma dell'articolo 163 del codice. Bibliografia: ANDRINI, Convenzioni matrimoniali e pubblicità legale nel nuovo diritto di famiglia, Riv. not. 1975; BONIS, La nuova disciplina della pubblicità immobiliare con la riforma del diritto di famiglia, Il nuovo diritto di famiglia. QRN, 4, Milano, 1975; DE RUBERTIS, Le convenzioni matrimoniali in generale, Vita not. 1975; CIAN, Sulla pubblicità del regime patrimoniale della famiglia. Una revisione che si impone, Riv. dir. civ.1976, I; PALERMO, La disciplina della pubblicità nella riforma del diritto di famiglia, Riv. not. 1976; DE RUBERTIS, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia e la trascrizione immobiliare, Vita not. 1976; SCHLESINGER, Il nuovo regime patrimoniale tra coniugi. La contrattazione e la pubblicità immobiliare, Diritto di famiglia. Società. contrattazione immobiliare, Milano, 1978; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, Tratt. Cicu, Messineo, 1, Milano, 1979; DEL PASQUA, Le convenzioni matrimoniali, Giur. merito 1979; SEGNI, Gli atti di straordinaria amministrazione del singolo coniuge sui beni immobili della comunione, Riv. dir. civ. 1980, I; G. GABRIELLI, Scioglimento parziale della comunione legale fra coniugi, esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo del coacquisto, Riv. dir. civ. 1981, I; G. GABRIELLI, PACIA DEPINGUENTE, Legge 10 aprile 1981 n. 142. Modifiche ad alcune norme relative alle convenzioni tra coniugi, Nuove leggi civ. commen. 1981; ZUDDAS, Considerazioni in ordine alla forma della dichiarazione di scelta del regime di separazione dei beni nel matrimonio concordatario, Giur. it. 1981, I, 2; OBERTO, Annotazione e trascrizione delle convenzioni matrimoniali: una difficile coesistenza, Riv. dir. ipotecario 1982; G. GABRIELLI, voce Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, Enc. Dir., XXXII, Milano, 1982; TRABUCCHI, La pubblicità immobiliare. Un sistema in evoluzione, Riv. dir. ipotecario 1982; CIAN-CASAROTTO, voce Fondo patrimoniale della famiglia, Noviss. Dig. it., App., Torino, 1982, III; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia. Le convenzioni matrimoniali. Famiglia e impresa, Tratt. Cicu, Messineo, VI, 2, Milano, 1984; ZACCARIA, La pubblicità del regime patrimoniale della famiglia: le posizioni della dottrina, Riv. dir. civ. 1985, II; Zaccaria, La pubblicità del regime patrimoniale della famiglia, Riv. dir. civ. 1985, II; GIUSTI, La pubblicità nei rapporti patrimoniali tra coniugi. Profili critici e analisi ricostruttiva, Riv. trim. dir proc. civ. 1986; PADOVINI, voce Trascrizione, Noviss. Dig. it., App., VII, Torino, 1987; L. FERRI, Forme e pubblicità del regime patrimoniale della famiglia, Riv. trim. dir proc. civ. 1988; L. FERRI, La pubblicità del regime patrimoniale della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia a dieci anni dalla riforma, QRN, Milano, 1988; ROPPO, Convenzioni matrimoniali, Enc. Giur., IX, Roma, 1988; MAZZOCCA, I rapporti patrimoniali tra coniugi, Milano, 1989; F. FINOCCHIARO, La pubblicità in materia di rapporti patrimoniali fra coniugi, Giur. it. 1989, I, 1; G. 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Convenzioni matrimoniali e loro forma. Indicazioni di dottrina. — 2. Identificazione delle convenzioni matrimoniali. — 3. Presenza dei testimoni, ai « contratti di matrimonio », irrinunciabilità. — 4. Tempo delle convenzioni matrimoniali. — 5. Modifica delle convenzioni matrimoniali, successivamente al matrimonio. Previa autorizzazione giudiziale. Limiti. — 6. Obbligo, per il notaio, di chiedere l'annotazione a margine dell'atto di matrimonio della convenzione stipulata a suo ministero. Termini, decorrenza. — 7. Pubblicità del regime patrimoniale della famiglia: in particolare, annotazione, a margine dell'atto di matrimonio, del decreto che ha omologato la separazione consensuale o della sentenza che ha pronunciato quella giudiziale. Ricostituzione del regime di comunione, rinvio. — 8. Adempimenti dell'ufficiale di stato civile, ai sensi dell'art. 162 ult. comma c.c. Richiami di dottrina. — 9. Costituzione di beni in fondo patrimoniale e pubblicità ex art. 162 c.c.: rinvio. — 10. Il confronto dottrinale e giurisprudenziale in ordine alla trascrizione delle convenzioni matrimoniali. Problemi comuni alle varie ipotesi previste dall'art. 2647 c.c. — 11. Segue: i rapporti tra trascrizione ed annotazione. — 12. Segue: il problema della trascrizione «a carico». — 13. Segue: rinvii alle singole fattispecie. — 14. Segue: acquisto separato, da parte di uno dei coniugi, durante la vigenza del regime di comunione legale. — 15. Atto di matrimonio contratto all'estero da cittadini stranieri residenti in Italia. Trascrizione (ai fini del regime patrimoniale). — 16. Omessa indicazione nel registro dello stato civile della scelta del regime patrimoniale compiuta innanzi al parroco. Conseguenze. — 17. Annotazione delle convenzioni matrimoniali sul solo registro di matrimonio tenuto dal comune (e non anche sull'originale diretto al procuratore della Repubblica). Sufficienza. — 18. Separazione personale dei coniugi e loro riconciliazione. Effetti ai fini del regime patrimoniale. Rinvio. — 19. Acquisto di un solo bene in regime di separazione da parte di coniugi soggetti alla comunione: convenzione matrimoniale derogatoria del regime. Necessità. — 20. Accordo tra i coniugi per la definizione dei loro rapporti economici, con attribuzione di beni da uno all'altro. Non è una convenzione matrimoniale. — 21. Convenzione matrimoniale che preveda la immediata caduta in comunione dei proventi dell'attività separata. Effetti ai fini Irpef, esclusione. 1. Convenzioni matrimoniali e loro forma. Indicazioni di dottrina. — In dottrina, in termini generali, sulle convenzioni matrimoniali, ex artt. 162 e s., tra gli altri: CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, 2, cit., 1 ss.; DE CUPIS, Il diritto di famiglia, cit., 94-95; DOGLIOTTI, Il regime patrimoniale di famiglia, Riv. dir. civ. 1984, II, 198; RAGAZZINI, La revocatoria delle convenzioni matrimoniali, Rimini 1986; RAZZA, Considerazioni in tema di simulazione delle convenzioni matrimoniali, Giur. merito 1987, 814; M. FINOCCHIARO in A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, I, cit., 725 ss.; L.V. MOSCARINI, Convenzioni matrimoniali in generale, La comunione legale, a cura di C.M. BIANCA, Milano 1989, II, 1003-1032; IEVA, Le convenzioni matrimoniali, Tratt. Zatti, III, Milano, 2002; RUSSO, Le convenzioni matrimoniali, Comm. Schlesinger, Milano, 2004; CARNEVALI, Le convenzioni matrimoniali, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, 2ª ed., Torino, 2007. Sulla ratio dell'art. 162, comma 1 (quanto, cioè, alla necessità, a pena di nullità, che le convenzioni matrimoniali siano stipulate per atto pubblico), SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino 1983, 60, che fa riferimento alla circostanza che con l'intervento del notaio si ottiene un controllo sull'esattezza dei patti destinati a regolare i rapporti patrimoniali di tutta la vita familiare, nonché si riducono al minimo le eventuali influenze sulla volontà delle parti. 2. Identificazione delle convenzioni matrimoniali. — Devono essere stipulate, per atto pubblico, a pena di nullità, le convenzioni matrimoniali, nonché le convenzioni con le quali i coniugi, già soggetti al regime della comunione legale, intendano derogarvi e deve escludersi che abbia natura di atto pubblico, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 162, il verbale di comparizione dei coniugi innanzi al presidente del tribunale ai sensi dell'art. 711 c.p.c., dovendosi escludere che rientri tra le competenze del cancelliere rogare convenzioni matrimoniali (e una dichiarazione dei coniugi, in sede di separazione consensuale, di « voler sciogliere la comunione legale dei beni tra loro esistente e di passare al regime di separazione dei beni » è, comunque, esuberante, atteso che la separazione consensuale è di per sé causa di scioglimento della comunione dei beni ex art. 191) (Trib. Bergamo 16 marzo 1978, Giur. merito 1978, I, 503, con nota adesiva di M. FINOCCHIARO, Forme e modifiche delle convenzioni matrimoniali, che, sul punto, osserva: non qualsiasi accordo con cui i coniugi definiscono o regolano i propri rapporti patrimoniali può definirsi « convenzione matrimoniale »; non è stato oggetto di modifica nel corso degli anni, l'art. 48 della l. 16 febbraio 1913 n. 89, ordinamento del notariato, il quale prevede, come irrinunciabile, nella stipulazione dei contratti di matrimonio, la presenza dei testimoni; nello svolgimento delle proprie attribuzioni il notaio non può ricevere atti « se essi sono espressamente proibiti dalla legge, o manifestamente contrari al buon costume o all'ordine pubblico » mentre tali limiti non sussistono per il cancelliere il quale, nel verbalizzare le dichiarazioni rese dalle parti, non può, e non deve, valutare la conformità delle stesse alla legge). In senso parzialmente diverso App. Trieste 16 marzo 1979 (Notaro 1979, 54; Vita not. 1979, 176, con nota critica di DE RUBERTIS, Brevi considerazioni in tema di pubblicità del regime patrimoniale della famiglia) « a revoca od a totale modifica » di Trib. Trieste 20 gennaio 1979 (inedita) ha autorizzato una coppia di coniugi, successivamente all'omologa da parte del tribunale della loro separazione personale, « alla stipula della convenzione relativa alla mutata scelta del regime patrimoniale legale della famiglia, da quello della comunione legale dei beni — venuta meno per effetto della, tra loro intercorsa, separazione personale — a quello della separazione dei beni ». In altra occasione, infine, con riguardo — peraltro — ad un caso di specie da parte della S.C. si è osservato che l'accordo intercorso, prima della riforma del diritto di famiglia del 1975, tra coniugi in regime di separazione dei beni, con il quale questi si obbligavano a versare in un unico conto corrente i proventi delle rispettive attività professionali, costituendo esercizio della privata autonomia, è soggetto alle norme ordinarie e non costituisce convenzione matrimoniale da stipularsi conatto pubblico a pena di nullità, con la conseguenza che tale accordo può essere provato anche a mezzo di testimoni (Cass. 18 agosto 1993 n. 8758). L'art. 162 — si è precisato da parte di un giudice di merito — attiene esclusivamente ai contratti con i quali i futuri coniugi danno, dal lato patrimoniale, e per tutta la durata del matrimonio, un regolamento certo alla futura famiglia: di qui la necessità della forma solenne (App. Bologna 29 gennaio 1980, A.G.M.). Ne segue, si è precisato nella stessa occasione, pertanto, che nel caso di separazione personale nulla vieta ai coniugi di regolare anche verbalmente, e in deroga al provvedimento del giudice, i loro rapporti patrimoniali, e cioè l'ammontare dell'assegno destinato al mantenimento della moglie e dei figli [v. art. 160, n. 1]. Analogamente, l'atto con cui un coniuge si obbliga a trasferire gratuitamente all'altro determinati beni, successivamente all'omologazione della loro separazione personale consensuale ed al dichiarato fine della integrativa regolamentazione del relativo regime patrimoniale, non configura una convenzione matrimoniale ex art. 162, postulante il normale svolgimento della convivenza coniugale ed avente riferimento ad una generalità di beni anche di futura acquisizione, né un contratto di donazione, avente come causa tipici ed esclusivi scopi di liberalità (e non l'esigenza di assetto dei rapporti personali e patrimoniali dei coniugi separati), bensì un diverso contratto atipico, con propri presupposti e finalità, soggetto per la forma alla comune disciplina e, quindi, se concernente immobili, validamente stipulabile con scrittura privata, senza necessità di atto pubblico (art. 1350) (Cass. 11 maggio 1984 n. 2887). La convenzione tra i coniugi, che esprime l'opzione per la cessazione della comunione legale e per il correlativo passaggio alla separazione dei beni, esaurisce in se stessa quell'incidenza sul regime dei rapporti patrimoniali tra i coniugi che la qualifica come convenzione matrimoniale modificativa, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 163 e la rende come tale soggetta ai requisiti di forma costitutiva di cui all'art. 162. Tale non è, invece, considerabile la convenzione in virtù della quale avviene il passaggio dalla situazione potenziale di divisibilità (conseguente al pregresso scioglimento) all'attualità (derivante dal compimento della divisione) dell'attribuzione a ciascuno dei coniugi dell'esclusiva titolarità di uno o più diritti o cespiti precedentemente comuni. Questa divisione non incide, infatti, su una situazione giuridica di comunione legale speciale (alla quale soltanto è riferibile la disciplina degli artt. 162 e 163), che non esiste più nel momento in cui viene posta in essere la divisione convenzionale, alla quale, perciò, torna applicabile la disciplina di forma e di sostanza che regola la divisione ordinaria (Cass. 11 novembre 1996 n. 9846, Giust. civ. 1997, I, 2220; Dir. Famiglia 1997, 1323, con nota informativa di T. MONTECHIARI, In tema di forma e contenuto delle convenzioni matrimoniali modificative; Famiglia e diritto 1997, 169; Notariato 1997, 523, con nota di C. SCOZZOLI, Sulla forma dei patti aggiunti alle convenzioni matrimoniali: nella specie, i coniugi procedevano, con atto pubblico, allo scioglimento della comunione dei beni tra loro esistente; successivamente, con scrittura privata, il marito rinunciava ad ogni sua pretesa su un'azienda commerciale acquistata nel vigore del regime di comunione e, corrispettivamente, la moglie si obbligava a versargli una somma di denaro. La S.C., in applicazione dell'enunciato principio di diritto, ha affermato la validità della seconda convenzione, che, non avendo carattere modificativo del regime patrimoniale vigente tra i coniugi, non necessitava della forma pubblica). Sempre in questo senso, Cass. 28 novembre 1996 n. 10586, Foro it. 1997, I, 95; Riv. not. 1997, 405 (con nota informativa di D. MIGLIORI JR., Il regime della proprietà comune successivamente allo scioglimento della comunione legale tra coniugi): il negozio con cui, a seguito dello scioglimento della comunione legale, i coniugi procedono alla attribuzione a uno di essi della titolarità esclusiva di uno o più cespiti (nella specie: un'azienda) ha natura giuridica di divisione ordinaria e non di convenzione matrimoniale, non esistendo più una situazione giuridica di comunione legale. Sempre nell'ottica della giurisprudenza ricordata sopra, in altra occasione, da parte del S.C. si è precisato, ancora, che l'atto stipulato tra i coniugi separati di fatto e con il quale, al fine di disciplinare i reciproci rapporti economici, un coniuge s'impegna a trasferire gratuitamente all'altro determinati beni, non configura una convenzione matrimoniale ex art. 162, postulante lo svolgimento della convivenza coniugale ed il riferimento ad una generalità di beni, anche di futura acquisizione, ma un contratto atipico, con propri presupposti e finalità, soggetto per la forma alla comune disciplina e, quindi, se relativo a beni immobili, validamente stipulabile con scrittura privata senza necessità di atto pubblico (Cass. 12 settembre 1997 n. 9034, Famiglia e diritto 1998, 81, ove il rilievo, altresì che una « convenzione matrimoniale » ex art. 162 postula lo svolgimento della convivenza coniugale ed il riferimento ad una generalità di beni, anche di futura acquisizione). 3. Presenza dei testimoni, ai « contratti di matrimonio », irrinunciabilità. — A mente dell'art. 48 della legge notarile (l. 16 febbraio 1913 n. 89) la presenza dei testimoni, all'atto pubblico, è irrinunciabile, ove questo abbia ad oggetto, tra l'altro, « i contratti di matrimonio ». È controverso, tra i giudici di merito, se le attuali convenzioni matrimoniali rientrino, o meno, nella previsione di cui alla detta disposizione. La circostanza è stata, in particolare, esclusa da Trib. Pesaro 14 ottobre 1981, Vita not. 1982, 381, sul rilievo che le convenzioni matrimoniali successive alla l. 19 maggio 1975 n. 151 « non contengono alcuna attribuzione patrimoniale a titolo gratuito o di liberalità e non sono vincolate ad alcuna prescrizione di forma ». In senso opposto Trib. Napoli 30 giugno 1980, AGM (nella specie con riferimento ad una convenzione ai sensi dell'art. 228, comma 2, l. 19 maggio 1975 n. 151, con la quale, due coniugi, già uniti in matrimonio alla data di entrata in vigore delle nuove norme, avevano convenuto che i beni acquistati anteriormente fossero assoggettati al regime della comunione legale), nonché App. Napoli 23 aprile 1981, Vita not. 1982, 381, sul rilievo che la natura giuridica delle convenzioni matrimoniali regolate dall'ordinamento in vigore non è affatto diversa da quella dei « contratti di matrimonio » previsti dal codice 1865: l'espressione « convenzioni matrimoniali », infatti, « è sostanzialmente coincidente, anche se meno corretta sul piano sistematico, della locuzione “contratti di matrimonio”, usata dal legislatore del 1865 ». In dottrina (pur se con riferimento alla dichiarazione di cui all'art. 228, comma 1, l. 19 maggio 1975 n. 151), nel senso che la presenza dei testimoni fosse irrinunciabile, ZICHICHI, Il comma 1 dell'art. 228 della l. n. 151. Formule e note, Notaro 1976, 50 (che rileva come trattavasi, in concreto, di negozio avente « carattere matrimoniale »): contra, CALÍ, La rinuncia all'assistenza dei testimoni nella dichiarazione ex art. 228 comma 1 della l. 19 maggio 1975 n. 151, ivi 104 (osservandosi, da parte di quest'A., che trattavasi, in realtà, di una « scelta », cioè di un atto unilaterale). 4. Tempo delle convenzioni matrimoniali. — Giusta la testuale previsione di cui all'art. 162, comma 3 (sub art. 43 l. 19 maggio 1975 n. 151), le convenzioni matrimoniali possono essere stipulate in ogni tempo. Tale principio, pacificamente, si riferisce non solo a quanti abbiano contratto matrimonio successivamente alla data di entrata in vigore della nuova disciplina, ma anche a coloro che alla detta data erano già coniugati (espressamente, in questo senso, in giurisprudenza, App. Firenze 16 ottobre 1978, Riv. not. 1979, 645, che ha rigettato il reclamo, proposto dal p.m., avverso decreto del tribunale che aveva autorizzato due coniugi — che non avevano reso alcuna dichiarazione ex art. 228 l. n. 151 del 1975 — a stipulare una convenzione matrimoniale in deroga al regime legale (anteriormente alla l. 10 aprile 1981 n. 142), sul rilievo che i già coniugati alla data di entrata in vigore della nuova normativa potessero concludere convenzioni matrimoniali solo sino al 15 gennaio 1978, e, in dottrina, DE RUBERTIS, Problemi di diritto transitorio in tema di rapporti patrimoniali tra persone già coniugate all'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151, Dir. giur. 1981, 680 ss., in part. 686-687, in nota, nonché M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., 733 ss. 5. Modifica delle convenzioni matrimoniali, successivamente al matrimonio. Previa autorizzazione giudiziale. Limiti. — Il comma 3 dell'art. 162 c.c. — nella formulazione di cui all'art. 43 l. 19 maggio 1975 n. 151 — disponeva, all'ultima alinea [le convenzioni matrimoniali], « dopo la celebrazione del matrimonio possono essere mutate soltanto previa autorizzazione del giudice ». Essendo sorto, nei primi anni di applicazione della nuova normativa, un profondo contrasto, tra i giudici di merito, e in seno alla dottrina che s'era interessata al problema, se dovessero, o meno, munirsi di autorizzazione giudiziaria i coniugi che, soggetti al regime della comunione legale — per non aver stipulato anteriormente alle nozze alcuna convenzione matrimoniale, o per non aver reso nell'atto di celebrazione del matrimonio, la dichiarazione di cui al comma 2 dell'art. 162 — intendevano derogarvi e, sciolta la comunione, aderire al regime della separazione dei beni (cfr. M. FINOCCHIARO, Un bilancio sulla « comunione legale » a cinque anni dalla l. 19 maggio 1975 n. 151 (osservazioni « de iure condito » e « de iure condendo »), Vita not. 1980, 17 ss., in part. 23; ID., Ancora sull'art. 162, comma c.c.: « usque tandem »?, Giur. merito 1981, 41 ss.) con l. 10 aprile 1981 n. 142 il detto ultimo inciso è stato abrogato. Pare, per l'effetto, superfluo riportare, di seguito, le pronunce, e la dottrina, anteriori alla l. 10 aprile 1981 n. 142 (su cui, in particolare, tra gli altri, BOERO, La nuova discipilna della stipulazione delle convenzioni matrimoniali, Foro it. 1981, V, 121 ss.; MARMOCCHI, Modifiche delle convenzioni matrimoniali, Riv. not. 1981, 354; GABRIELLI, PACIA DEPINGUENTE, Nuove leggi civ. 1981, 854 nonché, per una ragionata rassegna, M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., 739-741, in nota) formatasi in margine all'art. 162, comma 3. Deve evidenziarsi, peraltro, che seppure, nella pressoché totalità delle pronunce edite, la necessità dell'autorizzazione giudiziale, per poter aderire, successivamente al matrimonio, al regime della separazione dei beni, era ricavata da una lettura « sistematica » della norma ora abrogata, da parte di qualche giudice di merito l'autorizzazione in parola aveva il proprio fondamento in altre disposizioni di legge (non toccate dalla l. n. 142 del 1981 e che, pertanto, in tesi, richiederebbero tuttora la previa autorizzazione giudiziale per l'adesione al regime della separazione dei beni in epoca successiva alla celebrazione del matrimonio). Così, in particolare, Trib. Lucca 28 giugno 1978, Riv. not. 1979, 644 secondo cui la necessità della previa autorizzazione in parola deriva dall'art. 54 del regolamento di esecuzione della legge notarile che « impone la necessità dell'autorizzazione tutte le volte che le parti intendono stipulare una convenzione matrimoniale » (Criticamente, in dottrina, in margine e tale pronuncia, M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., 742, in nota). Si è precisato, successivamente alla l. 10 aprile 1981 n. 142, che nessuna autorizzazione giudiziale è necessaria, in tema di convenzioni matrimoniali (e di loro modifica): — nell'ipotesi in cui — con riferimento al testo dell'art. 162, comma 3, previgente all'entrata in vigore della l. 10 aprile 1981 n. 142 — le parti, soggette al regime di comunione legale, convengano di derogarvi, a mezzo di convenzione matrimoniale (la norma, infatti, fa esclusivo riferimento all'eventualità in cui, perfezionata, prima o dopo il matrimonio, una convenzione matrimoniale, le parti intendano procedere ad una modifica di questa) (Trib. Reggio Emilia 17 dicembre 1984, Riv. not. 1985, 440); — nel caso in cui i coniugi, anziché stipulare una convenzione per i futuri acquisti, si siano limitati a mettere in comunione i beni posseduti da ciascuno alla data del matrimonio. (Nell'ipotesi, cioè, in cui, ex art. 228, comma 2, l. 19 maggio 1975 n. 151, i coniugi abbiano convenuto la messa in comunione dei beni acquistati anteriormente alla data di entrata in vigore della nuova normativa e, successivamente — sotto il vigore dell'art. 162, comma 3, come modificato dalla l. 10 aprile 1981 n. 142 — intendano stipulare una nuova convenzione matrimoniale) (Trib. Lucca 29 ottobre 1984, Giur. merito 1986, 69, con nota critica di LENZI, In margine ad un caso di necessità dell'autorizzazione giudiziale ex art. 2 della l. 10 aprile 1981 n. 142); — per passare dal regime di comunione legale di beni (estesa, con atto stipulato nel regime transitorio di cui all'art. 228 l. n. 151 cit., agli acquisti effettuati prima della l. n. 151 medesima) al regime di separazione dei beni, non potendosi considerare vera e propria convenzione l'atto predetto: il giudice adito per l'autorizzazione deve pertanto dichiarare che non v'è luogo a provvedere (Trib. Genova 1 giugno 1994, Dir. famiglia 1997, 177 con nota adesiva di G. LAGOMARSINO, Mutamento del regime patrimoniale della famiglia ed autorizzazione ex art. 2 l. n. 142 del 1981). Reciprocamente è stata affermata la necessità della previa autorizzazione giudiziale (ai sensi dell'art. 2, l. 10 aprile 1981 n. 142), in altra occasione, con riguardo alla convenzione per il passaggio al regime di comunione legale da quello di separazione dei beni, vigente in virtù di dichiarazione unilaterale ex art. 228, comma 1, l. n. 151 del 1975, atteso che il termine « convenzioni matrimoniali » deve ritenersi comprensivo di ogni atto impeditivo del sorgere del regime legale ex art. 159 (Trib. Udine 17 aprile 1986, Riv. not. 1987, 136). Con riguardo al regime anteriore alla l. n. 142 del 1981, Vedi altresì, Corte cost. 31 marzo 1988 n. 385, Giur. cost. 1988, I, 1705: è manifestamente infondata, in riferimento all'art. 3 comma 1 Cost. la questione di legittimità costituzionale esaminata per la prima volta, dell'art. 162 comma 3 nel testo vigente prima dell'entrata in vigore della l. 10 aprile 1981 n. 142 (anche considerato in relazione all'art. 2 della legge suddetta) nella parte in cui non dispone che per le convenzioni matrimoniali con le quali venga istituito il regime di separazione dei beni in luogo del preesistente regime di comunione, sia necessaria l'autorizzazione del giudice. In dottrina cfr. R. SACCO, Attuazione di fatto di un regime patrimoniale diverso da quello corrispondente a diritto, Studi patrim. famil., cit., 83. 6. Obbligo, per il notaio, di chiedere l'annotazione a margine dell'atto di matrimonio della convenzione stipulata a suo ministero. Termini, decorrenza. — Il termine di 30 giorni, entro il quale il notaio rogante deve richiedere l'annotazione, a margine dell'atto di matrimonio, della convenzione matrimoniale stipulata a suo ministero, a norma dell'art. 34-bis disp. att. c.c. sub art. 206 l. 19 maggio 1975 n. 151, decorre, si è avvertito in giurisprudenza, dalla data dell'atto o da quella del matrimonio, nel caso in cui questo sia successivo o, infine, dalla data dell'omologazione, nel caso in cui questa sia richiesta dalla legge (Trib. Bergamo 16 novembre 1981, Giur. merito 1982, 516, in motivazione). In dottrina, sull'art. 34-bis disp. att. c.c. (art. 216 l. 19 maggio 1975 n. 151), tra gli altri: AVANZINI, Problematica delle convenzioni matrimoniali, Notaro 1975, 90; BOTTINO, Forma, limiti e pubblicità delle convenzioni matrimoniali e loro modificazioni, Comitato regionale fra Consigli notarili del Piemonte e della Valle d'Aosta, Relazioni svolte nella giornata di studio del 20 settembre 1975, 34 ss. (della relazione); M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, cit., II, 759-761; GERVASIO, Alcune considerazioni sulla l. 19 maggio 1975 n. 151, Notaro 1975, 107; L. GIACOBBE, L'attività notarile di fronte alla nuova legge sul diritto di famiglia 19 maggio 1975 n. 151, Riv. not. 1975, 827 ss., in part. 840-841; RASI-CALDOGNO, Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo, Trabucchi, cit., I, 2, 926-933; ZACCARIA, La pubblicità del regime patrimoniale della famiglia: le posizioni della dottrina, cit., 422. 7. Pubblicità del regime patrimoniale della famiglia: in particolare, annotazione, a margine dell'atto di matrimonio, del decreto che ha omologato la separazione consensuale o della sentenza che ha pronunciato quella giudiziale. Ricostituzione del regime di comunione, rinvio. — A norma dell'art. 162, ultimo comma « le convenzioni matrimoniali non possono essere opposte ai terzi quando a margine dell'atto di matrimonio non risultano annotati la data del contratto, il notaio rogante e le generalità dei contraenti, ovvero la scelta di cui al comma 2 ». Poiché, da tale principio, si è tratta la conclusione che i coniugi non possano opporre, ai terzi, di vivere secondo un regime patrimoniale diverso da quello legale, ove manchi qualsiasi annotazione, a margine dell'atto di matrimonio, è sorto, in giurisprudenza, e in dottrina, il problema del quomodo rendere opponibili, ai terzi, l'esistenza, tra i coniugi, del regime patrimoniale della separazione dei beni conseguente all'omologa della separazione consensuale o alla pronuncia di separazione giudiziale. Per Trib. Firenze 21 gennaio 1981, Dir. famiglia 1981, 552; Riv. not. 1981, 179, è onere delle parti chiedere, all'ufficiale di stato civile, l'annotazione del decreto che ha omologato la separazione consensuale, o della sentenza che ha pronunciato quella giudiziale. Si osserva, infatti, a fondamento d'una tale conclusione, che in caso di deroga convenzionale al regime legale l'onere di richiedere l'annotazione della convenzione incombe sul notaio, in tutti gli altri casi di scioglimento della comunione, invece, è sempre la parte che ha l'onere di richiedere l'annotazione del titolo, posto che solo per le sentenze di divorzio e di annullamento del matrimonio è espressamente stabilita la trasmissione della sentenza all'organo amministrativo da parte del giudice che l'ha emessa. Non diversamente, da parte di altri giudici, si è rilevato che a mente dell'art. 133 r.d. 9 luglio 1939 n. 1238, ordinamento dello stato civile, a margine degli atti di matrimonio è possibile fare unicamente le annotazioni ivi tassativamente indicate, anche se « è fatta salva ogni altra annotazione prevista dalla legge, ovvero ordinata dall'autorità giudiziaria ». Si è pervenuti, per l'effetto, alla conclusione che è necessario, perché l'ufficiale di stato civile provveda all'annotazione del provvedimento in esame, che i coniugi (o uno solo di essi) chieda al tribunale, ai sensi dell'art. 742-bis c.p.c. che impartisce un ordine in tal senso (Trib. Como 11 dicembre 1979, Notaro 1980, 6; Trib. Bergamo 20 marzo 1982, Vita not. 1982, 1330). In altra occasione, si è osservato, invece, che è compito del giudice che pronuncia la separazione giudiziale (o omologa quella consensuale) ovviare all'omissione del legislatore (quanto alla non prevista pubblicità di tale causa di scioglimento della comunione), emanando un provvedimento che sia titolo idoneo a essere annotato nei registri dello stato civile (« Tale provvedimento trova la sua fonte nell'art. 453 c.c., per il quale nessuna annotazione può essere fatta sopra un atto già iscritto nel registro dello stato civile, se non è disposta per legge ovvero non è ordinata dall'autorità giudiziaria, e nell'art. 153 r.d.l. 9 luglio 1939 n. 1238 che, dopo aver elencato le varie annotazioni che devono essere apposte in margine all'atto di matrimonio dispone, all'ultimo comma, essere “fatta salva ogni altra annotazione prescritta dalla legge ovvero ordinata dall'autorità giudiziaria”… L'ordine all'ufficiale di stato civile di provvedere alle suddette annotazioni non viola il principio della tipicità delle annotazioni stesse, in quanto lo stesso legislatore, nella novella del 1975, ha introdotto per tutti i casi di scioglimento della comunione legale tra i coniugi proprio il principio dell'annotazione a margine dell'atto di matrimonio, salvo per quanto riguarda i due casi sopra esaminati, di cui quello che ci riguarda, è sicuramente uno dei più frequenti e dei più ricorrenti… L'interpretazione estensiva delle norme sulla pubblicità instaurata dalla legge del 1975 non è soltanto opportuna, ma doverosa nell'interesse delle parti e dei terzi. La loro tutela, infatti, non può prescindere da un siffatto modo interpretativo della legge, che è il solo rispondente alla vera volontà del legislatore ed alla rispondenza della verità formale a quella sostanziale… ») (Trib. Milano 22 maggio 1985, Dir. famiglia 1985, 974, con nota adesiva di NAPPI, Osservazioni in merito allo scioglimento della comunione legale dei beni tra coniugi). Siccome non prevista da alcuna norma di legge — si è osservato in termini opposti, da parte di altro giudice di merito — va rigettata l'istanza di annotazione a margine dell'atto di matrimonio del provvedimento di omologazione della separazione consensuale tra coniugi: in caso di acquisto di immobile, da parte di coniuge separato, infatti, per opporre all'altro contraente lo stato di separato, non soggetto al regime di comunione legale, è sufficiente esibire copia del titolo della separazione, facendone fare menzione nell'atto di vendita (Trib. Monza 8 marzo 1984, Giust. civ. 1984, I, 3456, con nota critica di M. FINOCCHIARO, « Scioglimento » della comunione legale per effetto della separazione personale dei coniugi e opponibilità ai terzi del nuovo regime patrimoniale della « famiglia »; Foro it. 1985, I, 1202; Dir. famiglia 1984, 179. Sempre nello stesso senso, altresì, App. Genova 22 novembre 1985, Giur. merito 1987, 63, con nota sostanzialmente adesiva di LENZI, Sulla ammissibilità della annotazione a margine dell'atto di matrimonio della cessazione della comunione legale per separazione personale dei coniugi; Foro it. 1986, I, 776). In dottrina, tra gli altri: SEGNI, Gli atti di straordinaria amministrazione del singolo coniuge sui beni immobili della comunione, Riv. dir. civ. 1980, I, 598 ss., in part. 614-615 (secondo cui se devono annotarsi le modifiche « convenzionali » al regime legale, a maggior ragione devono essere oggetto di annotazione — su istanza delle parti — i fatti modificativi che operano ope legis); SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, il regime patrimoniale della famiglia, cit., 41 e 86; ZATTI e MANTOVANI, La separazione personale, Padova 1983, 294; COSCIA, Regime patrimoniale legale tra coniugi ed effetti della separazione personale: riflessi sullo stato civile e sulla tenuta dei registri, Stato civ. it. 1981, 273, nonché GALBIATI, Riforma del diritto di famiglia, orientamenti di dottrina e giurisprudenza. Interventi legislativi, Vita not. 1980, 968 ss., in part. 984-985 (ove l'auspicio d'un intervento del legislatore); M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., 763-769. Al momento il problema deve ritenersi superato per effetto dell'art. 23, comma 1, l. 6 marzo 1987 n. 74, secondo cui « fino all'entrata in vigore del nuovo testo del codice di procedura civile, ai giudizi di separazione personale dei coniugi si applicano, in quanto compatibili, le regole di cui all'art. 4 della l. 1 dicembre 1970 n. 898, come sostituito dall'art. 8 della presente legge « che prevede appunto, al comma 2 l'obbligo, per il cancelliere, di dare comunicazione del ricorso [per divorzio e quindi, anche per separazione] » all'ufficiale di stato civile del luogo dove il matrimonio fu trascritto per l'annotazione in calce all'« atto ». Per la opponibilità ai terzi degli effetti dello scioglimento della comunione legale dei beni tra coniugi, derivante dalla separazione personale dei coniugi stessi, relativamente all'acquisto di beni immobili o mobili registrati, avvenuto con dichiarazione del coniuge acquirente dello stato di separazione, è sufficiente la trascrizione nei registri immobiliari (dell'atto di acquisto recante la detta dichiarazione) e non è richiesta, altresì, l'annotazione del provvedimento di separazione personale dei coniugi a margine dell'atto di matrimonio (Cass. 28 novembre 1998 n. 12098, Giust. civ. 1999, I, 2373, con nota adesiva di M. FINOCCHIARO, La pubblicità nel « nuovo » regime patrimoniale della famiglia. Un'altra rivoluzione tradita). Con riferimento alla eventualità i coniugi, già separati, si riconcilino, un giudice di merito ha affermato, peraltro, che qualora sia stata annotata a margine dell'atto di matrimonio l'avvenuta separazione personale dei coniugi, il tribunale, ritualmente richiesto, deve ordinare l'annotazione dell'avvenuta riconciliazione delle parti, a tutela dei terzi, che hanno interesse a conoscere sia la separazione, costituente causa di scioglimento della comunione legale dei beni, sia la riconciliazione (Trib. S. Maria Capua V. 2 maggio 1997, Dir. famiglia 1998,1469). Tuttavia, si è precisato sempre nella stessa occasione, mentre, ai sensi dell'art. 23 l. n. 74 del 1987, che dichiara applicabile alle ipotesi della separazione la normativa di cui all'art. 4 l. n. 898 del 1970, l'ufficiale di stato civile può ritenersi legittimato ad annotare la separazione a prescindere da un ordine in tal senso della competente autorità giudiziaria, per l'annotazione della riconciliazione, che non è prevista da alcuna norma, l'ufficiale di stato civile può, ai sensi dell'art. 453, procedere solo a seguito di un ordine del tribunale, anche se il diritto all'annotazione derivi dal mero verificarsi di un evento certo e non irrilevante (Trib. S. Maria Capua V. 2 maggio 1997, cit.). Sul problema — connesso al precedente — se per effetto della riconciliazione, intervenuta tra coniugi separati, vengano — o meno — a cessare con effetto ex nunc tutti gli effetti della separazione, sia personali che patrimoniali, con il conseguente ripristino del regime della comunione dei beni esistente in origine tra i coniugi, venuto meno in seguito al provvedimento di separazione anche nei confronti dei terzi, a prescindere da ogni pubblicità a margine dell'atto di matrimonio, V. la giurisprudenza (in vario senso) ricordata retro, sub art. 159, n. 3. 8. Adempimenti dell'ufficiale di stato civile, ai sensi dell'art. 162 ult. comma c.c. Richiami di dottrina. — Sugli adempimenti dell'ufficiale di stato civile ai sensi dell'art. 162, ultimo comma, a seguito della riforma del diritto di famiglia, in dottrina, da ultimo: ARENA, Convenzioni matrimoniali. Risultanze emerse. Quadro completo dei compiti dell'ufficiale di stato civile, Stato civ. it. 1977, 323; BARBIERI, Disposizioni in materia di regime patrimoniale coniugale. Adempimenti dell'ufficiale di stato civile, ivi 1976, 364 ss.; BONARDI, Il regime patrimoniale della famiglia e l'ufficiale di stato civile, ivi 1976, 168 ss.; BRUNI, Pubblicità degli atti sui registri dello stato civile, Notaro 1975, 90; CACCIN, Il regime dei rapporti patrimoniali tra coniugi e le annotazioni sugli atti di matrimonio, Stato civ. 1977, 331; CACCIN, Ancora sul regime dei rapporti patrimoniali tra coniugi e le annotazioni degli atti di matrimonio, Nuova rass. 1977, 1328; CHIARDIA, Il regime patrimoniale familiare e adempimenti di stato civile, Stato civ. 1976, 360; COSCIA, Rapporti matrimoniali tra coniugi e compiti dell'ufficiale dello stato civile nel nuovo diritto di famiglia, Amm. it. 1975, 1370; FIORE, Il regime patrimoniale del nuovo diritto di famiglia, Nuova rass. 1977, 898; GIACOMINI, Le convenzioni matrimoniali e le annotazioni a margine, Stato civ. it. 1976, 302; LUCCHESINI, Annotazioni a margine di atto di matrimonio civile relativa alla scelta di cui al comma 2 dell'art. 162, ivi 1977, 657; SALVO, Le convenzioni matrimoniali nel nuovo diritto di famiglia e gli adempimenti dell'ufficiale di stato civile, ivi 1975, 626; SALVO, La mancata trascrizione del matrimonio contratto all'estero e le implicazioni in ordine al regime patrimoniale nel nuovo diritto di famiglia, ivi 1976, 564; SALVO, Le convenzioni matrimoniali previste nel nuovo diritto di famiglia, loro opponibilità, funzione di certificazione, ivi 1978, 199; SACCO, Commentario di diritto italiano della famiglia, III, cit. 26-36; CECCHINI, Il regime pubblicitario delle convenzioni matrimoniali, Lessico dir. famiglia. Centro Studi giuridici sulla persona, Roma, 2000. 9. Costituzione di beni in fondo patrimoniale e pubblicità ex art. 162 c.c.: rinvio. — La costituzione del fondo patrimoniale, prevista dall'art. 167, e comportante un limite alla disponibilità di determinati beni, con vincolo di destinazione per fronteggiare i bisogni familiari, va compresa tra le convenzioni matrimoniali e, pertanto, è soggetta alle disposizioni dell'art. 162, circa le forme delle convenzioni medesime, ivi incluso il comma 3, che ne condiziona l'opponibilità ai terzi all'annotazione del relativo contratto a margine dell'atto di matrimonio. Sulla questione, ampiamente, infra, sub art. 167. 10. Il confronto dottrinale e giurisprudenziale in ordine alla trascrizione delle convenzioni matrimoniali. Problemi comuni alle varie ipotesi previste dall'art. 2647 c.c. — Prima della Riforma del diritto di famiglia, stante la vigenza del regime legale di separazione dei beni, l'art. 2647 c.c. si dava carico di predisporre un sistema atto a dare adeguata pubblicità alle convenzioni con le quali si sceglieva di adottare il regime di comunione, che rispetto a quel sistema legale costituiva una deroga. Divenuta la comunione, a seguito della Riforma, il regime patrimoniale legale dei coniugi, l'art. 2647 c.c. è radicalmente mutato: oggi si limita a disciplinare la pubblicità degli atti (inerenti a beni immobili) costituenti eccezioni al regime di comunione, e quindi: della costituzione del fondo patrimoniale, delle convenzioni matrimoniali che escludono beni dalla comunione, degli atti o provvedimenti che sciolgono la comunione, degli acquisti di beni personali ex art. 179 c.c. (lett. c, d ed f). Non v’è più bisogno, invece, di dar pubblicità al regime di comunione. Cfr. infatti Cass. 15 marzo 1990, n. 2104, Giust. civ. Mass. 1990, 468: «L'opponibilità ai terzi della comunione degli utili e degli acquisti, costituita prima della riforma del diritto di famiglia …, è condizionata soltanto all'annotazione a margine dell'atto di matrimonio, prevista dall'art. 162 c.c., per le convenzioni matrimoniali, senza che sia richiesta la trascrizione della relativa convenzione a norma dell'art. 2647 c.c., atteso che l'art. 227 della legge n. 151 del 1975 non ha previsto l'ultrattività delle precedenti norme per tale comunione, come invece ha disposto per le doti e i patrimoni familiari»). La comunione legale, quale regime vigente in assenza di specifiche convenzioni contrarie, è oggetto quindi di una “pubblicità negativa”. Tuttavia, a seguito della modifica, apportata dalla l. 28 febbraio 1985/52, all’art. 2659 c.c., il regime patrimoniale dei coniugi che intervengono negli atti ha anche una forma di pubblicità positiva, essendo obbligatoria la sua indicazione nella nota di trascrizione. Si è parlato in dottrina, in proposito, di un’attenuazione di quella «sorta di compartimento stagno tra le due forme di pubblicità», una dei registri immobiliari, l’altra dei registri di stato civile (GAZZONI, La trascrizione immobiliare, Comm. Schlesinger, Art. 2646-2651, II, Milano, 1993, 42). Sulla premessa che «ai fini dell'opponibilità ai terzi di un atto trascritto deve aversi riguardo esclusivo al contenuto della nota di trascrizione, e non anche al contenuto del titolo di acquisto che, insieme con la nota, viene depositato presso la conservatoria del registri immobiliari», si è affermata la sufficienza, in un caso di acquisto individuale operato da parte di un coniuge legalmente separato, della indicazione nella nota di trascrizione dello status di separato. Risulta per converso inutile l'annotazione del provvedimento di separazione a margine dell'atto di matrimonio, non potendo «legittimamente sostenersi che "titolo di acquisto" ex artt. 2657 e 2659 c.c. sia, nella specie, (non l'atto traslativo ma) l'atto di separazione legale in quanto atto produttivo del mutamento giuridico in ordine al singolo bene oggetto di trascrizione» (Cass. 28 novembre 1998, n. 12098, Notariato 1999, 554, con nota di FRANCO; Nuova giur. civ. comm. 1999, I, 632, con nota di MOSCA). 11. Segue: i rapporti tra trascrizione ed annotazione. — Il problema più spinoso è dato certamente dal coordinamento tra la pubblicità attuata tramite gli atti dello stato civile e la pubblicità dei registri immobiliari. In base all’art. 162, comma 4°, c.c., le convenzioni matrimoniali non possono essere opposte ai terzi quando a margine dell’atto di matrimonio non risultano annotati la data del contratto, il notaio rogante e le generalità dei contraenti o la scelta del regime di separazione dichiarata nell’atto di celebrazione del matrimonio. È stata scartata la posizione che cercava di dare coerenza al sistema separando gli ambiti operativi delle due norme, nel senso che, mentre l’art. 2647 c.c. vale per i soli beni immobili, l’art. 162 c.c. avrebbe riguardo ai beni mobili (PALERMO, La disciplina della pubblicità nella riforma del diritto di famiglia, Riv. not. 1976, 750; ANDRINI, Convenzioni matrimoniali e pubblicità legale nel nuovo diritto di famiglia, Riv. not. 1975, 1100). Si è ribattuto (OBERTO, Annotazione e trascrizione delle convenzioni matrimoniali: una difficile coesistenza, Riv. dir. ipotecario 1982 127), infatti, che la posizione del terzo acquirente di beni mobili è già, di per sé, inattaccabile, senza che occorra all’uopo l’annotazione: l’art. 184 c.c. prevede, per il caso di alienazione di beni mobili non registrati facenti parte della comunione legale, da parte di un coniuge senza il necessario consenso dell’altro, solamente l’obbligo a carico dell’alienante di ricostituire la comunione nel suo stato originario o di corrispondere il valore del bene alienato; rimane sempre salvo, quindi, l’acquisto del terzo. La dottrina si è quindi divisa in due orientamenti principali. Secondo l’orientamento prevalente, l’annotazione nei registri dello stato civile, prescritta dall’art. 162 c.c., sarebbe oggi l’unica forma di pubblicità richiesta per opporre le convenzioni matrimoniali ai terzi (pubblicità dichiarativa), mentre la funzione della trascrizione degraderebbe a quella di mera pubblicità notizia (CIAN, op .cit., 33; ZACCARIA, op. cit., 373; G. GABRIELLI-ZACCARIA, op. cit., 364 ss.; F. FINOCCHIARO, op .cit., 329; GAZZONI, La trascrizione immobiliare, Comm. Schlesinger, Art. 2646-2651, II, Milano, 1993, 42 ss.; SEGNI, op .cit., 608). Per converso, se la trascrizione conservasse la sua normale funzione di pubblicità dichiarativa, l'art. 2647 darebbe luogo ad un inutile doppione rispetto all’art. 162. Altro argomento addotto in favore di questa soluzione (in part. da GAZZONI, La trascrizione immobiliare, Comm. Schlesinger, Art. 2646-2651, II, Milano, 1993, 43 ss.), è la mancata riproduzione, nella nuova formulazione dell’art. 2647 c.c., dell’originario ultimo comma, il quale precisava che la trascrizione era necessaria ai fini dell’opponibilità ai terzi. Seguendo questa tesi, quindi, se la convenzione è stata trascritta, ma non è stata annotata, essa è inopponibile ai terzi; viceversa, essa è opponibile purché sia stata annotata, nonostante la mancata trascrizione ex art. 2647 c.c. Inoltre, si è aggiunto da alcuni (G. GABRIELLI, voce Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, Enc. Dir., XXXII, Milano, 1982, 293; G. GABRIELLI 1989, Questioni recenti in tema di pubblicità immobiliare, Contr. e impr. 1989, 813; CIAN-CASAROTTO, op .cit., 825), sebbene nella specie la trascrizione non costituisca un onere, essa rimane pur sempre un obbligo a carico del notaio (art. 2671 c.c.), che in caso di inadempimento deve risarcire i danni ai terzi che abbiano acquistato diritti confidando sulle risultanze dei registri immobiliari. In senso contrario si è osservato da altri (GAZZONI, La trascrizione immobiliare, Comm. Schlesinger, Art. 2646-2651, II, Milano, 1993, 44; TRIOLA, op. cit., 124) che l’obbligo a carico del notaio non è posto a favore dei terzi in genere ma delle parti, le quali sole potrebbero quindi agire nei suoi confronti. Inoltre il terzo non potrebbe lamentare l’omissione della trascrizione giacché, se avesse diligentemente consultato anche i registri dello stato civile, avrebbe potuto accertarsi dell’esistenza della prescritta pubblicità. Un secondo orientamento mira a mantenere all’art. 2647 c.c. la funzione tipica della trascrizione. Ai fini dell’opponibilità ai terzi sarebbe necessario eseguire entrambe le formalità: annotazione nei registri dello stato civile e trascrizione nei registri immobiliari, svolgenti entrambe la funzione di pubblicità dichiarativa. Sarebbe possibile ricavare dal sistema (in part. ex art. 2644 e 2645), infatti, un principio generale che impone di dare sempre prevalenza all’atto trascritto per primo, salvo eccezioni che, però, non sono contemplate dall’art. 2647 c.c. La funzione dichiarativa della trascrizione sarebbe infine confermata dal 2° comma dell’art. 2685 c.c. (la cui commento si rinvia), inerente alla trascrizione di atti aventi ad oggetto beni mobili registrati, il quale parla di «effetti stabiliti per gli immobili», così lasciando trasparire che la trascrizione immobiliare disciplinata dall’art. 2647 c.c. produca degli «effetti», i quali non possono che essere dichiarativi. All’interno di questo orientamento occorre però distinguere tra chi sostiene che dalla mancanza di una qualsiasi delle due formalità, deriverebbe l’inopponibilità dell’atto (TRABUCCHI, La pubblicità immobiliare. Un sistema in evoluzione, Riv. dir. ipotecario 1982, 114) e chi invece afferma che l’art. 162 c.c. inerisce alla convenzione matrimoniale, mentre l’art. 2647 c.c. ha riguardo ai singoli beni (DE RUBERTIS, op. cit., 6; FERRI, Forme e pubblicità del regime patrimoniale della famiglia, Riv. trim. dir. proc. civ. 1988, 60; TRIOLA, op. cit., 126 s.; AULETTA, Il fondo patrimoniale, Milano, 1990, 156; PALERMO, op. cit., 750; OBERTO, Annotazione e trascrizione delle convenzioni matrimoniali: una difficile coesistenza, Riv. dir. ipotecario 1982, 127); in particolare, si osserva (CORSI, op. cit., 78), l’annotazione avrebbe la funzione di dare pubblicità al regime patrimoniale vigente tra i coniugi, mentre la trascrizione avrebbe ad oggetto la pubblicità della specifica situazione dei singoli beni. Ancora in tal senso, si è distinto (FERRI, op. cit., 60 s.) tra convenzioni e contratti per concludere che l’annotazione renderebbe opponibili le prime, mentre la trascrizione svolgerebbe analoga funzione per i secondi: infatti la convenzione sarebbe «una forma di accordo che, a differenza del contratto, non incide su singoli diritti o singoli rapporti, ma detta una disciplina generale ed astratta per futuri eventuali rapporti». Ma si è obiettato (GAZZONI, La trascrizione immobiliare, Comm. Schlesinger, Art. 2646-2651, II, Milano, 1993, 47) che anche la norma in tema di trascrizione utilizza il termine «convenzioni», e lo fa con significato proprio: infatti, la lettura del primo comma dell’art. 2647 c.c. va coordinata con quella del 2° comma, risultandone che con riguardo all’esclusione di beni le «convenzioni» cui l’articolo si riferisce non riguardano singoli beni, ma categorie di beni, e quindi in generale il regime patrimoniale prescelto. Parimenti, non possono che incidere sul regime patrimoniale in generale gli atti e provvedimenti di scioglimento della comunione. Art. 162 c.c. ed art. 2647 c.c. hanno, pertanto, lo stesso ambito di applicazione. La giurisprudenza ha abbracciato la tesi secondo cui la trascrizione ex art. 2647 c.c. degrada a mera pubblicità notizia. In una pronuncia in tema di costituzione del fondo patrimoniale, la Cassazione, premesso che tale costituzione va compresa fra le convenzioni matrimoniali, ha concluso che, pertanto, essa «è soggetta alle disposizioni dell'art. 162 c.c., circa le forme delle convenzioni medesime, ivi incluso il comma 3, che ne condiziona l'opponibilità ai terzi all'annotazione del relativo contratto a margine dell'atto di matrimonio, mentre la trascrizione del vincolo stesso, per gli immobili, di cui all'art. 2647 c.c., resta degradata a mera pubblicità-notizia, inidonea ad assicurare detta opponibilità» (Cass. 27 novembre 1987, n. 8824, Giur. it. 1989, I, 1, 330, 1766; Riv. not. 1988, 719. A questa decisione hanno fatto seguito numerose altre nello stesso senso, di cui si darà conto nei paragrafi seguenti). 12. Segue: il problema della trascrizione «a carico». — Oggetto di discussione è stata anche l’interpretazione dell’espressione «a carico» contenuta nel primo comma dell'art. 2647, per il quale la trascrizione andrebbe eseguita «a carico, rispettivamente, dei coniugi titolari del fondo patrimoniale e del coniuge titolare del bene escluso o che cessa di far parte della comunione». È indubbio, infatti, che alcuni atti contemplati dalla norma (convenzioni che escludono beni determinati dalla comunione legale; acquisti di beni personali) comportano un effetto favorevole per il coniuge suddetto, sicché sarebbe stato più logico che la legge prevedesse la trascrizione in suo favore, e non contro di lui come invece si esprime la disposizione in esame. La soluzione preferibile è allora quella di ammettere che il legislatore sia semplicemente incorso in un errore, e che la trascrizione debba essere eseguita a favore del coniuge (FORCHIELLI, op. cit., 912, parla di uso improprio, da parte del legislatore, dell’espressione «a carico» in luogo di quella «a favore»; per GAZZONI, La trascrizione immobiliare, Comm. Schlesinger, Art. 2646-2651, II, Milano, 1993, 49, si tratta di un vero e proprio errore, riconducibile al fatto che è stata tralaticiamente riportata l’espressione «a carico» prevista dall’originaria versione dell’art. 2647 c.c., senza tener presente che a seguito della Riforma la pubblicità non era più quella in positivo della convenzione costitutiva della comunione convenzionale, ma era divenuta quella in negativo dell’esclusione dalla comunione legale). Fermo, dunque, che la trascrizione va fatta a favore del coniuge che diviene proprietario esclusivo del bene, si discute se occorra affiancare a questa trascrizione anche una seconda trascrizione a carico dell’altro coniuge che non diventa contitolare del bene: mentre alcuni ritengono questa seconda formalità opportuna per segnalare ai terzi la non operatività del principio della comunione legale (ANDRINI, op. cit., 1100; FERRI, ult. op. cit., 60), altri la considerano un’inutile superfetazione (GAZZONI, ult. op. cit., 48). 13. Segue: rinvii alle singole fattispecie. — Sulla trascrizione della costituzione del fondo patrimoniale, v. sub art. 167. Sulla trascrizione delle convenzioni matrimoniali che escludono beni immobili dalla comunione legale, v. sub art. 210. Per la trascrizione degli atti e dei provvedimenti di scioglimento della comunione, v. sub art. 191. Con riguardo alla trascrizione degli atti di acquisto di beni personali a norma delle lettere c), d), e), ed f) dell’articolo 179 c.c., cfr. sub art. 179. 14. Segue: acquisto separato, da parte di uno dei coniugi, durante la vigenza del regime di comunione legale. — Va escluso che l’art. 2647 c.c. entri in gioco quando, vigente tra i coniugi il regime di comunione legale, uno dei due operi un acquisto separato di un bene immobile. Dal punto di vista sostanziale, è chiaro che il bene entra in comunione e diviene di proprietà indivisa anche del coniuge che non prende parte all’atto di acquisto. La legge non precisa, però, se l’atto di acquisto debba essere trascritto a favore del solo coniuge che vi ha preso parte, o anche a favore dell’altro. V’è chi parla, quindi, di una scissione tra titolarità (formale) ed appartenenza (sostanziale) (CORSI, op. cit., 72). Prevale l’idea della superfluità di una trascrizione a nome di entrambi i coniugi: è sufficiente che l’acquisto sia intestato al solo coniuge acquirente (ex multis: GAZZONI, ult. op. cit., 1965; FORCHIELLI, op. cit., 913 ss. Propendono invece per la cointestazione GABRIELLI-ZACCARIA, op. cit., 361 ss.). Ne deriva che il coniuge che non è stato parte del contratto, oltre che acquistare ex lege il bene per effetto del regime patrimoniale, potrà opporre il proprio diritto erga omnes se l’acquisto è stato debitamente trascritto ex art. 2643 o 2645 c.c. in favore dell’altro coniuge. Peraltro, anche la risoluzione del Ministero di Grazia e Giustizia 7 luglio 1983, n. 5/1824/060/I, div. V, ha affermato che la trascrizione va effettuata a favore del solo coniuge contraente. Questa trascrizione, evidentemente, è eseguita ai fini dell’art. 2644 c.c., non essendo pertinente, quindi, il richiamo all’art. 2647 c.c., sia perché detta norma contempla una pubblicità notizia, sia perché essa ha riguardo ad ipotesi che si presentano come eccezionali rispetto al regime di comunione legale, e quindi opposte alla presente. In concreto, i maggiori problemi si presenteranno al momento in cui i coniugi vorranno vendere il bene così acquistato, giacché dovranno entrambi, quali comproprietari, prendere parte all’atto di vendita, e la trascrizione dovrà così essere eseguita contro entrambi, con l’inconveniente che questa seconda trascrizione (contro) seguirà a quella precedente (a favore) ove appariva soltanto il coniuge intervenuto all’atto: così, «sul piano della continuità, mentre la catena sarà continua con riguardo alla posizione di costui, essa sarà spezzata o meglio sarà limitata ad un unico anello per quanto riguarda l’altro coniuge». Ma l’inconveniente è bilanciato dal fatto che «in tal modo si creerà un anello bensì isolato, ma proprio per questo idoneo a segnalare l’esistenza di un pregresso acquisto in comunione intervenuto ex lege» (GAZZONI, ult. op. cit., 65). 15. Atto di matrimonio contratto all'estero da cittadini stranieri residenti in Italia. Trascrizione (ai fini del regime patrimoniale). — Gli ufficiali dello stato civile devono procedere alla trascrizione di un atto di matrimonio celebrato all'estero e contratto da cittadini stranieri residenti in Italia se l'atto è stato ritualmente tradotto e legalizzato dalle competenti autorità straniere; alla trascrizione non può essere attribuita solo una funzione riproduttiva, avendo essa natura e finalità pubblicitaria, il che rileva ai fini dell'opponibilità: ne deriva che i coniugi possono ottenere l'annotazione del regime patrimoniale da essi prescelto, ai sensi e per effetti dell'art. 30 l. n. 218 del 1995 (Trib. Venezia 15 settembre 2006, Dir. famiglia 2007, 257). Sempre sulla specifica questione, da parte di altro giudice di merito si è affermato che gli ufficiali dello stato civile devono procedere alla trascrizione di un atto di matrimonio celebrato all'estero e contratto da cittadini stranieri residenti in Italia se l'atto è stato ritualmente tradotto e legalizzato dalle competenti Autorità straniere (Trib. Monza, 31 marzo 2007, Dir. famiglia 2007, 1736). Ivi, altresì, la precisazione che alla trascrizione non può essere attribuita solo una funzione riproduttiva, avendo essa natura e finalità pubblicitarie, il che rileva ai fini dell'opponibilità, per cui i coniugi possono ottenere l'annotazione del regime patrimoniale da essi prescelto, ai sensi e per gli effetti dell'art. 30 l. n. 218 del 1995 (Trib. Monza, 31 marzo 2007, cit.). In dottrina in termini critici in margine a Trib. Monza, 31 marzo 2007, cit., DI SAPIO A., Sulla pubblicità del regime patrimoniale tra coniugi stranieri, Dir. famiglia 2007, 1738, I. 16. Omessa indicazione nel registro dello stato civile della scelta del regime patrimoniale compiuta innanzi al parroco. Conseguenze. — Qualora la scelta del regime patrimoniale di separazione dei beni sia validamente riportata sull'atto di matrimonio redatto dal parroco celebrante in qualità di ufficiale dello stato civile, ma successivamente essa non venga riportata per mera omissione nel registro dello stato civile dove sia iscritto l'atto di matrimonio, correttamente l'ufficiale dello stato civile integra la predetta omissione attraverso semplice annotazione ai sensi degli artt. 172 ss. del r.d. n. 1238 del 1939, e non mediante procedimento di rettificazione, di cui difettano i presupposti dell'errore materiale o dell'omissione nella formazione dell'atto (Trib. Ivrea 29 maggio 2003, Dir. famiglia 2003, 667, che ha ritenuto che l'originale dell'atto di matrimonio, redatto dal parroco ed inviato al comune, non contenesse né errori né omissioni contrastanti con la volontà dei nubendi da giustificare la rettificazione, mentre fosse carente solo la successiva iscrizione nei registri dello stato civile, che relativamente alla scelta del regime di separazione dei beni ha solo efficacia dichiarativa nei confronti dei terzi). 17. Annotazione delle convenzioni matrimoniali sul solo registro di matrimonio tenuto dal comune (e non anche sull'originale diretto al procuratore della Repubblica). Sufficienza. — Si è precisato da parte del S.C. che per la pubblicità richiesta dagli articoli 162 e 163 ai fini della opponibilità ai terzi delle convenzioni matrimoniali è necessaria e sufficiente l'annotazione a margine dell'atto di matrimonio iscritto nel registro depositato presso gli uffici del comune di celebrazione. È irrilevante, pertanto, che sia mancata la annotazione nell'altro originale del registro destinato al procuratore della Repubblica. In particolare i terzi interessati hanno l'onere di recarsi per prendere conoscenza di come siano stati regolati i rapporti patrimoniali tra i coniugi esclusivamente presso gli uffici del comune di celebrazione, non anche presso gli altri uffici. L'ordinamento dello stato civile — si è evidenziato — prescrive che i registri siano tenuti dall'ufficiale dello stato civile in doppio originale e che un originale sia trasmesso al procuratore della Repubblica per il deposito presso la cancelleria del tribunale per scopi che trascendono quelli della pubblicità. I certificati di cittadinanza nascita, matrimonio e morte sono rilasciati dal comune e non dalla cancelleria del tribunale. L'estratto dell'atto di celebrazione del matrimonio, in particolare è solo quello a firma dell'ufficiale dello stato civile. D'altra parte, se il legislatore avesse voluto una doppia annotazione delle convenzioni matrimoniali ai fini della tutela dei terzi l'avrebbe espressamente prevista e non si sarebbe limitato a imporre al notaio rogante di chiedere l'annotazione all'ufficiale dello stato civile (Cass. 10 luglio 2008, n. 18870). 18. Separazione personale dei coniugi e loro riconciliazione. Effetti ai fini del regime patrimoniale. Rinvio. — Sulla pubblicità della riconciliazione dei coniugi, dopo la loro separazione personale, con cessazione del regime legale di comunione, anteriormente al d.P.R. n. 396 del 2000, Cass. 5 dicembre 2003, n. 18619, infra, sub art. 191 19. Acquisto di un solo bene in regime di separazione da parte di coniugi soggetti alla comunione: convenzione matrimoniale derogatoria del regime. Necessità. — I coniugi in regime patrimoniale di comunione legale, al fine di effettuare l'acquisto anche di un solo bene in regime di separazione (tale essendo l'eventuale acquisizione in comunione ordinaria, che esige un regime di separazione) sono tenuti a previamente stipulare una convenzione matrimoniale derogatoria del loro regime ordinario, ai sensi dell'art. 162, sottoponendola alla specifica pubblicità per essa prevista, non essendo al riguardo viceversa sufficiente una più o meno esplicita indicazione contenuta nell'atto di acquisto, posto che questo non viene sottoposto alla pubblicità delle convenzioni matrimoniali, le quali solo conferiscono certezza in ordine al tipo di regime (patrimoniale) cui sono sottoposti gli atti stipulati dai coniugi (Cass. 24 febbraio 2004, n. 3647, Vita not. 2004, 971). 20. Accordo tra i coniugi per la definizione dei loro rapporti economici, con attribuzione di beni da uno all'altro. Non è una convenzione matrimoniale. — La pattuizione intervenuta tra due coniugi, che abbiano in corso una separazione consensuale, con la quale, al fine di disciplinare i reciproci rapporti economici, uno di essi s'impegni a trasferire gratuitamente all'altro determinati beni, non configura una convenzione matrimoniale ex art. 162, postulante lo svolgimento della convivenza coniugale e il riferimento ad una generalità di beni, anche di futura acquisizione, ma un contratto atipico, con propri presupposti e finalità, soggetto, per la forma, alla comune disciplina e, quindi, se relativo a beni immobili, validamente stipulabile con scrittura privata senza necessità di atto pubblico (Cass. 24 aprile 2007, n. 9863, Giust. civ. 2008, I, 1017). 21. Convenzione matrimoniale che preveda la immediata caduta in comunione dei proventi dell'attività separata. Effetti ai fini Irpef, esclusione. — Indubbiamente il percettore di un reddito può disporre della sua destinazione e, pertanto, il soggetto coniugato può, con apposita convenzione matrimoniale ai sensi dell'art. 162, prevedere che i proventi derivanti dalla attività separata dallo stesso svolta siano immediatamente oggetto di comunione legale tra i coniugi stessi. Lo stesso, peraltro, non può attribuire a tale pattuizione un valore di accertamento costitutivo della imputazione soggettiva della produzione del reddito, trattandosi di un dato oggettivo il cui accertamento è riservato, ai fini della imposizione fiscale, alla amministrazione finanziaria. È evidente, pertanto, che è irrilevante, nei confronti della amministrazione finanziaria (al fine di imputare il reddito stesso ai fini Irpef al 50% a ciascun coniuge) la convenzione matrimoniale con la quale i coniugi hanno previsto che il regime di comunione legale si estenda ai redditi derivanti dalle loro attività separate (Cass. 24 febbraio 2005, n. 3866, Vita not. 2005, 376). L. 19 maggio 1975 n. 151. — Riforma del diritto di famiglia. Art. 228. Le famiglie già costituite alla data di entrata in vigore della presente legge, decorso il termine di due anni dalla detta data, sono assoggettate al regime della comunione legale per i beni acquistati successivamente alla data medesima a meno che entro lo stesso termine uno dei coniugi non manifesti volontà contraria in un atto ricevuto da notaio o dall'ufficiale dello stato civile del luogo in cui fu celebrato il matrimonio. Entro lo stesso termine i coniugi possono convenire che i beni acquistati anteriormente alla data indicata nel primo comma siano assoggettati al regime della comunione, salvi i diritti dei terzi. Gli atti di cui al presente articolo compresi i trasferimenti eventuali e conseguenti di diritti sono esenti da imposte e tasse e gli onorari professionali ad essi relativi sono ridotti alla metà. Essi non possono essere opposti a terzi se non sono annotati a margine dell'atto di matrimonio. Art. 240. La presente legge entra in vigore centoventi giorni dopo la sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale. Bibliografia: COSCIA, Rapporti matrimoniali tra coniugi e compiti dell'ufficiale dello stato civile nel nuovo diritto di famiglia, Amm. it. 1975, 1370; BRUNI, Pubblicità degli atti sui registri dello stato civile, Notaro 1975, 90; SALVO, Le convenzioni matrimoniali nel nuovo diritto di famiglia e gli adempimenti dell'ufficiale di stato civile, ivi 1975, 626; SALVO, La mancata trascrizione del matrimonio contratto all'estero e le implicazioni in ordine al regime patrimoniale nel nuovo diritto di famiglia, ivi 1976, 564; BARBIERI, Disposizioni in materia di regime patrimoniale coniugale. Adempimenti dell'ufficiale di stato civile, ivi 1976, 364 ss.; CHIARDIA, Il regime patrimoniale familiare e adempimenti di stato civile, Stato civ. 1976, 360; BONARDI, Il regime patrimoniale della famiglia e l'ufficiale di stato civile, ivi 1976, 168 ss.; GIACOMINI, Le convenzioni matrimoniali e le annotazioni a margine, Stato civ. it. 1976, 302; FIORE, Il regime patrimoniale del nuovo diritto di famiglia, Nuova rass. 1977, 898; LUCCHESINI, Annotazioni a margine di atto di matrimonio civile relativa alla scelta di cui al comma 2 dell'art. 162, ivi 1977, 657; CACCIN, Il regime dei rapporti patrimoniali tra coniugi e le annotazioni sugli atti di matrimonio, Stato civ. 1977, 331; CACCIN, Ancora sul regime dei rapporti patrimoniali tra coniugi e le annotazioni degli atti di matrimonio, Nuova rass. 1977, 1328; ARENA, Convenzioni matrimoniali. Risultanze emerse. Quadro completo dei compiti dell'ufficiale di stato civile, Stato civ. it. 1977, 323; ID., Le convenzioni matrimoniali previste nel nuovo diritto di famiglia, loro opponibilità, funzione di certificazione, ivi 1978, 199; DOGLIOTTI, Il regime patrimoniale di famiglia, Riv. dir. civ. 1984, II, 198; DOGLIOTTI, Il regime patrimoniale di famiglia, Riv. dir. civ. 1984, II, 198; RAGAZZINI, La revocatoria delle convenzioni matrimoniali, Rimini 1986; RAZZA, Considerazioni in tema di simulazione delle convenzioni matrimoniali, Giur. Merito 1987, 814; MOSCARINI, Convenzioni matrimoniali in generale, La comunione legale, a cura di C.M. BIANCA, Milano 1989, II, 10031032; VITALI, Delle persone e della famiglia, Commentario, Milano, 1990; BERLOCO, Matrimonio di coscienza contenente le dichiarazioni di separazione dei beni, Stato civ. it. 1991, 486; SACCO, sub art. 161, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; GABRIELLI, CUBEDDU, Il regime patrimoniale dei coniugi, Milano, 1997; IEVA, Le convenzioni matrimoniali, Trattato di diritto di famiglia, diretto P. ZATTI, III, Milano 2002, 27 ss.; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale. Il regime patrimoniale della famiglia, II, Milano, 2002; MARCHETTI, Riforma dell'Ordinamento di stato civile e pubblicità dei rapporti coniugali tra i coniugi: importanti novità e problemi irrisolti, Studium Juris 2003, 1289; MINNITI F., MINNITI M., Non sono validi gli atti di rinuncia in deroga al regime di comunione legale, Dir. e giust. 2003, f. 18, 66; OBERTO, I precedenti storici del principio di libertà contrattuale nelle convenzioni matrimoniali, Dir. famiglia 2003, n. 535; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 2003; RUSSO, Le convenzioni matrimoniali, Comm. Schlesinger, Milano, 2004; FAIETA, Ricostituzione della comunione legale per effetto della riconciliazione e tutela dei terzi, Riv. not. 2004, 998; PALADINI, Il « contratto » di esclusione dei beni personali dalla comunione legale, Familia 2006, 449; CARNEVALI, Le convenzioni matrimoniali, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, 2ª ed., Torino, 2007. Sommario: 1. Matrimonio religioso e scelta del regime di separazione dei beni. — 2. Segue: matrimonio religioso, dichiarazione di scelta del regime di separazione dei beni sul retro dell'atto di matrimonio. Validità. — 3. Sottoscrizione da parte dei coniugi di entrambi gli originali dell'atto di matrimonio concordatario, in uno solo dei quali sia presente la dichiarazione di scelta del regime della separazione dei beni. Conseguenze. — 4. Matrimonio religioso non suscettibile di trascrizione o la cui trascrizione sia stata successivamente annullata e… scelta del regime di separazione dei beni. — 5. Regime transitorio: indicazioni di dottrina. — 6. Segue: dichiarazione di esclusione del regime legale rogata il 16 gennaio 1978: annotazione a margine dell'atto di matrimonio. — 7. Segue: domanda di divorzio, anteriormente al 15 gennaio 1978: valida manifestazione di volontà ex art. 228 comma 1 l. 19 maggio 1975 n. 151. — 8. Segue: enunciazioni di inapplicabilità del regime legale in un contratto: irrilevanza. — 9. Segue: trascrivibilità (presso la conservatoria dei rr.ii.) della dichiarazione unilaterale di scelta del regime di separazione dei beni. — 10. Segue: omessa dichiarazione di ripudio del regime di comunione, per i già coniugati al 20 settembre 1975. Conseguenze. — 11. Segue: contratto di locazione stipulato prima dell'entrata in vigore della nuova legge da un solo coniuge e rifiuto di rinnovazione alla scadenza. Onere a carico del locatore. Contenuto. — 12. Segue: art. 228, comma 2, l. n. 151 del 1975. Convenzione relativa: natura. — 13. Conferimento in comunione di beni acquistati prima del matrimonio, ai sensi dell'art. 228, l. 19 maggio 1975 n. 151. Autonomia e facoltà delle parti. Limiti. — 14. Segue: i benefici fiscali: spettanza, limiti. — 15. Segue: rettifica della convenzione: regime fiscale. — 16. Segue: successiva alienazione di beni posti in comunione ai sensi dell'art. 228 l. 19 maggio 1975 n. 151: computo dell'Invim. — 17. Automatica trasformazione in comunione legale di precedente comunione convenzionale: esclusione. — 18. Comunione degli utili e degli acquisti e morte di uno dei coniugi. — 19. La data di entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151. 1. Matrimonio religioso e scelta del regime di separazione dei beni. — Poiché l'art. 162 (così come modificato dall'art. 43 della l. n. 151 del 1975) si limita a parlare di atto di celebrazione del matrimonio, senza significare se tale atto sia solo quello del matrimonio civile, atteso che le parole del legislatore della legge di riforma del diritto di famiglia (ove all'art. 10 si dice che l'atto di matrimonio deve essere compilato immediatamente dopo la celebrazione) sono le stesse di cui alla l. 27 maggio 1929 n. 847 e 24 giugno 1929 n. 1159 (anche in queste, infatti, si dice che l'atto di matrimonio è compilato immediatamente dopo la celebrazione), ciò vuol dire che per l'art. 162 per atto di celebrazione del matrimonio si deve intendere sia quello redatto ai sensi dell'art. 107 c.c. (matrimonio civile), sia quello redatto ai sensi dell'art. 8 l. n. 847 (matrimonio innanzi a ministro di culto cattolico) e dell'art. 9 l. n. 1159 (matrimonio innanzi ai ministri degli altri culti ammessi nello Stato). Ne consegue, per l'effetto, che la scelta del regime della separazione dei beni può essere fatta (oltre che innanzi all'ufficiale di stato civile celebrante), nell'atto di celebrazione del matrimonio concordatario, davanti ad un ministro di culto cattolico o davanti ai ministri dei culti ammessi nello Stato (Trib. Modena 8 aprile 1976, Giur. merito 1977, I, 804; Giur. it. 1977, I, 2, 543; Riv. not. 1977, 194; Dir. eccl. 1977, II, 469; Temi 1977, 321; Trib. Biella 15 marzo 1978, Notaro 1978, 31; Trib. Oristano, 21 dicembre 1978, Foro it. 1979, I, 2746; App. Cagliari 19 gennaio 1979, ivi 1979, I, 2746; App. Cagliari 30 luglio 1980, Giur. it. 1981, I, 2, 722). Nello stesso senso, altresì, una nota del ministero di grazia e giustizia, riportata da GUERRIERI, Legittimità della dichiarazione di scelta del regime della separazione dei beni contenuta nell'atto di matrimonio concordatario. Una nota del ministero di grazia e giustizia, Stato civ. 1977, 530. In dottrina, nello stesso senso: CATTANEO, Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di CARRARO, OPPO, TRABUCCHI, cit., I, 1, 472; CATTANEO, La scelta del regime di separazione innanzi al ministro di culto che celebra il matrimonio, Temi 1977, 321; DI SALVO, Il nuovo diritto di famiglia, cit. 94; MIRABELLI C., Considerazioni ecclesiastiche sulla scelta del regime di separazione dei beni nell'atto di matrimonio, Studi in onore di P.A. D'Avack, Milano 1976, II, 279 ss., in part. 292; OLIVERO, Scelta del regime di separazione dei beni in atto di matrimonio concordatario, Giur. it. 1977, I, 2, 543; PEYROT, Riflessi della riforma del diritto di famiglia sulle celebrazioni nuziali, Dir. eccl. 1976, I, 23 ss., in part. 47; TAMBURRINO, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia italiano, cit. 212, in nota; DEL PASQUA, Le convenzioni matrimoniali, Giur. merito 1979, 792 ss., in part. 799; BERSINI, Matrimonio concordatario e regime di separazione dei beni, Civiltà cattolica 1978, III, 253-264; ZACCARIA, La pubblicità del regime patrimoniale della famiglia: le posizioni della dottrina, Riv. dir. civ. 1980, II, 415 ss., in part. 427; SERMANNI, Scelta del regime di separazione dei beni. Legittimità del sacerdote a ricevere la dichiarazione dei coniugi, Nuova rass. 1981, 950; BORDONALI, La pubblicità del regime patrimoniale della famiglia e l'atto di matrimonio redatto dal sacerdote celebrante, Nuove prospettive per la legislazione ecclesiastica, Atti del II Convegno nazionale di diritto ecclesiastico, Milano 1981, 977 ss., in part. 989; SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, il regime patrimoniale della famiglia, cit., 63-66; M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, cit., 729-732. In senso diverso, è inammissibile una dichiarazione di scelta del regime di separazione dei beni resa innanzi al parroco celebrante: ACQUADERNI, BIGNOZZI, BONOLI, CANDITO, FEROLI, IOSA, MONTANARI, NICOLETTI, L'applicazione pratica delle nuove norme sul diritto di famiglia, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili, Milano 1975, 185 ss., in part. 196; AVANZINI, Forma e modificazioni delle convenzioni matrimoniali, ivi 567 ss., in part. 568; BERRI, Trascrizione del matrimonio canonico e riconoscimento dei figli naturali, Riv. trim. dir. proc. civ. 1976, 1083 ss., in part. 1089; COSCIA, Rapporti patrimoniali tra coniugi e compiti dell'ufficiale di stato civile nel nuovo diritto di famiglia, Amm. it. 1975, 1370; DE PAOLA e MACRÍ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano 1978, 55; DE RUBERTIS, Le convenzioni matrimoniali nel nuovo diritto di famiglia, Dir. famiglia 1976, 1279 ss., in part. 1289-1290; DETTI, Parroco e beni degli sposi, Riv. not. 1976, 585 ss., in part. 586-587 (il quale peraltro, non esclude, in via di probabilità, che possa essere esatta la tesi opposta); GARGANO, La pubblicità nei rapporti patrimoniali tra coniugi nel nuovo diritto di famiglia, Dir. famiglia 1976, 307 ss., in part. 309; GINESI, Il nuovo art. 162 c.c., Notaro 1977, 83; MORETTI, Matrimonio concordatario e scelta del regime di separazione dei beni, Vita not. 1976, 985 ss., in part. 986; ROMANO, La riforma del diritto di famiglia, Amm. it. 1975, 1 ss.; ONIDA, Intervento, Due anni di applicazione della riforma del diritto di famiglia, Dir. famiglia 1979, 298 ss., in part. 385-386. Perché, peraltro, la dichiarazione effettuata davanti al ministro di culto di volere aderire al regime di separazione dei beni sia efficace, è necessario che sia contenuta nell'atto di matrimonio trascritto (Trib. Salerno 4 agosto 2002, Giur. merito 2003, 652). 2. Segue: matrimonio religioso, dichiarazione di scelta del regime di separazione dei beni sul retro dell'atto di matrimonio. Validità. — Connesso al problema esaminato al numero precedente è quello affrontato, e risolto, da App. Cagliari 30 luglio 1980, Giur. it. 1981, I, 2, 721; Riv. not. 1982, II, 80: nella specie, in particolare, la dichiarazione, con cui gli sposi avevano aderito al regime della separazione dei beni, era stata apposta sul retro dell'atto di matrimonio, ma non sottoscritta da parte del sacerdote celebrante, né dai testimoni. La Corte cagliaritana ha ritenuto valida la scelta osservando che la trascrivibilità dell'atto di matrimonio canonico è subordinata al fatto che esso contenga le indicazioni di cui all'art. 9 legge matrimoniale, « mentre le altre condizioni di forma sono, ovviamente, indifferenti per l'ordinamento italiano ». « Ciò comporta — hanno osservato quei giudici — che le eventuali postille non possono essere disciplinate dalla legge italiana e, in particolare, dalla legge notarile, la quale le regola in modo espresso. E poiché neppure le norme canoniche contengono una disciplina ad hoc… in base al principio della libertà delle forme deve attribuirsi efficacia alle postille, ogniqualvolta sia chiaramente desumibile che la postilla faccia parte integrante dell'atto e sia stata apposta al momento della formazione di questo ». In dottrina, in margine a tale pronuncia, ZUDDAS, Considerazioni intorno alla forma della dichiarazione di scelta del regime di separazione dei beni nel matrimonio concordatario, Giur. it. 1981, I, 2, 721, che aderisce alle conclusioni, ultime, cui la stessa perviene ma che osserva come le stesse potevano essere raggiunte anche in forza di un iter argomentativo parzialmente diverso, nonché M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, op. cit., 732733, in nota. 3. Sottoscrizione da parte dei coniugi di entrambi gli originali dell'atto di matrimonio concordatario, in uno solo dei quali sia presente la dichiarazione di scelta del regime della separazione dei beni. Conseguenze. — La previsione normativa della formazione di un doppio originale dell'atto di matrimonio concordatario non configura la fattispecie giuridica dell'atto complesso, ma è dovuta soltanto alla necessità che i coniugi ribadiscano la propria volontà di attribuire, mediante la sottoscrizione dell'originale da trasmettere all'ufficiale dello stato civile, effetti civili al matrimonio celebrato secondo il rito religioso. Ne consegue — si è precisato da parte di un giudice di merito — che, se i coniugi sottoscrivono entrambi gli originali dell'atto, in uno solo dei quali sia presente la dichiarazione di scelta del regime della separazione dei beni, non può dubitarsi che essi abbiano validamente manifestato la loro volontà in tal senso, per cui alla mancanza nell'originale trasmesso all'ufficiale dello stato civile della predetta dichiarazione può ben ovviarsi, quindi, mediante la copia integrale dell'originale compilato dal celebrante ed inserito nei registri parrocchiali, rilasciata dal parroco ed allegata all'istanza, congiunta, dei coniugi di annotazione a margine dell'atto di matrimonio, annotazione cui l'ufficiale dello stato civile può senz'altro provvedere — con efficacia ex nunc, stante la necessità di tutelare l'incolpevole affidamento del terzo — sulla base di tale copia, idonea peraltro ad attestare la volontà dei coniugi in ordine al regime patrimoniale prescelto, come formatasi all'atto della celebrazione delle nozze, senza che occorra, né sia invero possibile, una richiesta di rettificazione dell'atto di matrimonio, prevista solo per la correzione di eventuali errori materiali e per l'eliminazione di omissioni dall'ufficiale dello stato civile (Trib. Piacenza 16 giugno 1995, Dir. famiglia 1996, 186). 4. Matrimonio religioso non suscettibile di trascrizione o la cui trascrizione sia stata successivamente annullata e... scelta del regime di separazione dei beni. — La dichiarazione dei coniugi, in ordine alla scelta del regime patrimoniale, che può essere inserita nell'atto di matrimonio canonico, è collegata a quel matrimonio, nell'ambito del quale essa viene effettuata, da un rapporto di accessorietà. Ne segue, pertanto, che se la trascrizione non può avere luogo, o venga, successivamente, annullata (nella specie, su richiesta del p.m., per essere i coniugi già uniti, tra di loro, con matrimonio civile) come non possono essere riconosciuti effetti civili al matrimonio così è priva di effetti la dichiarazione in ordine alla separazione dei beni, né una tale conclusione in qualche modo in contrasto con il principio costituzionale che riconosce al cittadino cattolico di ottenere un trattamento in materia di libertà religiosa che operi sul terreno anche del diritto patrimoniale (Cass. 19 giugno 2001 n. 8312, Giust. civ. 2002, I, 3201). Sempre nello stesso senso la pronunzia di primo grado emessa in margine alla medesima vicenda, Trib. L'Aquila 10 maggio 1995, Giust. civ. 1996, I, 3289 (con nota adesiva di PARENTE, Nullità della trascrizione del matrimonio concordatario contratto da persona già legate tra loro da matrimonio civile), ove il rilievo, altresì, che è manifestamente inammissibile in quanto trattasi di norma abrogata dall'art. 8 l. 25 marzo 1985 n. 121 la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, l. 27 maggio 1929 n. 847, che vieta la trascrizione nei registri dello stato civile di un matrimonio canonico contratto da persone già coniugate civilmente. 5. Regime transitorio: indicazioni di dottrina. — In dottrina, sull'art. 228 l. 19 maggio 1975 n. 151, tra gli altri: ACQUILECCHIA, Norme finali e transitorie, art. 228, comma 1, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili, cit., 123; ALLEGRETTI, Considerazioni sull'art. 228 l. 19 maggio 1975 n. 151, Mondo giudiz. 1977, 444; ANDOLFI, Formulario per la vendita di autoveicoli redatto alla luce delle disposizioni contenute nella riforma del diritto di famiglia, con particolare riguardo al diritto transitorio, Vita not. 1975, 1170; ANDRINI, Convegno alla fondazione Cini sulla problematica interpretativa dell'art. 228 della l. 151-75, Notaro 1977, 119; ATLANTEGIACOBBE, Ancora l'art. 228 l. 19 maggio 1975 n. 151: nota breve sul primo comma, Riv. not. 1975, 1166; BADINI, Note sull'attività notarile in relazione alla riforma del diritto in famiglia, Notaro 1975, 118, s., in part. 119; BIANCO, Osservazioni sul regime matrimoniale transitorio: il nesso tra il primo ed il secondo comma, ivi 1975, 143; BONIS, Diritto di famiglia. Le esenzioni fiscali di cui all'art. 228 della l. 19 maggio 1975 n. 151, Riv. dir. ipot. 1977, 223; BRACCINI, Osservazioni sulla rilevanza tributaria dei doveri economici familiari, Dir. prat. trib. 1977, I, 1225; CALÍ, La rinuncia all'assistenza dei testimoni nella dichiarazione ex art. 228, comma 1 della l. 19 maggio 1975 n. 151, Notaro 1976, 104; CARRUBBA, Art. 177 c.c. e art. 228 l. 19 maggio 1975 n. 151, riflessioni e considerazioni, Rass. mens. imp. dir. 1977, 912; CORRADINI, La messa in comunione ex art. 228, secondo comma, di alloggio cooperativo con contributo statale, Notaro 1977, 121; CORRADINI, La tassa d'archivio sugli atti ex art. 228 l. n. 151 del 1975, ivi 1977, 119; COSCIA, Decorrenza della comunione legale dei beni nelle disposizioni transitorie della legge di riforma familiare, Amm. it. 1977, 1171; DE PAOLA, MACRÍ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., 345-353; ETTORRE, L'art. 228 e la pubblicità immobiliare, Notaro 1976, 76; M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Riforma del diritto di famiglia, cit., II, 2, 554-585; III, 1089-1114; FLORIO, Riforma del diritto di famiglia. Art. 228, comma 1 della l. 19 maggio 1975 n. 151, Amm. it. 1976, 1485; GABRIELLI, Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di CARRARO, OPPO, TRABUCCHI, cit., II, 20-31; GABRIELLI, SAMPIETRO, Nuove leggi civili 1978, 257; GALLO ORSI, Riflessi dell'art. 228 della l. 19 maggio 1975 n. 151, Vita not. 1975, 1027; GALLO ORSI, Problemi tributari dell'art. 228, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili, cit. 173; GAZZARA, Considerazioni sulla c.d. disciplina transitoria del regime patrimoniale della famiglia, Riv. not. 1977, 468; GIFFONE, Brevi considerazioni sull'art. 228 della l. 19 maggio 1975 n. 151, Notaro 1975, 135; LANTERI, Disposizioni transitorie in tema di rapporti patrimoniali tra coniugi, La riforma del diritto di famiglia ad un anno della sua applicazione, II, cit., 104; MAZZARELLI, La comunione dei beni e le imposte sui redditi: regime ordinario e transitorio, con particolare riguardo ai problemi dell'azienda coniugale, Famiglia: comunione e separazione, cit., II, 215; METITIERI, L'art. 228 della l. 19 maggio 1975 n. 151, Notaro 1976, 77; METITIERI, L'art. 228 della l. 19 maggio 1975 n. 151, un anno dopo, Riv. not. 1976, 1423; MISEROCCHI, Problemi interpretativi dell'art. 228 della l. n. 151 del 1975, Famiglia: comunione e separazione, cit., I, 151; MISEROCCHI, Nuove leggi civili, 1978, 262; PALLARONI, La norma transitoria di esenzione da imposte sui trasferimenti per le famiglie già costituite, possibili riflessi futuri, Famiglia: comunione e separazione, cit., I, 180; ROZ, La nota del ministero delle finanze e l'art. 228 l. n. 151, Notaro 1977, 112; SAYA, Intervento sul regime transitorio, Notaro 1976, 9; SANLEY, L'art. 228, e la tassa d'archivio, ivi 1976, 80; SORVILLO, La disciplina dell'Invim in occasione di trasferimenti di beni compiuti nella comunione tra coniugi, Comm. trib. centr. 1976, II, 913; TAMBURRINO, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia italiano, cit., 265-266; TROMBETTA, La messa in comunione in regime transitorio, art. 228 comma 2, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili, cit., 135; ZICHICHI, La comunione prevista dal comma 2 dell'art. 228 della l. 151. Formule e note, Notaro 1977, 17; ZICHICHI, Il primo comma dell'art. 228 della l. n. 151, Formule e note, ivi 1976, 50; ZOPPIS, La comunione legale dei beni coniugali e l'esenzione fiscale del periodo transitorio avente quale scadenza il 20 settembre 1977, Comm. trib. centr. 1977, II, 705, nonché, FORMA, Dichiarazione di scelta prevista dall'art. 228, comma 1 della l. 19 maggio 1975 n. 151. Conseguenze della non recettività della scelta da parte dell'altro coniuge, Riv. dir. ipotec. 1978, 21. 6. Segue: dichiarazione di esclusione del regime legale rogata il 16 gennaio 1978: annotazione a margine dell'atto di matrimonio. — L'art. 228, comma 1, l. 19 maggio 1975, concedeva termine, a quanti fossero già uniti in matrimonio alla data di entrata in vigore della nuova disciplina, due anni (cioè sino al 20 settembre 1977) per poter derogare al regime legale (in favore di quello della separazione dei beni) a mezzo di dichiarazione unilaterale, del singolo coniuge, resa ad un notaio o all'ufficiale dello stato civile del luogo in cui era stato celebrato il matrimonio. Tale termine venne, successivamente, prorogato, con d.l. 9 settembre 1977 n. 668 (convertito, con modificazioni, con l. 31 ottobre 1977 n. 804) sino al 15 gennaio 1978. Poiché tale ultima data cadeva di domenica è subito sorta questione, in giurisprudenza, se fosse, o meno, annotabile, a margine dell'atto di matrimonio, una dichiarazione, unilaterale, di scelta del regime di separazione, resa da uno dei coniugi il 16 gennaio 1978. In senso negativo si è espresso Trib. Napoli 25 febbraio 1978, con provvedimento inedito poi riformato da App. Napoli 5 aprile 1978 (Vita not. 1978, 210), che ha osservato, tra l'altro, come costituisca principio generale del nostro ordinamento la prorogabilità al successivo giorno non festivo del termine entro il quale un atto deve essere compiuto a pena di decadenza ed ha ordinato, pertanto, all'ufficiale di stato civile competente, di annotare la dichiarazione in questione. Anche Trib. Cassino 14 settembre 1979, Notaro 1979, 85 ss. ha dato risposta positiva al quesito (ordinando all'ufficiale di stato civile la richiesta annotazione) osservando che — giusta quanto ritenuto da Corte cost., 15 giugno 1960 n. 39 — la prorogabilità al giorno successivo non festivo del termine entro il quale un atto deve essere compiuto a pena di decadenza è un principio generale del nostro ordinamento giuridico che « vale anche quando il termine finale è previsto dalla legge con riferimento ad una data prestabilita, essendo la conseguenziale anomalia comunque sussistente per avere la legge stabilito come ultimo un giorno in realtà non utilizzabile in quanto festivo ». In dottrina, isolatamente nel senso che il termine de quo non fosse perentorio o, comunque, la sua inosservanza non potesse essere rilevata d'ufficio, ma solo ad istanza di parte (id est dell'altro coniuge, trattandosi di un termine di decadenza relativo a diritti non indisponibili), GABRIELLI, Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo, Trabucchi, cit., II, 25. Per una critica di tale conclusione, M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, cit., 2487-2488 in nota. 7. Segue: domanda di divorzio, anteriormente al 15 gennaio 1978: valida manifestazione di volontà ex art. 228 comma 1 l. 19 maggio 1975 n. 151. — Se uno dei coniugi, nel biennio tra il 20 settembre 1975 ed il 15 gennaio 1978 ha proposto domanda di scioglimento del matrimonio, deducendo uno stato di separazione di fatto, risalente ad almeno due anni prima dell'entrata in vigore della l. 1 dicembre 1970 n. 898, lo stesso — si è osservato in sede di legittimità — ha ritualmente manifestato, a norma dell'art. 228, comma 1, l. 19 maggio 1975 n. 151, una volontà contraria all'instaurarsi, tra le parti, del regime di comunione legale, per i beni acquistati successivamente al 20 settembre 1975 (Cass. 7 maggio 1987 n. 4235, Giust. civ. 1987, I, 2552; Foro it. 1987, I, 2051; Giur. it. 1988, I, 1, 1195). In dottrina, in termini critici, in margine a tale affermazione, A. FINOCCHIARO, Art. 228 l. 19 maggio 1975 n. 151 e rifiuto implicito del regime di comunione, Giust. civ. 1987, I, 2560, che osserva, tra l'altro, come la norma positiva (art. 228, comma 1, l. n. 151 del 1975) non riteneva che qualsiasi dichiarazione contraria al sorgere del regime di comunione legale, purché portata a conoscenza dell'altro coniuge e annotata nei registri dello stato civile, fosse idonea ad escludere il sorgere di tale regime, ma solo la « dichiarazione » avente i requisiti di forma imposti dalla legge stessa. Sempre criticamente AMATO, Mutamento del regime patrimoniale della famiglia e disciplina transitoria di cui all'art. 228, l. 19 maggio 1975 n. 151, Giur. it. 1988, I, 1, 1195. Adesivamente, peraltro, in margine alla stessa pronuncia, CARUSO, Foro it. 1987, I, 2051, che, peraltro, pur evidenziando come la soluzione adottata dalla S.C. è « fornita di adeguato supporto formale » ed « è certo soddisfacente da un punto di vista equitativo », dall'altro non può tacere « resta però il sapore di un escamotage, inteso ad allargare le maglie di un sistema che imponeva invece rigidamente, a chi volesse impedire l'attivarsi automatico del regime legale di comunione, di dare veste giuridica al disastro coniugale ». 8. Segue: enunciazioni di inapplicabilità del regime legale in un contratto: irrilevanza. — Atteso che in relazione alle famiglie già costituite alla data di entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151, l'esclusione del regime della comunione legale, per i beni acquistati successivamente alla data predetta, postulava una specifica dichiarazione negoziale che doveva risultare da apposito atto — da annotare a margine dell'atto di matrimonio — ricevuto da notaio o dall'ufficiale di stato civile del luogo di celebrazione del matrimonio, si è affermato, in sede di legittimità, che tale esclusione (del regime legale) non può derivare da una mera enunciazione di inapplicabilità del nuovo regime contenuta in un contratto di compravendita, ancorché stipulato per atto notarile (Cass. 19 maggio 1988 n. 3483). 9. Segue: trascrivibilità (presso la conservatoria dei rr.ii.) della dichiarazione unilaterale di scelta del regime di separazione dei beni. — Per l'art. 228 l. n. 151 del 1975, comma 3, gli atti ivi previsti (e, cioè, la dichiarazione di rifiuto del regime legale, resa da quanti erano già uniti in matrimonio alla data di entrata in vigore della nuova normativa entro il c.d. « biennio bianco » e le convenzioni per la « messa in comunione » di beni acquistati anteriormente da costoro) « non possono essere opposti a terzi se non sono annotati a margine dell'atto di matrimonio »: poiché l'art. 2647 (sub art. 206 l. n. 151 del 1975) dispone che « devono essere trascritti, se hanno per oggetto beni immobili »… « le convenzioni matrimoniali che escludono i beni medesimi dalla comunione tra i coniugi », è sorta questione, in dottrina e in giurisprudenza, se le dichiarazioni di cui al primo comma del citato art. 228 siano, o meno, soggette a trascrizione. In senso negativo si è pronunciato, al riguardo, Trib. Padova 18 novembre 1975 (Riv. dir. ipotec. 1976, 130, con osservazione critica di CANTONE, e su cui altresì, sempre in senso critico, BONIS, Diritto di famiglia. Una sentenza che non fa primavera, ibidem, 175) in senso positivo Trib. Palermo 28 luglio 1978, ivi 1979, 81, con osservazione adesiva di CANTONE. Nella fattispecie all'esame dei giudici palermitani si chiedeva la trascrizione della dichiarazione di esclusione del regime legale (rogata il 12 gennaio 1978) in relazione ad un acquisto (immobiliare) eseguito da uno solo dei coniugi il 21 dicembre 1976: il tribunale « ritenuto che, nel menzionare le convenzioni matrimoniali che escludono beni immobili dalla comunione tra coniugi il legislatore ha voluto riferirsi, nell'art. 2647 …. non soltanto alle convenzioni di separazione, ma anche alle dichiarazioni unilaterali o bilaterali di cui al primo comma dell'art. 228 della legge di riforma del diritto di famiglia, che questa interpretazione estensiva della norma non è preclusa dalla disposizione del terzo comma dell'art. 228 della legge …, perché uguale disposizione è contenuta nell'art. 162 c.c. …., relativamente all'opponibilità a terzi di tutte le convenzioni matrimoniali, le quali devono essere trascritte a norma dell'art. 2647 c.c. » ha ordinato la trascrizione. In dottrina, in senso diverso, e, in particolare, per l'affermazione che « le convenzioni matrimoniali che escludono … beni … dalla comunione tra coniugi » (e che ai sensi dell'art. 2647 devono essere trascritte nei R.I.) « sono solo quelle con le quali i coniugi attuino un regime di comunione convenzionale, parzialmente derogativo della comunione legale, e non già anche le convenzioni con le quali si opta per il regime della separazione », M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, cit., II, 2439-2448. In quest'ultimo senso, altresì, tra gli altri, DE PAOLA e MACRÍ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano 1978, 328 e 336-337; GHIRETTI, Pubblicità degli atti che danno vita al regime di separazione dei beni, Notaro 1978, 30-31; L. FERRI, Aggiornamento sulla base della legge di riforma del diritto di famiglia, Commentario del codice civile, a cura di SCIALOJA e BRANCA, Bologna-Roma 1976, 85; ANDRINI, Ancora sulla pubblicità del regime patrimoniale tra coniugi, Notaro 1978, 121. Contra (e, in particolare, nel senso che la convenzione di scelta del regime di separazione deve essere trascritta al momento dell'acquisto di un bene immobile da parte di uno dei coniugi), BONIS, La nuova disciplina della pubblicità immobiliare con la riforma del diritto di famiglia, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili, cit., 301; MORELLO, Alcuni argomenti di pubblicità dopo la l. n. 151, ivi, 336; MISEROCCHI, Riflessi sulla pubblicità immobiliare della riforma del diritto di famiglia, ivi 581; NOLI, Pronuncia del presidente del tribunale di Palermo sulla pubblicità delle dichiarazioni ex art. 228, comma 1 della l. n. 151 del 1975, Notaro 1978, 94. 10. Segue: omessa dichiarazione di ripudio del regime di comunione, per i già coniugati al 20 settembre 1975. Conseguenze. — Per le famiglie già costituite alla data di entrata in vigore delle nuove norme (20 settembre 1975), ove entro il 15 gennaio 1978 nessuno dei coniugi, nelle forme che in precedenza si sono esaminate, abbia manifestato « volontà contraria al regime di comunione », il regime legale è operativo con decorrenza dal 20 settembre 1975. Sono, cioè, oggetto di comunione non solo gli acquisti compiuti successivamente al 15 gennaio 1978, ma anche quelli successivi al 20 settembre 1975 (Cass. 10 aprile 1979 n. 2045; Vita not. 1979, 1073), purché, ovviamente, il coniuge che ne era esclusivo titolare non li abbia, medio tempore, alienati a terzi (Trib. Napoli 16 giugno 1979, Dir. giur. 1981, 680, con nota adesiva di DE RUBERTIS, Problemi di diritto transitorio in tema di rapporti patrimoniali tra persone già coniugate all'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151), e sempre che creditori del coniuge acquirente non abbiano già iniziato azioni esecutive alla data del 15 gennaio 1978 (Trib. Napoli 16 giugno 1979, cit.). Con riguardo a famiglia costituita prima della data di entrata in vigore della legge n. 151 del 1975, sulla riforma del diritto di famiglia, e rispetto ai beni acquistati da uno dei coniugi dopo tale data e prima del termine assegnato per l'espressione di una volontà contraria al regime di comunione legale (15 gennaio 1978), pertanto: — a partire da detta scadenza, in mancanza di quella volontà contraria, si verifica ex nunc il regime di comunione legale, senza che possa avere alcuna influenza, sul descritto regime, uno stato di separazione legale tra coniugi ove lo stesso risulti superato da una riconciliazione intervenuta in epoca precedente alla scadenza medesima (Cass. 23 febbraio 1993 n. 2221, Dir. famiglia 1993, 989; Giur. it. 1993, I, 1, 2084); — i beni in questione, in particolare, sono caduti in comunione il 16 gennaio 1978 nello stato materiale e giuridico in cui si trovavano (nella specie, nel 1976 il marito, fallito nel 1979, aveva acquistato un suolo, sul quale, nel 1977, aveva costruito un edificio) (Cass. 25 luglio 1997 n. 6954, Foro it. 1998, I, 893; Fallimento 1998, 679 con nota di FIGONE; Dir. fall. 1998, II, 870 con nota di RAGUSA MAGGIORE). Tale lettura del testo positivo, occorre avvertire, non era affatto pacifica, tra i primi interpreti della nuova normativa. Da parte di alcuni, infatti, si osservava che dovevano considerarsi oggetto di comunione unicamente gli acquisti, compiuti dai coniugi, successivamente al termine del c.d. « biennio bianco » (così, ad esempio, BAGNOLI, Esame d'insieme della nuova normativa, Notaro 1975, 89) mentre altri opponevano che i beni acquistati successivamente al 20 settembre 1975 cadevano immediatamente in comunione, salvo ad uscirne ove uno dei coniugi avesse reso dichiarazione contraria alla volontà dell'instaurarsi del regime legale (così, tra gli altri, ATLANTE, GIACOBBE, Ancora sull'art. 228 l. 19 maggio 1975 n. 151: nota breve sul comma 1, Riv. not. 1975, 1166 ss., in part. 1172). Diversamente, nel senso ora fatto proprio dalla S.C., tra gli altri, M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, II, 556-566, e in precedenza, Id., Riforma del diritto di famiglia, II, 2, 556566 ove ampie indicazioni bibliografiche. Occorre avvertire, peraltro che i beni acquistati dai coniugi in comunione ordinaria tra loro (artt. 1100 ss.) prima della riforma del diritto di famiglia, dunque in regime legale di separazione dei beni, non entrano nella comunione legale, ma restano in comunione ordinaria, qualora i coniugi non abbiano stipulato l'accordo previsto dall'art. 228 comma 2 l. n. 151 del 1975 (Cass. 1 marzo 1991 n. 2183, Giur. it. 1992, I, 1, 295). Con riguardo a preliminare di vendita stipulato da uno soltanto dei coniugi, la circostanza che il bene promesso ricada nella comunione legale tra i coniugi, in base alla sopravvenienza della l. 19 maggio 1975 n. 151 ed ai sensi dell'art. 228 di tale legge, non implica la risoluzione del contratto, né la liberazione del promittente venditore, il quale, pertanto, resta obbligato al trasferimento, ovvero, se questo non sia possibile, al risarcimento del danno (Cass. 5 giugno 1992 n. 6954). 11. Segue: contratto di locazione stipulato prima dell'entrata in vigore della nuova legge da un solo coniuge e rifiuto di rinnovazione alla scadenza. Onere a carico del locatore. Contenuto. — Gli acquisti che ai sensi dell'art. 177 comma 1 lett. a) sono sottoposti al regime di comunione legale dei beni tra coniugi, pur se derivanti da atti stipulati da uno solo di essi, sono soltanto quelli successivi all'entrata in vigore (20 settembre 1975) della riforma del diritto di famiglia e purché manchi la volontà contraria, prevista dall'art. 228 comma 1 della l. 19 maggio 1975 n. 151. Pertanto il locatore che non intenda rinnovare alla scadenza un contratto stipulato prima della predetta legge con un solo coniuge, non ha alcun onere di intimare la licenza per finita locazione all'altro coniuge, che rimane estraneo al contratto e perciò alla fattispecie sono inapplicabili sia l'art. 180 comma 2 sia l'art. 184 (Cass. 15 novembre 1996 n. 10016). 12. Segue: art. 228, comma 2, l. n. 151 del 1975. Convenzione relativa: natura. — In forza dell'art. 228, comma 2, l. 19 maggio 1975 n. 151, quanti erano già coniugati alla data di entrata in vigore delle nuove norme potevano convenire, entro il 15 gennaio 1978 « che i beni acquistati anteriormente alla data indicata nel comma 1 siano assoggettati al regime della comunione, salvi i diritti dei terzi ». Tale previsione — si è osservato da parte di un giudice di merito — integra un mero atto di adesione dei coniugi al sopravveniente regime patrimoniale legale e, al più, una scelta di tale regime, nella parte in cui, con riferimento ai beni già posseduti, ne estende retroattivamente l'operatività, ma non costituisce, affatto, una convenzione patrimoniale, la quale, invece, ricorre ogni qualvolta i coniugi pongono in essere un accordo, di natura sostantiva circa la futura regolamentazione dei rapporti patrimoniali, al di fuori o in termini diversi rispetto ad un regime legalmente precostituito o, quantomeno, in modifica di un precedente accordo (Trib. Reggio Emilia 17 dicembre 1984, Riv. not. 1985, 440). I coniugi che, a seguito dell'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151, abbiano convenzionalmente esteso il regime di comunione, avvalendosi del disposto della norma transitoria di cui al comma 2 dell'art. 228 della medesima legge, ai beni dei quali avevano la proprietà individuale anteriormente al sopravvenuto mutamento del regime patrimoniale della famiglia, rimangono, anche quando con la detta convenzione abbiano manifestato contraria volontà, nella proprietà individuale di quei beni che, ai sensi dell'art. 179, sono personali e, quindi esclusi dalla comunione legale cui esclusivamente si riferisce la succitata norma transitoria, senza che possa farsi luogo, attesa la nullità della convenzione in parte qua, all'applicazione al suo riguardo del principio della conservazione ex art. 1367 c.c. (Cass. 24 novembre 1992 n. 12531). Regime transitorio: accordo per rendere comuni i beni personali anteriori al matrimonio. — I coniugi uniti in matrimonio prima dell'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151, e che, con apposita convenzione, abbiano deciso di ricomprendere nella comunione legale tutti i loro beni, ivi compresi quelli personali acquistati prima del matrimonio, hanno stipulato un atto che è da ritenere estraneo alla fattispecie tipica prevista dall'art. 228, comma 2, della legge n. 151 del 1975, e che, tuttavia, è valido poiché manifesta la volontà di dare vita ad una comunione convenzionale — istituto previsto dall'art. 210 c.c. (esercitando una facoltà che solo arbitrariamente avrebbe potuto essere esclusa per le famiglie già costituite) (Cass. 28 agosto 2008 , n. 21786). 13. Conferimento in comunione di beni acquistati prima del matrimonio, ai sensi dell'art. 228, l. 19 maggio 1975 n. 151. Autonomia e facoltà delle parti. Limiti. — La disposizione dell'art. 228 comma 2 l. 19 maggio 1975 n. 151, consente che i coniugi assoggettino alla comunione legale soltanto alcuni dei beni da ciascuno di essi acquisiti durante il matrimonio ed anteriormente alla data di entrata in vigore di detta legge (20 settembre 1975), in quanto la norma non prescrive in alcun modo che l'indicata convenzione tra i coniugi debba essere universale, né l'obbligo che essa abbia ad oggetto tutti i predetti beni può desumersi dalle regole proprie dell'istituto della comunione legale tra coniugi, le quali ammettono e presuppongono la validità di pattuizioni che escludono taluni beni dalla comunione medesima (artt. 210 e 2647) (Cass. 18 maggio 1994 n. 4887, Giust. civ. 1995, I, 1621; Giur. it. 1995, I, 1, 1066: affermando tali principi, la S.C. ha confermato la decisione di merito, la quale ha riconosciuto la validità dell'atto notarile con cui il marito aveva conferito in comunione legale solo alcuni degli immobili da lui singolarmente acquistati prima dell'entrata in vigore della legge n. 151 del 1975). In dottrina, in margine a tale pronunzia, adesivamente, S. CIAVATTONE, Convenzioni matrimoniali nel regime transitorio, Giust. civ. 1995, I, 1624; in termini critici, R. DE MICHELI, Ambito di applicabilità della convenzione ex art. 228, comma 2, della l. 19 maggio 1975 n. 151, Giur. it. 1995, I, 1, 1065. Per una diversa lettura dell'art. 228, comma 2, l. 19 maggio 1975 n. 151 in contrasto con la giurisprudenza anteriore Cass. 24 novembre 1992 n. 12531, Giust. civ. 1994, I, 239; Dir. famiglia 1993, 480 secondo cui è nulla, per impossibilità dell'oggetto, la convenzione stipulata dai coniugi con la quale gli stessi, avvalendosi del disposto di cui all'art. 228, comma 2, l. 19 maggio 1975 n. 151, abbiano convenzionalmente esteso il regime di comunione ai beni acquistati anteriormente al loro matrimonio (con la conseguenza, pertanto, che ove i coniugi, a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 151 del 1975, abbiano convenzionalmente esteso il regime di comunione legale, avvalendosi della norma transitoria di cui all'art. 228 comma 2 della medesima legge, ai beni dei quali avevano la proprietà individuale anteriormente al sopravvenuto mutamento del regime patrimoniale della famiglia, tali beni rimangono, anche quando con la predetta convenzione abbiano manifestato volontà contraria, nella proprietà individuale dei singoli coniugi, qualora si tratti di beni personali ai sensi dell'art. 179, e, quindi, esclusi dalla comunione legale cui esclusivamente si riferisce l'art. 228, senza che possa farsi luogo, attesa la nullità della convenzione in parte qua, all'applicazione della regola della conservazione del negozio prevista dall'art. 1367). 14. Segue: i benefici fiscali: spettanza, limiti. — Al conferimento in comunione convenzionale del bene acquistato da uno dei coniugi anteriormente al matrimonio ed all'entrata in vigore della l. n. 151 del 1975, poiché il bene predetto non ricade nella comunione legale, non sono applicabili i benefici fiscali previsti dall'art. 228 comma 3 di tale legge, atteso che il regime transitorio della comunione legale non può essere difforme dal regime definitivo, per cui l'agevolazione in questione, per la sottoposizione alla comunione dei beni acquistati prima dell'entrata in vigore della legge può riguardare soltanto i beni che sarebbero oggetto di comunione secondo la legge sopravvenuta; così restando pertanto esclusi dall'agevolazione i beni acquistati individualmente prima del matrimonio (Cass. 13 luglio 1994 n. 6564, Rass. avv. Stato 1994, I, 559; Boll. trib. 1995, 470, con nota di G. AIELLO, La comunione legale dei beni tra coniugi. Sempre nello stesso senso, Cass. 3 agosto 1994 n. 7206, Giust. civ. 1994, I, 3076; Vita not. 1994, 641 con nota critica di M. FINOCCHIARO, Ancora una nuova interpretazione dell'art. 228, secondo comma della legge 19 maggio 1975 n. 151, da parte della Cassazione; Dir. famiglia 1995, 132, nonché Boll. trib. 1995, 470, con la già ricordata nota di G. AIELLO). Sempre in questo senso, ma in forza di un iter argomentativo parzialmente diverso in altra occasione la S.C. ha affermato, altresì, che la disposizione dettata dal comma 2 dell'art. 228 della l. n. 151 del 1975 riguarda unicamente il potere dei coniugi di mettere in comunione beni acquistati da uno solo di essi prima dell'entrata in vigore della citata legge di riforma del diritto di famiglia, ma pur sempre in costanza di matrimonio. Ne consegue che il conferimento in comunione convenzionale dell'acquisto effettuato da uno dei coniugi anteriormente al matrimonio e prima dell'entrata in vigore della l. n. 151 del 1975, in quanto non rientra nella comunione legale, non può godere dei benefici fiscali previsti dall'art. 228 comma 3 dello stesso provvedimento normativo (Cass. 12 aprile 1996 n. 3481, Famiglia e diritto 1996, 473, non diversamente, Cass. 11 aprile 1996 n. 3430, Riv. giur. edilizia 1996, I, 757; Corr. trib. 1996, 2107). Sempre con riguardo alle convenzioni, con le quali i coniugi, che hanno contratto matrimonio avanti il 20 settembre 1975, assoggettano a comunione convenzionale i beni da loro acquistati anteriormente al matrimonio, gli stessi — come evidenziato — non possono godere dei benefici fiscali previsti dal comma 3 dell'art. 228 l. 19 maggio 1975 n. 151, posto anche che la disposizione dettata nel precedente comma 2 ha per unico oggetto la disciplina del potere dei coniugi di mettere in comunione legale i soli beni acquistati da uno solo di essi prima dell'entrata in vigore della legge di riforma del diritto di famiglia, ma pur sempre in costanza di matrimonio (Cass., sez. un., 18 febbraio 1999 n. 77, Giust. civ. 1999, I, 963; Famiglia e diritto 1999, 221, con nota informativa di R. CARAVAGLIOS, Rapporti patrimoniali tra coniugi. Beni acquistati anteriormente l'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151). Sempre in margine all'art. 228, comma 2, l. 19 maggio 1975 n. 151, in altra occasione, la S.C. — sempre nello stesso ordine di idee della pronunzia sopra richiamata — ha affermato, altresì, che le convenzioni in questione, da stipularsi entro il termine del 15 gennaio 1978, potevano avere ad oggetto soltanto beni post nuziali, cioè i soli beni acquistati dai coniugi prima dell'entrata in vigore della l. n. 151 del 1975, ma pur sempre in costanza di matrimonio, con la conseguenza, pertanto, che qualora, per errore, un immobile, acquistato anteriormente al matrimonio, fosse stato inserito nella convenzione, allo stesso non può comunque estendersi il regime della comunione legale, e rimane, quindi, personale del singolo coniuge (Cass. 22 febbraio 2000 n. 1973). In termini opposti la giurisprudenza della Commissione tributaria centrale. Ad esempio, nel senso che l'art. 228 comma 3 della l. 19 maggio 1975 n. 151 non pone alcuna distinzione tra i beni acquistati anteriormente al matrimonio e quelli acquistati in epoca successiva, pertanto il regime di esenzione previsto per i conferimenti in comunione riguarda indistintamente tutti i beni conferiti purché acquistati dai coniugi anteriormente alla data di entrata in vigore della legge medesima, Comm. trib. centr., sez. II, 15 marzo 1993 n. 1226, Riv. dir. trib. 1993, II, 620. 15. Segue: rettifica della convenzione: regime fiscale. — L'atto con il quale, a rettifica della convenzione di assoggettamento dei beni al regime di comunione legale, stipulato ai sensi dell'art. 228, comma 2, l. 19 maggio 1975 n. 151, si esclude dalla comunione stessa un bene che ne era escluso a norma dell'art. 179 comma 1 lett. a), perché acquisito da uno dei coniugi prima del matrimonio, è tassabile con l'imposta fissa di registro di cui all'art. 27 comma 2 d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 634 (Comm. trib. centr., sez. XXIII, 4 maggio 1992 n. 3222, Comm. trib. centr. 1992, I, 324). 16. Segue: successiva alienazione di beni posti in comunione ai sensi dell'art. 228 l. 19 maggio 1975 n. 151: computo dell'Invim. — Come osservato sopra, sia la convenzione prevista dal comma 2, dell'art. 228, l. n. 151 del 1975, sia la dichiarazione unilaterale di cui al comma 1 dello stesso art. 228, sia « i trasferimenti eventuali e conseguenti di diritti », connessi con l'attuazione delle facoltà concesse ai già coniugati alla data di entrata in vigore della nuova disciplina dai commi 1 e 2 dell'art. 228, erano « esenti da imposte e tasse e gli onorari professionali ad essi relativi » erano « ridotti alla metà » (l. 19 maggio 1975 n. 151, art. 228, comma 3). Si è ritenuto, per l'effetto, in giurisprudenza, in applicazione di tale ultimo principio, che nella vendita di un bene immobile, originariamente di proprietà di un coniuge e successivamente caduto in comunione legale per effetto di convenzione ai sensi del citato comma 2 dell'art. 228 l. n. 151 del 1975, il valore iniziale, ai fini dell'Invim, della quota acquistata dall'altro coniuge, va riferito alla data di stipulazione della convenzione (e non alla data di acquisto del bene da parte del coniuge-originario proprietario esclusivo dello stesso) (Comm. trib. 1° grado Macerata 20 febbraio 1980, Vita not. 1980, 946. Nello stesso senso, Comm. trib. prov.le Milano 16 maggio 1994, Foro it. 1995, III, 580). Benché la dottrina fosse pressoché pacifica nel senso ora affermato dalla sopra ricordata decisione (per tutti cfr. ERRICO, Cessioni ai sensi dell'art. 228. Rilevanza dell'Invim, Notaro 1975, 144; FINOCCHIARO M., Diritto di famiglia, II, 2510 ss.; SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia, Torino 1983, 42, ma contra, per tutti, FANTOZZI, Comunione dei beni dei coniugi e dichiarazione dei redditi, Riv. not. 1977, 1051 ss., in part. 1052) deve evidenziarsi che tale conclusione era decisamente contrastata dal Ministero delle finanze (Risoluzione 15 luglio 1976 n. 4/4515, Vita not. 1976, 972) sul rilievo che la convenzione di cui al comma 2 dell'art. 228 cit., non fosse una convenzione matrimoniale, né un negozio giuridico, ma « un mero atto giuridico cui la legge ricollega automaticamente l'effetto di rendere comuni i beni che ne sono oggetto fin dal momento in cui essi, per la prima volta, sono entrati a far parte del patrimonio familiare » (con la conseguenza, pertanto, che in caso di vendita, ai fini dell'accertamento del valore iniziale, occorre far riferimento all'epoca dell'acquisto del cespite da parte del coniuge originario proprietario). 17. Automatica trasformazione in comunione legale di precedente comunione convenzionale: esclusione. — Il passaggio dal vecchio al nuovo regime patrimoniale tra i coniugi (art. 228, l. n. 151 del 1975), che individua nella comunione il sistema legale preferenziale, in assenza di un diverso regime convenzionale, non prevede automatismi volti a modificare il regime dei beni acquistati prima della data del 15 gennaio 1978 (termine così modificato dall'art. 1 del d.l. n. 688 del 1977), ma subordina alla concorde volontà delle parti il nuovo assetto. Pertanto la precedente comunione convenzionale, che sussista tra i coniugi al riguardo di un bene, non si trasforma in comunione legale, ma continua ad essere disciplinata dagli artt. 110 ss. ove non venga posta in essere la convenzione prevista dall'art. 228 cit. e così manifestata una specifica volontà dei coniugi. (Nella specie è stata esclusa, ai fini della proposizione della domanda di divisione di una comunione convenzionale instaurata prima del 15 gennaio 1978, la necessità di una previa sentenza definitiva di separazione) (Cass. 1 marzo 1991 n. 2183, Giust. civ. 1991, I, 1734). 18. Comunione degli utili e degli acquisti e morte di uno dei coniugi. — Vigendo, tra i coniugi, il regime della comunione degli utili e degli acquisti nella specie: in forza di convenzione stipulata il 23 marzo 1920, sotto il vigore del c.c. del 1865) — si è affermato da parte di un giudice di merito —, venuta a morte la moglie, non sussiste, a carico del marito, né ex art. 216 (testo originario), né ex art. 184 e 192 (testo vigente) c.c., l'obbligo di rendere il conto all'erede della defunta degli atti di amministrazione, anche straordinaria, compiuti in via esclusiva in costanza di vita matrimoniale (Trib. Catania 29 marzo 1990, Giust. civ. 1990, I, 2159; Stato civ. it. 1991, 911). 19. La data di entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151. — Problema variamente risolto dalla dottrina, e dalla giurisprudenza, sino alla l. 31 ottobre 1977 n. 804 (che ha convertito in legge il d.l. 9 settembre 1977 n. 688, concernente proroga del termine previsto dall'art. 228 della l. 19 maggio 1975 n. 151 e che ha precisato, in sede di interpretazione autentica, che la l. n. 151 del 1975 è entrata in vigore il 20 settembre 1975) riguardava la data stessa in cui la nuova normativa sul diritto di famiglia fosse entrata in vigore. In particolare mentre Cass. 11 marzo 1976 n. 852 (Giust. civ. 1976, I, 1469) aveva precisato che la nuova normativa era entrata in vigore il 28 settembre 1975, Trib. Bergamo 2 ottobre 1975 (Giust. civ. 1976, I, 141) aveva fissato tale data nel 20 settembre 1975. In dottrina, nel senso che la nuova normativa sia entrata in vigore il 20 settembre 1975, tra gli altri: ANDRIOLI, Foro it. 1975, V, 158; GABRIELLI, Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di CARRARO, OPPO, TRABUCCHI, cit., II, 55; METITIERI, La data dell'entrata in vigore della l. n. 151, Notaro 1976, 77-78; SCHLESINGER, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., 71. Diversamente, per l'affermazione che la legge de qua, era entrata in vigore 120 giorni dopo la sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, avvenuto il 23 maggio 1975, e, quindi, il 21 settembre 1975, tra gli altri: ACQUADERNI, VIGNOZZI, BONOLI, CANDITO, FERIOLI, IOSA, MONTANARI, NICOLETTI, L'applicazione pratica delle nuove norme sul diritto di famiglia da parte dei notai, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili, cit., 185 ss., in part. 186; DE FELICE, La data di entrata in vigore della l. n. 151-75, Notaro 1976, 86-87; M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Riforma del diritto di famiglia, cit., II, 2, 594; SAJA, Intervento sul regime transitorio, Notaro 1976, 9. Art. 163. Modifica delle convenzioni. Le modifiche delle convenzioni matrimoniali, anteriori o successive al matrimonio, non hanno effetto se l'atto pubblico non è stipulato col consenso di tutte le persone che sono state parti nelle convenzioni medesime, o dei loro eredi. Se uno dei coniugi muore dopo aver consentito con atto pubblico alla modifica delle convenzioni, questa produce i suoi effetti se le altre parti esprimono anche successivamente il loro consenso, salva l'omologazione del giudice. L'omologazione può essere chiesta da tutte le persone che hanno partecipato alla modificazione delle convenzioni o dai loro eredi. Le modifiche convenute e la sentenza di omologazione hanno effetto rispetto ai terzi solo se ne è fatta annotazione in margine all'atto del matrimonio. L'annotazione deve inoltre essere fatta a margine della trascrizione delle convenzioni matrimoniali ove questa sia richiesta a norma degli articoli 2643 e seguenti. Bibliografia: Sul nuovo art. 163, in dottrina: ATTARDI, Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di CARRARO, OPPO, TRABUCCHI, cit., I, 2, 955 (per gli aspetti processuali della norma); BELLANTONI e PONTORIERI, La riforma del diritto di famiglia, cit., 106-107; DE PAOLA e MACRÍ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., 66-68; M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, cit., I, 770-777; MAZZOCCA, I rapporti patrimoniali tra coniugi nel nuovo diritto di famiglia, cit., 38-39; SACCO, Commentario alla riforma del diritto di famiglia, cit., I, 1, 337-338; TAMBURRINO, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia italiano, cit., 214; SACCO, Commentario di diritto italiano della famiglia, cit., 36-37; CORSI, La modificazione delle convenzioni matrimoniali, Riv. not. 1980; MARMOCCHI, Modifica delle convenzioni matrimoniali, Riv. not. 1981, I; SACCO, sub art. 163 c.c., Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 159-230, Bologna-Roma, 2003; RUSSO, Le convenzioni matrimoniali, Comm. Schlesinger, Milano, 2004; CARNEVALI, Le convenzioni matrimoniali, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, 2ª ed., Torino, 2007. Sommario: 1. Individuazione delle convenzioni modificative. — 2. Modificabilità delle convenzioni matrimoniali e « fondo patrimoniale ». 1. Individuazione delle convenzioni modificative. - La modifica di convenzione matrimoniale, giacché costituisce essa stessa una nuova convenzione, è assoggettata alle stesse regole previste dall'art. 162 c.c. La Corte di Cassazione ha escluso che integri una convenzione modificativa di convenzione matrimoniale quella con cui i coniugi procedono alla divisione dei beni comuni (o di un singolo bene), sia che questa avvenga mediante l'attribuzione ad uno dei coniugi dell'intero bene e all'altro dell'equivalente pecuniario del valore della quota, sia che si proceda alla liquidazione del valore del cespite con alienazione a terzi e conseguente distribuzione del ricavato pro quota. Ne ha fatto conseguire che la divisione non è soggetta alla forma, solenne, dell'atto pubblico indispensabile per la stipulazione di « convenzioni matrimoniali » (Cass. 11 novembre 1996, n. 9846, nonché Cass. 28 novembre 1996, n. 10586, Foro it. 1997, I, 95, che ha escluso, altresì, l'applicabilità, nella specie, dell'art. 191, comma 2, relativo all'ipotesi di estromissione del cespite azienda da un regime di comunione in atto). Sarebbe, invece, convenzione modificativa, l'atto con il quale i coniugi trasformano un patrimonio familiare in fondo patrimoniale (Trib. Napoli 13 maggio 1996). 2. Modificabilità delle convenzioni matrimoniali e « fondo patrimoniale ». — La regola generale che prevede la modificabilità delle convenzioni matrimoniali è applicabile al fondo patrimoniale (Trib. Vicenza 10 giugno 1985, Riv. not. 1985, 1200). Art. 164. Simulazione delle convenzioni matrimoniali. È consentita ai terzi la prova della simulazione delle convenzioni matrimoniali. Le controdichiarazioni scritte possono aver effetto nei confronti di coloro tra i quali sono intervenute, solo se fatte con la presenza ed il simultaneo consenso di tutte le persone che sono state parti nelle convenzioni matrimoniali. Bibliografia: BELLANTONI e PONTORIERI, op. cit., 109-111; FINOCCHIARO M., op. cit., I, 778-783; MAZZOCCA, op. cit., 42-44; SACCO, op. cit., I, 1, 340; TAMBURRINO, op. cit., 216; SACCO, Commentario al diritto italiano della famiglia, cit., III, 38-39; MILAN, La simulazione nel nuovo diritto di famiglia (art. 18-art. 45 l. 19 maggio 1975 n. 151), Bologna 1978, 141-159; PEREGO, I terzi e la simulazione delle convenzioni matrimoniali, Giur. it. 1981, IV; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 159-230, Bologna-Roma, 2003; RUSSO, Le convenzioni matrimoniali, Comm. Schlesinger, Milano, 2004. Art. 165. Capacità del minore. Il minore ammesso a contrarre matrimonio è pure capace di prestare il consenso per tutte le relative convenzioni matrimoniali, le quali sono valide se egli è assistito dai genitori esercenti la potestà su di lui o dal tutore o dal curatore speciale nominato a norma dell'articolo 90. Bibliografia: BELLANTONI e PONTORIERI, op. cit., 112; DE PAOLA e MACRÍ, op. cit., 31; DE RUBERTIS, Le convenzioni matrimoniali in generale, Vita not. 1975, 933 ss., in part. 943-946; M. FINOCCHIARO, op. cit., I, 783-787; INTERSIMONE, PARMEGIANI, La tutela dei terzi, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili, cit., 216; SACCO, op. cit., III, 40; D'ANTONIO, Convenzioni matrimoniali, donazioni e capacità del minore nel disposto dell'art. 165 c.c., RDC, 1989; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, 2ª ed., Milano, 2002; Id., Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, II, Milano, 1995; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 159-230, Bologna-Roma, 2003; RUSSO, Le convenzioni matrimoniali, Comm. Schlesinger, Milano, 2004; SACCO, sub art. 165 c.c., Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; VITALI, Delle persone e della famiglia, Commentario, Milano, 1990. Art. 166. Capacità dell'inabilitato. Per la validità delle stipulazioni e delle donazioni, fatte nel contratto di matrimonio dall'inabilitato o da colui contro il quale è stato promosso giudizio di inabilitazione, è necessaria l'assistenza del curatore già nominato. Se questi non è stato ancora nominato, si provvede alla nomina di un curatore speciale. Bibliografia: GABRIELLI, Infermità mentale e rapporti patrimoniali familiari, Riv. dir. civ. 1986; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 159-230, Bologna-Roma, 2003; RUSSO, Le convenzioni matrimoniali, Comm. Schlesinger, Milano, 2004. Art. 166-bis. Divieto di costituzione di dote. È nulla ogni convenzione che comunque tenda alla costituzione di beni in dote. Legge 19 maggio 1975 n. 151. — Riforma del diritto di famiglia. Art. 227. Le doti e i patrimoni familiari costituiti prima dell'entrata in vigore della presente legge continuano ad essere disciplinati dalle norme anteriori. Bibliografia: AVANZINI, Forma e modificazioni delle convenzioni matrimoniali, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili, cit., 572; BELLANTONI e PONTORIERI, La riforma del diritto di famiglia, cit., 114; DE PAOLA e MACRÍ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, cit., 40 e 231; M. FINOCCHIARO, in A. e M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, I, cit., 787-795; FRAGALI, La comunione, Appendice di aggiornamento, cit., 27; MACRÍ, Fondo patrimoniale, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili, cit., 75; MAZZOCCA, I rapporti patrimoniali tra coniugi nel nuovo diritto di famiglia, cit., 57; NELLI, Introduzione alla problematica negoziale del nuovo diritto di famiglia, Il nuovo diritto di famiglia, Contributi notarili, cit., 572; PINO, Il diritto di famiglia, cit., 128; SACCO, Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di CARRARO, OPPO, TRABUCCHI, cit., III, 41-42; TAMBURRINO, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia italiano, cit., 208, in nota; AVANZINI, Forma e modificazione delle convenzioni matrimoniali. il nuovo diritto di famiglia, Milano, 1975; TRIMARCHI, Istituzioni di diritto privato italiano, Milano 1977, 812; Id., L'autonomia privata nella stipulazione delle convenzioni matrimoniali, Le convenzioni matrimoniali e altri saggi sul diritto di famiglia, Milano, 1983; MOSCARINI, Convenzioni matrimoniali in generale, La comunione legale, a cura di Bianca, II, Milano, 1989; SACCO, sub art. 166 bis, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; MORELLI, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Padova, 1996; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, sub artt. 159-230, Bologna-Roma, 2003; FORTINO, Diritto di famiglia. I valori, i princìpi, le regole, 2ª ed., Milano, 2004; RUSSO, Le convenzioni matrimoniali, Comm. Schlesinger, Milano, 2004; SESTA, Diritto di famiglia, 2ª ed., Padova, 2005. Sommario: 1. Doti e patrimoni familiari costituiti prima dell'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151: validità. — 2. Doti costituite prima dell'entrata in vigore della l. n. 151 del 1975. Omessa espressa previsione del trasferimento della proprietà al marito. Accertamento della esatta consistenza della data conferita alla propria madre. — 3. Mutamento del regime « dotale » in regime di « comunione legale ». — 4. Costituzione di dote mediante attribuzione liberale da parte di un terzo. Natura di donazione obnuziale suscettibile di riduzione. — 5. Trasformazione in « fondo patrimoniale » di un « patrimonio familiare » costituito anteriormente all'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151. I vari indirizzi giurisprudenziali. — 6. Opponibilità, ai terzi, di comunione degli utili e degli acquisti, costituita prima della riforma del diritto di famiglia. — 7. Risoluzione consensuale del regime di « patrimonio familiare ». — 8. Regime della comunione degli utili, degli acquisti e dei risparmi. Poteri del marito. 1. Doti e patrimoni familiari costituiti prima dell'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151: validità. — L'art. 166-bis (sub art. 47, l. 19 maggio 1975 n. 151) dispone che « è nulla ogni convenzione che comunque tenda alla costituzione di beni in dote », in virtù dell'art. 227 della l. 19 maggio 1975 n. 151, ancora, le doti e i patrimoni familiari costituiti prima dell'entrata in vigore di tale legge continuano ad essere disciplinati dalle norme anteriori. Pertanto, la nullità sancita dall'art. 166-bis non si estende alle costituzioni di dote anteriori alla stessa legge (con l'ulteriore conseguenza, altresì, che permane per i beni che ne formarono oggetto, l'impignorabilità già prevista dalla pregressa normativa) (Cass. 20 dicembre 1985 n. 6557, Dir. famiglia 1986, 486). In tema di dote, in particolare, la nullità di ogni convenzione che comunque tenda alla costituzione di beni in dote, sancita dall'art. 166 bis c.c., introdotto dall'art. 47 l. 19 maggio 1975 n. 151 (sulla riforma del diritto di famiglia), opera ex nunc, non ex tunc, come è dato desumere dall'art. 227 della stessa legge di riforma, per il quale le doti (e i patrimoni familiari) costituiti prima della entrata in vigore della legge (21 settembre 1975) continuano ad essere disciplinati dalle norme anteriori (art. 187 ss. nella originaria formulazione) (Cass. 5 luglio 2000 n. 8952, Famiglia e diritto 2000, 624). 2. Doti costituite prima dell'entrata in vigore della l. n. 151 del 1975. Omessa espressa previsione del trasferimento della proprietà al marito. Accertamento della esatta consistenza della data conferita alla propria madre. — Secondo il testo originario dell'art. 182, comma 2, (poi sostituito dalla l. 19 maggio 1975 n. 151), riferito alla dote in danaro, in beni mobili o immobili stimati, se erano costituiti in dote beni immobili stimati, ma non vi era espressa dichiarazione, che attribuisse la proprietà al marito, nei confronti di detti beni la costituzione in dote non poteva considerarsi sufficiente ad operarne il trasferimento, con la conseguenza che gli stessi non diventavano di proprietà del marito e rimanevano nella titolarità della moglie (Cass. 1 marzo 2007, n. 4866, che ha enunciato il riportato principio per ritenere che, in difetto di prova, nelle forme prescritte, del trasferimento della proprietà in capo al marito dei beni immobili dotali, la moglie, in quanto rimasta proprietaria, si sarebbe dovuta considerare legittimata a resistere con riguardo ad un'azione reale per la riduzione in pristino di una situazione dei luoghi modificata in virtù dell'illegittima edificazione di una sua costruzione e dell'intervenuta deviazione illecita del contiguo corso di un canale). Sempre con riguardo a dote costituita prima dell'entrata in vigore della legge 19 maggio 1975, n. 151, si è precisato, in sede di legittimità, che l'interesse ad agire con un'azione di mero accertamento non implica necessariamente l'attuale verificarsi della lesione d'un diritto o una contestazione, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva sull'esistenza di un rapporto giuridico o sull'esatta portata dei diritti e degli obblighi da esso scaturenti, costituendo la rimozione di tale incertezza un risultato utile, giuridicamente rilevante e non conseguibile se con l'intervento del giudice. (Cass. 26 maggio 2008, n. 13556, che — in applicazione del riferito principio — ha ritenuto carente l'interesse ad agire del coerede in ordine alla domanda di accertamento dell'esatta consistenza della dote conferita, all'atto del matrimonio, dalla propria madre, non essendo configurabile, nel caso di specie, un diritto alla restituzione dei beni dotali per omesso esercizio del diritto alla restituzione dopo la morte del coniuge). 3. Mutamento del regime « dotale » in regime di « comunione legale ». — Trib. Taranto 17 dicembre 1976, Notaro 1977, 118, ha autorizzato una coppia di coniugi, con l'intervento del donante, a mutare « le convenzioni matrimoniali dal regime dotale al regime della comunione, estendendo quest'ultimo a tutti i beni già di proprietà esclusiva o assoggettati al regime dotale ». In dottrina, criticamente, su tale provvedimento, FINOCCHIARO M., op. cit., I, 791 ss., nonché VINCI, SANTARCANGELO, Convertibilità di beni dotali di comunione convenzionale, Notaro 1977, 118. Nello stesso senso, invece, SCAVO, Beni dotali e disposizioni transitorie, Dir. eccl. 1976, I, 126. Diversamente, rispetto alla pronuncia ricordata sopra, sempre in sede di merito in altra occasione si è osservato che l'art. 227 della l. n. 151 del 1975, nello stabilire che le doti già costituite continuano ad essere disciplinate dalle norme anteriori, fa riferimento, disponendone l'ultrattività, all'intero complesso di norme che integravano il regime giuridico proprio dei beni dotali, ivi compresa quella, essenziale, sulla irrevocabilità ed immutabilità del vincolo in pendenza di matrimonio. Né la permanenza del regime di immodificabilità della dote, pur dopo la riforma del diritto di famiglia di cui alla citata l. n. 151, può considerarsi in contrasto con i principi contenuti negli artt. 3 e 29 Cost., poiché tale permanenza non crea alcuna disuguaglianza nei riguardi della donna, né diminuisce la sua dignità sociale, né, tanto meno, lede l'uguaglianza giuridica e morale dei coniugi (App. Torino 16 luglio 1990, Dir. Famiglia 1991, 180). 4. Costituzione di dote mediante attribuzione liberale da parte di un terzo. Natura di donazione obnuziale suscettibile di riduzione. - Una corte di merito, dopo aver premesso che non si può disconoscere la validità della donazione dotale stante l'ultrattività dell'art. 184 c.c. (nel testo anteriore alla riforma del diritto di famiglia), sancita espressamente dall'art. 227 della Legge 19.5.71 n. 151, secondo cui le doti costituite anteriormente alla riforma del diritto di famiglia del 1975 continuano a essere disciplinate dalle norme anteriori, ha aggiunto che, tuttavia, una tale condivisibile affermazione non comporta come necessario corollario l'assoluta intangibilità della donazione, che è inefficace nella misura in cui lede la quota di riserva. Ed infatti, la costituzione di dote mediante attribuzione liberale da parte di un terzo nei rapporti tra dotante e dotata ha natura di donazione obnuziale suscettibile come tale di riduzione ex art. 553 c.c., in quanto essa deve ritenersi sorretta dall'animus donandi, funzionando il matrimonio ed il fine di sovvenire ai relativi pesi solo da occasione o da motivo, ancorché essenziale (Trib. Bari 11 marzo 2010. Cfr. Cass. 28 novembre 1981, n. 6345). 5. Trasformazione in « fondo patrimoniale » di un « patrimonio familiare » costituito anteriormente all'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151. I vari indirizzi giurisprudenziali. — Trib. Roma 22 giugno 1977, Vita not. 1977, 481 (con osservazione di S. SANTANGELO) ha autorizzato la vendita di beni già costituiti in patrimonio familiare ed ha disposto che la somma ricavata fosse impiegata nell'acquisto di altro bene cui trasferire « il vincolo di fondo patrimoniale ». Sempre nella stessa ottica, in altra occasione si è ritenuto — da parte di altro giudice di merito — che è ammissibile la trasformazione in « fondo patrimoniale » di « patrimonio familiare », con facoltà per i coniugi di procedere all'alienazione dei beni relativi senza autorizzazione del tribunale, compiendo gli adempimenti a ciò finalizzati, comunque necessari (Trib. Genova 3 febbraio 1989, Dir. famiglia 1991, 580 con nota di M. MIGLIETTA, La trasformazione del patrimonio familiare in fondo patrimoniale). Nello stesso ordine di idee in altra occasione si è eivdenziato, altresì, che il termine « alienazione », di cui all'art. 170, vecchio testo, c.c., interpretato alla luce del nuovo sistema, e, segnatamente, degli artt. 162 e 163 c.c., è idoneo a ricomprendere anche le ipotesi di modifica delle convenzioni matrimoniali: pertanto, è ammissibile la trasformazione in fondo patrimoniale di un patrimonio familiare (Trib. Napoli 13 maggio 1996, Famiglia e diritto 1996, 450 con nota adesiva di F. DE CRISTOFARO, Trasformazione del patrimonio familiare in fondo patrimoniale). In termini diversi cfr. Trib. Catania 12 dicembre 1990, Dir. famiglia 1991, 1013: ai sensi della normativa anteriore alla novella n. 151 del 1975, tuttora applicabili alle doti ed ai patrimoni familiari costituiti prima che la legge di riforma entrasse in vigore, non è consentito ai coniugi di risolvere consensualmente il regime di patrimonio familiare. Sempre con riguardo a « patrimonio familiare » costituito in epoca anteriore all'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151, App. Reggio Calabria 11 aprile 1991, Dir. famiglia 1991, 872 che ha ritenuto non manifestamente infondata — con riguardo all'art. 29 Cost. ed al principio di ragionevolezza — la questione di legittimità costituzionale degli artt. 227 l. n. 151 del 1975 e 167, comma 2, 170 e 175 (vecchia formulazione), nella parte in cui prescrivono l'indisponibilità dei beni costituiti in patrimonio familiare fino allo scioglimento del matrimonio, a prescindere da ogni valutazione in ordine alla rispondenza effettiva del vincolo predetto ai bisogni reali della famiglia e nonostante la mancanza di figli minori. [Questione dichiarata inammissibile da Corte cost. 24 gennaio 1992 n. 18, sub art. 169, n. 2]. 6. Opponibilità, ai terzi, di comunione degli utili e degli acquisti, costituita prima della riforma del diritto di famiglia. — L'opponibilità ai terzi della comunione degli utili e degli acquisti, costituita prima della riforma del diritto di famiglia (l. 19 maggio 1975 n. 151), è condizionata soltanto all'annotazione a margine dell'atto di matrimonio, prevista dall'art. 162, per le convenzioni matrimoniali, senza che sia richiesta la trascrizione della relativa convenzione a norma dell'art. 2647, atteso che l'art. 227 della l. n. 151 del 1975 non ha previsto l'ultrattività delle precedenti norme per tale comunione, come invece ha disposto per le doti e i patrimoni familiari (Cass. 15 marzo 1990 n. 2104). Con riguardo all'acquisto di un bene immobile, effettuato da uno dei coniugi, a suo nome, prima della riforma del diritto di famiglia introdotta dalla l. 19 maggio 1975 n. 151, — si è, ancora affermato — il diritto di comproprietà dell'altro coniuge, per quota uguale, può essere riconosciuto qualora risulti la ricorrenza di una comunione universale dei beni, secondo la previsione degli allora vigenti artt. 215-230, tenuto conto che la costituzione di tale comuione, riconducibile anche ad un'intesa tacita dei coniugi medesimi, implica ipso iure la caduta in comproprietà dei successivi acquisti effettuati dal singolo compartecipante, con la sola esclusione di quelli espressamente contemplati dall'art. 217 (vecchio testo) c.c. (Cass. 4 luglio 1985 n. 4031). Sul regime giuridico dei beni costituiti in comunione degli utili e degli acquisti in forza della precedente disciplina, in dottrina, GABRIELLI, Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di CARRARO, OPPO, TRABUCCHI, cit., II, 19-20, nonché CARUSO, Sorte dei beni facenti parte della vecchia comunione degli utili e degli acquisti, Notaro 1979, 75. 7. Risoluzione consensuale del regime di « patrimonio familiare ». — Ai sensi della normativa anteriore alla Novella n. 151 del 1975, tuttora applicabile alle doti ed ai patrimoni familiari costituiti prima che la legge di riforma entrasse in vigore, non è consentito ai coniugi di risolvere consensualmente il regime di patrimonio familiare (Trib. Catania 12 dicembre 1990, Dir. famiglia 1991, 1013). 8. Regime della comunione degli utili, degli acquisti e dei risparmi. Poteri del marito. — Qualora, anteriormente all'entrata in vigore della legge di riforma 19 maggio 1975 n. 151, i coniugi, contraendo matrimonio, abbiano adottato (oltre che il regime dotale per tutto quanto costituito alla sposa in dote) il regime della comunione degli utili, degli acquisti e dei risparmi che gli sposi avrebbero potuto, unitamente o separatamente, realizzare, senza peraltro modificare, a seguito della nuova normativa, l'assetto patrimoniale concordato all'epoca delle nozze, il marito può, ai sensi dell'art. 220 (ora abrogato) c.c., compiere, senza il consenso della moglie, atti di disposizione dei beni in comunione, purché a titolo oneroso (Trib. Catania 22 giugno 1992, Dir. famiglia 1993, 629). Sul problema dell'applicabilità del nuovo art. 184 alle comunioni costituite anteriormente alla l. 19 maggio 1975 n. 151, v. infra, sub art. 184. *** Art. 186. Obblighi gravanti sui beni della comunione. I beni della comunione rispondono: a) di tutti i pesi ed oneri gravanti su di essi al momento dell'acquisto; b) di tutti i carichi dell'amministrazione; c) delle spese per il mantenimento della famiglia e per l'istruzione e l'educazione dei figli e di ogni obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell'interesse della famiglia; d) di ogni obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi. Bibliografia: OPPO, Responsabilità patrimoniale e nuovo diritto di famiglia, Riv. dir. civ. 1976, I; FALZEA, Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia, Riv. dir. civ. 1977; SCHLESINGER, sub art. 186, Comm. Carraro, Oppo e Trabucchi, I, 1, Padova, 1977; CIAN, VILLANI, La comunione dei beni tra coniugi, Riv. dir. civ. 1980; RUSSO, "Bisogni" ed "interesse" della famiglia: il problema delle obbligazioni familiari, Le convenzioni matrimoniali ed altri saggi sul nuovo diritto di famiglia, Milano, 1983; A. FINOCCHIARO, M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984; GIONFRIDA DAINO, La posizione dei creditori nella comunione legale tra coniugi, Padova, 1986; SCALFI, Incremento di azienda personale acquistata prima del matrimonio. Comunione dei beni. Irresponsabilità del coniuge per circolazione di veicolo, RCP 1986; FILANTI, Obbligazioni contratte separatamente da un coniuge, La comunione legale, a cura di Bianca, Milano, 1989; DEL GIUDICE, La fideiussione coniugale bancaria, La comunione legale, a cura di Bianca, Milano, 1989; QUADRI, Obblighi gravanti sui beni della comunione, La comunione legale, a cura di Bianca, Milano, 1989; QUADRI, Obblighi gravanti sui beni della comunione, La comunione legale, a cura di C.M. BIANCA, Milano 1989, II, 741-776; BERNARDI, La responsabilità sussidiaria dei beni personali, ivi II, 777-793; GRASSO, Comunione legale e espropriazione della quota del coniuge personalmente obbligato, ivi, II, 795-809; MASTROPAOLO, PITTER, sub art. 186, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; CATTANEO, Del regime di separazione dei beni, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; BOCCHINI, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, 2ª ed., Napoli, 1995; BARBIERA, La comunione legale, Tratt. Rescigno, 3, 2ª ed., Torino, 1996; SESTA, Obbligazioni assunte da un coniuge nel nome dell'altro, FD, 1996; GABRIELLI, Regime patrimoniale della famiglia, Digesto civ., XVI, Torino, 1997; SASSOLI, Debito personale del coniuge e debito della comunione, Not, 1999; BRUSCUGLIA, L'amministrazione, la responsabilità e lo scioglimento della comunione legale, Il diritto di famiglia, II, Tratt. Bessone, IV, Torino, 1999; ZANINI, Zanini, Grasselli, Le obbligazioni della comunione e dei coniugi, La famiglia, II, Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di Cendon, Torino, 2000; GNANI, Tutela del creditore e limiti della responsabilità sussidiaria nella comunione legale, Familia, 2001; MINNECI, Responsabilità patrimoniale dei coniugi in regime di comunione legale, Regime patrimoniale della famiglia, Tratt. Zatti, III, Milano, 2002; SANTOSUOSSO, Beni ed attività economica della famiglia, 2ª ed., Giur. sist. Bigiavi, Torino, 2002; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, II, 2ª ed., Milano, 2002; Id., Il diritto patrimoniale della famiglia coniugale, Milano, 1996; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 2003; VALIGNANI, Presunzione di adempimento con beni comuni per le obbligazioni ex art. 186, Familia 2003, 217; VERZERA, Le obbligazioni dei coniugi in comunione legale, Manuale del nuovo diritto di famiglia, a cura di Cassano, Piacenza, 2003; MENOTTI, Amministrazione e spese della casa in proprietà, La famiglia e la casa, II, I diritti sulla casa, a cura di Dossetti, Piacenza, 2007; PASCUCCI, Le obbligazioni contratte da un coniuge nell'interesse della famiglia tra diritto giurisprudenziale e possibile evoluzione legislativa, Famiglia e Diritto 2007; DI MARTINO, La responsabilità, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, 2ª ed., Torino, 2007; AULETTA, Il diritto di famiglia, 9ª ed., Torino, 2008; RAIOLA, SALOMONE, Il regime patrimoniale della famiglia: questioni controverse, profili di responsabilità e tutela del coniuge debole, Padova, 2008; AA.VV., Il regime patrimoniale della famiglia, a cura di A. Arceri e M. Bernardini, Santarcangelo di Romagna, 2009; BALESTRA, Attività d'impresa e rapporti familiari, Padova, 2009; TESTA, Rapporti patrimoniali e famiglia nell'evoluzione interpretativa della riforma del diritto di famiglia, Milano, 2010; BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, 5ª ed., Torino, 2010; OBERTO, La comunione legale tra coniugi, Tratt. Cicu, Messineo, Milano, 2010. Sommario: 1. Pagamento dei contributi condominiali relativi alla cosa comune. — 2. Inadempimento di obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi e azione in giudizio contro uno solo di essi. — 3. Veicolo in regime di comunione e danni ad uno dei coniugi trasportato. Responsabilità dell'assicurazione. — 4. Obbligazione contratta anche separatamente dai coniugi nell'interesse della famiglia. Condizioni. 1. Pagamento dei contributi condominiali relativi alla cosa comune. — L'art. 186 lett. b), nel testo introdotto dalla l. 19 maggio 1975 n. 151, prevedendo una responsabilità patrimoniale dei beni della comunione per i carichi dell'amministrazione e, cioè, per i debiti di qualsiasi natura contratti per la manutenzione ordinaria dei singoli beni (come le spese necessarie per la conservazione ed il godimento della cosa comune, i contributi condominiali, le spese per le innovazioni e per i miglioramenti purché non eccessivamente gravose per il bilancio familiare) non ha escluso che di esse ciascun coniuge debba rispondere per l'intero, spettando l'amministrazione dei beni della comunione e lo stesso potere di rappresentanza in giudizio, a norma dell'art. 180, disgiuntamente ad entrambi. Deriva da quanto precede, pertanto, si è precisato in sede di legittimità, che il pagamento dei contributi condominiali relativi alla cosa comune ben può essere chiesto ad uno solo dei contitolari del bene (Cass. 28 gennaio 1995 n. 1038, Giust. civ. 1995, I, 1520; Arch. locazioni 1995, 625). 2. Inadempimento di obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi e azione in giudizio contro uno solo di essi. — L'appartenenza dei beni pignorati alla comunione legale dei coniugi dà luogo ad un regime diverso da quello della comunione ordinaria dalla quale la prima differisce per il fatto di essere una comunione senza quote. Pertanto, accertato che i beni pignorati appartengono alla comunione e che l'azione esecutiva attiene ad obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi, non è rilevante che il titolo in forza del quale l'azione esecutiva è promossa riguardi uno solo dei coniugi e non entrambi, essendo ben possibile che il creditore per una obbligazione contratta congiuntamente dai coniugi abbia agito in giudizio contro uno solo di essi (Trib. Milano 26 maggio 1993, Gius 1994, f. 5, 104). Delle obbligazioni contratte insieme, ha affermato altro giudice di merito, i coniugi rispondono in solido e per l'intero — e non entrambi per metà, come sembra affermare l'art. 190 — ma sussidiariamente alla responsabilità dei beni comuni. Poiché la responsabilità dei beni personali mantiene il carattere sussidiario anche in caso di obbligazioni contratte congiuntamente dai coniugi, in mancanza di prova contraria fornita dal solvens, si presume che egli abbia adempito con beni comuni e, dunque, senza alcun credito di regresso nei rapporti interni (Trib. Bergamo 21 gennaio 2002, Giur. it. 2002, 1866). 3. Veicolo in regime di comunione e danni ad uno dei coniugi trasportato. Responsabilità dell'assicurazione. — In materia di assicurazione della responsabilità civile automobilistica, ai sensi dell'art. 4 l. n. 990 del 1969, nel testo sia anteriore (che faceva richiamo all'art. 2054, comma 3, sia posteriore (da tale momento essendo il coniuge considerato, in relazione ai danni alla persona — biologico e morale — come terzo trasportato coperto da assicurazione) alla novella introdotta dall'art. 28 l. n. 142 del 1992, in caso di incidente stradale a bordo di autovettura facente parte del regime patrimoniale di comunione legale, i danni subiti dal coniuge trasportato e imputabili alla condotta di guida dell'altro coniuge debbono essere risarciti per l'intero (seppure nei limiti del massimale da parte dell'assicuratore), non essendo al riguardo configurabile alcuna limitazione nemmeno in ragione della contitolarità dell'autovettura tra i coniugi scaturente dal regime di comunione legale, giacché essendo la comunione dei beni tra i coniugi pro indiviso, il diritto di ciascuno di essi investe l'intera cosa o — qualora non si tratti di diritto reale — l'intera titolarità soggettiva (Cass. 15 gennaio 2003 n. 487, Dir. e giust. 2003, f. 6, 11). L'assicurazione obbligatoria della responsabilità civile per circolazione di veicoli copre la responsabilità per danni alle persone di qualsiasi passeggero diverso dal conducente, compreso quindi il comproprietario trasportato (Trib. Monza 10 marzo 1995, Giust. civ. 1996, I, 1158). 4. Obbligazione contratta anche separatamente dai coniugi nell'interesse della famiglia. Condizioni. — L'ipotesi delineata dall'art. 186 lett. c) secondo cui i beni della comunione legale rispondono, tra l'altro, di obbligazione contratta dai coniugi, anche separatamente, nell'interesse della famiglia — ha affermato un giudice di merito — si registra solo se l'obbligazione sia contratta nel diretto ed immediato interesse della famiglia e non quando possa semplicemente essere volta a vantaggio della famiglia (Trib. Cassino 7 gennaio 2005, Nuovo dir. 2005, 239, con nota di LOTITO G., L'art. 618-bis c.p.c. e l'opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. - Creditore particolare del coniuge in regime di comunione legale ed esecuzione forzata ex art. 189, 2o comma). Per altri riferimenti in tema di obbligazioni contratte per soddisfare bisogni della famiglia da uno dei coniugi separatamente dall'altro, V. infra sub art. 189, n. 1 ss. Art. 187. Obbligazioni contratte dai coniugi prima del matrimonio. I beni della comunione, salvo quanto disposto nell'articolo 189, non rispondono delle obbligazioni contratte da uno dei coniugi prima del matrimonio. Bibliografia: M. FINOCCHIARO, A. Finocchiaro, M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984; MASTROPAOLO, PITTER, sub art. 187, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; BOCCHINI, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, 2ª ed., Napoli, 1995; BRUSCUGLIA, L'amministrazione, la responsabilità e lo scioglimento della comunione legale, Il diritto di famiglia, II, Tratt. Bessone, IV, Torino, 1999; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, II, 2ª ed., Milano, 2002; MINNECI, Responsabilità patrimoniale dei coniugi in regime di comunione legale, Tratt. Zatti, III, Regime patrimoniale della famiglia, Milano, 2002; SANTOSUOSSO, Beni ed attività economica della famiglia, 2ª ed., Giur. sist. Bigiavi, Torino, 2002; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 2003; DI MARTINO, La responsabilità, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, 2ª ed., Torino, 2007; AULETTA, Il diritto di famiglia, 9ª ed., Torino, 2008; RAIOLA, SALOMONE, Il regime patrimoniale della famiglia: questioni controverse, profili di responsabilità e tutela del coniuge debole, Padova, 2008; AA.VV., Il regime patrimoniale della famiglia, a cura di A. Arceri e M. Bernardini, Santarcangelo di Romagna, 2009; BALESTRA, Attività d'impresa e rapporti familiari, Padova, 2009; TESTA, Rapporti patrimoniali e famiglia nell'evoluzione interpretativa della riforma del diritto di famiglia, Milano, 2010; BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, 5ª ed., Torino, 2010; OBERTO, La comunione legale tra coniugi, Tratt. Cicu, Messineo, Milano, 2010. Art. 188. Obbligazioni derivanti da donazioni o successioni. I beni della comunione, salvo quanto disposto nell'articolo 189, non rispondono delle obbligazioni da cui sono gravate le donazioni e le successioni conseguite dai coniugi durante il matrimonio e non attribuite alla comunione. Bibliografia: A. FINOCCHIARO, M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984; MASTROPAOLO, PITTER, sub art. 188, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; BOCCHINI, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, 2ª ed., Napoli, 1995; BRUSCUGLIA, L'amministrazione, la responsabilità e lo scioglimento della comunione legale, Il diritto di famiglia, II, Tratt. Bessone, IV, Torino, 1999; SANTOSUOSSO, Beni ed attività economica della famiglia, 2ª ed., Giur. sist. Bigiavi, Torino, 2002; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 2003; DI MARTINO, La responsabilità, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, 2ª ed., Torino, 2007. Art. 189. Obbligazioni contratte separatamente dai coniugi. I beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato, rispondono, quando i creditori non possono soddisfarsi sui beni personali, delle obbligazioni contratte, dopo il matrimonio, da uno dei coniugi per il compimento di atti eccedenti l'ordinaria amministrazione senza il necessario consenso dell'altro. I creditori particolari di uno dei coniugi, anche se il credito è sorto anteriormente al matrimonio, possono soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione, fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato. Ad essi, se chirografari, sono preferiti i creditori della comunione. Bibliografia: MALAGÙ, L'espropriazione forzata dei beni della comunione legale coniugale, Riv. trim. dir. proc. civ. 1977; ATTARDI, Profili processuali della comunione legale dei beni, Riv. dir. civ. 1978; GIONFRIDA DAINO, La posizione dei creditori nella comunione legale tra coniugi, Padova, 1986; MANGANO, Comunione dei beni tra coniugi. II) Profili processuali, Enc. Giur., VII, Roma, 1988; E. GRASSO, Comunione legale ed espropriazione della quota del coniuge personalmente obbligato, La comunione legale, a cura di Bianca, Milano, 1989; FILANTI, Obbligazioni contratte separatamente da un coniuge, La comunione legale, a cura di Bianca, Milano, 1989; QUADRI, Obblighi gravanti sui beni della comunione, La comunione legale, a cura di Bianca, Milano, 1989; RAGUSA MAGGIORE, Comunione legale e fallimento, La comunione legale, a cura di Bianca, Milano, 1989; MASTROPAOLO, PITTER, sub art. 189, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; BASINI, Sulla «responsabilità» sussidiaria dei beni in comunione legale per la fideiussione prestata da un solo coniuge, Giur. it. 1994; BOCCHINI, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, 2ª ed., Napoli, 1995; BARBIERA, La comunione legale, Tratt. Rescigno, 3, 2ª ed., Torino, 1996; CARBONE, Cancellata la presunzione muciana, Famiglia e diritto 1996; GABRIELLI, Regime patrimoniale della famiglia, Digesto civ., XVI, Torino, 1997; VANZ, Comunione legale tra coniugi ed esecuzione forzata, Famiglia e diritto 1998; RUSSO, L'oggetto della comunione legale e i beni personali, Comm. Schlesinger, Milano, 1999; SASSOLI, Debito personale del coniuge e debito della comunione, Notariato 1999; BRUSCUGLIA, L'amministrazione, la responsabilità e lo scioglimento della comunione legale, Il diritto di famiglia, II, Tratt. Bessone, IV, Torino, 1999; IOZZO, Creditori personali del coniuge ed espropriazione forzata dei beni della comunione legale ex art. 189, 2° comma, c.c., Foro it. 1999; MORA, Debito personale del coniuge e responsabilità della comunione legale, Famiglia e diritto 1999; M. FINOCCHIARO, Le Sezioni unite e l'art. 189 c.c.: un incontro mancato, Giust. civ. 1999; GRASSELLI, Zanini, Grasselli, Le obbligazioni della comunione e dei coniugi, La famiglia, II, Torino, 2000; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, 2ª ed., II, Milano, 2002; MINNECI, Responsabilità patrimoniale dei coniugi in regime di comunione legale, Regime patrimoniale della famiglia, Tratt. Zatti, III, Milano, 2002; SANTOSUOSSO, Beni ed attività economica della famiglia, 2ª ed., Giur. sist. Bigiavi, Torino, 2002; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 2003; VERZERA, Le obbligazioni dei coniugi in comunione legale, Manuale del nuovo diritto di famiglia a cura di Cassano, Piacenza, 2003; RUSSO T.V., Obbligazioni familiari e responsabilità patrimoniale nel regime di comunione legale, Napoli 2004; ASCHIERI, RIGHINI, Peggio tua moglie o i creditori?, Summa 2004, f. 2034, 60; MONTANARI, Riforma del diritto fallimentare e famiglia, Fam. Pers. Succ. 2006; LOMBARDI, Espropriazione forzata dei beni della comunione legale e responsabilità sussidiaria ex art. 189 comma 2 c.c., Giur. merito 2006; DI MARTINO, La responsabilità, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, 2ª ed., Torino, 2007; AULETTA, Il diritto di famiglia, 9ª ed., Torino, 2008; AA.VV., Il regime patrimoniale della famiglia, a cura di A. Arceri e M. Bernardini, Santarcangelo di Romagna, 2009; BALESTRA, Attività d'impresa e rapporti familiari, Padova, 2009; OBERTO, La comunione legale tra coniugi, Tratt. Cicu, Messineo, Milano, 2010. OBERTO, La comunione legale tra coniugi, Tratt. Cicu, Messineo, Milano, 2010. Sommario: 1. Obbligazioni per soddisfare bisogni della famiglia. Contratte da uno solo dei coniugi. Responsabilità dell'altro. Condizioni. Limiti. — 2. Segue: apparenza del diritto, al fine di sostenere il ragionevole affidamento del creditore che il coniuge agisse in nome e per conto dell'altro coniuge. — 3. Obbligazioni contratte separatamente dai coniugi: rapporti tra i coniugi stessi. — 4. Applicabilità dell'art. 189 alle obbligazioni risarcitorie conseguenti il fatto illecito commesso da uno dei coniugi. — 5. Obbligazioni personali del coniuge: esecuzione su interi beni comuni, ammissibilità. Limite dell'esecuzione. È data dal valore della « quota » del coniuge obbligato sul complesso dei beni comuni. — 6. Esecuzione forzata promossa dal creditore personale di uno dei coniugi in regime di comunione legale sui beni rientranti in detta comunione: a) audizione del coniuge non debitore, necessità. — 7. Segue: b) tutela del coniuge non obbligato, contenuto. — 8. Mutuo contratto dal coniuge per l'abitazione coniugale. — 9. Creditori particolari del coniuge e azione esecutiva nei confronti dei beni comuni: oggetto della espropriazione. — 10. Segue: pignoramento, effetti. Indisponibilità del bene. — 11. Segue: coniuge non esecutato, notifiche. — 12. Segue: esistenza di beni personali; eccezione, onere della prova. 1. Obbligazioni per soddisfare bisogni della famiglia. Contratte da uno solo dei coniugi. Responsabilità dell'altro. Condizioni. Limiti. — Nella disciplina del diritto di famiglia introdotta dalla l. 19 maggio 1975 n. 151, l'obbligazione assunta da un coniuge per soddisfare bisogni familiari non pone l'altro coniuge nella veste di debitore solidale, difettando una deroga rispetto alla regola generale secondo cui il contratto non produce effetti rispetto ai terzi. Il suddetto principio opera indipendentemente dal fatto che i coniugi si trovino in regime di comunione dei beni, essendo la circostanza rilevante solo sotto il diverso profilo dell'invocabilità da parte del creditore della garanzia dei beni della comunione o del coniuge non stipulante, nei casi e nei limiti di cui agli artt. 189 e 190 (nuovo testo) (Cass. 15 febbraio 2007, n. 3471; Cass. 15 febbraio 2007, n. 3471, Dir. e giust. 2007; Dir. famiglia 2008, 48 Giust. civ. 2008, I, 2264; 10 ottobre 2008, n. 25026, Guida al diritto 2008, f. 45, 41, con nota informativa di FIORINI M. La scelta operata da un solo coniuge non può soddisfare « bisogni primari »; Cass. 18 giugno 1990 n. 6118, Giust. civ. 1990, I, 2282, nonché ivi 1990, I, 2891; Riv. dir. civ. 1991, II, 631; Stato civ. it. 1991, 349; Vita not. 1990, 523; Dir. famiglia 1991, 448; Foro it. 1991, I, 831; Giur. it. 1991, I, 1, 1052; Dir. fall. 1992, II, 207; Rass. dir. civ. 1992, 63). Sempre nello stesso senso Cass. 28 aprile 1992 n. 5063 (Foro it. 1992, I, 3000; Dir. famiglia 1992, 997): nella disciplina del diritto di famiglia introdotta dalla l. 19 maggio 1975 n. 151, l'obbligazione assunta da un coniuge in nome proprio e non anche in rappresentanza dell'altro coniuge, per soddisfare bisogni familiari, non pone detto altro coniuge nella veste di debitore solidale, giacché, pure in regime di comunione dei beni, è da escludere una deroga al principio dell'art. 1372 comma 2, per cui il contratto non produce effetti rispetto ai terzi che nei casi previsti dalla legge (ivi, altresì il rilievo che con riguardo all'acquisto di un bene destinato ai bisogni familiari, che sia stato effettuato da un coniuge in nome proprio, l'invocabilità da parte del venditore dell'obbligazione solidale dell'altro coniuge, sotto il profilo della apparenza del diritto, postula circostanze idonee ad indurre nel ragionevole convincimento della stipulazione del contratto anche in rappresentanza di detto altro coniuge, e, pertanto, non può discendere dalla sola sussistenza del rapporto coniugale e dall'indicata destinazione del bene compravenduto). Benché — pertanto — la moglie, di regola, sia responsabile in proprio, senza impegnare in alcun modo il marito, per le obbligazioni da lei contratte, pur se riconducibili all'interesse della famiglia, tuttavia il marito è responsabile delle obbligazioni contratte in suo nome dalla moglie — oltre che nei casi in cui le abbia conferito, in forma espressa o tacita, una procura a rappresentarlo — tutte le volte in cui sia stata posta in essere una situazione tale da fare ritenere, alla stregua del principio della apparenza giuridica, che la moglie abbia contratto una determinata obbligazione non già in proprio, ma in nome del marito (Cass. 7 luglio 1995 n. 7501, Giust civ. 1996, I, 142; Dir. famiglia 1996, 95; Famiglia e diritto 1996, 140; Studium Juris 1996, 229). In termini generali, ancora, in altra occasione la S.C. ha affermato, altresì, che l'obbligo imposto dall'art. 147 ad entrambi i coniugi di mantenere, educare ed istruire la prole comune si riverbera nei rapporti esterni, con la conseguenza che, ove trattasi di obbligazioni derivanti dal soddisfacimento di esigenze primarie della famiglia, quali, in particolare, la cura della salute, deve riconoscersi il potere dell'uno e dell'altro coniuge, con efficacia verso i terzi (creditori), in virtù di un mandato tacito, di compiere gli atti occorrenti e di assumere le correlative obbligazioni con effetti vincolanti per entrambi, in deroga al principio secondo cui soltanto il coniuge che ha personalmente stipulato l'obbligazione, risponde del debito contratto (nella specie: obbligazione contratta da uno dei genitori per inevitabili prestazioni sanitarie erogate da un professionista alla moglie ed ai figli minori della coppia) (Cass. 25 luglio 1992 n. 8995, Dir. famiglia 1993, 91; Vita not. 1993, 219; Giur. it. 1993, I, 1, 1512; Nuova giur. civ. comm. 1994, I, 26). In base al concreto interesse delle parti — si è precisato sempre in sede di legittimità — può essere considerato parte sostanziale di un rapporto anche il coniuge rimasto apparentemente estraneo alla contrattazione, con conseguente sua responsabilità solidale per le obbligazioni assunte dall'altro coniuge (Cass. 8 gennaio 1998 n. 87, Giust. civ. 1998, I, 1314: nella specie il giudice di merito — con pronunzia confermata dal S.C. — aveva accertato che il marito separato, pur non avendo partecipato alle trattative intercorse tra la moglie ed il gestore di uno stabilimento balneare, per il rinnovo della locazione stagionale di una cabina e di una tenda da sole, che da molti anni erano adoperate dalla moglie stessa e dalla figlia minore, da tempo aderiva di fatto a tale utilizzo, così inducendo il ragionevole affidamento del gestore, e da tale accertamento aveva desunto che egli doveva ritenersi solidalmente obbligato con la moglie per le relative obbligazioni, individuando ulteriore conferma della sussistenza dell'obbligazione solidale nel comportamento tenuto dal marito che non aveva contestato la richiesta del gestore ed aveva contestualmente promesso di pagare). Da parte dei giudici di merito, in argomento, si è precisato, tra l'altro: — quando non risulti esplicitamente dall'atto che le obbligazioni siano state assunte da entrambi i coniugi (soggetti al regime legale della comunione dei beni), il coniuge estraneo all'atto non può essere tenuto al pagamento, non avendo contratto alcuna obbligazione (nella specie: acquisto di merce, corredo per la casa, con commissione intestata ad entrambi i coniugi, ma sottoscritta soltanto da uno) (Trib. Reggio Calabria 27 gennaio 1979, Giust. civ. 1980, I, 2821, con nota critica di PANUCCIO, In tema di responsabilità dei coniugi per le obbligazioni assunte nell'interesse della famiglia, secondo la quale i coniugi sono, in ogni caso, entrambi obbligati solidalmente nei confronti della famiglia: « il vincolo di solidarietà si rivela, oltreché sul piano logico-giuridico, anche sul piano operativo, nell'ambito cioè delle possibilità che i coniugi hanno di regolare le modalità dei reciproci obblighi stabilendo le forme dell'impegno e la misura dei loro contributi nell'ambito familiare ». Nello stesso senso, in assenza di una situazione di apparenza, il coniuge non risponde solidalmente dell'obbligazione assunta personalmente dall'altro coniuge per soddisfare bisogni della famiglia, Trib. Roma 21 gennaio 1994, Gius 1994, f. 7, 152); — in caso di acquisto di un bene nell'interesse della famiglia, da parte di un coniuge vivente in regime di comunione legale, della obbligazione di pagare il prezzo può essere chiamato a rispondere l'altro coniuge, anche se l'acquisto avvenne a sua insaputa o, addirittura, contro la sua volontà (Pret. Brunico 28 ottobre 1987, Archivio Giurisprudenza e Merito del Centro Elettronico di Documentazione della Cassazione); — quale che sia il regime patrimoniale adottato dai coniugi, in regime di convivenza, il marito risponde dei debiti contratti dalla moglie allo scopo di far fronte alle necessità familiari, nell'ampio quadro degli obblighi di cui agli artt. 143 e 147, pur quando egli non si sia direttamente giovato degli acquisti compiuti dalla moglie (App. Perugia 3 aprile 1987, Dir. famiglia 1987, 662). In dottrina, sulla questione specifica, tra gli altri, oltre PANUCCIO, op. cit., 2822 ss.; CARAVAGLIOS, Rilevanza esterna del regime primario della famiglia e responsabilità solidale dei coniugi, Nuova giur. civ. comm. 1994, I, 29; MUSY, Il coniuge massaio va dal dentista, Giur. it. 1993, I, 1, 1511; PERCHINUNNO, Dovere di contribuzione e responsabilità per i debiti familiari, Rass. dir. civ. 1992, 631; PERRELLA, Effetti dell'acquisto da parte di un coniuge e responsabilità personale di chi lo compie. L'apparenza inganna, Giust. civ. 1996, I, 2371; STAGLIANO, In materia di obbligazioni contratte individualmente per i bisogni della famiglia: è già solidarietà?, Dir. Famiglia 1994, 80. 2. Segue: b) apparenza del diritto, al fine di sostenere il ragionevole affidamento del creditore che il coniuge agisse in nome e per conto dell'altro coniuge. — In materia di rapporti patrimoniali tra coniugi, il contraente che ha contrattato con uno solo dei coniugi può invocare il principio dell'apparenza del diritto, al fine di sostenere il suo ragionevole affidamento sul fatto che questi agisse anche in nome e per conto dell'altro coniuge solo qualora si verifichino le seguenti condizioni: a) uno stato di fatto non corrispondente allo stato di diritto; b) il ragionevole convincimento del contraente, derivante da errore scusabile, che lo stato di fatto rispecchiasse la realtà giuridica. Deriva da quanto precede, pertanto, che, per poter invocare il principio dell'apparenza del diritto, il terzo deve comunque provare la propria buona fede e la ragionevolezza dell'affidamento, non essendo invocabile il principio in questione da chi versi in colpa per aver omesso di accertare, in contrasto con la stessa legge oltre che con le norme di comune prudenza, la realtà delle cose (Cass. 15 febbraio 2007, n. 3471, cit., che ha confermato la sentenza di merito che, in riferimento ad un contratto di mutuo concesso da una sorella al fratello, aveva rigettato la domanda della mutuante volta a ritenere obbligata anche la moglie del mutuatario, non avendo addotto elementi fattuali sufficienti a ritenere che potesse incolpevolmente ritenersi che questi agisse anche in nome e per conto della moglie). 3. Obbligazioni contratte separatamente dai coniugi: rapporti tra i coniugi stessi. — Il principio secondo il quale l'obbligazione assunta separatamente da uno dei coniugi in regime di comunione legale non pone l'altro coniuge nella situazione di coobbligato solidale non spiega alcuna influenza nei rapporti interni tra i coniugi stessi, rilevando soltanto sotto il (diverso) profilo dell'invocabilità, da parte del terzo creditore, della garanzia dei beni della comunione ovvero del coniuge non stipulante. Deriva da quanto precede, pertanto, che, adempiuta in toto l'obbligazione nei confronti del terzo creditore, il coniuge personalmente obbligatosi ha diritto alla restituzione, da parte dell'altro coniuge, della metà della somma versata (Cass. 4 giugno 1999 n. 5487, Famiglia e diritto 1999, 496, che nell'affermare il principio di diritto che precede, ha, escluso che, nella specie, si vertesse in tema di obbligazioni separatamente contratte da uno dei coniugi, risultando ex actis la evidente compartecipazione dell'altro coniuge all'assunzione di un'obbligazione cambiaria funzionale all'ottenimento di un mutuo di scopo). 4. Applicabilità dell'art. 189 alle obbligazioni risarcitorie conseguenti il fatto illecito commesso da uno dei coniugi. — L'art. 189 non concerne le sole obbligazioni « contratte » separatamente dai coniugi, ma anche quelle risarcitorie conseguenti il fatto illecito commesso da uno dei coniugi in regime di comunione legale (Cass., sez. un., 4 agosto 1998 n. 7640, Giust. civ. 1999, I, 791, con nota, sul punto adesiva di FINOCCHIARO M., Le Sezioni unite e l'art. 189 c.c.: un incontro mancato; Giur. it. 1999, 741, con nota sul punto critica di LOBASSO, Responsabilità aquiliana e regime di comunione legale; Studium Juris 1998, 1383; Famiglia e diritto 1999, 138, con nota critica di MORA, Rapporti patrimoniali tra coniugi. Debito personale del coniuge e responsabilità della comunione legale; Corr. giur. 1999, 204, con nota parzialmente critica di DE PAOLA, Rapporti patrimoniali tra coniugi. La responsabilità sussidiaria della comunione legale ex art. 189 c.c.: responsabilità al 50% o per intero; Notariato 1999, 121, con nota di SASSOLI, Debito personale del coniuge e debito della comunione). 5. Obbligazioni personali del coniuge: esecuzione su interi beni comuni, ammissibilità. Limite dell'esecuzione. È data dal valore della « quota » del coniuge obbligato sul complesso dei beni comuni. — In caso di comunione legale dei beni e di debiti personali di uno dei coniugi la responsabilità dei beni della comunione è regolata dall'art. 189 c.c. Ne segue, pertanto, che è legittima, in caso di inadempimento del coniuge obbligato, l'esecuzione su uno o più beni della comunione, aggrediti per l'intero ai fini della soddisfazione su tutto il loro ricavato, ma fino al valore corrispondente a quello spettante sull'intera massa comune al coniuge debitore. In particolare, « la lettera e la ratio della norma » — di cui all'art. 189, comma 2, — sono « nel senso che ciascun creditore particolare del coniuge, in regime di comunione legale, può soddisfarsi, in via sussidiaria, sui singoli beni della comunione “fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato” », correttamente, pertanto, la sentenza dei giudici del merito « letta nell'insieme tra motivazione e dispositivo, ha seguito la strada della legittimità del sequestro di uno o più beni della comunione legale, aggrediti per l'intero ai fini della soddisfazione su tutto il loro ricavato, ma fino al valore corrispondente a quello spettante sull'intera massa comune al coniuge debitore » (Cass., sez. un., 4 agosto 1998 n. 7640, Giust. civ. 1999, I, 791, con nota, sul punto critica di FINOCCHIARO M., Le Sezioni unite e l'art. 189 c.c.: un incontro mancato; Giur. it. 1999, 741, con nota sul punto informativa di LOBASSO, Responsabilità aquiliana e regime di comunione legale; Studium Juris 1998, 1383; Famiglia e diritto 1999, 138, con la già ricordata nota di MORA, Rapporti patrimoniali tra coniugi. Debito personale del coniuge e responsabilità della comunione legale; Corr. giur. 1999, 204, con nota parzialmente critica di DE PAOLA, Rapporti patrimoniali tra coniugi. La responsabilità sussidiaria della comunione legale ex art. 189 c.c.: responsabilità al 50% o per intero; Notariato 1999, 121 con nota di SASSOLI, Debito personale del coniuge e debito della comunione). In termini generali, i beni acquisiti alla comunione non possono essere oggetto di azione esecutiva dei creditori individuali di uno dei coniugi, se non nei limiti della quota di sua spettanza, Cass. 23 gennaio 1990 n. 351, Banca, borsa, tit. cred. 1991, II, 4; Rass. giur. Enel 1991, 516. Il creditore particolare di uno dei coniugi — si è precisato da parte di un giudice di merito — può soddisfarsi su interi beni della comunione legale, nei limiti del valore della quota del coniuge obbligato sull'intera massa comune (Trib. Prato 21 novembre 1985, Giur. it. 1988, I, 2, 824, con nota adesiva di PARENTE, La responsabilità sussidiaria dei beni della comunione legale per debiti personali). 6. Esecuzione forzata promossa dal creditore personale di uno dei coniugi in regime di comunione legale sui beni rientranti in detta comunione: a) audizione del coniuge non debitore, necessità. — Nel caso di esecuzione forzata intrapresa dal creditore particolare di uno solo dei coniugi, su beni oggetto di comunione legale fra gli stessi, si è precisato da parte del S.C. che non può procedersi alla vendita della quota del singolo bene di spettanza del coniuge debitore se non dopo la previa audizione dell'altro coniuge affinché quest'ultimo possa eventualmente far valere le limitazioni di cui agli artt. 187 e 189. Conf. Trib. Salerno 12 novembre 2008. In difetto di una tale audizione il procedimento esecutivo deve arrestarsi, tenuto presente che il coniuge non debitore — d'altronde — è parte necessaria del giudizio nato dall'opposizione proposta avverso l'ordinanza di vendita (Cass. 27 gennaio 1999 n. 718, Foro it. 1999, I, 2588 con nota informativa di IOZZO, Creditori personali del conigue e espropriazione forzata dei beni della comunione legale ex art. 189, 2o comma, c.c.; Notariato 1999, 311, con nota di FRANGINI, Espropriazione del bene in comunione legale col coniuge e forme dell'esecuzione). 7. Segue: b) tutela del coniuge non obbligato, contenuto. — Nel corso dell'esecuzione forzata promossa dal creditore personale di uno dei coniugi in regime di comunione legale sui beni rientranti in detta comunione, al coniuge non obbligato vanno riconosciuti i rimedi processuali tanto della opposizione di terzo, quanto della opposizione agli atti esecutivi (nella motivazione, si è precisato che con l'opposizione di terzo all'esecuzione il coniuge non personalmente obbligato può far valere la natura sussidiaria della responsabilità della comunione rispetto a quella personale dell'altro coniuge, per cui il credito non può soddisfarsi illimitatamente sui beni in comunione legale, mentre con l'opposizione agli atti esecutivi egli può denunciare che l'esecuzione interferisce processualmente sulla propria posizione, con conseguente privazione del potere di separazione della quota) (Cass. 2 agosto 1997 n. 7169, Foro it. 1999, I, 2589, con la già ricordata nota informativa di IOZZO, Creditori personali del coniuge e espropriazione forzata dei beni della comunione legale ex art. 189, 2o comma, c.c.). Sempre in margine alla tutela da accordare al coniuge non debitore, da parte di un giudice di merito si è affermato, ancora, che in regime di comunione legale di beni tra coniugi, a differenza della comunione ordinaria ex art. 1100 e seguenti, nell'ipotesi di azione espropriativa immobiliare (per l'intero o pro quota) intrapresa dal creditore personale del coniuge (co)intestatario del bene, non può prescindersi dalle formalità e dalle incombenze idonee a rendere consapevoli dell'azione stessa il coniuge non esecutato e gli altri creditori, personali o della comunione, in modo da dare loro la possibilità di far valere, nell'ambito della procedura, i propri diritti, ed in particolare, rispettivamente, il diritto di chiedere la separazione giudiziale dei beni ed il diritto di vedere risolti eventuali conflitti relativi alla distribuzione del ricavato dell'esproprio ex art. 512 c.p.c. Ciò premesso e ritenuta l'indisponibilità del bene a seguito del pignoramento e della trascrizione, anche nei confronti del coniuge non esecutato, si è affermato che il creditore personale del coniuge, che voglia procedere all'espropriazione del bene intestato solo a quest'ultimo, dovrà produrre l'estratto di matrimonio con annotazioni marginali relative al debitore esecutato ed i certificati immobiliari relativi alle trascrizioni ed iscrizioni contro il coniuge non esecutato, fino alla data della trascrizione del pignoramento. Il creditore personale medesimo dovrà altresì curare che l'avviso di cui all'art. 498 c.p.c. venga dato ai creditori iscritti di entrambi i coniugi, e che l'istanza di vendita, la pubblicità circa la fissazione dell'udienza di comparizione e l'ordine di vendita abbiano a contenere l'indicazione del regime matrimoniale (patrimoniale) cui è soggetto il bene, tutto o pro quota, pignorato nonché le generalità del coniuge non esecutato, al fine di consentire l'intervento degli altri creditori ed, in ispecie, di quelli privilegiati della comunione. Gli oneri e le incombenze che precedono sono invero diretti a conferire validità ed efficacia al decreto di trasferimento ed alla sua trascrizione anche nei confronti del coniuge non esecutato, in conformità alla disciplina della comunione legale (Trib. Napoli 6 aprile 1990, Dir. famiglia 1991, 588, con nota di CAPPIELLO, Espropriazione forzata e comunione legale tra coniugi). La disposizione codicistica di cui all'art. 189 c.c., secondo cui i creditori particolari di uno dei coniugi possono soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione "fino al valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato" sta a significare che al creditore particolare potrà essere assegnata solo la metà del ricavato, ma non è indicativa della circostanza che la comunione legale sia assimilabile ad una comunione ordinaria per quote e che dunque il creditore possa pignorare la metà dei beni appartenenti alla comunione legale; è invece necessario che il creditore procedente pignori l'intero bene, atteso che la norma prevede che il creditore possa soddisfarsi sui beni della comunione senza specificazione alcuna e che tale soluzione appare coerente con la previsione dell'art. 192 c.c., il quale impone a ciascuno dei coniugi l'obbligo di rimborsare alla comunione (e non all'altro coniuge) il valore dei beni di cui all'art. 189 c.c. e non già la quota espropriata pari alla metà di ogni singolo bene aggredito in via esecutiva. Qualora poi il procedente pignori la quota di metà, si dovrà dar corso all'ordinario giudizio divisionale (Trib. Mantova 5 maggio 2009, Notariato 2009, 482). 8. Mutuo contratto dal coniuge per l'abitazione coniugale. — Il coniuge che, in costanza di matrimonio, ha assunto in via esclusiva il mutuo per l'abitazione coniugale, non può poi, intervenuta la separazione, pretendere che l'altro coniuge sia onerato della metà del mutuo stesso, pur se tra le parti vi sia regime di comunione legale, e pur se si tratta di obbligazione assunta per soddisfare i bisogni familiari, in quanto ciò comunque non pone l'altro coniuge nella veste di debitore solidale (Trib. Napoli 30 settembre 2003, Giur. napoletana 2004, 20). 9. Creditori particolari del coniuge e azione esecutiva nei confronti dei beni comuni: oggetto della espropriazione — L'oggetto dell'espropriazione non può essere rappresentato dalla metà del bene immobile facente parte della comunione legale dei coniugi perché l'indicato bene non è specificamente determinato, rappresentando una quota astratta di incerto ammontare, con conseguente rigetto dell'istanza di vendita del 50% della quota indivisa del bene immobile pignorato di proprietà dei coniugi in regime di comunione legale. Il creditore, infatti, deve sottoporre ad esecuzione l'intero cespite in comunione (Trib. Trapani 15 marzo 2005, Giur. merito 2005, 1287). Sempre in questo senso da parte di altro giudice di merito si è affermato che nell'istituto della comunione legale la quota non è un elemento strutturale, ma ha soltanto la funzione di stabilire la misura entro cui i beni della comunione possono essere aggrediti dai creditori particolari (art. 189), la misura della responsabilità sussidiaria di ciascuno dei coniugi con i propri beni personali verso i creditori della comunione (art. 190), ed infine la proporzione in cui, sciolta la comunione, l'attivo ed il passivo saranno ripartiti tra i coniugi ed i loro eredi (art. 194). La quota nella comunione legale fornisce quindi solo l'astratta misura del riparto, suscettibile di applicazione (e quindi di concreta realizzazione del proprio contenuto patrimoniale) nella sola fase di scioglimento della comunione. Corollario del principio di indisponibilità della quota nella comunione legale è l'inespropriabilità da parte del creditore personale del coniuge della “quota” di pertinenza di quest'ultimo. Ove peraltro si ammettesse l'espropriazione della quota si giungerebbe alla conclusione, incompatibile con la natura ed il fondamento della comunione legale dei beni, della sostituzione del coniuge, all'interno della comunione legale, con un terzo estraneo al rapporto coniugale, l'aggiudicatario della quota escussa. Per giungere a tale risultato, si dovrebbe dapprima passare attraverso lo scioglimento della comunione, e dunque si dovrebbe concepire l'espropriazione forzata da parte del creditore particolare come causa di scioglimento della comunione legale, in modo che il creditore possa soddisfarsi sulla quota di liquidazione. Una tale soluzione, tuttavia, contrasta con il principio di tassatività delle cause di scioglimento della comunione legale così come elencate dall'art. 191. Ne consegue che oggetto dell'azione esecutiva può essere solo il singolo bene comune, e non la quota indivisa. In sede di riparto finale, poi, assegnato ai creditori il valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato, il residuo dovrà essere restituito alla comunione legale, e non all'altro coniuge. La comunione legale, infatti, per effetto dell'espropriazione forzata, non si è sciolta, ma soltanto materialmente ristretta. Occorre, pertanto, in ipotesi di beate ricadente in comunione legale, vendere l'intero e soddisfare i creditori del coniuge debitore sulla metà del ricavato, con restituzione alla comunione dell'altra metà. (Trib. Bari 21 marzo 2007, Merito 2008, f. 1-2, 23). 10. Segue: pignoramento, effetti. Indisponibilità del bene. — Il pignoramento (per l'intero o pro quota) del bene in comunione legale effettuato nei confronti di uno solo dei coniugi, comporta l'indisponibilità anche nei confronti dell'altro coniuge e la trascrizione del pignoramento, anche se effettuata nei confronti di uno solo dei coniugi, spiegherà comunque i suoi effetti contro entrambi (Trib. Roma 11 giugno 2005, Giur. merito 2006, 933). Analogamente, in altra occasione si è osservato — sempre in sede di merito — che il pignoramento per l'intero del bene in comunione nei confronti del coniuge debitore comporta l'indisponibilità anche nei confronti del coniuge non esecutato. Il creditore deve dare avviso della intrapresa esecuzione al coniuge non debitore il quale potrà scegliere se contenere o meno l'escussione in termini compatibili con il rispetto della quota del coniuge debitore. A tal fine il coniuge non debitore potrà chiedere la separazione giudiziale dei beni comuni. In mancanza, il creditore procedente potrà subastare l'intero bene pignorato pur se oggetto di comunione e pure se il valore supera quello della quota del coniuge debitore, fatto comunque salvo l'obbligo di rimborso in favore della comunione ex art. 192 comma 2 a carico del coniuge esecutato (Trib. Roma 28 dicembre 2005, Giur. merito 2006, 1640). Non diversamente, in altra occasione, sempre in sede di merito si è affermato che qualora il coniuge non esecutato intenda preservare la propria quota in comunione, evitando l'espropriazione per l'intero, nel caso in cui il valore del bene pignorato superi quello della quota spettante al coniuge debitore in comunione, egli dovrà far valere le sue ragioni nelle forme della opposizione all'esecuzione introducendo in quella sede la domanda di separazione giudiziale dei beni ai sensi dell'art. 193, fino a quando il processo esecutivo non sia terminato con l'assegnazione del bene o la distribuzione della somma ricavata (Trib. Roma 25 marzo 2005, Giur. merito 2006, 1641). In margine alle pronunzie sopra richiamate, Trib. Roma 28 dicembre 2005 e Trib. Roma 25 marzo 2005, cit., LOMBARDI A., Espropriazione forzata dei beni della comunione legale e responsabilità sussidiaria ex art. 189, 2o comma, Giur. merito 2006, 1642, che affronta tra l'altro, il problema specifico della influenza, delle nuove norme in tema di espropriazione. Ad una analisi preliminare della nuova fisionomia degli istitituti giuridici di cui si è fatta applicazione nelle sentenze in commento — che riflettono l'impostazione dogmatica più corretta e la prassi applicativa più diffusa — così come tratteggiata dalla normativa di riforma delle esecuzioni immobiliari di cui al d.l. n. 35 del 2005 (convertito in l. n. 80 del 2005, in vigore dal 1 marzo 2006) — afferma l'A. — può sostenersi che il procedimento di espropriazione forzata dei beni appartenenti alla comunione legale, in forza della responsabilità sussidiaria ex art. 189 comma 2, non sia destinato a subire variazioni di rilievo rispetto all'iter appena delineato. Le sostanziali modifiche apportate alla norma di cui all'art. 492 c.p.c., rubricata « forma del pignoramento » toccano soltanto marginalmente il peculiare procedimento in questione, intrapreso con l'esecuzione del pignoramento nei confronti del coniuge debitore che, per la peculiare situazione di contitolarità del diritto, produrrà i suoi effetti tipici anche nei confronti dell'altro coniuge. Può, tuttavia, osservarsi che la possibilità (ex comma 4) che il debitore, su invito dell'ufficiale giudiziario, renda dichiarazioni indicando ulteriori beni utilmente pignorabili, seppure ancorata alla ricorrenza di specifici presupposti (insufficienza dei beni assoggettati a pignoramento e prevedibile lunga durata della liquidazione), possa risultare strumento utile nella prospettiva di garantire effettività alla natura sussidiaria della responsabilità della comunione ex art. 189 comma 2. Il debitore, difatti potrebbe in quella sede indicare beni in proprietà esclusiva da aggredire con preferenza rispetto ai cespiti oggetto di comunione, così perseguendo, nel medio raggio, obiettivi di deflazione processuale, considerato che la pretesa pretermissione del beneficium ordinis (o excussionis, a seconda dell'opinione che si segua) di cui all'art. 189 comma 2 deve essere fatta valere dal coniuge non debitore in sede di opposizione alla esecuzione. Nessuna variazione è, viceversa, stata apportata alle norme regolanti gli avvisi da dare ai creditori con prelazione di ambedue i coniugi ed al coniuge non debitore e segnatamente, gli artt. 498 (avviso ai creditori iscritti), 599 comma 2 (avviso del pignoramento), 600 c.p.c. e 180 comma 2 disp. att. c.p.c. (avviso di convocazione). Le modifiche introdotte al comma 2 dell'art. 600 c.p.c., infine, non tangono la fattispecie de quo, poiché, come in precedenza illustrato, la convocazione del coniuge non debitore non è strumentale alla assunzione di notizie utili alla assunzione dei provvedimenti in ordine alla separazione in natura, vendita della quota indivisa o divisione giudiziale, rivestendo, alla luce della enunciata interpretazione evolutiva, finalità informative e di garanzia in favore del coniuge non esecutato. V. n. seguente. 11. Segue: coniuge non esecutato, notifiche. — Al coniuge non esecutato devono essere notificati l'avviso di pignoramento ex art. 599 c.p.c. e l'avviso di convocazione ex art. 600 c.p.c. e 180 disp. att. c.p.c., mentre l'avviso di cui all'art. 498 c.p.c. va notificato ai creditori con diritto di prelazione risultanti da pubblici registri di ambedue i coniugi, al fine di consentire la piena attuazione dell'art. 189 comma 2 (Trib. Roma 25 marzo 2005, Giur. merito 2006, 1641, con nota di LOMBARDI A., Espropriazione forzata dei beni della comunione legale e responsabilità sussidiaria ex art. 189, 2o comma, ricordata al n. precedente). Sempre in argomento, in altra occasione, da parte dello stesso tribunale si è precisato, altresì, che l'avviso di cui all'art. 498 c.p.c., che mette a conoscenza dell'espropriazione i creditori iscritti, deve essere necessariamente notificato ai creditori di entrambi i coniugi, al fine di consentire la piena attuazione dell'art. 189 comma 2, (Trib. Roma 11 giugno 2005, Redazione Giuffrè 2005). 12. Segue: esistenza di beni personali; eccezione, onere della prova. — Grava sul coniuge debitore e sul coniuge non esecutato dimostrare l'esistenza di beni personali del coniuge esecutato, sui quali il creditore particolare del coniuge possa soddisfarsi ex art. 189 (Trib. Cassino 7 gennaio 2005, Nuovo dir. 2005, 239, con nota informativa di LOTITO G., L'art. 618-bis c.p.c. e l'opposizione di terzo ex art. 619 c.p.c. - Creditore particolare del coniuge in regime di comunione legale ed esecuzione forzata ex art. 189, 2o comma. Art. 190. Responsabilità sussidiaria dei beni personali. I creditori possono agire in via sussidiaria sui beni personali di ciascuno dei coniugi, nella misura della metà del credito, quando i beni della comunione non sono sufficienti a soddisfare i debiti su di essi gravanti. Bibliografia: OPPO, Responsabilità patrimoniale e nuovo diritto di famiglia, Riv. dir. civ. 1976, I; A. FINOCCHIARO, M. FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, I, Milano, 1984; GIONFRIDA DAINO, La posizione dei creditori nella comunione legale tra coniugi, Padova, 1986; MALAGÙ, Esecuzione forzata e diritto di famiglia, Milano, 1986; MANGANO, Comunione dei beni tra coniugi. II) Profili processuali, Enc. Giur., VII, Roma, 1988; La responsabilità sussidiaria dei beni personali, La comunione legale, a cura di Bianca, Milano, 1989; MASTROPAOLO, PITTER, sub art. 190, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; TOMMASEO, Debiti della comunione legale e indicazione del coniuge nel titolo esecutivo, Famiglia e diritto 1994; BERNARDI, BOCCHINI, Rapporto coniugale e circolazione dei beni, 2ª ed., Napoli, 1995; BARBIERA, La comunione legale, Tratt. Rescigno, 3, 2ª ed., Torino, 1996; GABRIELLI, Regime patrimoniale della famiglia, Digesto civ., XVI, Torino, 1997; BRUSCUGLIA, L'amministrazione, la responsabilità e lo scioglimento della comunione legale, Il diritto di famiglia, II, Tratt. Bessone, IV, Torino, 1999; GRASSELLI, in ZANINI, GRASSELLI, Le obbligazioni della comunione e dei coniugi, in La famiglia, II, Torino, 2000; GNANI, Tutela del creditore e limiti della responsabilità sussidiaria nella comunione legale, in Familia, 2001; DE PAOLA, Il diritto patrimoniale della famiglia nel sistema del diritto privato, II, 2ª ed., Milano, 2002; MINNECI, Responsabilità patrimoniale dei coniugi in regime di comunione legale, in Regime patrimoniale della famiglia, in Tratt. Zatti, III, Milano, 2002; SANTOSUOSSO, Beni e attività economica della famiglia, 2ª ed., Giur. sist. Bigiavi, Torino, 2002; VERZERA, Le obbligazioni dei coniugi in comunione legale, in Manuale del nuovo diritto di famiglia, a cura di Cassano, Piacenza, 2003; GALASSO, Del regime patrimoniale della famiglia, I, Comm. Scialoja, Branca, Bologna-Roma, 2003; DI MARTINO, La responsabilità, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Il regime patrimoniale della famiglia, 2ª ed., Torino, 2007; AULETTA, Il diritto di famiglia, 9ª ed., Torino, 2008; RAIOLA, SALOMONE, Il regime patrimoniale della famiglia: questioni controverse, profili di responsabilità e tutela del coniuge debole, Padova, 2008; AA.VV., Il regime patrimoniale della famiglia, a cura di A. Arceri e M. Bernardini, Santarcangelo di Romagna, 2009; BALESTRA, Attività d'impresa e rapporti familiari, Padova, 2009; TESTA, Rapporti patrimoniali e famiglia nell'evoluzione interpretativa della riforma del diritto di famiglia, Milano, 2010; BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, 5ª ed., Torino, 2010; OBERTO, La comunione legale tra coniugi, Tratt. Cicu, Messineo, Milano, 2010. Sommario: 1. Deroga all'art. 190 c.c.: clausola vessatoria. 1. Deroga all'art. 190 c.c.: clausola vessatoria. — Ha affermato un giudice di merito che sono vessatorie le clausole che in deroga all'art. 190 autorizzano la banca ad agire in via principale, anziché sussidiaria, e per l'intero credito sui beni personali di ciascuno dei coniugi cointestatari (Trib. Roma 21 gennaio 2000, Banca, borsa, tit. cred. 2000, II, 207. Analogamente App. Roma 24 settembre 2002, Giur. romana 2003, 138). Sezione V. Del regime di separazione dei beni. Art. 215. Separazione dei beni. I coniugi possono convenire che ciascuno di essi conservi la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio. Bibliografia: BELLANTONI e PONTORIERI, La riforma del diritto di famiglia, Napoli 1975, 173-179; CATTANEO, Commentario alla riforma del diritto di famiglia, a cura di Carraro, Oppo, Trabucchi, I, 1, 468-488; MAZZOCCA, I rapporti patrimoniali tra coniugi nel nuovo diritto di famiglia, Milano 1976, 155-164; TAMBURINO, Lineamenti del nuovo diritto di famiglia italiano, Torino 1976, 238-239; DE PAOLA, MACRÌ, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano 1978, 261-277; M. FINOCCHIARO, in A. e M. Finocchiaro, Diritto di famiglia, I, Milano 1984, 1205-1220; GIUSTI, Separazione dei beni tra coniugi, ED, XLI, Milano, 1989; CATTANEO, Commentario al diritto italiano della famiglia, III, Padova 1992, 415-449; CATTANEO, Note introduttive agli articoli 215-219, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; Id., sub art. 215, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; SESTA e VALIGNANI, Il regime di separazione dei beni, Trattato di diritto di famiglia, diretto da P. Zatti, II, Milano 2002, 459 ss.; MONTANARI, Riforma del diritto fallimentare e famiglia, FPS, 2006; ZACCARIA, La separazione dei beni, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Torino, 2007; AA.VV., Il regime patrimoniale della famiglia, a cura di A. Arceri e M. Bernardini, Santarcangelo di Romagna, 2009; AA.VV., Codice della famiglia, a cura di M. Sesta, 2ª ed., Milano, 2009; BONILINI, Manuale di diritto di famiglia, 5ª ed., Torino, 2010. Sommario: 1. Adesione dei coniugi al regime di separazione dei beni: non soggezione dei successivi acquisti personali alla pubblicità di cui all'art. 2647 c.c. — 2. Regime di separazione dei beni e patto fiduciario. Onere della prova. — 3. Coniugi soggetti alla comunione: regime di separazione con riguardo a un unico bene. Condizioni. — 4. Regime previgente: comunione universale dei beni ex art. 215 ss. (nella formulazione originale). — 5. Presunzione muciana: esclusione. Rinvio. 1. Adesione dei coniugi al regime di separazione dei beni: non soggezione dei successivi acquisti personali alla pubblicità di cui all'art. 2647 c.c. — L'art. 2647 (come modificato dall'art. 206, l. 19 maggio 1975 n. 151) nella parte in cui dispone « devono essere trascritte, se hanno per oggetto beni immobili… le convenzioni matrimoniali che escludono i beni medesimi dalla comunione tra i coniugi… » fa riferimento alle convenzioni stipulate dai coniugi per porre in vita regimi convenzionali di comunione dei beni, ai sensi dell'art. 210 e prevede che, qualora uno dei coniugi proceda all'acquisto di un immobile che, secondo il regime legale, sarebbe comune ma, in forza del regime convenzionale, è personale, cioè escluso dalla comunione, deve trascriversi, in una con l'atto d'acquisto, anche la modifica convenzionale della comunione legale dei beni. Ne segue che, operata (e pubblicizzata mediante annotazione a margine dell'atto di matrimonio) la scelta del regime di separazione, gli acquisti immobiliari fatti « successivamente » in via esclusiva da uno dei coniugi non sono soggetti anche alla particolare pubblicità prevista dall'art. 2647 (Cass. 22 gennaio 1986 n. 397, Giust. civ. 1986, I, 989; Vita not. 1986, 263; Dir. famiglia 1986, 497; Riv. not. 1986, 1155. In dottrina, pressoché negli stessi termini, FINOCCHIARO M., in A. e M.FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, II, Milano 1984, 2439 ss., in part. 2443-2444). 2. Regime di separazione dei beni e patto fiduciario. Onere della prova. — Qualora, in regime di separazione dei beni, uno dei coniugi assuma che gli acquisti dell'altro coniuge siano stati effettuati con l'apporto di danaro di entrambi, ed alleghi l'esistenza di un accordo fiduciario, in virtù del quale il coniuge intestatario unico dei beni acquistati si impegnava a riconoscere l'altro coniuge comproprietariodegli stessi, non è sufficiente, ai fini della prova del pactum fiduciae, di per sé ammissibile e rilevante, perché ricollegabile alla figura della c.d. fiducia statica, la dimostrazione dell'esborso di una parte del denaro occorrente per gli acquisti (Trib. Catania 31 dicembre 1985, Dir. famiglia 1986, 1080). Analogamente in sede di legittimità, con riferimento nella disciplina previgente alla riforma del diritto di famiglia di cui alla l. 19 maggio 1975 n. 151, si è precisato che il coniuge che reclami la comproprietà di un bene immobile, anche in una situazione di comunione tacita familiare, non può avvalersi della prova testimoniale, stante la necessità dell'atto scritto (art. 1350) (Cass. 27 febbraio 1989 n. 1062). 3. Coniugi soggetti alla comunione: regime di separazione con riguardo a un unico bene. Condizioni. — I coniugi in regime patrimoniale di comunione legale, al fine di effettuare l'acquisto anche di un solo bene in regime di separazione (tale essendo l'eventuale acquisizione in comunione ordinaria, che esige un regime di separazione), sono tenuti a previamente stipulare una convenzione matrimoniale derogatoria del loro regime ordinario, ai sensi dell'art. 162, sottoponendola alla specifica pubblicità per essa prevista, non essendo al riguardo viceversa sufficiente una più o meno esplicita indicazione contenuta nell'atto di acquisto, posto che questo non viene sottoposto alla pubblicità delle convenzioni matrimoniali, le quali solo conferiscono certezza in ordine al tipo di regime (patrimoniale) cui sono sottoposti gli atti stipulati dai coniugi (Cass. 24 febbraio 2004, n. 3647, Vita not. 2004, 971). 4. Regime previgente: comunione universale dei beni ex art. 215 ss. (nella formulazione originale). — Con riguardo all'acquisto di un bene immobile effettuato da uno dei coniugi a proprio nome, prima della riforma di cui alla l. n. 151 del 1975, il diritto di comproprietà dell'altro coniuge, per uguale quota, può essere riconosciuto qualora risulti la ricorrenza di una comunione universale dei beni, secondo la previsione degli allora vigenti artt. 215-230 tenuto conto che la costituzione di tale comunione, riconducibile anche ad una intesa tacita dei coniugi medesimi implica ipso iure la caduta in comproprietà dei successivi acquisti effettuati dal singolo compartecipante, con la sola esclusione di quelli espressamente previsti dall'art. 217 (vecchio testo) (Trib. Pescara 5 maggio 2003, PQM 2004, 49, con nota di RIMATO S., La comunione patrimoniale dei coniugi alla luce dei principi costituzionali; Giur. Merito 2004, 1666). 5. Presunzione muciana: esclusione. Rinvio. — L'art. 70 l. fall., prima che intervenisse la riforma del diritto fallimentare (D.L. 14 marzo 2005, n. 35; D.Lgs 9 gennaio 2006, n. 5) sanciva che i beni acquistati a titolo oneroso dal coniuge del fallito, nel quinquennio anteriore alla dichiarazione di fallimento, si presumevano di fronte ai creditori e salvo prova contraria, acquistati con danaro del fallito e si consideravano di sua proprietà. Tale norma, invero, si riteneva già abrogata, implicitamente, dalla riforma del diritto di famiglia del '75, e la giurisprudenza riteneva inapplicabile la c.d. presunzione muciana indipendentemente dalla circostanza che i coniugi fossero in regime di comunione legale o di separazione dei beni (Cass., sez. un., 12 giugno 1997 n. 5291, Giust. civ. 1997, I, 2093, con nota adesiva di G. GIACALONE, Inapplicabilità della presunzione muciana ai coniugi in regime di separazione dei beni; Foro it. 1997, I, 2422; Arch. civ. 1997, 715, con nota informativa di SEGRETO, La scomparsa della presunzione muciana; Fallimento 1997, 1208, con nota di PANZANI, Atti pregiudizievoli ai creditori. Presunzione muciana e regime di separazione dei beni tra coniugi. Presunzione muciana: ultimo atto. Sempre nello stesso senso, per la giurisprudenza successiva, Cass. 11 febbraio 2000 n. 1501, Dir. e prat. soc. 2000, f. 12, 66, con nota di BUJIN, Presunzione muciana e regime patrimoniale di separazione dei beni). Con la riforma della legge fallimentare (D.L. 14 marzo 2005, n. 35; D.Lgs 9 gennaio 2006, n. 5), l'istituto è definitivamente scomparso anche dalla legge medesima (il cui art. 70 riguarda, oggi, gli effetti della revocatoria). Di conseguenza, i creditori, se il coniuge del fallito compie atti di disposizione, sono ora tutelati in via esclusiva dalle regole generali dettate contro gli atti pregiudizievoli (a cominciare dalla revoca ex artt. 64 ss. l. Fall.). V. ampiamente, per un approfondimento sia giurisprudenziale sia bibliografico, sub art. 177. Art. 216. (Articolo abrogato dall'art. 84, l. 19 maggio 1975 n. 151). Art. 217. Amministrazione e godimento dei beni. Ciascun coniuge ha il godimento e l'amministrazione dei beni di cui è titolare esclusivo. Se ad uno dei coniugi è stata conferita la procura ad amministrare i beni dell'altro con l'obbligo di rendere conto dei frutti, egli è tenuto verso l'altro coniuge secondo le regole del mandato. Se uno dei coniugi ha amministrato i beni dell'altro con procura senza l'obbligo di rendere conto dei frutti, egli ed i suoi eredi, a richiesta dell'altro coniuge o allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, sono tenuti a consegnare i frutti esistenti e non rispondono per quelli consumati. Se uno dei coniugi, nonostante l'opposizione dell'altro, ammini-stra i beni di questo o comunque compie atti relativi a detti beni risponde dei danni e della mancata percezione dei frutti. Bibliografia: CATTANEO, sub art. 217, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; ZACCARIA, La separazione dei beni, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Torino, 2007. Sommario: 1. Accordo sull'ammontare dell'indennità ex art. 26, l. 25 giugno 1865 n. 2359 per un bene della moglie, sottoscritto dal marito. Validità, condizioni. — 2. Beni acquistati da ciascun coniuge anteriormente alla data di entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151: regime giuridico. 1. Accordo sull'ammontare dell'indennità ex art. 26, l. 25 giugno 1865 n. 2359 per un bene della moglie, sottoscritto dal marito. Validità, condizioni. — In tema di espropriazione per pubblica utilità, l'accordo sull'ammontare dell'indennità, preveduto dall'art. 26 della l. 25 giugno 1865 n. 2359 — come per la cessione del bene ai sensi dell'art. 12 della l. n. 865 del 1971 — deve farsi per iscritto, sicché, quando esso sia convenuto da soggetto diverso dal proprietario, è necessario che questi l'abbia autorizzato con procura o mandato che, per la regola di corrispondenza tra forma di tali atti e forma di quello da concludersi dal rapprentante, dovrà essere stato anch'esso redatto per iscritto. Ne consegue che non è validamente sottoscritto dal marito l'accordo relativo ad un bene della moglie, se manchino una procura o mandato di questa redatti per iscritto, non essendo equivalente un mandato tacito rappresentativo sulla base dell'art. 217 (Cass. 29 dicembre 1988 n. 7090). 2. Beni acquistati da ciascun coniuge anteriormente alla data di entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151: regime giuridico. — Nell'ipotesi in cui i coniugi non abbiano convenuto di assoggettare i beni da loro acquistati anteriormente all'entrata in vigore della l. 19 maggio 1975 n. 151 al regime della comunione, entro il termine stabilito all'art. 228 di tale legge, detti beni restano soggetti al diverso regime della separazione in base al quale, a norma dell'art. 217 (nel nuovo testo introdotto dall'art. 85 della l. n. 151 del 1975), ciascuno dei coniugi conserva il godimento dei beni di cui è l'esclusivo titolare. Ne consegue che il coniuge proprietario-locatore di un appartamento può utilmente agire nei confronti dell'inquilino per la cessazione della proroga legale del contratto di locazione, adducendo la necessità per motivi di lavoro, anche quando, in regime di separazione dei beni, l'altro coniuge abbia venduto un appartamento di sua esclusiva proprietà, non potendo il primo vantare su questo bene alcun proprio diritto e, quindi, impedire l'alienazione, sia pure per soddisfare con esso le esigenze della sua attività lavorativa (Cass. 19 febbraio 1981 n. 1017). Art. 218. Obbligazioni del coniuge che gode dei beni dell'altro coniuge. Il coniuge che gode dei beni dell'altro coniuge è soggetto a tutte le obbligazioni dell'usufruttuario. Bibliografia: CATTANEO, sub art. 218, Comm. Cian, Oppo, Trabucchi, III, Padova, 1992; RIGHI E., La Cassazione conferma la legittima applicazione dell'ICI a carico del coniuge separato non assegnatario dell'alloggio familiare, ma proprietario dello stesso, Bollettino trib. 2007, 1163; SALVATI A., Assegnazione della casa familiare e imposta comunale sugli immobili, Famiglia e diritto 2007, 775.; ZACCARIA, La separazione dei beni, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Torino, 2007. Sommario: 1. Coniuge assegnatario della casa familiare in regime di separazione legale e Ici: art. 218: inapplicabilità. 1. Coniuge assegnatario della casa familiare in regime di separazione legale e Ici: art. 218: inapplicabilità. — L'articolo in commento, con disposizione derogabile dai coniugi, assoggetta il coniuge che gode dei beni dell'altro a tutte le obbligazioni dell'usufruttuario: ad esempio, l'obbligo di non alterare la destinazione del bene, di custodirlo fino alla consegna, di provvedere alle spese per la manutenzione ordinaria, di pagare le imposte come sancito dall'art. 1008 c.c. Quanto a quest'ultimo punto, tuttavia, si è di recente affermato che gli artt. 217 e 218 c.c. non sono invocabili in tema di imposta comunale sugli immobili. Così, infatti, Cass. 24 febbraio 2009, n. 4445, Fisco on line 2009, e Cass. 20 ottobre 2008, n. 25486, Fisco on line 2008, secondo le quali l'imposta comunale sugli immobili ha natura di imposta reale ed i relativi presupposti oggettivo e soggettivo sono rappresentati dal possesso di beni immobili e dalla titolarità di diritti reali sui medesimi. Ne consegue che l'assegnazione dell'abitazione di proprietà di entrambi nell'ambito della separazione personale dei coniugi non rileva ai fini dell'individuazione del soggetto passivo né può utilmente invocarsi il disposto degli artt. 217 e 218 c.c., non applicabile analogicamente alla situazione di cui è causa. Il coniuge assegnatario è infatti chiamato a rispondere dell'obbligazione tributaria nei limiti della quota ideale del diritto di cui è titolare. In tema di imposta comunale sugli immobili, il coniuge affidatario dei figli al quale sia assegnata la casa di abitazione posta nell'immobile di proprietà (anche in parte) dell'altro coniuge non è soggetto passivo dell'imposta per la quota dell'immobile stesso sulla quale non vanti il diritto di proprietà ovvero un qualche diritto reale di godimento, come previsto dall'art. 3 d.lgs. 30 dicembre 1992 n. 504. Con il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa in sede di separazione personale o di divorzio, infatti, viene riconosciuto al coniuge un atipico diritto personale di godimento e non un diritto reale, sicché in capo al coniuge non è ravvisabile la titolarità di un diritto di proprietà o di uno di quei diritti reali di godimento, specificamente previsti dalla norma, costituenti l'unico elemento di identificazione del soggetto tenuto al pagamento dell'imposta in parola sull'immobile. Né in proposito rileva il disposto dell'art. 218, secondo il quale « Il coniuge che gode dei beni dell'altro coniuge è soggetto a tutte le obbligazioni dell'usufruttuario », in quanto la norma, dettata in tema di regime di separazione dei beni dei coniugi, va intesa solo come previsione integrativa del precedente art. 217 (amministrazione e godimento dei beni), di guisa che la complessiva regolamentazione recata dalle disposizioni dei due articoli è inapplicabile in tutte le ipotesi in cui il godimento del bene del coniuge da parte dell'altro coniuge sia fondato da un rapporto diverso da quello disciplinato da dette norme, come nell'ipotesi di assegnazione (volontaria o giudiziale) al coniuge affidatario dei figli minori della casa di abitazione di proprietà dell'altro coniuge, atteso che il potere del primo non deriva né da un mandato conferito dal secondo, né dal godimento di fatto del bene (ipotizzante il necessario consenso dell'altro coniuge), di cui si occupa l'art. 218 (Cass. 16 marzo 2007, n. 6192, Giust. civ. 2007, I, 822; Foro it. 2007, I, 1398; Dir. famiglia 2007, 710; Famiglia e dir. 2007, 775, Bollettino trib. 2007, 1163). Art. 219. Prova della proprietà dei beni. Il coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell'altro la proprietà esclusiva di un bene. I beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi. Bibliografia: ZACCARIA, La separazione dei beni, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Torino, 2007. Sommario: 1. Operatività della presunzione di cui all'art. 219 c.c., nei confronti dei terzi. — 2. Inapplicabilità dell'art. 219 ai beni immobili. — 3. Inapplicabilità dell'art. 228 della l. n. 151 del 1975 c.c., vigendo, tra i coniugi, il regime di separazione patrimoniale. — 4. Conto corrente cointestato. Qualità di casalinga di uno dei coniugi: conseguenze. — 5. Titoli al portatore in « deposito titoli » cointestati a coniugi in regime di separazione dei beni. 1. Operatività della presunzione di cui all'art. 219 c.c., nei confronti dei terzi. — Si è osservato, in dottrina, come la norma si applichi nelle controversie tra i coniugi, nelle controversie tra un coniuge e gli eredi dell'altro e, in caso di decesso dei due coniugi, nelle controversie tra gli eredi di entrambi (ZACCARIA, La separazione dei beni, Tratt. Bonilini, Cattaneo, II, Torino, 2007, 376). Il comma 2 dell'art. 219 (che, con riferimento alla ipotesi di separazione di beni tra coniugi, sancisce una presunzione semplice di comproprietà per i beni mobili dei quali nessuno di essi sia in grado di dimostrare la proprietà esclusiva), pur non contenendo una esplicita limitazione dell'efficacia della presunzione di comunione ai soli rapporti interni tra i coniugi (a differenza di quanto stabilito al comma 1, contenente un espresso riferimento ai rapporti predetti), va interpretato secondo criteri ermeneutici di tipo logico unitario, non meno che storici (emergendo dai lavori preparatori che l'efficacia della presunzione era stata inizialmente estesa anche ai terzi), e non consente, pertanto, di estendere gli effetti della presunzione in parola anche ai rapporti di ciascun coniuge con i terzi. Ne segue, pertanto, che in tema di opposizione all'esecuzione, il coniuge opponente incontra tutti i limiti di prova previsti, in linea generale, dall'art. 621 c.p.c. (che esclude, in particolare, l'efficacia probatoria di qualsiasi forma di presunzione) (Cass. 7 luglio 1998 n. 6589, Giur. it. 1999, 1170, con nota adesiva di FRATINI, Opponibilità ai terzi della presunzione di comproprietà di cui all'art. 219, 2o comma c.c.). Diversamente, da parte di un giudice di merito, si è affermato che la presunzione di comproprietà, posta dall'art. 219 cpv c.c. opera non solo nell'ambito dei rapporti fra coniugi, ma estende la sua portata anche nei confronti dei terzi e ciò quale che sia il regime patrimoniale adottato dai coniugi. L'azione esecutiva avente ad oggetto i beni mobili nella casa coniugale, per effetto, resta circoscritta alla quota ideale (50%) di proprietà del coniuge esecutato, con conseguente illegittimità del pignoramento limitatamente a quella parte di beni che eccedono detta quota (Trib. Pavia 20 novembre 1979, Giur. it. 1980, I, 2, 431, che ha fatto propri i rilievi espressi, in dottrina, da FINOCCHIARO M. in A. e M. FINOCCHIARO, Riforma del diritto di famiglia, I, Milano 1975, 608-609, ed ora ID., Diritto di famiglia, Milano 1984, 1216). In dottrina, in senso diverso, per l'affermazione, cioè che la presunzione posta dal cpv., dell'art. 219 opera unicamente nei rapporti interni, tra coniugi, e non è opponibile ai terzi, tra gli altri: CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., 170; SANTOSUOSSO, Delle persone e della famiglia, Il regime patrimoniale della famiglia, cit., 364. 2. Inapplicabilità dell'art. 219 ai beni immobili. — L'art. 219 (nel testo novellato dalla l. 19 maggio 1975 n. 151) — che riconosce al coniuge la facoltà di provare con ogni mezzo, nei confronti dell'altro, la proprietà esclusiva di un bene (comma 1) ed aggiunge che i beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi (comma 2) — concerne essenzialmente le controversie relative a beni mobili, ed è volto principalmente a derogare, attraverso la presunzione posta nel comma 2 alla regola generale sull'onere della prova in tema di rivendicazione, mentre nessuna deroga configura alla normale disciplina della prova dei contratti formali, in particolare degli acquisti immobiliari. Pertanto, quando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo d'acquisto, l'altro coniuge che alleghi l'interposizione reale non può provarla né con giuramento né con testimoni, giacché l'obbligo dell'interposto di ritrasmettere all'interponente i diritti acquistati deve risultare, sotto pena di nullità da atto scritto, salvo che nell'ipotesi di perdita incolpevole del documento e non anche dunque, nel caso in cui si deduce un semplice principio di prova per iscritto (Cass. 28 marzo 1990 n. 2540; 10 febbraio 1995 n. 1482; 15 novembre 1997 n. 11327, Riv. not. 1998, 182). Nello stesso senso, da parte di un giudice di merito, si è affermato che l'art. 219 c.c., secondo cui il coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell'altro la proprietà esclusiva di un bene, si applica soltanto alle controversie relative ai beni mobili, perché la prova della proprietà degli immobili risulta, di solito, da un titolo non equivoco. Ne consegue che, allorquando un immobile sia intestato ad uno dei coniugi in virtù di idoneo titolo di acquisto, l'altro coniuge che alleghi l'interposizione reale, non può provarla né con testimoni e neppure con giuramento, giacché l'obbligo dell'interposto di trasmettere il bene all'interponente deve risultare, a pena di nullità, da atto scritto (Trib. Milano 19 settembre 1983, Dir. famiglia 1984, 159. Non diversamente, Trib. Catania 11 luglio 1986, ivi 1987, 228: nel conflitto tra il coniuge affidatario della prole ed al quale sia stata assegnata la casa familiare con provvedimento del presidente del tribunale, ed il terzo acquirente della suddetta casa, devesi preferire colui che per primo ha trascritto il titolo dal quale deriva il suo diritto, posto che anche il provvedimento con il quale viene disposta l'assegnazione della casa familiare, in quanto costitutivo di un diritto di abitazione, è soggetto a trascrizione). V. numero precedente. 3. Inapplicabilità dell'art. 228 della l. n. 151 del 1975 c.c., vigendo, tra i coniugi, il regime di separazione patrimoniale. — L'art. 219 regola l'istituto della prova della proprietà dei beni nell'ipotesi in cui vige tra i coniugi il regime della separazione patrimoniale. Sicché, riguardo ad essa, non è applicabile la disposizione transitoria dell'art. 228 della l. 19 maggio 1975 n. 151, afferente al regime di comunione legale dei beni acquistati successivamente alla data di entrata in vigore della legge quando non c'è controversia sull'interferenza di un regime rispetto all'altro (Cass. 15 gennaio 1990 n. 107, Giust. civ. 1990, I, 1534). 4. Conto corrente cointestato. Qualità di casalinga di uno dei coniugi: conseguenze. — Il coniuge in regime di separazione di beni può provare con ogni mezzo, rispetto all'altro, la proprietà esclusiva di un bene mobile, nella specie, superando la presunzione legale di contitolarità delle somme esistenti sul conto corrente cointestato ai coniugi (Trib. Roma 1 febbraio 2008, Redazione Giuffrè 2008). Tuttavia, se il saldo attivo di un conto corrente bancario cointestato a coniugi in regime di separazione di beni risulta discendere da versamenti effettuati solo dal marito e con somme provenienti dal proprio reddito da lavoro, si deve escludere che l'altro coniuge, casalingo e privo di redditi propri, nel rapporto interno tra correntisti, possa avanzare diritti di partecipazione al saldo predetto (Trib. Verona 8 aprile 1994, Dir. famiglia 1995, 558, con nota parzialmente critica di CONTE, Conti cointestati e separazione dei coniugi: che guaio essere casalinghe!). 5. Titoli al portatore in « deposito titoli » cointestati a coniugi in regime di separazione dei beni. — Nel caso in cui dei titoli al portatore (bot) siano depositati su un « deposito titoli » cointestato a due coniugi in regime di separazione di beni, i rapporti interni fra i depositanti sono regolati dall'art. 1298, comma 2, onde il credito corrispondente si divide in quote eguali fra i coniugi solo ove non risulti diversamente (Cass. 29 aprile 1999 n. 4327). 4 LA TRASCRIZIONE DELLE CONVENZIONI MATRIMONIALI di Antonio Albanese BIBLIOGRAFIA TRIOLA, Della tutela dei diritti, La trascrizione, Tr. BES., IX, Torino, 2000; GAZZONI, La trascrizione immobiliare, COM SCH. Art. 2646-2651, 2°, Milano, 1993; G. GABRIELLI-A. ZACCARIA, Commento agli art. 2647 e 2685, COM DIF, Padova, 1992; AULETTA, Il fondo patrimoniale, Milano, 1990; F. FINOCCHIARO, La pubblicità in materia di rapporti patrimoniali fra coniugi, GI 1989, I, 1; G. GABRIELLI, Questioni recenti in tema di pubblicità immobiliare, C IMPR, 1989; PITRONE, Pubblicità immobiliare e rapporti patrimoniali tra coniugi: orientamenti giurisprudenziali, RN 1989; L. FERRI, Forme e pubblicità del regime patrimoniale della famiglia, RTDPC 1988a; L. FERRI, La pubblicità del regime patrimoniale della famiglia, in Il regime patrimoniale della famiglia a dieci anni dalla riforma, QRN, Milano, 1988b; PADOVINI, voce Trascrizione, NNDI-App., VII, Torino, 1987; GIUSTI, La pubblicità nei rapporti patrimoniali tra coniugi. Profili critici e analisi ricostruttiva, RTDPC 1986; ZACCARIA, La pubblicità del regime patrimoniale della famiglia: le posizioni della dottrina, RDC 1985, II; OBERTO, Annotazione e trascrizione delle convenzioni matrimoniali: una difficile coesistenza, RD IP 1982; G. GABRIELLI, voce Patrimonio familiare e fondo patrimoniale, EdD, XXXII, Milano, 1982; TRABUCCHI, La pubblicità immobiliare. Un sistema in evoluzione, RD IP 1982; CIAN-CASAROTTO, voce Fondo patrimoniale della famiglia, NNDI – App., Torino, 1982, III; G. GABRIELLI, Scioglimento parziale della comunione legale fra coniugi, esclusione dalla comunione di singoli beni e rifiuto preventivo del coacquisto, RDC 1981, I; SEGNI, Gli atti di straordinaria amministrazione del singolo coniuge sui beni immobili della comunione, RDC 1980, I; CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, Tr. C.M., 1, Milano, 1979; DEL PASQUA, Le convenzioni matrimoniali, GM 1979; FORCHIELLI, Commento all’art. 206, COM. RDF, I, 2, Padova, 1977; SCHLESINGER, Il nuovo regime patrimoniale tra coniugi. La contrattazione e la pubblicità immobiliare, in Diritto di famiglia. Società. contrattazione immobiliare, Milano, 1978; CIAN, Sulla pubblicità del regime patrimoniale della famiglia. Una revisione che si impone, RDC 1976, I; PALERMO, La disciplina della pubblicità nella riforma del diritto di famiglia, RN 1976; DE RUBERTIS, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia e la trascrizione immobiliare, V NOT 1976; ANDRINI, Convenzioni matrimoniali e pubblicità legale nel nuovo diritto di famiglia, RN 1975; BONIS, La nuova disciplina della pubblicità immobiliare con la riforma del diritto di famiglia, in Il nuovo diritto di famiglia. QRN, 4, Milano, 1975. LIBRO SESTO Della tutela dei diritti TITOLO I Della trascrizione CAPO I Della trascrizione degli atti relativi ai beni immobili ……… 2647. Costituzione del fondo patrimoniale e separazione di beni. — Devono essere trascritti, se hanno per oggetto beni immobili, la costituzione del fondo patrimoniale, le convenzioni matrimoniali che escludono i beni medesimi dalla comunione tra i coniugi, gli atti e i provvedimenti di scioglimento della comunione, gli atti di acquisto di beni personali a norma delle lettere c), d), e), ed f) dell’articolo 179, a carico, rispettivamente, dei coniugi titolari del fondo patrimoniale e del coniuge titolare del bene escluso o che cessa di far parte della comunione. Le trascrizioni previste dal precedente comma devono essere eseguite anche relativamente ai beni immobili che successivamente entrano a far parte del patrimonio familiare o risultano esclusi dalla comunione tra i coniugi. La trascrizione del vincolo derivante dal fondo patrimoniale costituito per testamento deve essere eseguita d’ufficio dal conservatore contemporaneamente alla trascrizione dell’acquisto a causa di morte. Art. così sostituito ex art. 206, l. 19 mag. 1975/151 (Riforma del diritto di famiglia). La trascrizione delle convenzioni matrimoniali: problemi comuni alle varie ipotesi previste dalla norma. 1.1. Prima della Riforma del diritto di famiglia, stante la vigenza del regime legale di separazione dei beni, la norma si dava carico di predisporre un sistema atto a dare adeguata pubblicità alle convenzioni con le quali si sceglieva di adottare il regime di comunione, che rispetto a quel sistema legale costituiva una deroga. Divenuta la comunione, a seguito della Riforma, il regime patrimoniale legale dei coniugi, la norma in oggetto è radicalmente mutata: oggi si limita a disciplinare la pubblicità degli atti (inerenti a beni immobili) costituenti eccezioni al regime di comunione, e quindi: della costituzione del fondo patrimoniale, delle convenzioni matrimoniali che escludono beni dalla comunione, degli atti o provvedimenti che sciolgono la comunione, degli acquisti di beni personali ex art. 179 c.c. (lett. c, d ed f). Non v’è più bisogno, invece, di dar pubblicità al regime di comunione (CC 15 mar. 1990/2104, GC MASS 1990, 468: «L'opponibilità ai terzi della comunione degli utili e degli acquisti, costituita prima della riforma del diritto di famiglia …, è condizionata soltanto all'annotazione a margine dell'atto di matrimonio, prevista dall'art. 162 c.c., per le convenzioni matrimoniali, senza che sia richiesta la trascrizione della relativa convenzione a norma dell'art. 2647 c.c., atteso che l'art. 227 della legge n. 151 del 1975 non ha previsto l'ultrattività delle precedenti norme per tale comunione, come invece ha disposto per le doti e i patrimoni familiari»). La comunione legale, quale regime vigente in assenza di specifiche 1 convenzioni contrarie, è oggetto quindi di una “pubblicità negativa”. 1.2. Tuttavia, a seguito della modifica, apportata dalla l. 28 feb. 1985/52, all’art. 2659 c.c., il regime patrimoniale dei coniugi che intervengono negli atti ha anche una forma di pubblicità positiva, essendo obbligatoria la sua indicazione nella nota di trascrizione. Si è parlato, in proposito, di un’attenuazione di quella «sorta di compartimento stagno tra le due forme di pubblicità», una dei registri immobiliari, l’altra dei registri di stato civile (GAZZONI 1993, 42). Sulla premessa che «ai fini dell'opponibilità ai terzi di un atto trascritto deve aversi riguardo esclusivo al contenuto della nota di trascrizione, e non anche al contenuto del titolo di acquisto che, insieme con la nota, viene depositato presso la conservatoria del registri immobiliari», si è affermata la sufficienza, in un caso di acquisto individuale operato da parte di un coniuge legalmente separato, della indicazione nella nota di trascrizione dello status di separato. Risulta per converso inutile l'annotazione del provvedimento di separazione a margine dell'atto di matrimonio, non potendo «legittimamente sostenersi che "titolo di acquisto" ex artt. 2657 e 2659 c.c. sia, nella specie, (non l'atto traslativo ma) l'atto di separazione legale in quanto atto produttivo del mutamento giuridico in ordine al singolo bene oggetto di trascrizione» (CC 28 nov. 1998/12098, N 1999, 554, con nota di FRANCO; NGCC 1999, I, 632, con nota di MOSCA). I rapporti tra trascrizione ed annotazione. 2.1. Il problema più spinoso è dato certamente dal coordinamento tra la pubblicità attuata tramite gli atti dello stato civile e la pubblicità dei registri immobiliari. In base all’art. 162, comma 4°, c.c., le convenzioni matrimoniali non possono essere opposte ai terzi quando a margine dell’atto di matrimonio non risultano annotati la data del contratto, il notaio rogante e le generalità dei contraenti o la scelta del regime di separazione dichiarata nell’atto di celebrazione del matrimonio. È stata scartata la posizione che cercava di dare coerenza al sistema separando gli ambiti operativi delle due norme, nel senso che, mentre l’art. 2647 c.c. vale per i soli beni immobili, l’art. 162 c.c. avrebbe riguardo ai beni mobili (PALERMO 1976, 750; ANDRINI 1975, 1100). Si è ribattuto (OBERTO 1982, 127), infatti, che la posizione del terzo acquirente di beni mobili è già, di per sé, inattaccabile, senza che occorra all’uopo l’annotazione: l’art. 184 c.c. prevede, per il caso di alienazione di beni mobili non registrati facenti parte della comunione legale, da parte di un coniuge senza il necessario consenso dell’altro, solamente l’obbligo a carico dell’alienante di ricostituire la comunione nel suo stato originario o di corrispondere il valore del bene alienato; rimane sempre salvo, quindi, l’acquisto del terzo. La dottrina si è quindi divisa in due orientamenti principali. 2.3. Secondo l’orientamento prevalente, l’annotazione nei registri dello stato civile prescritta dall’art. 162 c.c., sarebbe oggi l’unica forma di pubblicità richiesta per opporre le convenzioni matrimoniali ai terzi (pubblicità dichiarativa), mentre la funzione della trascrizione degraderebbe a quella di mera pubblicità notizia (CIAN 1976, 33; ZACCARIA 1985, 373; G. GABRIELLI-ZACCARIA 1992, 364 ss.; F. FINOCCHIARO 1989, 329; GAZZONI 1993, 42 ss.; SEGNI 1980, 608). Per converso, se la trascrizione conservasse la sua normale funzione di pubblicità dichiarativa, la norma in commento darebbe luogo ad un inutile doppione rispetto all’art. 162 c.c. Altro argomento addotto in favore di questa soluzione (in part. da GAZZONI 1993, 43 ss.), è la mancata riproduzione, nella nuova formulazione dell’art. 2647 c.c., dell’originario ultimo comma, il quale precisava che la trascrizione era necessaria ai fini dell’opponibilità ai terzi. Seguendo questa tesi, quindi, se la convenzione è 2 stata trascritta, ma non è stata annotata, essa è inopponibile ai terzi; viceversa, essa è opponibile purché sia stata annotata, nonostante la mancata trascrizione ex art. 2647 c.c. Inoltre, si è aggiunto da alcuni (G. GABRIELLI 1982, 293; G. GABRIELLI 1989, 813; CIAN-CASAROTTO, 825), sebbene nella specie la trascrizione non costituisca un onere, essa rimane pur sempre un obbligo a carico del notaio (art. 2671 c.c.), che in caso di inadempimento deve risarcire i danni ai terzi che abbiano acquistato diritti confidando sulle risultanze dei registri immobiliari. In senso contrario si è osservato da altri (GAZZONI 1993, 44; TRIOLA 2000, 124) che l’obbligo a carico del notaio non è posto a favore dei terzi in genere ma delle parti, le quali sole potrebbero quindi agire nei suoi confronti. Inoltre il terzo non potrebbe lamentare l’omissione della trascrizione giacché, se avesse diligentemente consultato anche i registri dello stato civile, avrebbe potuto accertarsi dell’esistenza della prescritta pubblicità. 2.4. Un secondo orientamento mira a mantenere all’art. 2647 c.c. la funzione tipica della trascrizione. Ai fini dell’opponibilità ai terzi sarebbe necessario eseguire entrambe le formalità: annotazione nei registri dello stato civile e trascrizione nei registri immobiliari, svolgenti entrambe la funzione di pubblicità dichiarativa. Sarebbe possibile ricavare dal sistema (in part. ex art. 2644 e 2645), infatti, un principio generale che impone di dare sempre prevalenza all’atto trascritto per primo, salvo eccezioni che, però, non sono contemplate dall’art. 2647 c.c. La funzione dichiarativa della trascrizione sarebbe infine confermata dal 2° comma dell’art. 2685 c.c. (la cui commento si rinvia), inerente alla trascrizione di atti aventi ad oggetto beni mobili registrati, il quale parla di «effetti stabiliti per gli immobili», così lasciando trasparire che la trascrizione immobiliare disciplinata dall’art. 2647 c.c. produca degli «effetti», i quali non possono che essere dichiarativi. All’interno di questo orientamento occorre però distinguere tra chi sostiene che dalla mancanza di una qualsiasi delle due formalità, deriverebbe l’inopponibilità dell’atto (TRABUCCHI 1982, 114) e chi invece afferma che l’art. 162 c.c. inerisce alla convenzione matrimoniale, mentre l’art. 2647 c.c. ha riguardo ai singoli beni (DE RUBERTIS 1976, 6; FERRI 1988a, 60; TRIOLA 2000, 126 s.; AULETTA 1990, 156; PALERMO 1976, 750; OBERTO 1982, 127); in particolare, si osserva (CORSI 1979, 78), l’annotazione avrebbe la funzione di dare pubblicità al regime patrimoniale vigente tra i coniugi, mentre la trascrizione avrebbe ad oggetto la pubblicità della specifica situazione dei singoli beni. Ancora in tal senso, si è distinto (FERRI 1988a, 60 s.) tra convenzioni e contratti per concludere che l’annotazione renderebbe opponibili le prime, mentre la trascrizione svolgerebbe analoga funzione per i secondi: infatti la convenzione sarebbe «una forma di accordo che, a differenza del contratto, non incide su singoli diritti o singoli rapporti, ma detta una disciplina generale ed astratta per futuri eventuali rapporti». Ma si è obiettato (GAZZONI 1993, 47) che anche la norma in tema di trascrizione utilizza il termine «convenzioni», e lo fa con significato proprio: infatti, la lettura del primo comma dell’art. 2647 c.c. va coordinata con quella del 2° comma, risultandone che con riguardo all’esclusione di beni le «convenzioni» cui l’articolo si riferisce non riguardano singoli beni, ma categorie di beni, e quindi in generale il regime patrimoniale prescelto. Parimenti, non possono che incidere sul regime patrimoniale in generale gli atti e provvedimenti di scioglimento della comunione. Art. 162 c.c. ed art. 2647 c.c. hanno, pertanto, lo stesso ambito di applicazione. 2.5. La giurisprudenza ha abbracciato la tesi secondo cui la trascrizione ex art. 2647 c.c. degrada a mera pubblicità notizia. In una pronuncia in tema di costituzione del fondo patrimoniale, la Cassazione, premesso che tale costituzione va compresa fra le convenzioni matrimoniali (v. amplius sub § 4), ha concluso che, pertanto, essa «è soggetta alle disposizioni dell'art. 162 c.c., circa le forme delle convenzioni medesime, ivi incluso il comma 3, che ne condiziona l'opponibilità ai terzi all'annotazione del relativo contratto a margine dell'atto di matrimonio, mentre la trascrizione del vincolo stesso, per gli immobili, di cui all'art. 2647 c.c., resta degradata a mera pubblicità-notizia, inidonea ad assicurare detta opponibilità» (CC 27 nov. 1987/8824, GI 1989, I, 1, 330, 1766; R NOT 1988, 719. A questa decisione hanno fatto seguito numerose altre nello stesso senso, di cui si darà conto nei §§ seguenti). Il problema della trascrizione «a carico». 3.1. Oggetto di discussione è stata anche l’interpretazione dell’espressione «a carico» contenuta nel primo comma della norma in esame, per il quale la trascrizione andrebbe eseguita «a carico, rispettivamente, dei coniugi titolari del fondo patrimoniale e del coniuge titolare del bene escluso o che cessa di far parte della comunione». È indubbio, infatti, che alcuni atti contemplati dalla norma (convenzioni che escludono beni determinati dalla comunione legale; acquisti di beni personali) comportano un effetto favorevole per il coniuge suddetto, sicché sarebbe stato più logico che la legge prevedesse la trascrizione in suo favore, e non contro di lui come invece si esprime la disposizione in esame. La soluzione preferibile è allora quella di ammettere che il legislatore sia semplicemente incorso in un errore, e che la trascrizione debba essere eseguita a favore del coniuge (FORCHIELLI 1977, 912, parla di uso improprio, da parte del legislatore, dell’espressione «a carico» in luogo di quella «a favore»; per GAZZONI 1993, 49, si tratta di un vero e proprio errore, riconducibile al fatto che è stata tralaticiamente riportata l’espressione «a carico» prevista dall’originaria versione dell’art. 2647 c.c., senza tener presente che a seguito della Riforma la pubblicità non era più quella in positivo della convenzione costitutiva della comunione convenzionale, ma era divenuta quella in negativo dell’esclusione dalla comunione legale). Fermo, dunque, che la trascrizione va fatta a favore del coniuge che diviene proprietario esclusivo del bene, si discute se occorra affiancare a questa trascrizione anche una seconda trascrizione a carico dell’altro coniuge che non diventa contitolare del bene: mentre alcuni ritengono questa seconda formalità opportuna per segnalare ai terzi la non operatività del principio della comunione legale (ANDRINI 1975, 1100; L. FERRI 1988a, 60), altri la considerano un’inutile superfetazione (GAZZONI 1993, 48). (Per una rassegna giurisprudenziale v. PITRONE 1989, 563; per la dottrina, oltre che ZACCARIA 1985, 354, anche GIUSTI 1986, 389). 3.2. In base al 2° comma, le trascrizioni di cui al primo comma «devono essere eseguite anche relativamente ai beni immobili che successivamente entrano a far parte del patrimonio familiare o risultano esclusi dalla comunione tra i coniugi». 3 La trascrizione della costituzione del fondo patrimoniale. 4.1. Prevalentemente si reputa che l’espressione «convenzioni» di cui alla norma in commento sia adoperata dal legislatore in senso atecnico, per descrivere accordi tra coniugi comunque riconducibili nell’alveo contrattuale. Parte della dottrina (L. FERRI 1988a, 60 ss.; L. FERRI 1988b, 42; DEL PASQUA 1979, 792), però, evidenziando che con il termine «convenzioni» si indicano, normalmente, gli accordi a carattere non patrimoniale, ha affermato la necessità di tracciare una distinzione rispetto ai contratti, perché le convenzioni hanno soltanto una funzione di tipo programmatico, nel senso di dettare una disciplina generale ed 4 astratta per futuri eventuali rapporti. Sulla scorta di questa premessa, si è concluso che il fondo patrimoniale non sarebbe una convenzione matrimoniale, avendo esso ad oggetto beni determinati. La conseguenza in tema di pubblicità è evidente: sarebbe inapplicabile l’art. 162 c.c. e l’unica forma di pubblicità sarebbe la trascrizione ex art. 2647 c.c., che non potrebbe che svolgere, pertanto, funzione dichiarativa; diversamente, non sarebbe possibile opporre ai terzi il vincolo di destinazione (L. FERRI 1988b, 46; GIUSTI 1986, 409; FORCHIELLI 1977, 913). 4.2. La tesi riportata, però, non è seguita dalla dottrina prevalente e dalla giurisprudenza, che includono il fondo patrimoniale tra le convenzioni patrimoniali, assoggettandolo al regime pubblicitario per esse prescritto. Così, sul punto, la Cassazione (CC 19 nov. 1999/12864, V NOT, 1999, 1434, con nota di TRIOLA): «La costituzione del fondo patrimoniale, di cui all'art. 167 c.c., dev'essere ricompresa tra le convenzioni matrimoniali e, pertanto, è soggetta alle medesime disposizioni dell'art. 162 c.c., circa le forme delle convenzioni medesime, ivi inclusa quella del comma 3, che ne condiziona l'opponibilità ai terzi all'annotazione del relativo contratto a margine dell'atto di matrimonio, mentre la trascrizione del vincolo stesso, ai sensi dell'art. 2647 c.c., con riferimento agli immobili che ne siano oggetto, resta degradata a mera pubblicità-notizia, inidonea ad assicurare detta opponibilità. Ne consegue, come in ogni caso in cui la legge dispone che per l'opponibilità di determinati atti è necessaria una certa forma di pubblicità, che la forma di pubblicità costituita dalla suddetta annotazione non ammette deroghe o equipollenti e che resta anche irrilevante l'effettiva conoscenza della costituzione del fondo che il terzo abbia altrimenti potuto conseguire, pur dovendosi escludere che l'annotazione predetta assuma in tal modo una funzione costitutiva, giacché l'unico effetto che condiziona è l'opponibilità ai terzi, mentre non incide a qualunque altro effetto sulla validità ed efficacia dell'atto». (Nella specie la S.C., in applicazione di tali principi, ha escluso che la costituzione del fondo potesse essere divenuta opponibile ad un terzo per effetto di una comunicazione a lui indirizzata da parte dei costituenti tramite una lettera). Sulla base del medesimo principio si è sancito (CC 1° ott. 1999/10859, V NOT 1999, 1433, cit.) che la costituzione del fondo effettuata da imprenditore poi fallito, trascritta prima del fallimento, ma annotata successivamente, è inopponibile alla massa. Cfr. anche CC 27 nov. 1987/8824, GI 1989, I, 1, 330, 1766; RN, 1988, 719. Per i giudici di merito, in senso conforme (e confermando altresì che, in seguito alla riforma del diritto di famiglia, la trascrizione ex art. 2647 c.c. è stata degradata al rango di "pubblicità-notizia"): T Milano 5 nov. 1990, GI 1993, I, 2, 470; T Latina 17 mar. 1988, D FAM 1989, 130; A Roma, 28 nov. 1983, GC 1984, I, 1612; FI 1984, I, 1085, V NOT 1984, 1586; RN 1985, 437; T Roma, 6 nov. 1980, GC 1981, I, 1457; R NOT 1981, 463. Contra, T Modena 19 lug. 1996, GC 1997, I, 1697, con nota di TULLIO; RN 1997, 1185: «L'annotazione ex art. 162 c.c. prevista per la pubblicità delle convenzioni matrimoniali non è necessaria al fine di rendere opponibile il vincolo di inespropriabilità che colpisce i beni costituiti in fondo patrimoniale al creditore pignoratizio che abbia iscritto ipoteca giudiziale successivamente alla trascrizione, ex art. 2647 c.c., dell'atto costitutivo del fondo patrimoniale. È, pertanto, opponibile ai terzi l'atto costitutivo del fondo patrimoniale trascritto nei registri immobiliari, ma non annotato a margine dell'atto di matrimonio». 4.3. La soluzione, peraltro, non sarebbe diversa anche se effettivamente il fondo patrimoniale non rientrasse tra le convenzioni matrimoniali, come accade certamente quando esso sia costituito con atto mortis causa: anche in tal caso, la dottrina, ritenendo che l’opponibilità ai terzi debba essere svincolata dalla qualificazione del negozio costitutivo, interpreta estensivamente l’art. 162 c.c., facendovi rientrare «qualsiasi negozio che ponga beni appartenenti a persone coniugate in una condizione giuridica diversa da quella propria del regime patrimoniale legale» (G. GABRIELLI 1982, 314); sicché, se «ci si pone dal punto di vista degli interessi tutelati in sede di pubblicità e di opponibilità ai terzi» (GAZZONI 1993, 50), trova applicazione l’art. 162 c.c. con relativo obbligo di annotazione. Ed essendo svolta già dall’annotazione la funzione dichiarativa, la trascrizione non potrà che degradare, anche in questo caso, a pubblicità notizia. 4.4. La Corte Costituzionale (CCost. 6 apr. 1995/111, V NOT 1996, 127, con nota di TRAVERSA) ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 162, comma ultimo, 2647 e 2915 c.c., posta, in riferimento agli art. 3 e 29 Cost., nella parte in cui non prevedono che, per i fondi patrimoniali costituiti a mezzo di convenzione matrimoniale su beni immobili, l'opponibilità ai terzi sia determinata dalla trascrizione dell'atto sui registri immobiliari, anziché dall'annotazione a margine dell'atto di matrimonio. La Corte ha ritenuto che «la necessità di effettuare ricerche sia presso i registri immobiliari, sia presso i registri dello stato civile (questi ultimi meno accessibili e sia pur meno affidabili) costituisce un onere che, sebbene fastidioso, non può dirsi eccessivamente gravoso, non soltanto rispetto al principio di tutela in giudizio, ma anche rispetto all'art. 29 Cost., che semmai tutela gli aspetti eticosociali della famiglia e non è quindi, utilmente invocabile come parametro del contrasto, ed all'art. 3 Cost., in quanto una duplice forma di pubblicità (cumulativa, ma a fini ed effetti diversi) per la costituzione dei fondi in parola trova giustificazione nel generale rigore necessario alle deroghe al regime legale e nell'esigenza di contemperare gli interessi contrapposti della conservazione del patrimonio per i figli fino alla maggiore età dell'ultimo di essi e dell'impedimento di un uso distorto dell'istituto a danno delle garanzie dei creditori». 4.5. Il 3° comma specifica che se il vincolo derivante dal fondo patrimoniale è stato costituito per testamento, alla trascrizione deve provvedere d’ufficio il conservatore contemporaneamente alla trascrizione dell’acquisto a causa di morte. La norma si giustifica perché, in caso di legato, mancherebbe un pubblico ufficiale tenuto a richiedere la trascrizione. 4.6. In giurisprudenza (T Milano 29 ott. 2002, RN, 2003, 253) si è assimilato al fondo patrimoniale, ai fini della trascrizione, l’atto costitutivo di trust su beni immobili, rilevando che in entrambi i casi è posto un limite – per il titolare formale dei beni – alla disponibilità di determinati beni per il raggiungimento di uno scopo determinato; quindi, pur non rientrando il trust in alcuna delle categorie di atti previste dagli artt. 2643 e 2645 c.c., si è concluso che, in analogia con la previsione di cui all’art. 2467 c.c. per la costituzione del fondo patrimoniale, anche l’atto costitutivo di trust va assoggettato a trascrizione (e ciò anche in considerazione dell’esigenza di rendere opponibile ai terzi il vincolo di destinazione posto a carico di beni immobili, per i quali il legislatore nazionale ha previsto una disciplina tutta improntata al regime pubblicistico). Ancora più recentemente (T Verona 8 gen. 2003, GM 2003, 2152), premesso che l’adesione alla convenzione dell’Aja dell’1 lug. 1985 (ratificata con la l. 16 ott. 1989 n. 364) consente di travalicare il divieto posto dall’art. 2740 c.c. e rende legittima la stipula di atti costitutivi di trust di beni immobili, si è affermato che l’atto istitutivo del trust «deve ritenersi legittimamente trascrivibile in mancanza di divieti espressi e di qualsivoglia incompatibilità con l’ordinamento giuridico italiano». 4.7. Dopo aver considerato la funzione e l’efficacia della relativa pubblicità, vanno adesso esaminate le modalità attraverso cui opera la trascrizione dell’atto costitutivo di fondo patrimoniale. Indipendentemente dalla circostanza che il fondo sia costituito con beni di proprietà di entrambi i coniugi, di uno di essi o di un terzo, dovrà effettuarsi la trascrizione ex art. 2647 c.c. In proposito occorre però distinguere: a) se il fondo è costituito con beni di entrambi i coniugi, è sufficiente questa trascrizione; b) se è costituito con beni di un solo coniuge, occorrerà procedere anche a trascrizione contro di lui ed a favore dell’altro ex art. 2643 n. 3 (o ex art. 2645, poiché sorge una comunione); c) se è costituito da un terzo, occorrerà una seconda trascrizione ex art. 2643 n. 1 o ex art. 2648, secondo che l’acquisto avvenga tramite atto inter vivos o atto mortis causa. Nelle ipotesi in cui il singolo coniuge o il terzo si riservi la proprietà, si ritiene che occorra trascrivere, oltre che ex art. 2647 agli effetti di pubblicità notizia, anche, ai fini di opponibilità, contro il costituente ex art. 2643 n. 2 o ex art. 2645 (GAZZONI 1993, 51 s.). Secondo altri (G. GABRIELLI-ZACCARIA 1992, 361), però, la trascrizione ex art. 2647 sarebbe superflua nel primo caso, e di per sé sufficiente nel secondo. 4.8. Sebbene la norma non consideri la cessazione del fondo patrimoniale, si è sostenuto che l’art. 2647 c.c. possa essere interpretato nel senso di sottoporre a trascrizione anche le convenzioni che pongono fine al vincolo, in riferimento ai singoli beni interessati (BONIS 1975, 220). La trascrizione delle convenzioni matrimoniali che escludono beni immobili dalla comunione legale. 5.1. Si tratta delle convenzioni di cui all’art. 210 c.c. (al cui commento si rinvia). (Contra, isolatamente, DE RUBERTIS 1976, 12). Le convenzioni cui allude questa parte della norma sono quelle, di tipo programmatico, che non mirano ad escludere dalla comunione un singolo bene predeterminato ma, per il futuro e con riguardo agli eventuali acquisti, una categoria di beni. All’uopo è necessaria una duplice trascrizione: una, ex art. 2647 c.c., con riguardo alla convenzione matrimoniale, l’altra, ex art. 2643 c.c., riferita all’atto di acquisto. Grazie alla trascrizione ex art. 2647 c.c., così, sarà possibile dare notizia del carattere personale dell’acquisto per effetto della già intervenuta convenzione matrimoniale, con cui si era deciso di escludere una categoria di beni (nella quale rientra il bene interessato) dalla comunione. 5.2. Non è chiaro se nella previsione legale rientri anche l’ipotesi di convenzione di separazione dei beni precedente o coeva all’atto di matrimonio, con la conseguenza, in caso affermativo, di dover trascrivere i successivi acquisti ai sensi dell’art. 2647 c.c. La giurisprudenza, in ossequio al carattere assoluto del regime di separazione, considera sufficiente formalità l’annotazione di detto regime nei registri di stato civile: «L'art. 2647 c.c. - che prescrive la trascrizione delle convenzioni matrimoniali, relative ad immobili, che escludono i beni medesimi dalla comunione tra i coniugi - impone la trascrizione di dette convenzioni insieme con gli acquisti di singoli beni effettuati a titolo personale a parziale deroga di un preesistente regime generale di comunione patrimoniale, ma non esige la trascrizione delle convenzioni totalmente derogative con cui i coniugi optino per l'opposto regime della separazione dei beni, poiché tale scelta assoluta di regime trova la sua pubblicità necessaria e sufficiente nell'annotazione a margine dell'atto di celebrazione del matrimonio. Di conseguenza, una volta adottato il regime di separazione patrimoniale, restano esclusi dall'obbligo di trascrizione previsto dall'art. 2647 c.c. gli acquisti immobiliari operati successivamente in via esclusiva da uno dei due coniugi ancorché sia richiamato il prescelto regime (generale) di separazione» (CC 22 gen. 1986/397, GC 1986, I, 5 989; V NOT, 1986, 263). Qualora si trattasse, invece, di convenzione di separazione stipulata dopo il matrimonio, essa dovrebbe certamente essere trascritta ai sensi della norma in commento, ma non quale convenzione che esclude beni immobili bensì come atto di scioglimento della comunione. E la trascrizione sarà eseguita a favore (nonostante l’opposta dizione normativa: v. supra, § 3) del coniuge destinato ad acquistare il bene escluso. La trascrizione di una convenzione matrimoniale di separazione dei beni, da eseguirsi ai sensi e per gli effetti dell'art. 2647 c.c., deve essere effettuata anche se l'indicazione dei beni è contenuta soltanto nella nota e non anche nel titolo (T Imperia 19 set. 1996, R NOT 1997, 415). La trascrizione degli atti e dei provvedimenti di scioglimento della comunione. 6.1. Gli atti e provvedimenti ai quali si riferisce la norma sono quelli di cui all’art. 191 c.c. (al cui commento si rinvia). Non vi rientra, quindi, sebbene sciolga la comunione, la morte di un coniuge. Non sono soggetti a trascrizione, inoltre, le sentenze di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, né le sentenze di annullamento o di nullità del matrimonio. La ratio della previsione è, infatti, dare notizia dello scioglimento della comunione nonostante la persistenza del vincolo matrimoniale, perché è in questo caso che rispetto ai terzi si crea una situazione di incertezza in merito alla sorte della comunione (CIAN 1976, 41). Nell’ambito della norma, quindi, rientrano e vanno trascritti, sempre con funzione di pubblicità notizia: la separazione giudiziale dei beni, il mutamento convenzionale del regime patrimoniale, lo scioglimento convenzionale ex art. 177 lett. d) nel caso di comunione di azienda, la separazione personale dei coniugi, il fallimento di uno dei coniugi. Peraltro un serio problema si pone per le ultime due ipotesi menzionate, giacché, a differenza che per le altre (cfr. art. 162 e 193 c.c.), non è prevista la loro annotazione, sicché non è chiaro come esse possano rendersi opponibili. Quanto alla separazione personale, si è ritenuto di risolvere il problema facendo derivare l’effetto di opponibilità dalla trascrizione: «Al fine di rendere opponibile ai terzi il permanere della comproprietà dei beni nonostante il venir meno dei vincoli inerenti alla comunione legale familiare, susseguente alla separazione consensuale omologata, il coniuge non intestatario ha l'onere di trascrivere contro l'altro coniuge l'atto nel quale è documentato il provvedimento di scioglimento, vale a dire il verbale di separazione, a nulla rilevando che in esso non vi sia riferimento a beni determinati» (T Firenze 12 feb. 1982, D FAM 1982, 952). Ma la soluzione non può che lasciare perplessi se si considera che la trascrizione ha, nella specie, mera funzione di notizia. Quanto invece all’ipotesi del fallimento, si è affermato che «pur in mancanza di una norma che espressamente lo preveda, deve accogliersi l'istanza del coniuge del fallito volta ad ottenere un provvedimento costituente titolo idoneo a far annotare in margine all'atto di matrimonio lo scioglimento della comunione legale, regime prescelto dai coniugi, avvenuto in forza della pronuncia di fallimento, in applicazione analogica di quanto previsto per gli altri casi di scioglimento del regime di comunione legale, corredati da apposito sistema di pubblicità per i terzi, senza che tale ordine giudiziale possa ritenersi in contrasto con il principio di tipicità delle annotazioni anagrafiche, in quanto l'art. 133 ordin. stato civile, che fa salva "ogni altra annotazione (...) ordinata dall'autorità giudiziaria", costituisce una norma di chiusura, che consente di supplire, con il vaglio giudiziario, l'eventuale difetto di disciplina legislativa» (T Marsala 5 ott. 1995, D FAM 1996, 200). Si è sostenuta, invece, l’inutilità della trascrizione 6 quando la comunione si scioglie per dichiarazione di assenza o di morte presunta (CORSI 1979, 187, nt. 67). La trascrizione degli atti di acquisto di beni personali a norma delle lettere c), d), e), ed f) dell’articolo 179 c.c. 7.1. Risulta incomprensibile la previsione di una trascrizione per le ipotesi previste dalle lettere c) ed e) dell’art. 179 c.c.: quanto ai beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno, si è obiettato che il risarcimento del danno non è un titolo, ma è soltanto «la giustificazione di un’attribuzione operata in base ad un titolo in senso proprio», sicché, se il risarcimento è per equivalente, titolo sarà una datio in solutum o una transazione – e quindi si applicherà la regola generale – , mentre se il risarcimento è in forma specifica (ricostruzione dell’immobile distrutto) l’acquisto sarà a titolo originario per accessione, e quindi di per sé a carattere personale (GAZZONI 1993, 84; PADOVINI 1987, 807). Quanto ai beni «di uso strettamente personale», si è osservato che non possono mai essere tali i beni immobili (SCHLESINGER 1978, 398). La trascrizione dell’acquisto di beni personali, in concreto, è dunque limitata alle ipotesi di cui alle lettere d) ed f) dell’art. 179 c.c. 7.2. Anche in questo caso, come visto supra per le convenzioni in generale (§ 1.4.), nonostante la lettera della norma parli di trascrizione «a carico» del coniuge acquirente, la formalità va eseguita non contro ma a favore dello stesso. Questa tesi è tanto più sostenibile per la fattispecie in esame, nella quale è chiaro che il coniuge acquirente acquisisce un vantaggio pieno. La Cassazione, dopo aver premesso che i soggetti della trascrizione non possono che essere le parti dell'atto da trascrivere, ha sancito che «in caso di acquisto effettuato da parte di un solo coniuge, l'atto stesso deve essere trascritto solo a favore di lui, sia si tratti di bene compreso nell'oggetto della comunione legale - tenuto presente che l'altro coniuge, estraneo all'atto, è mero destinatario degli effetti legali dell'acquisto individuale, ma non parte del contratto da trascrivere - sia, a maggior ragione, allorché il bene acquistato non è compreso (per qualsiasi motivo) nella comunione e rimane di proprietà individuale del coniuge acquirente (CC 28 nov. 1998/12098, GC 1999, I, 2373, con nota di M. FINOCCHIARO). Per l'opponibilità ai terzi del carattere personale di un bene acquistato da uno dei coniugi in regime legale è essenziale, ad ogni modo, che la trascrizione dell'atto in testa al solo coniuge stipulante contenga, nella nota, l'indicazione che si tratta di acquisto di "bene personale" a norma dell'art. 179 c.c. (A Bari 23 mar. 1985, V NOT 1985, 1110). 7.3. La trascrizione sarà eseguita sulla base delle menzioni formali contenute nell’atto di acquisto, prescritte dall’ultimo comma dell’art. 179 c.c. In loro assenza, si ritiene che il coniuge interessato possa ottenere una sentenza di accertamento nei confronti dell’altro coniuge al fine di procurarsi un titolo per la trascrizione (SCHLESINGER 1978, 408). 7 Acquisto separato, da parte di uno dei coniugi, durante la vigenza del regime di comunione legale. 8.1. Va escluso che l’art. 2647 c.c. entri in gioco quando, vigente tra i coniugi il regime di comunione legale, uno dei due operi un acquisto separato di un bene immobile. Dal punto di vista sostanziale, è chiaro che il bene entra in comunione e diviene di proprietà indivisa anche del coniuge che non prende parte all’atto di acquisto. La legge non precisa, però, se l’atto di acquisto debba essere trascritto a favore del solo coniuge che vi ha preso parte, o anche a favore dell’altro. V’è chi parla, quindi, di una scissione tra titolarità (formale) ed appartenenza (sostanziale) (CORSI 1979, 72). Prevale l’idea 8 della superfluità di una trascrizione a nome di entrambi i coniugi: è sufficiente che l’acquisto sia intestato al solo coniuge acquirente (ex multis: BONIS 1975, 198 ss.; GAZZONI 1993, 1965; FORCHIELLI 1977, 913 ss. Propendono invece per la cointestazione GABRIELLI-ZACCARIA 1992, 361 ss.). Ne deriva che il coniuge che non è stato parte del contratto, oltre che acquistare ex lege il bene per effetto del regime patrimoniale, potrà opporre il proprio diritto erga omnes se l’acquisto è stato debitamente trascritto ex art. 2643 o 2645 c.c. in favore dell’altro coniuge. Peraltro, anche la risoluzione del Ministero di Grazia e Giustizia 7 lug. 1983, n. 5/1824/060/I, div. V, ha affermato che la trascrizione va effettuata a favore del solo coniuge contraente. Questa trascrizione, evidentemente, è eseguita ai fini dell’art. 2644 c.c., non essendo pertinente, quindi, il richiamo all’art. 2647 c.c., sia perché detta norma contempla una pubblicità notizia, sia perché essa ha riguardo ad ipotesi che si presentano come eccezionali rispetto al regime di comunione legale, e quindi opposte alla presente. 8.2. In concreto, i maggiori problemi si presenteranno al momento in cui i coniugi vorranno vendere il bene così acquistato, giacché dovranno entrambi, quali comproprietari, prendere parte all’atto di vendita, e la trascrizione dovrà così essere eseguita contro entrambi, con l’inconveniente che questa seconda trascrizione (contro) seguirà a quella precedente (a favore) ove appariva soltanto il coniuge intervenuto all’atto: così, «sul piano della continuità, mentre la catena sarà continua con riguardo alla posizione di costui, essa sarà spezzata o meglio sarà limitata ad un unico anello per quanto riguarda l’altro coniuge». Ma l’inconveniente è bilanciato dal fatto che «in tal modo si creerà un anello bensì isolato, ma proprio per questo idoneo a segnalare l’esistenza di un pregresso acquisto in comunione intervenuto ex lege» (GAZZONI 1993, 65). Il c.d. rifiuto al coacquisto. Rinvio. 9.1. La Cassazione, in una ormai nota decisione (CC 2 giu. 1989/2688, RN 1990, 172), ha stabilito che il consenso dato dal coniuge all'acquisto esclusivo di beni immobili e mobili registrati da parte dell'altro coniuge, purché manifestato nello stesso atto, impedisce la caduta del bene nella comunione legale, anche fuori delle ipotesi previste dalle lett. c), d) ed f) dell'art. 179 c.c. Si parla, in proposito, di “rifiuto al coacquisto” (G. GABRIELLI 1981, 362 ss.), sebbene sia discusso se di vero e proprio rifiuto si possa parlare o se sia più esatto discorrere di una rinuncia all’acquisto. Anche in questo caso, nessun ruolo può giocare l’art. 2647 c.c.: gli eventuali conflitti, infatti, dovranno essere risolti esclusivamente sul piano del diritto sostanziale, giacché, trattandosi di vicenda non circolatoria, «un problema di trascrizione non esiste né sul piano della opponibilità né su quello della notizia» (GAZZONI 1993, 70 s., il quale osserva che l’interessato potrà venire a conoscenza del consenso del coniuge all’acquisto personale da parte dell’altro coniuge soltanto esaminando l’atto di provenienza: al di fuori, quindi, dei meccanismi di pubblicità). V. amplius il commento all’art. 179 c.c. 9 BIBLIOGRAFIA BIANCA, Diritto civile. 2, 4a ed., La famiglia. Le successioni, Milano, 2005; OBERTO, Comunione legale, regimi convenzionali e pubblicità immobiliare, RDC 1988, II; ZACCARIA, La pubblicità del regime patrimoniale della famiglia: le posizioni della dottrina, RDC 1985, II; FORCHIELLI, Commento all’art. 206, COM. RDF, I, 2, Padova, 1977; D’ORAZI FLAVONI, Tutela dei diritti, Trascrizione mobiliare, COM. S.B., sub art. 2643-2696, Bologna-Roma, 1971. CAPO III Della trascrizione degli atti relativi ad alcuni beni mobili ……….. 2685. Altri atti soggetti a trascrizione. — Si devono trascrivere le divisioni e gli altri atti menzionati nell’articolo 2646, la costituzione del fondo patrimoniale e gli altri atti menzionati nell’articolo 2647, l’accettazione dell’eredità e l’acquisto del legato che importano acquisto dei diritti indicati dai numeri 1 e 2 dell’articolo 2684 o liberazione dai medesimi. La trascrizione ha gli effetti stabiliti per i beni immobili. Art. così sostituito ex art. 207, l. 19 mag. 1975/151 (Riforma del diritto di famiglia). Gli atti aventi ad oggetto beni mobili. 1.1. La Riforma del diritto di famiglia ha eliminato la parte della norma che faceva menzione della «costituzione del vincolo dotale» e della «costituzione della comunione tra coniugi», ed ha aggiunto all’elenco la costituzione del fondo patrimoniale e gli altri atti di cui all’art. 2647 c.c. 1.2. Parlare, come fa la norma, di divisione dei beni mobili, significa in realtà parlare della loro vendita, perché è solo così che può raggiungersi, riguardo ad essi, il risultato dello scioglimento della comunione (salvo che si tratti di beni compresi in un maggior patrimonio in comproprietà, perché in tal caso sarà anche possibile la loro attribuzione ad uno solo dei condividenti) (NATOLI-FERRUCCI 1971, 276). 1.3. Quanto alla trascrizione dell’accettazione dell’eredità, occorre segnalare che, in caso di chiamato incapace, l’unica accettazione trascrivibile dovrebbe essere quella beneficiata. (Come noto, per l’erede incapace, per il quale l’accettazione beneficiata è obbligatoria ex art. 471 s., i termini di cui agli art. 485 e 487 c.c. sono prolungati sino ad un anno dopo la cessazione dello stato di incapacità dall’art. 489 c.c.; fino a quel momento, anche se il suo rappresentante legale ha accettato puramente e semplicemente, l’incapace è considerato chiamato ex art. 460 c.c. e conserva il diritto di accettare l’eredità con beneficio di inventario, salvo che sia intervenuta la prescrizione del diritto di accettare o sia stata esercitata nei suoi confronti l’actio interrogatoria). D’altronde, una segnalazione nei Registri immobiliari di accettazione non beneficiata, non sarebbe idonea neanche al fine della continuità delle trascrizioni. Su questa base, è stata criticata (D’ORAZI FLAVONI 1971, 437 s.) una risalente pronuncia di una corte di merito (A Trieste 13 gen. 1959, FP, 1959, I, 998) che aveva ritenuto illegittimo il rifiuto da parte dell’ufficio tenuto ad effettuare la segnalazione. In proposito, può ricordarsi che se occorre alienare un bene mobile ereditario (questo essendo l’ambito della norma in commento, ma nulla cambierebbe in caso di bene immobile) si deve applicare il combinato disposto degli art. 460 c.c. e 747 c.p.c.: il secondo comma dell’art. 460 c.c. autorizza espressamente il chiamato a vendere, dopo aver 1 ottenuto l’autorizzazione ex art. 747 c.p.c. dal tribunale del luogo in cui si è aperta la successione, i beni ereditari che non si possono conservare o la cui conservazione importa grave dispendio. Se il chiamato è un incapace, l’autorizzazione del giudice delle successioni è data previo ascolto del giudice tutelare, giacché l’art. 747, comma 2°, c.p.c. afferma: «nel caso in cui i beni appartengano a incapaci deve essere sentito il giudice tutelare» (cfr. BIANCA 2005, 577). Le sezioni unite della Suprema Corte (CC SU 18 mar. 1981/1593, RN 1981, 143) hanno affermato che «anche dopo la riforma del diritto di famiglia, la competenza ad autorizzare la vendita di beni immobili ereditari del minore soggetto alla potestà dei genitori appartiene al giudice tutelare del luogo di residenza del minore, a norma del comma 3 dell'art. 320 c.c., unicamente per i beni che, provenendo da una successione ereditaria, si possano considerare acquisiti definitivamente al patrimonio del minore; l'autorizzazione spetta invece - sentito il giudice tutelare - al tribunale del luogo dell'apertura della successione, in virtù del comma 1 dell'art. 747 c.p.c., tutte le volte in cui il procedimento dell'acquisto iure hereditario non si sia ancora esaurito, come quando sia pendente la procedura di accettazione con il beneficio dell'inventario, e ciò sia perché in tal caso l'indagine del giudice non è limitata alla tutela del minore, alla quale è soltanto circoscritta dall'art. 320 cit., ma si estende a quella degli altri soggetti interessati alla liquidazione dell'eredità, sia perché altrimenti si determinerebbe una disparità di trattamento tra minori in potestate e minori sotto tutela, sotto il profilo della diversa competenza a provvedere in detta ipotesi per i primi (giudice tutelare, ai sensi dell'art. 320 c.c.) e per i secondi (tribunale quale giudice delle successioni, in base all'art. 747 c.p.c.)». (Sono rimaste minoritarie, invece, le tesi secondo cui la competenza spetterebbe al giudice tutelare ex art. 320 c.c. o ad entrambi i giudici ex art. 320 c.c. ed ex art. 747 c.p.c.). Orbene, «il chiamato a succedere (o chi per lui, trattandosi di un incapace) che, debitamente autorizzato, aliena un bene ereditario, ne dispone legittimamente e la serie delle trascrizioni è integra pur difettando la segnalazione del passaggio intermedio dal de cuius al successibile. Ciò per l’ovvia ragione che proprio questa vicenda non si è ancora verificata, essendo in itinere la fattispecie (complessa e a formazione complessiva) che la determina» (D’ORAZI FLAVONI 1971, 438). 1.4. Il riferimento, di cui al secondo comma, agli «effetti» della trascrizione, è stato da taluno richiamato a conferma della tesi della natura dichiarativa (e non di mera pubblicità-notizia) della trascrizione delle convenzioni matrimoniali: se quella pubblicità produce «effetti», si è detto, detti effetti non possono che consistere (pacifica essendo la natura non costitutiva) nell’opponibilità dell’atto trascritto (OBERTO 1988, 203). La dottrina maggioritaria non attribuisce però incidenza concreta al riferimento fatto dalla norma in commento, ritenendolo anzi frutto di mera trascuratezza da parte del legislatore (ZACCARIA 1985, 366). Già la dottrina precedente la Riforma (D’ORAZI FLAVONI 1971, 438 s.), osservava trattarsi di «una disposizione per relationem in senso formale, non determinata ma determinabile», nel senso che l’art. 2685, nel richiamare alcune precise figure già disciplinate in materia di beni immobili, «non sembra che abbia voluto attribuire effetti diversi da quelli che le stesse figure hanno nel campo della trascrizione immobiliare», sicché gli effetti cui allude il secondo comma sono gli stessi indicati in materia di divisione dall’art. 2646 c.c. e in materia di convenzioni matrimoniali dall’art. 2647 c.c. Per altro verso, il secondo comma sottende sicuramente l’intenzione legislativa di considerare unitariamente la disciplina della trascrizione dei beni mobili e quella relativa agli immobili, sicché, in caso di lacune della prima, l’interprete potrà integrarla con la seconda (FORCHIELLI 1977, 918). 5 Autonomia privata nel diritto di famiglia e predisposizione successoria di Antonio Albanese (APPUNTI TRATTI DALLA MONOGRAFIA “SOSTITUZIONI, RAPPRESENTAZIONE E ACCRESCIMENTO. I MECCANISMI SUCCESSORI TRA AUTONOMIA PRIVATA E DELAZIONE LEGALE”, CEDAM, PADOVA, 2007) 1. Convenzioni matrimoniali. Il problema dell’autonomia testamentaria si interseca con quello dell’autonomia contrattuale e la questione della circolazione della ricchezza assume connotati del tutto peculiari quando si svolge all’interno della famiglia. È vero che tra i membri di una medesima famiglia possono verificarsi quelle stesse vicende di trasmissione della ricchezza, immobiliare e mobiliare, che hanno luogo tra i privati, nel mercato. Nondimeno la famiglia assume valenza di criterio unificante dell’attività negoziale che si svolge al suo interno (oltre che in relazione alla possibilità di individuare una “causa familiare”, quale causa negoziale autonoma che valga a caratterizzare e sostenere di per sé parte di quella attività) proprio in quanto luogo tipico ove si proiettano le aspirazioni dell’individuo all’allocazione del suo patrimonio per il tempo in cui la morte l’avrà reso vacante (Caccavale 2006, 411). L’autonomia privata in ambito familiare ha visto aprirsi nuovi spazi dopo che la Riforma del ’75 ha introdotto la regola dell’accordo dei coniugi quale elemento centrale della disciplina della famiglia, in ottemperanza ad un’esigenza primaria della stessa Riforma: quella di assicurare la partecipazione paritaria dei coniugi all’amministrazione dei beni comuni. Relativamente al diritto di famiglia – dopo un periodo, ormai distante, nel quale si dubitava della configurabilità dell’autonomia negoziale – si sono aperti ampi spazi alla autoregolamentazione degli interessi grazie alla sostituzione (ad opera della riforma del 1975) dell’assetto “verticistico” della compagine familiare con il modello comunitario fondato sull’accordo, in aderenza al principio della “eguaglianza morale e giuridica dei coniugi” (29 cost.) (Perlingieri e Donisi 2000, 340). Le convenzioni patrimoniali stipulate in vita tra i coniugi hanno evidenti riflessi sugli assetti successori, perché comportano che alla parte di patrimonio attribuito al superstite in via successoria possa andare ad aggiungersi una parte ulteriore di beni. Inoltre, nel caso di morte di un coniuge, è naturale pensare che i coniugi abbiano già in certa misura regolato in anticipo i riflessi di ordine patrimoniale che quell’evento produce sugli assetti familiari. Quanto alla possibilità di pattuire convenzioni patrimoniali, l’autonomia privata ha ricevuto un ulteriore riconoscimento anche per effetto di modifiche legislative successive alla Riforma del diritto di famiglia. Si ricordi, infatti, che il terzo comma dell’art. 162 c.c., introdotto appunto con la Riforma del 1975, sanciva la possibilità dei coniugi di mutare il regime patrimoniale dopo la celebrazione del matrimonio. Era però necessaria un’apposita autorizzazione giudiziale, sebbene gli interpreti si dividessero tra chi sosteneva che l’autorizzazione occorresse soltanto per modificare una convenzione espressamente pattuita dai coniugi, e chi riteneva sempre necessario l’intervento giudiziale, anche per mutare il regime di comunione legale operante ex lege. La disposizione è stata poi modificata con la l. 10.4.1981, n. 142, che ha introdotto il principio del libero mutamento delle convenzioni matrimoniali. È stata infatti esclusa la necessità dell’autorizzazione, salvo che «per il mutamento, dopo la celebrazione del matrimonio, di convenzioni matrimoniali stipulate per atto pubblico prima dell’entrata in vigore della presente legge». Quanto all’interpretazione di quest’ultimo inciso, non è chiaro se l’autorizzazione sia prescritta soltanto per modificare la prima convenzione modificativa intervenuta dopo il matrimonio, o anche tutte le eventuali convenzioni successive alla prima. La prima soluzione si lascia preferire, giacché gli ulteriori mutamenti sono destinati a produrre effetti su di una convenzione stipulata dopo l’introduzione della legge. L’autorizzazione va richiesta al tribunale ordinario (art. 38, co. 2°, disp. att. c.c.), che decide in camera di consiglio, sentito il p.m. (Secondo alcuni, il tribunale dovrebbe valutare se la modifica del regime patrimoniale sia idonea a soddisfare le esigenze della famiglia; secondo altri, il giudice si dovrebbe limitare a verificare la non contrarietà a legge della convenzione modificativa, in particolare, che essa sia conforme alle prescrizioni degli artt. 161 e 210 c.c.). 2. Comunione legale. Sotto il profilo funzionale, ricorda molto una deroga ai patti successori la possibilità – ricavabile dal primo co., lett. b) dell’art. 179 c.c. e dal 2° co. dell’art. 210 c.c. – di attribuire alla comunione fra coniugi i futuri beni acquistati per successione mortis causa (su questa possibilità: Venditti 1995, 290 s.). Inoltre, dalle norme che regolano la comunione legale per il caso che uno dei coniugi sia imprenditore affiorano le interrelazioni tra istituti civilistici e istituti del diritto commerciale. Le norme degli artt. 177 lett. b e c e 178 ipotizzano un tipo di partecipazione “differita” indicando come oggetto nella comunione determinati beni che dovessero sussistere al momento dello scioglimento della comunione, momento, peraltro, che può essere quello della morte. Una volta superate certe “vischiosità” terminologiche, è necessario considerare “l’acquisto” di cui all’art. 177 lett. a ogni incremento patrimoniale effettivo operato da entrambi i coniugi congiuntamente o separatamente, sia a titolo originario che derivativo, con esclusione di quelli per atti di liberalità e per testamento a favore di uno solo di essi. Quel coniuge che volesse arricchire l’altro, con effetto dal verificarsi della propria morte, potrebbe accantonare i frutti dei beni propri e i proventi della propria attività separata (art. 177 lett. b e c) e, precostituendo la prova della loro provenienza, disporre per testamento della metà di essi e di quella dei beni destinati all’esercizio della propria impresa o degli incrementi di questa costituita prima della comunione (art. 178). (Palazzo 1995, 69). 3. Fondo patrimoniale. Anche il fondo patrimoniale potrebbe concretizzare la “possibilità di attribuire un patrimonio derogando alle norme successorie che disciplinano il divieto dei patti successori e lo strumento testamentario, (...) al fine di garantire specifiche esigenze, come quelle di assicurare al di là della morte il mantenimento o la formazione educativa e professionale della propria famiglia” (Merz e Sguotti 2001, 387). Il fondo patrimoniale, dunque, sebbene questo profilo sia stato generalmente trascurato in dottrina (mentre la prassi, come noto, lo ha apprezzato a fini prevalentemente “elusivi” delle pretese dei creditori), è uno strumento idoneo ad attuare “un trasferimento di ricchezza (...) abbinato alla soddisfazione dei bisogni della famiglia, sì da assicurare, al di là della morte, il mantenimento o la formazione educativa e professionale” (Orrico 1995, 196). Quanto detto acquista particolare valore in presenza di figli minori, giacché in tal caso alla cessazione del matrimonio non corrisponde la cessazione del vincolo sui beni, con la conseguenza che, sia nell’ipotesi di trasferimento del diritto di proprietà sia in quella della costituzione di un diritto di godimento, “vi è il trasferimento di una ricchezza destinato a durare, nel suo vincolo di scopo, ben al di là nel tempo” (Orrico 1995, 196). L’art. 171, 3° co., c.c., nel consentire al figlio di ottenere dall’autorità giudiziaria il trasferimento (in godimento o in proprietà) di una quota del fondo, sembrerebbe introdurre, si è detto, “una sorta di espropriazione giudiziale nell’ambito della trasmissione familiare della ricchezza” (Orrico 1995, 198). Certamente può condividersi l’idea che si tratti di una ipotesi assolutamente anomala di trasferimento della ricchezza nell’ambito familiare. 4. Impresa familiare. Anche l’istituto dell’impresa familiare è uno strumento idoneo a concentrare la gestione ed il controllo dell’impresa in capo a determinati membri della famiglia dotati di specifiche capacità. Se si aderisce alla più solida costruzione dell’impresa familiare, quale impresa individuale con struttura interna plurisoggettiva, le conseguenze pratiche sono assi rilevanti sul piano della possibile scelta dei collaboratori da parte dell’imprenditore. Posta l’intrasmissibilità di questo diritto, al di fuori della stretta cerchia indicata dal comma 3° del 230-bis, ove per di più debbano consentirvi tutti i partecipi (comma 4° del 230-bis), l’istituto dell’impresa familiare ammette, al momento dello scioglimento per morte di uno dei partecipanti, la possibilità di un consolidamento della quota di questi in capo a tutti gli altri partecipi che hanno soltanto l’obbligo di liquidare la quota (Palazzo 1995, 70; v. anche Palazzo 1993, 1228 ss.). Inoltre, se si condivide l’ampio potere discrezionale che compete all’imprenditore, egli potrà valutare attentamente gli acquisti da effettuare anche in funzione della sistemazione dei propri assetti successori. È pur vero che l’art. 230 bis c.c. stabilisce che «le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano alla impresa stessa». Ma questa disposizione si limita ad attribuire ai partecipanti un potere di controllo sulla gestione dell’imprenditore, che essi eserciteranno grazie alla partecipazione alle decisioni più importanti e alle scelte programmatiche relative all’azienda. Si tratta di uno strumento che tutela i diritti patrimoniali e la posizione di prestatore d’opera del familiare lavoratore, il quale non fruisce della garanzia di un salario minimo e la cui partecipazione agli utili e agli incrementi è esposta al rischio di impresa (Tanzi 1988, § 7.1.). A queste riunioni partecipano solo i familiari che collaborano nell’impresa, non invece l’imprenditore, il quale è il destinatario delle decisioni adottate in quella sede: l’organizzazione prevista dalla norma è «organizzazione dei collaboratori come parte contrapposta all’imprenditore» (Oppo 1992, § 17. Diversamente, Cattaneo 1983, 150). Talvolta, questi diritti sono stati interpretati in favore della tesi che ravvisa nei partecipanti la qualità di imprenditori. L'impresa familiare è istituto nato per apprestare una tutela giuridica minima e inderogabile a garanzia del lavoro prestato da familiari affectionis vel benevolentiae causa, affinché la loro opera non venga più sfruttata e sia adeguatamente valorizzata. L'attribuzione del diritto di partecipare agli utili e agli incrementi, nonché ad alcune decisioni inerenti la gestione dell'impresa, evidenzia la natura associativa del rapporto, ragion per cui i familiari collaboratori assumono la qualifica di imprenditori e la responsabilità per le obbligazioni contratte per l'esercizio (Pret. Santhia 14.7.1986, GI, 1987, I, 2, 518). Ma se si segue l’interpretazione dominante (Costi 1976; Balestra 1996, 44; Colussi 1992, 173; Cattaneo 1983, 125), secondo cui imprenditore è il familiare che ha assunto l’iniziativa ed è titolare del patrimonio aziendale, sarà solo costui che potrà compiere ogni genere di atto: il potere di gestione dell'impresa familiare spetta esclusivamente al titolare della stessa, e l'eventuale esercizio di tale potere in violazione degli obblighi scaturenti dalla norma suddetta comporta non l'invalidità degli atti posti in essere, ma unicamente l'obbligo di risarcire i danni provocati (Cass., sez. lav., 4.10.1995, n. 10412, SI, 1996, 363. In dottrina, ex multis: Sesta 2005, 271). Pertanto, il fatto che la norma affidi alla maggioranza dei partecipanti le decisioni di maggiore importanza, non vale a impedire all’imprenditore di compiere, in piena autonomia, gli atti inquadrabili nell’amministrazione straordinaria. Si è giustamente notato, che poiché le decisioni relative alla gestione straordinaria (così come quelle attinenti agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa) coinvolgono l’interesse di tutti, è evidente che non si sarebbe potuto tenere lontani i collaboratori partecipanti all’impresa da tali decisioni che riguardano i frutti del lavoro e la prestazione stessa del lavoro in un’impresa che hanno concorso a costituire, a mantenere ed a far progredire» (Jannuzzi 1990, 558). Tuttavia il potere di iniziativa non passa dall’imprenditore ai collaboratori. L’intervento dei familiari ha una mera rilevanza interna, perché non attiene all’attività amministrativa quale momento operativo ed esecutivo, ma inerisce esclusivamente al momento decisionale, esprimendosi attraverso il diritto di voto nelle decisioni, l’attuazione concreta delle quali appartiene soltanto all’imprenditore (cfr. Oppo 1992, § 17; Colussi 1981, 684 s.; De Martini 1983, 180). L’impresa familiare (…) non costituisce un genus di imprenditore collettivo differenziato rispetto alle forme societarie già tipicizzate dal codice civile, ma disciplina unicamente i reciproci diritti ed obblighi dei partecipanti, senza rilevanza determinante nei rapporti esterni (Trib. Roma 17.3.1984, D FALL, 1984, II, 600). Una cosa è partecipazione al voto, altra è l’amministrazione. L’imprenditore è libero di compiere qualsiasi atto di gestione, rimanendo i suoi atti validi ed efficaci (Trib. Roma 17.3.1984, D FALL, 1984, II, 600; Pret. Palermo 28.1.1985, D FAM, 1985, I, 642. Contra, App. Ancona 10.7.1981, NDA, 1982, 219). D’altra parte, il fatto che la legge non disponga nulla per il caso che non si riesca a formare una maggioranza tra i collaboratori o per il caso che vi sia disaccordo tra i collaboratori e l’imprenditore, depone a favore dell’autonomia operativa di quest’ultimo; così come la mancata previsione di un sistema di pubblicità, esclude che la decisione del gruppo possa essere opposta ai terzi che hanno contrattato direttamente con l’imprenditore, i quali non hanno modo di identificare quali siano i familiari con diritto di partecipazione e di voto (Tanzi 1988, § 7.1.). Parimenti, egli può rifiutarsi di compiere atti di gestione anche se questi sono stati deliberati dalla maggioranza dei partecipanti, i quali possono, in tal caso, porre fine alla loro collaborazione recedendo dall’impresa, ma non possono ottenere l’esecuzione coattiva della deliberazione. Sembra però corretto ritenere che essi possano altresì agire per il risarcimento del danno se l’imprenditore non si è uniformato alle decisioni della maggioranza, sempre che queste non siano contrarie alla legge (Cass., sez. lav., 4.10.1995, n. 10412, SI, 1996, 363; Trib. Roma 17.3.1984, D FALL, 1984, II, 600; Pret. Palermo 28.1.1985, D FAM, 1985, I, 642; Panuccio 1981, 142; Costi 1976, 98; De Martini 1983, 180). Poiché, però, solo il proprietario può disporre dei suoi beni, egli non potrà essere chiamato a risarcire il danno se non abbia eseguito una delibera di alienazione di un suo bene, o, in generale, una delibera esorbitante dalle competenze del gruppo. Se, al contrario, è egli stesso che vuole alienare i beni al di fuori della volontà del gruppo, occorre valutare se essi sono stati concessi in uso ai familiari collaboratori. Solamente in tal caso, egli è obbligato a destinarli all’impresa finché dura il vincolo partecipativo. Si capisce, allora, come il titolare possa prevedere non solo chi, tra i suoi familiari, entri a far parte dell’impresa familiare quale collaboratore, ma anche quali beni e utilità siano in tal modo attribuibili a quel soggetto. 6. Autonomia privata al di fuori del matrimonio (cenni). Ben minore spazio, infine, è riservato all’autonomia privata con riguardo al partner non coniugato, soprattutto in considerazione del fatto che questi, se non è contemplato dal testamento, non riceve alcuna tutela successoria dalla legge. Il fenomeno è divenuto di grande attualità perché si è assistito, negli ultimi anni (oltre che ad un’autentica “fuga” dal regime della comunione legale verso quello della separazione dei beni), al moltiplicarsi delle coppie che al matrimonio preferiscono la convivenza more uxorio. E si è accentuata, di conseguenza, l’urgenza di risolvere il nodo cruciale della tutela del partner “debole”, in ossequio al principio della solidarietà familiare. Tra le soluzioni consigliate dagli interpreti, come noto, è quella dei contratti di convivenza (in tema: Franzoni 1994, 737 ss.; Franzoni 1997, 463; Balestra 2000, 486; Oberto 1991, 373; Del Dotto 1999, 875). In questo caso, le difficoltà non sono tanto di carattere tecnico, giacché sembra superabile l’obiezione che l’obbligazione naturale non è convertibile in obblighi civili. Si tratta di constatare, piuttosto, che l’incidenza concreta di questo tipo di convenzioni è, attualmente, certamente modesta, quanto meno se ci si riferisce agli accordi con cui i partners regolano i loro rapporti in forma scritta, ed è legittimo avanzare dubbi in ordine ad una loro generalizzata utilizzazione per il futuro, soprattutto, come è stato notato, a causa delle difficoltà psicologiche di stipulare un simile contratto «proprio nel momento in cui il rapporto funziona» (Balestra 2000, 488). Rimarrebbe poi il problema di tutelare chi non si è dato cura di stipulare alcuna convenzione, con il rischio di discriminare proprio coloro che, in fondo, hanno avuto maggior fiducia nella profondità dei loro sentimenti e nell’indissolubilità del rapporto. Col pericolo, soprattutto, di identificare la struttura sociale “famiglia di fatto” con le sole coppie che hanno provveduto all’autoregolamentazione (Tommasini 1984, 264). In questo campo, il rinvio all’autonomia privata, pertanto, è senz’altro legittimo, ma non può risolversi in un’esenzione dell’interprete dalla ricerca di ulteriori e più generali strumenti di tutela. Di questo è conscio anche il legislatore, che ha approntato negli ultimi anni numerosi disegni di legge al fine di regolamentare la materia della famiglia di fatto. La difficoltà sostanziale risiede però nella scomoda necessità di conciliare i due poli che caratterizzano il fenomeno delle unioni libere: libertà e responsabilità. Se infatti sino agli anni settanta la convivenza era spesso una scelta forzata, data dell’impossibilità di regolarizzare la nuova unione di chi si era precedentemente sposato con altri, venuta meno l’indissolubilità del matrimonio, essa è divenuta una scelta vera e propria, sebbene dettata dalle ragioni più varie: si convive perché «vi possono essere, ad esempio, motivazioni di tipo ideologico, ispirate di frequente a concezioni “libertarie” e “antiistituzionali” della famiglia …; altre volte si tratta di ragioni socio-economiche in ambienti caratterizzati da sacche di povertà, da emarginazione sociale, arretratezza culturale ed estraneità nei confronti delle istituzioni ufficiali; altre volte possono essere motivazioni eminentemente pratiche come quelle di non perdere i benefici derivanti dalla condizione di vedovanza» (Ferrando 1998, 184). Si capisce allora perché parte degli studiosi si preoccupi che una disciplina legislativa organica della famiglia di fatto rischi di “matrimonializzare” il rapporto (l’espressione è di Paradiso 1984, 74. Si schierano contro la regolamentazione della famiglia di fatto: De Paola 1998, 336; Trabucchi 1988, 19 ss., riprendendo l’idea precedentemente esposta in Trabucchi 1977, 1 ss.; Trabucchi 1981, 329, ove la tesi che soltanto la famiglia legittima è meritevole di protezione quale “famiglia”, mentre al di fuori di essa esistono, giuridicamente, soltanto relazioni isolate tra i singoli individui; Finocchiaro 1998, 1359 ss., in part. 1368: «posto che nel 99 per cento dei casi tali “unioni” possono … trasformarsi… in famiglie fondate su un matrimonio valido per l’ordinamento civile, e godere delle garanzie che l’ordinamento accorda alle famiglie come delineate dalla Costituzione appare – in realtà – proprio fare violenza a chi sceglie tale forma di vita, al di fuori della legge [non contro le legge] una regolamentazione giuridica del loro rapporto». Numerosi sono poi gli autori che ritengono preferibile risolvere i problemi della famiglia di fatto mediante la normativa di diritto comune affiancata da interventi legislativi di settore. Per lo stato della giurisprudenza: Balestra 2004). D’altro canto, la molteplicità e la variegatezza della motivazioni che possono spingere le coppie verso la convivenza impediscono di ritenere che intenzione dei conviventi sia quella di sfuggire a qualsivoglia regolamentazione del loro rapporto, né è sufficiente, il rapporto di fatto, ad esentare i singoli dalle responsabilità che si ricollegano inevitabilmente all’affidamento reciproco sui cui una unione stabile si fonda. È così evidente che la soluzione ottimale sarebbe quella che garantisce i partners ancorandoli alla “responsabilità” (cfr. sul punto Roppo 1981), ma rispettando nel contempo la loro scelta di non matrimonializzazione, ossia una scelta di libertà dagli obblighi tipicamente coniugali fatta da soggetti che «nel preferire un rapporto di fatto hanno dimostrato di non volere assumere i diritti e i doveri nascenti dal matrimonio» (Corte Cost. 13.5.1998, n. 166, FD, 1998, 205, con commento di Carbone). 6 LA GIURISPRUDENZA RECENTE IN MATERIA DI FAMIGLIA DI FATTO (a cura di Antonio Albanese) Trib. Genova, 25 settembre 2009, in Resp. civ., 2009, 12, 1017: Nella convivenza "more uxorio" è assente un dovere giuridicamente riconosciuto al reciproco impegno di fedeltà, posto che, per definizione, tale forma di unione rifugge al riconoscimento dell'ordinamento, o, comunque, non lo riceve; in tal modo non può ravvisarsi un illecito nella condotta di chi sia venuto meno a tale impegno. Trib. Trieste Dec., 19-09-2007, in Notariato, 2008, 3, 251 nota di ROSSANO: È noto come ai conviventi more uxorio non vengano riconosciuti diritti connaturati all'esistenza di un rapporto duraturo e stabile, ma che - non di meno - la tutela della prole e degli assetti patrimoniali nell'interesse degli stessi costituiscano importanti chiavi di interpretazione ai fini che ne occupano. Si ritiene che l'assenza di un vincolo parentale e di una situazione di certezza di rapporti giuridici [...] non impediscano [...] di ritenere meritevole lo strumento in questione al fine di concedere una tutela, altrimenti inesistente, ai genitori ed ai figli, nati prima o in costanza di questo rapporto di fatto. Si intende cioè dire che la segregazione di un patrimonio nel dichiarato intento di apprestare una tutela economica e di assistenza ad una famiglia di fatto, che non sarebbe altrimenti assicurabile in forme neanche lontanamente simili a quelle del fondo patrimoniale, rappresenta quel quid che consente di ritenere apprezzabile lo strumento innominato, e dare così ingresso al trust in questione, nei limiti di indagine di questo giudice. Proprio questo valore perseguito, e cioè la tutela della prole familiare, costituisce quel rilevante elemento che aveva indotto la giurisprudenza costituzionale a dichiarare l'incostituzionalità dell'art. 6, L. 27 luglio 1978, n. 392, nella parte in cui non prevedeva la successione nel contratto di locazione al conduttore che avesse cessato la convivenza quando vi fosse prole naturale; non a caso lo stesso presupposto - questa volta in negativo - della ricorrenza di figli ha recentemente indotto la stessa corte a negare il diritto alla prosecuzione nel rapporto locatizio al convivente more uxorio in assenza di prole. Trib. Trieste Sent., 19-09-2007, in Trust, 2008, 1, 42: Dinanzi ad un trust discrezionale familiare tendente a creare un patrimonio separato in analogia con il fondo patrimoniale, non attuabile direttamente per non essere i disponenti sposati, la domanda di intavolazione del trasferimento dei diritti reali immobiliari deve essere accolta non rientrando nel procedimento tavolare l'indagine circa le problematiche relative ai reali intenti dei disponenti conviventi "more uxorio", i quali probabilmente hanno voluto istituire un trust con effetti di protezione patrimoniale in danno dei creditori più che di tutela delle esigenze della famiglia di fatto, come addotto nel corso del procedimento. Trib. Lucca, 23 settembre 1997, in Giur. It., 1999, 68: Sono ammissibili, ma possono essere soggette a riduzione, le disposizioni testamentarie redatte all'estero che istituiscono un "trust" di ultima volontà in violazione delle norme sulla successione necessaria. Trib. Palermo, 3 febbraio 2002, in Gius, 2003, 13, 1506: II c.d. contratto di convivenza, con il quale i conviventi more uxorio regolano i rispettivi rapporti patrimoniali e l'uno concede all'altro, per l'ipotesi di cessazione della convivenza, la possibilità di vivere nella casa adibita a residenza comune, configura un contratto atipico gratuito la cui validità discende dalla non contrarietà ai principi dell'ordinamento del fenomeno della famiglia di fatto, ma che incorre, ove ad esso si voglia ricondurre la costituzione di un diritto reale di abitazione, nei limiti di forma previsti dalla legge per la costituzione di diritti reali immobiliari e per gli atti di liberalità. Cass. civ. Sez. III, 7 giugno 2011, n. 12278: Il risarcimento del danno da uccisione di un prossimo congiunto spetta non soltanto ai membri della famiglia legittima della vittima, ma anche a quelli della famiglia naturale, come il convivente "more uxorio" ed il figlio naturale non riconosciuto, a condizione che gli interessati dimostrani la sussistenza di un saldo e duraturo legame affettivo tra essi e la vittima assimilabile al rapporto coniugale. (Rigetta, App. Milano, 12/02/2008) MOTIVAZIONE REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. FILADORO Camillo - Presidente Dott. AMENDOLA Adelaide - Consigliere Dott. ARMANO Uliana - rel. Consigliere Dott. DE STEFANO Franco - Consigliere Dott. LANZILLO Raffaella - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso 7689-2009 proposto da: V.G. (OMISSIS), V.C. (OMISSIS), V.A.F. (OMISSIS), M. G. (OMISSIS) ved. V., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CELIMONTANA 38, presso lo studio dell'avvocato PANARITI BENITO, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato GOGLINO AGOSTINO giusta procura in calce al ricorso; - ricorrenti contro UNIPOL GRUPPO FINANZIARIO (U.G.F.) ASSICURAZIONI S.P.A. già AURORA ASSICURAZIONI SPA (OMISSIS), in persona del suo procuratore Dott.ssa G.G., elettivamente domiciliato in ROMA, P.ZZA MARTIRI DI BELFIORE 2, presso lo studio dell'avvocato ALESSI GAETANO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato CAMASSA RAFFAELE giusta procura a margine del controricorso; - controricorrente e contro CARDIELLO TRASPORTI SRL (OMISSIS); - intimati avverso la sentenza n. 413/2008 della CORTE D'APPELLO di MILANO, Sezione Terza Civile, emessa il 31/01/2006, depositata il 12/02/2008; R.G.N. 3939/2003; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/03/2011 dal Consigliere Dott. ARMANO Uliana; udito l'Avvocato PANARITI BENITO; udito l'Avvocato CAMASSA RAFFAELE; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice che ha concluso per il rigetto del ricorso. Svolgimento del processo M.G. ed i figli legittimi V.C., V.A. F. e V.G. citavano in giudizio la Cardiello Trasporti srl e la SAPA Assicurazioni, poi Winterhur e attualmente U.G.F. Assicurazioni s.p.a, per sentirli condannare al risarcimento dei danni conseguenti all'incidente stradale del (OMISSIS), nel quale aveva trovato la morte il proprio marito e padre V. A.. Nel giudizio intervenivano la convivente del V., S.M.T., e la figlia naturale dello stesso, S. F.. La sentenza di primo grado ha accertato la pari responsabilità della Cardiello Trasporti e di V.A. nella causazione dell'incidente ed ha risarcito il danno morale subito dalla moglie del V., M.G., nella misura di Euro 20.658,28, e dai i figli legittimi V.C. e V. G. nella misura di Euro 10.329,14, dalla figlia legittima V.A.F. nella misura di Euro 5.164,57, dalla convivente S.M.T. nella misura di Euro 20.658,28 e dalla figlia naturale S.F. nella misura di Euro 10.329,14; ha liquidato in uguale misura il danno patrimoniale fra la famiglia legale e quella di fatto. Con sentenza del 12-2-2008 la Corte di Appello di Milano ha confermato la sentenza di primo grado. Avverso tale decisione propongono ricorso per cassazione M. G. ed i figli legittimi V.C., V.A.F. e V.G. con tre motivi. Resiste con controricorso la U.G.F. Assicurazioni s.p.a. già Aurora Assicurazioni illustrato anche da memoria ex art. 378 c.p.c.. Motivi della decisione 1. Con il primo motivo di ricorso viene denunziata la violazione degli artt. 2059, 2056, 1223 e 1226 c.c. e dei principi generali in materia di liquidazione del danno non patrimoniale, nonchè vizi di motivazione sul punto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. Ad avviso dei ricorrenti il giudice del merito non poteva procedere ad una determinazione complessiva ed unitaria del danno morale ed alla conseguente ripartizione dell'intero importo in modo automaticamente proporzionale tra tutti gli aventi diritto, bensì doveva determinare in concreto il danno morale per ciascuno dei congiunti tenendo conto delle effettive sofferenze patite. 1.1. Il motivo è infondato. Infatti i giudici di merito hanno proceduto alla ripartizione dell'importo dovuto per danno morale tra tutti gli aventi diritto non in modo automatico, ma nella determinazione in concreto del danno per ciascuno dei congiunti hanno tenuto conto delle effettive sofferenze patite, in modo da rendere la somma riconosciuta adeguata al particolare caso concreto (Cass. n. 116/2001). 1.2. I giudici di merito hanno tenuto conto della particolarità della situazione in oggetto, condividendo la giurisprudenza, anche di legittimità, che in materia di responsabilità civile ha riconosciuto il diritto al risarcimento del danno conseguente alle lesioni o alla morte di una persona in favore del convivente "more uxorio" di questa, pur richiedendo che venga fornita, con qualsiasi mezzo, la prova dell'esistenza e della durata di una comunanza di vita e di affetti e di una vicendevole assistenza morale e materiale, cioè di una relazione di convivenza avente le stesse caratteristiche di quelle dal legislatore ritenute proprie del vincolo coniugale (Cass. Sez. 3, 29/4/2005 n. 8976). In base agli stessi presupposti, la Corte di Appello ha ritenuto la sussistenza del diritto al risarcimento in favore di chi sia stata legata da un vincolo di filiazione naturale alla vittima del sinistro, ancorchè non legalmente riconosciuta, laddove tale vincolo sia stato contraddistinto dalle medesime caratteristiche di quello tra genitore e figlio legittimo o naturale riconosciuto. Dall'esame del compendio probatorio, i giudici di merito hanno ritenuto provato che da molti anni V.A. aveva stabilito la sede principale della sua attività lavorativa a Rende (CS) e lì aveva costituito con S.M.T. un'unione stabile, caratterizzata non soltanto da un legame affettivo, ma anche dalla gestione comune dei molteplici aspetti della vita quotidiana, con reciproco appoggio morale e materiale, nonchè, successivamente, dalla condivisione dei compiti connessi alla nascita e alla crescita della figlia F., con la quale il V. intratteneva un rapporto sotto ogni profilo assimilabile a quello genitore-figlio; che V.A. aveva peraltro mantenuto stabili legami, anche affettivi, con i figli legittimi e con la moglie, i quali vivevano a Salerno e con i quali trascorreva regolarmente le principali festività, provvedendo sotto il profilo economico alle esigenze anche di questo nucleo familiare. 1.3. Si osserva che i Giudici di appello hanno parificato, ai fini del risarcimento dei danno morale, la famiglia legale e la famiglia di fatto, in quanto per quest'ultima è stata provata la stabilità e la continuità nel tempo del rapporto e delle relazioni affettiva. Successivamente hanno differenziato le singole posizioni degli aventi diritto, riconoscendo alla moglie ed alla convivente un importo maggiore rispetto ai figli, e per i figli un importo diverso per quelli conviventi e per la figlia sposata, a cui è stato liquidato un importo inferiore. 1.4. Quindi, nel risarcimento concreto del danno, tenendo conto della particolarissima situazione di un soggetto con due nuclei familiari legati a lui da una rapporto di protratta e contemporanea stabilità nel tempo, i giudici di merito, lungi dal lamentato automatismo, hanno tenuto conto della diversa intensità del vincolo familiare, moglie convivente e figli, e della effettiva convivenza liquidando alla figlia sposata un importo inferiore. 2. Con il secondo motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 2059, 2056, 1223 e 1226 c.c. e dei principi generali in materia di liquidazione del danno non patrimoniale nonchè vizi di motivazione sul punto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5. I ricorrenti deducono che la liquidazione del danno non patrimoniale deve comunque rispettare alla esigenza di una ragionevole correlazione tra gravità effettiva del danno ed ammontare dell'indennizzo (e non può consistere in una espressione simbolica). 2.1. Si osserva che i ricorrenti non hanno contestato in appello il criterio utilizzato per la quantificazione del danno morale complessivo, richiamando solo nella comparsa conclusionale del giudizio di appello i più recenti e più elevati importi, da centomila e duecentomila Euro, previsti nelle tabelle del Tribunale di Milano nella liquidazione del danno morale in favore del coniuge e dei figli. Il motivo quindi deve considerarsi inammissibile perchè introdotto per la prima volta nel giudizio di cassazione. 3. Come terzo motivo di ricorso viene denunziato vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione per aver i giudici di merito riconosciuto un contributo annuo di L. 10 milioni alla famiglia di fatto, nell'ambito della quantificazione del danno patrimoniale. Infatti secondo i ricorrenti i giudici di merito avevano riconosciuto che il V. erogava un contributo annuo di Euro 10.000,00 in favore della famiglia di fatto, senza che di tale circostanza fosse stata fornita alcuna prova. 3.1. Si osserva che sotto l'apparente denunzia di vizio di omessa motivazione i ricorrenti richiedono a questa Corte un riesame del merito della controversia con una valutazione delle risultanze probatoria diversa da quella motivatamente fatta propria dai giudici di merito. Il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa. 3.2. Nel caso di specie la Corte di Appello ha ritenuto raggiunta la prova dell'effettiva coesistenza dei due nuclei familiari entrambi percepiti e vissuti dal defunto come "famiglia" e del sostegno economico fornito in uguale misura ad entrambi. Della linea argomentativa sviluppata, fondata su prove documentali e deposizioni testimoniali ritenute dalla Corte di appello attendibili, i ricorrenti non segnalano alcuna caduta di consequenzialità, mentre l'impugnazione si risolve in una generica prospettazione dei fatti alternativa a quella del giudice di merito: il che non può trovare spazio nel giudizio di cassazione. Giusti motivi impongono la compensazione delle spese del grado. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di cassazione. Trib. Bologna Sez. II, 16 febbraio 2011: Esclusa, nell'ambito dei rapporti tra conviventi more uxorio, la causa onerosa del contratto di compravendita, per avvenuta simulazione della quietanza rilasciata con riferimento alla corresponsione del prezzo, il patto ad esso sotteso non può automaticamente ricondursi ad un atto di liberalità. Stante la sempre più crescente attenzione mostrata verso forme di regolazione della convivenza more uxorio e specificamente verso quegli atti di autonomia in cui assume rilevanza motivazionale quella sfera intima e soggettiva di doveri morali che muovono il convivente economicamente più forte a disporre di un proprio diritto o ad assumere un'obbligazione senza che si configurino gli estremi della causa donandi, nella quietanza rilasciata a regolazione del prezzo di acquisto del bene può, invero, riconoscersi un atto di adempimento ai menzionati doveri morali e di solidarietà, insensibile, in quanto tale, ai profili di nullità che investono l'atto di liberalità. In tal senso deve, pertanto, ammettersi la possibilità per i privati di procedere alla stipulazione di contratti gratuiti atipici, ovvero dare corso ad atti unilaterali gratuiti volti alla definizione di situazioni in essere, caratterizzate dalla rilevanza di un preesistente dovere morale. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI BOLOGNA SECONDA SEZIONE CIVILE Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Pasquale Liccardo ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di primo Grado iscritta al n.r.g. 202/2006 promossa da: Al.Ar., con il patrocinio dell'avv. Ma.Ma. e dell'avv. Ma.El. c/o Ma.Ma. via (...) Bologna;, elettivamente domiciliato in via (...), Bologna presso il difensore avv. Ma.Ma. Attore contro Ma.Fe., con il patrocinio dell'avv. Ro.Al. e dell'avv., elettivamente domiciliato in Via (...) Bologna presso il difensore avv. Ro.Al. Convenuto Ma.Ar., con il patrocinio dell'avv. Ma.Ma. e dell'avv. Ma.El. c/o Ma.Ma. via (...) Bologna, elettivamente domiciliato in via (...) Bologna presso il difensore avv. Ma.Ma. Intervenuto Svolgimento del processo - Motivi della decisione 1. Con atto di citazione 30 12 2005 Ar.Al., quale erede legittimario di Ar.Pa., premesso: il de cuius Pa.Ar. si era allontanato dalla famiglia allora residente in San Costantino Calabro - ancor prima della separazione consensuale intervenuta in data 29 05 1952 - per trasferirsi a San Lazzaro di Savena; che il padre, trasferitosi a Bologna, aveva intrapreso attività imprenditoriali di successo, sia nel settore dell'abbigliamento che nel settore alberghiero, acquistando tra l'altro, un appartamento in via (...); che aveva effettuato nel tempo numerose operazioni immobiliari disponendo di notevoli capitali; che dopo il trasferimento a San Lazzaro il de cuius aveva iniziato una stabile convivenza more uxorio con Fe.Ma., convivenza durata quasi un ventennio: da tale convivenza era nato il figlio Gi.; che durante la loro convivenza, il de cuis aveva venduto il 30 10 1965 a Fe.Ma., la nuda proprietà di un'area edificabile sita in San Lazzaro di Savena Via (...), area adiacente alla loro casa di abitazione: su tale area, il de cuius aveva provveduto a costruire un complesso immobiliare costituito da diverse unità abitative e commerciali; che tutte le pratiche edilizie per la realizzazione delle unità abitative e commerciali erano state curate direttamente dal de cuius; che la vendita doveva ritenersi simulata stante il legame affettivo esistente con la Fe., la coabitazione precedente e successiva alla vendita, l'assenza di reddito da parte della convenuta; che era pertanto chiaro l'intento perseguito dal de cuius, quale quello di assicurare al nucleo familiare un'autonoma e distinta capacità di reddito in caso di sua prematura morte; che l'intento simulatorio - oltre dagli atti di costruzione, amministrazione e gestione indicati, emergeva dalla vendita a tale Fl.Ga. di area confinante la prima, area questa retrocessa tre anni dopo in nuda proprietà alla Fe., con usufrutto in proprio favore; che la condotta descritta nella convivenza more uxorio con la Fe. era stata del pari osservata con la successiva convivente Ba.An. con la vendita attuata il 18.07.1986 della nuda proprietà della casa colonica e padronale dallo stesso costruita, con riserva in proprio favore dell'usufrutto; tanto premesso ed esposto conveniva in giudizio Fe.Ma. per sentire dichiarare la simulazione della compravendita del 30.10.1965, sia essa assoluta che relativa, con nullità della eventuale donazione per difetto di forma della donazione dissimulata e disporsi in ogni caso la reintegrazione della quota di riserva spettante all'attore, con condanna della Fe. al rilascio dei beni e alla restituzione dei canoni. Alla prima udienza si è costituita in giudizio la convenuta contestando in toto ogni assunto attoreo precisava in particolare che la sttessa - contrariamente ad ogni assunto versato in atto di citazione aveva esercitato in proprio varie attività Imprenditoriali, tali da consentirle di contribuire agli acquisiti effettuati dal convivente. Del pari, si costituiva in giudizio Ar.Ma. con atto di intervento ad adiuvandum le conclusioni rassegnate dal fratello con l'atto di citazione in giudizio. IN DIRITTO 2. Ciò posto, va in primo luogo esaminata la posizione rivestita da Ar.Al. e Ma.Em. ai fini dell'azione di simulazione proposta, in quanto dalla stessa conseguono effetti rilevanti sia sul piano probatorio, che prescrizionale. Ed invero, nell'ipotesi in cui si ritenga che l'erede agisca, nell'azione di simulazione, iure successionis e quindi quale parte del contratto, lo stesso non può giovarsi delle agevolazioni probatorie previste dall'art. 1417 Codice civile solo in favore del creditore e del terzo, né tantomeno avvalersi di un termine prescrizionale decorrente (non dall'atto ma) dal momento in cui il diritto diviene esercitabile, ovverosia dalla morte del de cuius (si veda al riguardo, da ultimo, Cass. 21.02.2007 n. 4021, laddove la soluzione viene in ogni modo ancorata più che alla veste assunta dal legittimario, all'azione di riduzione proposta). Pur nella sintesi doverosa per la sede, va qui ricordato come la materia sia stata da sempre oggetto di divergenti interpretazioni sia dottrinarie che giurisprudenziali, conoscendo solo parziali e spesso insoddisfacenti assestamenti: I) l'erede, in quanto successore in universum ius di uno dei simulanti, acquista legittimazione attiva ad esercitare l'azione di simulazione, con gli stessi limiti in cui si trova nel patrimonio ereditario venendosi a trovare nella medesima posizione del de cuius medesimo, rispetto al rapporto controverso ed incontrando così, non diversamente che per tutti gli altri rapporti già facenti capo allo stesso, tutte le limitazioni probatorie alle quali sarebbe stato soggetto (Cass. 24.2.00 n. 2093, 21.4.98 n. 4024, Cass. 6.8.90 n. 7909 per la quale "l'erede che agisca, non quale legittimano ai fini del recupero o della reintegrazione della quota di riserva, assumendo veste di terzo rispetto al negozio di cessione di beni ereditari compiuto dal de cuius, del quale deduca la simulazione, bensì con azione di simulazione relativa alfine di acquisire alla massa ereditaria i beni ceduti (per la successiva divisione tra gli eredi) resta vincolato alla posizione del de cuius nei cui rapporti subentra ......"); II) il legittimario pretermesso assume la veste di terzo in quanto titolare di un diritto ad ottenere parte del patrimonio ereditario pur non essendo stato "chiamato all'eredità" (in tal senso, Cass. 29 05 1995 n 6031); III) l'erede legittimario (sia esso legittimo o testamentario) assume una posizione del tutto peculiare in quanto coniuga soggettivamente la duplice veste di parte del contratto simulato che di terzo pregiudicato dallo stesso. Con riferimento proprio a tale ultima figura, si è pertanto affermato in giurisprudenza che: I) l'azione proposta da legittimario per far valere tanto la simulazione assoluta del negozio posto in essere dal de cuius quanto la simulazione relativa laddove il negozio dissimulato sia affetto anch'esso da nullità assoluta per mancanza di forma, non è soggetta alla condizione della previa accettazione dell'eredità con beneficio di inventario richiesta dall'art. 564 c.c. per le azioni di riduzione laddove l'azione sia proposta in danno di terzi, in quanto l'interesse all'accertamento della inesistenza di un negozio giuridico posto in essere dal dante causa, non risulta in alcun modo ricollegabile all'azione di riduzione ma alla sola stessa veste di erede; con la sola eccezione dell'atto dissimulato - lesivo della quota di legittima - che possieda tutti i requisiti di validità: in tale ipotesi l'azione di simulazione non potrebbe essere disgiunta dall'azione di riduzione ex art. 564 c.c. e non potrebbe che soggiacere alle condizioni in detta norma previste per questa azione (in tal senso, Cass. 18.04.2003 n. 6315); II) con riferimento specifico al regime delle agevolazioni probatorie previste dall'art. 1471 c.c. non può essere disconosciuta all'erede che agisca per la simulazione la posizione di terzo in quanto con la medesima azione egli mira a reintegrare la quota spettategli in tutto o in parte lesa dalla disposizione simulata e quindi un diritto proprio posto in suo favore dalla legge quale vincolo permanente della capacità di disposizione del de cuius, cumulando nella sua persona "la duplice veste di legittimario che recupera la sua quota e di erede legittimo chiamato per il residuo in assenza di disposizioni testamentarie, non essendo immaginabile che rispetto ad un unico atto che si assume simulato, possa vigere contemporaneamente un doppio regime probatorio in relazione ai duplici effetti concreti che l'accertamento è in grado di produrre, questa corte ha sempre affermato (così Cass. 18.04.2003 n. 6315, Cass. sez. 2, 30 luglio 2002, n. 11286; sez. 2, 24 febbraio 2000, n. 2093; Cass. sez. 2, 29 maggio 1995, n. 6031). Il dibattito dottrinario è stato estremamente ampio e diversificato negli esiti interpretativi: si è sostenuto che sia necessario distinguere se il legittimario abbia o meno accettato l'eredità, in quanto solo con la mancata accettazione preserva la posizione di terzo pregiudicato, con annessa problematica relativa alla valutazione del comportamento insito nell'azione promossa ai fini dell'accettazione tacita; si è del pari affermato che l'azione promossa dall'erede legittimario volta ad accertare la dissimulazione di un atto di liberalità assistito da requisiti di validità sia consentita nella sola ipotesi in cui promuova contemporaneamente l'azione di riduzione per lesione della sua quota di legittima (con la sola eccezione delle donazioni operate dal de cuius in favore di coeredi); in senso contrario si è ritenuto che il legittimario sia comunque terzo indipendentemente dall'esercizio della predetta azione di riduzione in quanto si assume che l'azione di simulazione miri comunque alla tutela della quota ereditaria lesa dall'atto simulato. Al riguardo, ritiene questo Giudice come la ricerca minuziosamente operata da parte della dottrina e della giurisprudenza si traduca in una distinzione meramente casistica delle posizioni rivestite dal legittimario a seconda che sia stato pretermesso, ovvero chiamato (legittimo o testamentario che abbia provveduto ad accettare o meno l'eredità ),con l'innesco di regimi probatori di difficile governo e giustificazione laddove si abbia riguardo alla realtà degli interessi in conflitto; e come la terzietà del legittimario ricorra in ogni ipotesi in cui egli agisca per far pronunziare la simulazione assoluta di un contratto oneroso, ovvero la simulazione relativa che dissimuli un atto di liberalità nullo (come nel caso in esame) in quanto mira a far accertare che il bene non è mai fuoriuscito dal patrimonio del de cuius contro la volontà dello stesso, facendo valere il proprio diritto alla formazione di una massa più ampia su cui esercitare i propri diritti ex art. 556 c.c., senza che sia necessario ancorare tale suo diritto all'azione di riduzione, per l'ovvia considerazione che quantomeno nei confronti dell'atto nullo, non abbia ragion d'essere l'azione di riduzione. In obiter rispetto alla fattispecie in esame, osserva infine questo Giudice come anche con riferimento alle liberalità dissimulate valide, non sia necessario procedere all'ancoraggio della posizione del legittimario all'azione di riduzione (come pure ritenuto recentemente dalla Cassazione, Cass. 12.06.2007 n. 13706; Cass. 2.09.2008 n. 22030), in quanto in tal caso il legittimario fa valere il proprio diritto alla riunione fittizia richiedendo di accertare che il bene è fuoriuscito dal patrimonio del de cuius in forza di un atto di liberalità che deve concorrere alla composizione del donatum: in altri termini, contrariamente all'indirizzo ricordato che riconosce una posizione di terzietà nelle sole alienazioni simulate per inesistenza assoluta della volontà traslativa ovvero per le alienazioni onerose che dissimulano un atto di liberalità nullo (Cass. 6315/2003) non pare corretto ravvisare una correlazione tra l'azione di simulazione promossa (qualunque essa sia) e l'azione di riduzione ai fini dell'esatta individuazione della posizione del legittimario in quanto una tale correlazione appare invero eccessiva e pleonastica rispetto al quadro normativo delineato rispetto alla disciplina posta dall'art. 556 c.c. e 564 c.c. che impongono quattro operazioni distinte ai fini del calco della legittima (formazione della massa, detrazione dei debiti, riunione fattizia e imputazione delle liberalità in conto di legittima): nell'interpretazione prescelta, i legittimari hanno un autonomo interesse a far pronunziare la simulazione del contratto in quanto qualora assoluta, il bene non è fuoriuscito dal patrimonio del de cuius (costituendo così relictum) ovvero qualora relativa, il bene partecipa delle liberalità operate dal de cuius (costituendo donatum), esso realizzi un atto di liberalità, come tale donatum, aumentando comunque nell'uno e nell'altro caso, il valore connesso alle operazioni poste dalle norme prima indicate. 2.1. Nel caso in esame, la difesa di parte attrice ed intervenuta deduce che il contratto di compravendita del 30 10 1965, con cui Ar.Pa. ha venduto a Fe.Ma. la nuda proprietà di un'area di terreno edificabile abbia in realtà dissimulato un atto di liberalità che in quanto privo dei requisiti di sostanza e di forma propri della donazione, sia pertanto nullo, costituendo relictum della massa. Deve pertanto in coerenza con il predetto orientamento riconoscersi in capo all'attore e alla intervenuta, il più favorevole regime probatorio in ordine alla simulazione previsto per il terzo dall'art. 1417 c.c. 3. Quanto al merito delle difese rassegnate in atti, deve osservarsi come l'assunto attoreo si fondi sulle seguenti circostanze indizianti, nella successione operata dalla parte nei propri scritti difensivi: a. l'esistenza di un forte vincolo affettivo dato dalla convivenza, rafforzato dalla nascita del figlio; b. la convivenza more uxorio dopo la vendita; c. indisponibilità per la Fe. della somma costituente il prezzo della compravendita; d. riconoscimento del solo diritto di usufrutto in capo al de cuius; e. ingente investimento di capitali da parte del de cuius per la costruzione di immobili pur essendo mero usufruttuario, senza alcun esborso da parte della Fe.; f. la disponibilità di ingenti capitali all'atto dell'instaurazione della convivenza con la convenuta g. mancato versamento del prezzo del contratto; h. comportamento identico osservato dal de cuius nei confronti della successiva compagna Be.An. Orbene, tali elementi indiziari sono contestati dalla convenuta che ha dedotto: I) l'assoluta genericità dei fatti menzionati quali ragioni dell'atto dissimulato, genericamente e riduttivamente ravvisati nella convivenza more uxorio; II) l'attività precedentemente svolta dalla convenuta con la titolarità di un esercizio commerciale e di una abitazione, come tali indicative di una capacità patrimoniale propria. L'assunto argomentativo della parte induce ad una valutazione complessiva dei profili alla stessa sottesi, con riferimento alla natura del contratto dissimulato e al valore da assegnarsi alle stesse all'interno dei principi valutativi posti dagli artt. 2729 c.c. In primo luogo, osserva in sintesi questo giudice come la prova per presunzioni è nel nostro codice, limitata nei requisiti di ammissibilità come individuati dall'art. 2729 c.c., norma questa che demanda alla prudenza del giudice l'ingresso alle sole presunzioni gravi precise e concordanti. Gravità intesa come qualificazione del grado di elevatezza del legame probabilistico, precisione come grado di attendibilità conclusiva della inferenza, concordanza come presenza di una serie contestuale di presunzioni si propongono come requisiti del prudente apprezzamento del giudice, non senza osservare come mentre con riferimento ai primi due la giurisprudenza ne ha costantemente affermato la indispensabilità, per il terzo ne ha indicato il carattere meramente eventuale in quanto anche una sola presunzione, purché grave e precisa, può essere di per se sufficiente a determinare il convincimento del giudice (cfr. in tale senso, Cass. 4.02.1993 n. 1377). Orbene, avuto riguardo alle risultanze istruttorie versate in atti, va in primo luogo osservato come la stessa narrazione operata dalle parti evidenzia l'epoca risalente delle circostanze addotte, epoca che necessariamente ne impone una valutazione estremamente prudente ed argomentata, in quanto votata al riscontro minuzioso ed analitico di ognuna delle vicende indizianti indicate da parte attrice a fondamento dell'argomentazione difensiva. 3.1. Con riferimento al primo dei profili indicati, ovvero alla convivenza more uxorio deve rilevarsi come di recente si sia affermata in dottrina come in giurisprudenza una crescente attenzione verso forme di regolazione della convivenza more uxorio, con emersione per atto di autonomia negoziale di doveri morali e sociali e nella conseguente valutazione operata dall'ordinamento, della meritevolezza degli interessi sottesi allo stesso atto negoziale. In coerenza con l'orientamento già recentemente espresso da questo Tribunale, si ricorda come "la rilettura del dettato costituzionale abbia comportato ormai da tempo, l'emersione delle istanze solidaristiche sottese alla convivenza civile in genere, con apertura agli atti di autonomia privata volti alla loro realizzazione: come osservato dalla migliore dottrina, se è vero che gli artt. 2 e 3, 2 comma Cost. indirettamente tutelano la libertà contrattuale di fare donazioni, non si vede quale limite possa incontrare la libertà di stipulare un contratto volto a consentire l'adempimento di un dovere morale in quanto anch'esso espressione - al pari dell'atto di liberalità - della personalità umana: in tal senso deve essere letta quella giurisprudenza (cfr. Cass. 8 giugno 1993 n 6381 in Corr. Giur. 1993 n. 947; Trib. Bologna 18.06.1999, ined. confermata dalla Corte di App. 9 marzo 2001 ined.; da ultimo trib. Savona 7 marzo 2001 in Fam. Dir. 2001 529) che proprio con riferimento ai contratti more uxorio, provvede al superamento di ogni problematica connessa all'irripetibilità dell'obbligazione naturale (ivi comprese le problematiche connesse alla sua novazione), in favore di un atto di autonomia in cui assuma rilevanza "motivazionale" quella sfera intima e soggettiva di doveri morali che muovono il convivente economicamente più forte a disporre di un proprio diritto o ad assumere - come nel caso in esame - un'obbligazione, senza che si configurino gli estremi della causa donandi, per sua natura connessa ab imis ad uno spirito di liberalità caratterizzato da uno stato d'animo di assoluta libertà, stato questo inconciliabile con un qualsiasi dovere, sia pure di natura puramente morale" (cfr. sentenza 7.08.2010 dell'intestato Tribunale). Non è quindi detto che, una volta esclusa - in forza di una visione semplicistica delle istanze sottese alla convivenza "more uxorio" - la causa onerosa del contratto di compravendita per la simulazione della quietanza rilasciata con riferimento alla corresponsione del prezzo, si debba necessariamente ricondurre il patto ad esso sotteso ad un atto di liberalità, potendo viceversa riconoscersi nella quietanza rilasciata a regolazione del prezzo, un atto di adempimento dei predetti doveri di solidarietà, rendendo pertanto insensibile l'atto ai profili di nullità che investono l'atto di liberalità. In altri termini, deve in generale ammettersi la possibilità per i privati di stipulare contratti gratuiti atipici ovvero dare corso ad atti unilaterali gratuiti (quali nel caso in esame, la remissione del debito operata in quietanza) volti alla definizione di situazioni in essere caratterizzate dalla rilevanza di un preesistente dovere morale, in cui l'obbligazione naturale non interviene come rapporto giuridico preesistente da accertare o novare con il nuovo contratto, ma semplicemente "come interesse lecito alla produzione dell'effetto contrattuale" come indicato dalla migliore dottrina all'indomani dell'introduzione del codice del 42. 3.2 Né le conclusioni raggiunte quanto alla natura dell'atto possono dirsi contraddette dagli ulteriori indici evidenziati dalla difese delle parti attrici, in quanto coerenti con la natura delle considerazioni proposte e comunque in ogni caso anche laddove non si condivida la ricostruzione degli istituti operata da questo tribunale, inidonee a dare prova del natura liberale dell'atto posto in essere. In particolare, nessuna prova sulla consistenza patrimoniale del de cuius negli anni immediatamente precedenti la vendita risulta prodotta dalla parte, quali dichiarazioni dei redditi, valore e consistenza di altri beni nella sua titolarità, tale da permettere di ritenere che la vendita effettuata con riserva di usufrutto fosse per intero finalizzata ad un atto di liberalità: la documentazione prodotta dalla difesa di parte attrice attiene alle successive fortune imprenditoriali dell'Ar. degli anni settanta ed ottanta, come la nomina a Ca. del Lavoro. Anzi, nel caso in esame, risulta che lo stesso Ar. provvide contestualmente alla vendita della nuda proprietà alla Fe. - alla vendita di area edificabile limitrofa, evidenziando così la necessità di procedere alla "acquisizione di capitali" necessari a dare ingresso al progetto di edificazione delle aree. Non è forse un caso che a fronte di una licenza edilizia richiesta nel 1963, abbia provveduto alla edificazione solo dopo il 1966 ovvero dopo aver dato corso all'acquisizione di capitali necessari alla stessa sia per il tramite della vendita della nuda proprietà al coniuge che per la vendita a terzi di parte dell'area edificabile. In altri termini, non è dato allo stato individuare alcuna certezza nella consistenza patrimoniale del de cuius all'atto della compravendita, se non registrare forse la necessità di acquisire liquidità immediata anche dalla convivente, garantendo peraltro alla stessa quella forma di investimento duraturo insito nella scissione del diritto dominicale in usufrutto e nuda proprietà. Al riguardo, va solo evidenziato come che l'affermata incapacità patrimoniale della convenuta risulta efficacemente contrastata dalla produzione di documentazione attestante sia la titolarità di una casa di abitazione che l'esercizio di una autonoma - anche se minore - attività imprenditoriale, attività dimessa nell'immediatezza della vendita, venendo così a comprovare gli estremi di una capacità economica che contrasta con la semplicistica narrazione della convivenza more uxorio che vede uno dei due coniugi incapace di partecipare in modo assoluto alle attività dell'altro. Nel caso in esame, appare evidente come con la scissione della proprietà, Ar.Pa. abbia inteso assicurare un contributo alle imminenti attività edilizie senza essere in alcun modo gravato da alcun obbligo restitutorio, contributo non vanificato nei suoi estremi di effettività dal collaterale intento di consentire una stabilizzazione economica anche dei legami affettivi in assenza di ogni regolazione coniugale. Ogni circostanza ulteriore addotta dalla parte quale l'attività edilizia realizzata e la percezione dei canoni risulta coerente con le facoltà insite nel diritto dell'usufruttuario di un fondo edificabile, e comunque successiva alla vendita operata, vendita che pertanto resiste all'azione di nullità promossa dall'attore e dall'intervenuto. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in complessivi Euro 3.400,00 per onorari, Euro 2.198,00 per diritti ed Euro 122,00 per le spese imponibili. La sentenza è munita di formula per legge. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: 1. rigetta in quanto infondate in fatto ed in diritto le domande attrici; 2. condanna l'attore Ar.Al. in solido con la intervenuta Ar.Ma., alla rifusione delle spese di lite, spese che si liquidano Euro 3.400,00 per onorari, Euro 2.198,00 per diritti ed Euro 122,00 pere spese imponibili, oltre i.v.a., c.p.a. e 12,50 % per spese generali. Così deciso in Bologna il 14 febbraio 2011. Depositata in Cancelleria il 16 febbraio 2011. App. Palermo Sez. III, 15 maggio 2010: Nella convivenza more uxorio anche l'esborso di somme effettuato da uno dei soggetti di tale rapporto rappresenta un adempimento di obbligazione naturale, purché sussista un rapporto di proporzionalità tra le somme sborsate ed i doveri morali e sociali assunti reciprocamente dai conviventi. Ne deriva che, laddove, come accaduto nel caso concreto, non sussista tale rapporto di proporzionalità, anche per l'impossibilità di desumere con esattezza la portata dei doveri morali e sociali reciprocamente assunti dalle parti in occasione della loro convivenza, le somme sborsate, non potendo essere ricondotte all'adempimento di un obbligo morale strettamente connesso alla situazione di convivenza more uxorio, potranno essere ripetute non trovando, in siffatta situazione, applicazione la disposizione di cui all'art. 2034 c.c. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE D'APPELLO DI PALERMO TERZA SEZIONE CIVILE composta dai signori: 1) Dott. Marino Vito Ivan - Presidente 2) Dott. Picone Filippo - Consigliere (omissis) Svolgimento del processo Con atto di citazione ritualmente notificato, Bi.Em. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Palermo - Sezione distaccata di Carini, Ma.Gi., esponendo di avere effettuato pagamenti per complessivi Euro 50.709,46 nell'interesse esclusivo della Ma. ed in adempimento di obbligazioni contratte dalla stessa, in particolare quale acconto del maggiore importo dovuto dalla convenuta per una, pregressa esposizione debitoria con il Ba.Si.. Il Bi., pertanto, chiedeva la condanna della Ma. al pagamento, in proprio favore, della suddetta somma, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria. Si costituiva Ma.Gi., chiedendo il rigetto della domanda attrice, in quanto infondata in fatto ed in diritto. Istruita la causa, mediante interrogatorio formale della convenuta, il Giudice adito, con sentenza in data 25.5.2007 - 6.6.2007, in parziale accoglimento della domanda attorea, condannava la Ma. al pagamento, in favore dell'attore, della complessiva somma di Euro 30.987,41, oltre gli interessi legali dall'1.6.2004 (giorno di ricezione della prima delle lettere raccomandate di messa in mora inviate dal Bi.) al soddisfo. Rigettava, invece, la domanda, con riferimento alle ulteriori somme richieste dal Bi., posto che non era stata fornita la prova del fatto che gli ulteriori pagamenti fossero stati effettuati dall'attore per conto della Ma.. Avverso la suddetta sentenza proponeva appello Ma.Gi., chiedendo, preliminarmente, la sospensione dell'efficacia esecutiva della sentenza impugnata. Nel merito, deduceva l'errata interpretazione dell'art. 2702 c.c. da parte del primo giudice, il quale aveva ritenuto prova documentale dell'avvenuta dazione di denaro da parte del Bi. le missive inviate dall'appellante alla banca, consistenti in due foglietti dattiloscritti privi di sottoscrizione, che potesse documentarne la provenienza e, peraltro, non redatti in forma olografa. Da ciò conseguiva che, l'appellante non aveva neppure l'onere di disconoscere tempestivamente, ai sensi dell'art. 214 c.p.c., i suddetti documenti, in assenza della scrittura o della sottoscrizione. In ogni caso, non vi era la prova che la proposta transattiva al Ba.Si., cui si faceva riferimento nelle due missive in questione, fosse stata accettata dall'istituto bancario, che, in caso di mancata accettazione, avrebbe dovuto restituire le somme versate. Pertanto, nessuna prova vi era che le somme presuntivamente versate dal Bi. fossero state o meno trattenute o restituite. L'appellante, pertanto, chiedeva il rigetto delle domande avanzate dal Bi. con l'originario atto di citazione. In subordine, l'appellante chiedeva ritenersi e dichiararsi che, le dazioni di denaro asseritamene effettuate dall'appellato costituivano ipotesi di adempimento di obbligazione naturale ex art. 2034 c.c. e, come tali, irripetibili, e ciò in virtù del rapporto di convivenza intercorrente tra le parti all'epoca dei fatti. Peraltro, mancava agli atti la prova che le somme che il Bi. assumeva avere sborsato in favore della Ma., fossero da considerarsi non proporzionate ai doveri, che lo stesso Bi. si era assunto per oltre un settennio. Con vittoria di spese di entrambi i gradi del giudizio. Si costituiva Bi.Em., proponendo nel contempo appello incidentale. Quanto all'appello principale, se ne chiedeva il rigetto, in quanto infondato in fatto ed in diritto. In via incidentale, si chiedeva la condanna della Ma. al paga/mento dell'ulteriore importo di Lire 25.000.000 (pari ad Euro 12.911,42), di cui all'assegno n. (...) del 10.9.1999, tratto sul Ba.Si., emesso dal Bi. ed intestato all'appellante principale. Ed al riguardo, il Bi. produceva la nota del Ba.Si. del 15.10.2007, con la quale si attestava che, in data 10.9.1999, il Bi. aveva versato il suddetto assegno a deconto della sofferenza di Ma.Gi.. Con vittoria di spese. Procedutosi al giudizio di appello, la Corte, con ordinanza in data 23.11.2007, sospendeva l'esecuzione della sentenza impugnata. Indi, all'udienza del 10.7.2009, sulle conclusioni - come riportate in epigrafe - dei procuratori delle parti costituite, la causa veniva posta in decisione con l'assegnazione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c.. Motivi della decisione L'appello principale è infondato e va, pertanto, rigettato. In primo luogo, non appaiono condivisibili i rilievi dell'appellante concernenti l'inefficacia probatoria delle missive dattiloscritte in data 25.3.1998 e 11.5.1999, indirizzate al Ba.Si. S.p.A. e recanti in calce, sempre In forma dattiloscritta, il nome e cognome dell'odierna appellante principale, senza, tuttavia, la relativa sottoscrizione. Nelle missive in questione, nell'avanzare una proposta per il ripianamento dell'esposizione debitoria della Ma. nei confronti dell'istituto bancario, si fa espresso riferimento ai versamenti - allegati alle due missive - rispettivamente di Lire 50.000.000 e Lire 10.000.000, effettuati dal Bi. quale "terzo non obbligato" e dei quali è prevista la restituzione in caso di mancato accoglimento delle proposte. Ciò posto, va subito detto che, mai nel giudizio di primo grado la Ma. ha contestato la provenienza da lei medesima ed il contenuto delle due missive in questione. Ed a tale proposito, non risponde al vero che la difesa del Bi. abbia fatto riferimento al contenuto delle due missive in oggetto soltanto in sede di appello. Invero, a parte il fatto che le due missive erano state già prodotte unitamente all'atto di citazione (di modo che la Ma. avrebbe potuto comunque contestarle già nella propria comparsa di risposta), in ogni caso l'odierno appellato ha fatto esplicito riferimento al contenuto delle due missive nella comparsa conclusionale depositata il 23.4.2007, senza che la Ma. le abbia minimamente contestate nella propria comparsa conclusionale o con eventuali memorie di replica alla comparsa conclusionale dell'attore. A ciò va aggiunto che, le due missive in oggetto trovano, peraltro, oggettivo riscontro nelle due distinte di versamento (anch'esse non contestate dall'appellante in primo grado), relative, appunto, ai versamenti, rispettivamente, di Lire 50.000.000 e Lire 10.000.000, effettuati dal Bi. nel conto corrente della Ma. e nelle quali è precisato che il versamento di Lire 50.000.000 è stato eseguito dal Bi. condizionatamente all'accettazione della proposta avanzata con la missiva del 27.3.1998, mentre il versamento di Lire 10.000.000 è stato eseguito dal Bi. con riferimento alla proposta di cui alla missiva dell'11.5.1999, circostanze, queste, che dimostrano il diretto collegamento dei due versamenti con le due missive in questione e, pertanto, confermano il contenuto delle stesse e, soprattutto, la loro provenienza dalla Ma.. Ancora, va osservato che, ai sensi dell'art. 116, II comma c.p.c., possono desumersi argomenti di prova a favore del Bi., dal comportamento processuale dell'odierna appellante, valutabile unitamente alle altre risultanze processuali sopra evidenziate. Invero, la Ma., nel corso del giudizio di primo grado, ha pervicacemente negato - nella comparsa di risposta, in sede di interrogatorio formale e nella comparsa conclusionale - di avere mai beneficiato di dazioni di denaro da parte del Bi., e ciò pur a fronte delle prove documentali offerte dall'attore (in particolare, le due distinte di versamento, oltre a due assegni bancari emessi dal Bi. a favore della Ma.), dalle quali è emerso con certezza come le suddette dazioni di denaro siano, invece, effettivamente intervenute. Infine, a fronte delle prove documentali fornite dal Bi., in ordine agli esborsi di somme di denaro a favore della Ma., costituiva onere di quest'ultima (al quale l'appellante principale non ha adempiuto) dimostrare la mancata accettazione della proposta transattiva da parte del Ba.Si. e, soprattutto, l'eventuale restituzione al Bi., da parte dell'istituto bancario, delle somme in precedenza sborsate. Parimenti infondato è il rilievo dell'appellante, relativo alla mancata applicazione dell'art. 2034 c.c.. Invero, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità - richiamati anche dal primo giudice - nel rapporto di convivenza more uxorio integra un adempimento di obbligazione naturale anche resborso di somme effettuato da uno dei soggetti di tale rapporto, purché sussista un rapporto di proporzionalità tra le somme sborsate e i doveri morali e sociali assunti reciprocamente dai conviventi (Cass. sezione II, 3.2.1975, n. 389, Fa.; vedi anche Cass. sezione II, 13.3.2003, n. 3713, Sanna). Orbene, nel caso di specie deve escludersi il suddetto rapporto di proporzionalità, avuto riguardo all'entità della complessiva somma (ivi compresa, come si vedrà fra breve, quella richiesta con l'appello incidentale) sborsata dal Bi. a favore della Ma.. E ciò senza contare che, non emergono dagli atti processuali specifici e concreti elementi, dai quali desumere l'esatta portata dei doveri morali e sociali reciprocamente assunti dalle parti in occasione della loro convivenza, essendo rimasta, in particolare, a livello meramente assertorio e priva di supporto probatorio la circostanza di un pressoché esclusivo mantenimento del Bi. da parte della Ma.. Peraltro, lo stesso fatto che gli esborsi di denaro effettuati dal Bi. siano andati a vantaggio soltanto dell'appellante principale, con conseguente esclusivo arricchimento della stessa, porta di per sé ad escludere che tali esborsi fossero finalizzati all'adempimento di un obbligo morale strettamente connesso alla situazione di convivenza more uxorio. Va, invece, accolto l'appello incidentale proposto dal Bi.. Invero, è da ritenersi ammissibile, in quanto indispensabile ai fini della decisione, la nota del Ba.Si. in data 15.10.2007, documento specificamente indicato nell'atto di appello incidentale e depositato contestualmente a tale atto di appello. Dalla suddetta nota si evince che, in data 10.9.1999 è stato versato nel conto corrente della Ma. (v. l'allegata distinta di versamento) l'assegno n. (...) di Lire 25.000.000 (peraltro già prodotto in copia dal Bi. nel giudizio di primo grado) a firma dell'appellante incidentale ed emesso a deconto della sofferenza di Ma.Gi.. Alla luce di quanto sopra, pertanto, può ritenersi provato che la somma portata dall'assegno in questione rientra anch'essa nell'ambito delle dazioni di denaro, effettuate dal Bi. al fine di ripianare la situazione debitoria della Ma. nei confronti dell'istituto bancario. L'appellante principale va, quindi, condannata al pagamento, in favore del Bi., dell'ulteriore somma di Lire 25.000.000, pari ad Euro 12.911,42. Su tale somma sono dovuti, ai sensi dell'art. 1224, I comma c.c., gli interessi legali dall'1.6.2004 al soddisfo. In tal senso l'impugnata sentenza va riformata. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. La Corte, uditi i procuratori delle parti costituite; definitivamente pronunziando: in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Palermo - Sezione distaccata di Carini in data 25.5.2007 - 6.6.2007, appellata da Ma.Gi. e, in via incidentale, da Bi.Em., condanna la Ma. al pagamento, in favore del Bi., dell'ulteriore somma di Euro 12.911,42, oltre gli interessi legali dall'1.6.2004 al soddisfo. Conferma nel resto l'impugnata sentenza. Condanna la Ma. al pagamento, in favore del Bi., delle spese del presente grado del giudizio, che si liquidano in Euro 1.240,00, di cui Euro 900,00 per onorario ed Euro 340,00 per competenze, oltre spese generali, Iva e Cpa. Così deciso in Palermo, il 19 marzo 2010. Depositata in Cancelleria il 15 maggio 2010. Trib. Pavia Sez. I, 23 gennaio 2010: Un’attribuzione patrimoniale in favore del convivente more uxorio configura l’adempimento di un’obbligazione naturale a condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionata all’entità del patrimonio ed alle condizioni sociali del solvens. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI PAVIA PRIMA SEZIONE CIVILE Il Giudice Istruttore Dott. Stefano Tarantola In funzione di Giudice unico ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 2515 R.G. anno 2007 le cui conclusioni sono state precisate all'udienza del 30/9/2009 e promossa con atto di citazione notificato in data 27/7/2007 da Ca.Fr. nato (omissis) del Golfo (TP) e residente in Casorate Primo (PV) via (omissis) Attore Elettivamente domiciliato in Pavia, viale (omissis), presso lo studio dell'avv. Ma.Ca. del foro di Pavia che lo rappresenta e difende per delega in atti. Contro Fr.Ro. nata (omissis) e residente in Trivolzio (PV) via (omissis) Convenuta Elettivamente domiciliata in Milano, viale (omissis), presso lo studio dell'avv. Li.Ve. del foro di Milano che la rappresenta e difende per delega in atti. Svolgimento del processo - Motivi della decisione Le domande svolte dalle parte in giudizio traggono origine dalle vicende della lunga convivenza more uxorio tra le stesse intercorsa - come è pacifico in atti - tra l'aprile del 1986 ed il novembre 2005. L'attore ha dedotto di avere acquistato con denaro proprio alcuni arredi dell'abitazione - di proprietà della convenuta - ove la coppia ha vissuto con i figli, nati rispettivamente nel novembre 1986 e nel novembre 1987. In particolare ha dedotto di avere provveduto al pagamento, nell'anno 1986, degli arredi della cucina per il complessivo importo di Lire 12.000.000 (Euro 6.197,48), e, nell'anno 1988, di un mobiletto acquistato presso il Centro Commerciale Eu. per l'importo di Lire 123.000 (Euro 63,52). Come ribadito e chiarito in comparsa conclusionale, la domanda dell'attore è stata svolta in atto di citazione per accertare l'esclusiva proprietà di tali beni mobili in capo allo stesso e per chiederne la restituzione (citando anche giurisprudenza di merito del 1999 sul punto). Con memoria ai sensi dell'art. 183 co. 6 n. 1 c.p.c. è stata introdotta da parte attrice una nuova domanda diretta all'accertamento di donazione remuneratoria che sarebbe intervenuta con la cessione degli arredi della cucina e del predetto mobiletto da Ca.Fr. alla convivente Fe.Ro. Tale domanda è inammissibile in quanto estranea alle allegazioni di cui in citazione (essendo anzi in aperto contrasto con le stesse ove l'attore chiedeva l'accertamento dell'esclusiva proprietà in capo al medesimo dei beni indicati), né dipendente dalle difese di parte convenuta. In ogni caso la domanda è infondata in quanto deve escludersi l'esistenza di donazione remuneratoria a favore di Fr.Ro. in relazione agli arredi della cucina, acquistati nel 1986, e del mobiletto, acquistato nel 1988, essendo tali beni chiaramente stati destinati - anche per la funzione intrinseca degli stessi - ad attuare le condizioni materiali per la convivenza della coppia, che aveva avuto inizio da poco. Dalle allegazioni di entrambe le parti emerge pacificamente che sia gli arredi della cucina, che il mobiletto acquistato nel 1988, sono stati destinati all'uso comune della coppia e dei figli per circa vent'anni. Nell'acquisto di tali arredi ritiene questo Tribunale che debba riconoscersi una prestazione costituente esecuzione dei doveri morali e sociali legati alla convivenza more uxorio delle parti e, come tale, il relativo conferimento degli stessi, per l'utilizzo anche da parte della convenuta, rende irripetibile il bene in quanto adempimento di un'obbligazione naturale (Cass. Civ. Sez. 2, 3/2/1975 n. 389; v. Cass. Civ. Sez. 2, 13/3/2003, n. 3713 ove è stato affermato che "un'attribuzione patrimoniale a favore del convivente "more uxorio" configura l'adempimento di un'obbligazione naturale a condizione che la prestazione risulti adeguata alle circostanze e proporzionala all'entità del patrimonio e alle condizioni sociali del "solvens""; v. anche Cass Civ. Sez. 3, 29/11/1986, n. 7064, nonché Cass. Civ. Sez. 3, 20/1/1989 n. 285, ove è stato affermato che "nella dazione di una somma di danaro da parte dell'uomo alla donna in occasione della cessazione della loro relazione sentimentale può ravvisarsi l'adempimento di una obbligazione naturale, con la conseguenza che la suddetta somma non può essere chiesta in restituzione (soluti retentio), ne' dedotta in compensazione da parte del solvens"). La spesa che l'attore ha dichiarato avere sostenuto per l'acquisto di tali arredi è da ritenersi adeguata alle condizioni economiche delle parti - come emergenti nel giudizio - e proporzionata ai doveri morali e sociali reciprocamente assunti dai conviventi nei confronti l'uno dell'altro in relazione alle rispettive capacità patrimoniali e di reddito. Infondate appaiono conseguentemente tutte le domande di parte attrice dirette all'accertamento dell'indebito arricchimento ed alla restituzione dei beni. In particolare è stato recentemente affermato dalla Corte Suprema di Cassazione che "l'azione generale di arricchimento ha come presupposto la locupletazione di un soggetto a danno dell'altro che sia avvenuta senza giusta causa, sicché non è dato invocare la mancanza o l'ingiustizia della causa qualora l'arricchimento sia conseguenza di un contratto, di un impoverimento remunerato, di un atto di liberalità o dell'adempimento di un'obbligazione naturale. E', pertanto, possibile configurare l'ingiustizia dell'arricchimento da parte di un convivente "more uxorio" nei confronti dell'altro in presenza di prestazioni a vantaggio del primo esulanti dal mero adempimento delle obbligazioni nascenti dal rapporto di convivenza - il cui contenuto va parametrato sulle condizioni sociali e patrimoniali dei componenti della famiglia di fatto - e travalicanti i limiti di proporzionalità e di adeguatezza" (così Cass. Civ. Sez. 3, 15/5/2009). Si consideri tra l'altro che, stante la natura dei beni richiesti in restituzione, appare evidente che gli stessi - acquistati nel 1986 e nel 1988 - hanno ormai esaurito qualsiasi valore economico, per l'evidente obsolescenza degli stessi, residuando una propria utilità solo nel contesto nel quale si trovano attualmente, discendete dal rapporto more uxorio tra le parti protrattosi sino al novembre del 2005. Le considerazioni sopra espresse comportano, per le medesime ragioni, il rigetto delle domande riconvenzionali svolte dalla convenuta per ottenere dall'attore il pagamento della somma di Euro 7.500,00, indicato quale valore di altri arredi (camera dei figli, comodini, letto matrimoniale, lampadario cucina e sala), che, in ogni caso; si deve presumere siano ancora nella piena disponibilità di Ro.Fr. (essendo così infondata la domanda anche sotto tale profilo). La convenuta ha poi richiesto in via convenzionale il pagamento di somme che è stato dedotto essere dovute dall'attore a titolo di contributo al mantenimento dei figli maggiorenni (En. ed An.) da dicembre 2005 a maggio 2006, per l'importo di Euro 3.000,00, ed a titolo di rimborso della metà delle spese scolastiche e sportive sostenute dalla convenuta nel medesimo periodo per i figli. I figli avevano all'epoca rispettivamente 19 e 18 anni e, nelle deduzioni di parte attrice, frequentavano l'ITC Fe. (An.) e l'Ip. (En.). La Corte Suprema di Cassazione ha da tempo espresso il principio che "il genitore naturale con cui il figlio (ancorché maggiorenne, ma non ancora economicamente indipendente) convive è legittimato "iure proprio" a chiedere il contributo al relativo mantenimento all'altro genitore naturale - giudizialmente riconosciuto - che sia ugualmente tenuto al mantenimento del figlio stesso" (così Cass. civ. Sez. 1, 8/1/1994, n. 144). Le condizioni per la legittimazione, in capo ad uno dei genitori, della richiesta all'altro genitore del contributo al mantenimento dei figli, sono peraltro legate alla attualità della convivenza dei figli con il genitore richiedente. Nel caso nessuna prova è stata offerta da parte convenuta. In ogni caso, in atti, è documentato il pagamento della sola somma di Euro 1.375,00, con assegno circolare, a titolo di rate della retta di frequenza dell'ITC Fe., da parte di An.Ca. L'assegno circolare non fornisce peraltro alcuna informazione in ordine alla provvista. Non sono stati prodotti altri documenti di spesa attestanti gli esborsi sostenuti dalla convenuta per i figli. Non è documentata la frequentazione dell'Ip. da parte del figlio En. e neppure sono documentate attività sportive o spese mediche. Dal doc. 9 di parte convenuta si evince, tra l'altro, che il figlio An. sarebbe andato a vivere con il padre in epoca di poco successiva al maggio 2006. Le domande di parte attrice inerenti il contributo al mantenimento dei figli per il periodo da dicembre 2005 a maggio 2006 non possono pertanto trovare accoglimento. La convenuta ha infine chiesto, sempre in via riconvenzionale, la condanna dell'attore al pagamento della somma di Euro 1.500,00 a titolo di "occupazione senza titolo dell'abitazione posta in Trivolzio, via (omissis)". E' pacifico in causa che l'appartamento di Trivolzio, via (omissis), di proprietà della convenuta, è stata l'abitazione ove si è svolta la convivenza more uxorio delle parti per vent'anni, e la stessa non è mai stata nell'esclusiva disponibilità dell'attore, il quale - fino a quando ivi ha vissuto - vi ha vissuto insieme alla convivente ed ai figli. Nessuna occupazione senza titolo appare pertanto configurabile quale fonte risarcitoria, in quanto l'attore non ha mai privato la convenuta della disponibilità dell'appartamento di Trivolzio, via (omissis). In realtà, come diversamente allegato in atto di citazione, la richiesta risarcitoria appare discendente dalla dedotta permanenza di Ca.Fr., presso l'abitazione sino ad allora comune delle parti, contro la volontà della convenuta nel periodo tra il giugno ed il dicembre 2005. Tale situazione non può ritenersi in alcun modo equiparabile ad una occupazione abusiva di immobile. Al riguardo nessun danno appare prospettabile e nessuna somma può essere liquidata, neppure in via equitativa. Deve infine rilevarsi che parte attrice non ha più svolto istanze istruttorie in sede di precisazione delle conclusioni, dovendosi pertanto ritenere rinunciata qualsiasi istanza istruttoria. Parte convenuta ha reiterato in sede di precisazione delle conclusioni le proprie istanze istruttorie per testi ed interrogatorio. Al riguardo non può che ribadirsi la superfluità di tali istanze istruttorie che non appaiono utili ad introdurre elementi a sostegno delle domande riconvenzionali di parte convenuta essendo prevalentemente attinenti a circostanze pacifiche in causa o comunque irrilevanti, mentre il capitolo otto - concernente i costi per l'attività di scherma del figlio En. - appare inammissibile per genericità. Sono stati inoltre riferiti dalle parti, nei vari atti di causa, fatti e circostanze (apparentemente attinenti alla regolamentazione dei rapporti in comunione tra le stesse) estranei alle domande svolte in giudizio. Non si ritiene che tali circostanze debbano essere esaminate da questo Tribunale. Sussistono i presupposti per dichiarare compensate tra le parti le spese del giudizio stante la soccombenza reciproca. P.Q.M. Il Tribunale di Pavia, in persona del giudice istruttore in funzione di giudice unico, definitivamente pronunciando: - rigetta tutte le domande svolte in giudizio; - dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio. Così deciso in Pavia il 12 gennaio 2010. Depositata in Cancelleria il 23 gennaio 2010. MALTRATTAMENTI IN FAMIGLIA Cass. pen. Sez. II, 2 ottobre 2009, n. 40727: Il reato di maltrattamenti in famiglia ex art. 672 c.p. è configurabile anche ove l'azione delittuosa venga commessa nei confronti del convivente "more uxorio". REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. PAGANO Filiberto - Presidente Dott. NUZZO Laurenza - Consigliere Dott. PRESTIPINO Antonio - Consigliere Dott. GALLO Domenico - Consigliere Dott. DE CRESCIENZO Ugo - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: avv. Putzolu Domenico del foro di Tempio Pausania nell'interesse di T.L., nato a (OMISSIS); avverso la sentenza della Corte d'appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, in data 2 maggio 2006; Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere Dott. Domenico Gallo; Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, Dr. Giuseppe Febbraro, il quale ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. osserva: Svolgimento del processo Con sentenza in data 2 maggio 2006, la Corte di appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, in parziale riforma della sentenza del Gup presso il Tribunale di Tempio Pausania, in data 15 novembre 2005, riduceva ad anni uno e mesi otto di reclusione la pena inflitta a T.L. per i reati di maltrattamenti in famiglia, violenza privata e ricettazione. La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l'atto d'appello, in punto di sussistenza dell'elemento oggettivo di ciascun reato, e confermava le statuizioni del primo giudice, ritenendo accertata la penale responsabilità dell'imputato in ordine ai reati a lui ascritti, provvedendo soltanto a ridurre la pena inflitta per riportarla ad equità. Avverso tale sentenza propone ricorso l'imputato per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando tre motivi di gravame con i quali deduce: 1) inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione alla sussistenza dei presupposti della condotta punibile per il reato di cui all'art. 672 c.p e vizio della motivazione sul punto; 2) contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in relazione al reato di violenza privata di cui al capo b); 3) inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione alla sussistenza dei presupposti della condotta punibile per il reato di cui all'art. 648 c.p e vizio della motivazione sul punto. Motivi della decisione Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità e comunque manifestamente infondati. Per quanto riguarda il primo motivo, in punto di configurabilità dei presupposti di cui all'art. 572 c.p., la questione è manifestamente infondata. Non v'è dubbio, infatti, che la tutela apprestata dalla norma penale si estenda anche alla famiglia di fatto. Secondo l'insegnamento di questa Corte: "ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la circostanza che l'azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente "more uxorio", atteso che il richiamo contenuto nell'art. 572 cod. pen. alla "famiglia" deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo" (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 20647 del 29/01/2008 Cc. (dep. 22/05/2008) Rv. 239726; Sez. 6, Sentenza n. 21329 del 24/01/2007 Ud. (dep. 31/05/2007) Rv. 236757; nel senso che sia sufficiente solo la stabilità del rapporto: Sez. 3, Sentenza n. 44262 del 08/11/2005 Ud. (dep. 05/12/2005) Rv. 232904). Per quanto riguarda le questioni dedotte con il secondo ed il terzo motivo, con le quali si deducono violazione di legge e vizi della motivazione, occorre rilevare che il vaglio logico e puntuale delle risultanze processuali operato dai Giudici di appello non consente a questa Corte di legittimità di muovere critiche, nè tantomeno di operare diverse scelte di fatto. Le osservazioni del ricorrente non scalfiscono l'impostazione della motivazione e non fanno emergere profili di manifesta illogicità della stessa; nella sostanza, al di là dei vizi formalmente denunciati, esse svolgono, sul punto dell'accertamento della responsabilità, considerazioni in fatto insuscettibili di valutazione in sede di legittimità, risultando intese a provocare un intervento in sovrapposizione di questa Corte rispetto ai contenuti della decisione adottata dal Giudice del merito. E' il caso di aggiungere che la sentenza di secondo grado va necessariamente integrata con quella, conforme nella ricostruzione dei fatti, pronunciata in prime curo, derivandone che i giudici di merito hanno spiegato, in maniera adeguata e logica, le risultanze confluenti nella certezza del pieno coinvolgimento dell'imputato nella commissione del reato ritenuto a suo carico. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l'imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonchè - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in Euro 1.000,00 (mille/00). P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2009. Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2009 . DONAZIONE Cass. civ. Sez. II, 24 novembre 1998, n. 11894, in Giust. Civ., 1999, I, 686; Riv. Notar., 1999, 1605 Contratti, 1999, 470 nota di AMBANELLI; Corriere Giur., 1999, 1, 54 nota di CARBONE; Famiglia e Diritto, 1999, 180; Vita Notar., 1999, 185: Un'elargizione di gioielli, fatta nell'ambito di un rapporto "more uxorio" allo scopo di consentire la prosecuzione della convivenza, non è assimilabile alla liberalità d'uso, caratterizzata dal fatto che colui che la compie intende osservare un uso, cioè adeguarsi ad un costume vigente nell'ambiente sociale di appartenenza, costume che determina sia le diverse occasioni in cui queste devono farsi, sia la misura dell'elargizione in funzione della posizione sociale delle parti, nel senso che la donazione non deve comportare un depauperamento apprezzabile del patrimonio di chi la compie. Pertanto - cessata la convivenza (nella specie protrattasi oltre sette anni, tra due soggetti tra i quali esisteva una differenza di età di circa 35 anni) - il donante può ripetere tali gioielli, qualora questi siano stati donati a prescindere da quelle "determinate occasioni" che il costume sociale normalmente festeggia e l'altra parte non abbia dato la prova che la situazione economica del donante era compatibile con la natura dei vari atti di liberalità. LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE II CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati: Dott. Vittorio VOLPE Presidente Dott. Franco PONTORIERI Consigliere Dott. Rafaele CORONA Consigliere Dott. Roberto Michele TRIOLA Consigliere Dott. Francesca TROMBETTA Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: COLOMBA LOREANA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE REGINA MARGHERITA 37, presso lo studio dell'avvocato Vincenzo SEPE, che la difende, giusta delega in atti; Ricorrente contro DEL NINNO SILVIO, elettivamente domiciliato in ROMA Via CARLO MIRABELLO 6, presso lo studio dell'avvocato Alessandro CESTELLI, che lo difende, giusta delega in atti; Controricorrente avverso la sentenza n. 313/97 della Corte d'Appello di ROMA, depositata il 29/01/97; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/02/98 dal Consigliere Dott. Francesca TROMBETTA; udito l'avvocato Vincenzo SEPE, difensore del ricorrente, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso; udito l'avvocato Alessandro CESTELLI, difensore del resistente, che ha chiesto il rigetto del ricorso; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Orazio FRAZZINI che ha concluso per il rigetto del ricorso. Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 25 novembre 1986 Silvio Del Ninno conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Roma Loredana Colomba perché fosse accertata la proprietà in capo all'istante di gioielli e preziosi, in parte di provenienza dal proprio patrimonio familiare ed in parte dallo stesso acquistati nel corso della relazione more uxorio intercorsa con la convenuta dal 1979 al 1986, oggetti sottrattigli dalla medesima al termine della relazione sentimentale in seguito all'allontanamento della Colomba dall'abitazione comune. Asseriva l'attore che i beni in questione erano contenuti in una cassetta di sicurezza intestata alla convenuta e depositata presso la sede centrale della Cassa di Risparmio di Roma. Quindi, previo l'accertamento richiesto, ne richiedeva la restituzione. La convenuta, costituitasi contestava la domanda attorea assumendo di essere legittima proprietaria dei preziosi e gioielli indicati dal Del Ninno, per averglieli questi regalati nel corso della convivenza more uxorio protrattasi per oltre sette anni. Chiedeva, quindi, il rigetto della domanda ed in via riconvenzionale il risarcimento danni nella misura di 400 milioni o altra di giustizia per il nocumento psicologico ed alla vita di relazione derivatole dal comportamento ossessivo tenuto dall'attore nel corso della convivenza, che le aveva precluso qualsiasi inserimento sociale anche a fini lavorativi. Ordinato il sequestro giudiziario dei gioielli e preziosi, il giudizio civile veniva sospeso fino alla definizione del giudizio penale per appropriazione indebita, promosso a seguito della denunziaquerela proposta dal Del Ninno a carico della Colomba e conclusosi in primo grado con una sentenza di assoluzione per insufficienza di prove; ed in appello con una sentenza di assoluzione "perché il fatto non sussiste". Riassunto il giudizio civile il Tribunale, con sentenza 17 gennaio 1995 respingeva sia la domanda principale che quella riconvenzionale condannando il Del Ninno al pagamento delle spese giudiziali. Su impugnazione di quest'ultimo, la corte di appello di Roma, con sentenza 29 gennaio 1997, accoglieva l'appello e in riforma della sentenza del Tribunale condannava la Colomba alla restituzione dei gioielli elencati e descritti nella citazione introduttiva, compensando le spese di entrambi i gradi del giudizio. Affermava la Corte che i gioielli rivendicati erano pervenuti all'appellante dalla sua famiglia o erano stati da lui acquistati nel corso della relazione avuta con la Colomba e ciò risultava dalla documentazione prodotta e non era contestato dall'appellata. Precisava inoltre, che essendo stata la Colomba assolta, in sede penale, con formula piena dal reato di appropriazione indebita, sia pure per la ritenuta insuperabilità della tesi dell'appropriazione e di quella della liberalità, doveva ritenersi per effetto del giudicato penale che i gioielli erano stati regalati all'appellata; per cui, escludendosi l'ipotesi della donazione di modico valore, stante il rilevante valore degli stessi, si trattava di stabilire se trattavasi di liberalità fatte in conformità agli usi ex art. 770 c.c., oppure di vere e proprie donazioni da stipulare con atto pubblico e quindi, nella specie invalide. Sul rilievo che, come ammesso dallo stesso Tribunale, le liberalità erano state fatte dall'appellante perché era fortemente interessato a mantenere la relazione; che il rapporto, come prospettato dalla Colomba, si era svolto, sempre in bilico, tra un uomo già anziano ed una studentessa di 35 anni più giovane, della quale il primo si era invaghito a tal punto da lasciare moglie e figli e da esserne ossessivamente geloso; che alla stessa l'appellante aveva donato un immobile, continuando a donarle gioielli e denaro anche dopo la presentazione della querela, nel tentativo di riprendere la convivenza interrotta; affermava la Corte che in tale situazione di forte condizionamento del donante, in stato di soggezione psicologica verso la donataria, doveva escludersi che potesse trattarsi di liberalità d'uso, dovendosi queste ricondurre ad una volontà libera da condizionamenti morbosi o da pressioni d'altra analoga natura e dovendosi effettuare in determinate occasioni, essendo l'uso determinato proprio dalla reiterazione in talune occasioni. Inoltre trattandosi di gioielli tutti molto costosi, l'appellata avrebbe dovuto provare che il Del Ninno godeva di una posizione economica effettivamente (e non solo apparentemente) solida, tale che gli consentisse di fare le liberalità senza alcun pregiudizio per sé e senza serie ripercussioni negative per la propria famiglia. Tale dimostrazione non era stata data, per cui anche per tale motivo doveva escludersi l'ipotesi di donativi d'uso ed affermarsi la configurabilità di vere e proprie donazioni invalide per difetto di forma. Avverso tale sentenza ricorre in Cassazione la Colomba con sei motivi di impugnazione. Resiste con controricorso il Del Ninno. Motivi della decisione Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell'art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione agli artt. 769, 770 c.c., comma 2, artt. 782 e 783 c.c.; l'omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Lamenta che la C.A. abbia ritenuto che perché sussista una liberalità d'uso occorre che la donazione sia di modico valore, applicando così erroneamente a tale tipo di donativo i limiti posti dall'art. 783 c.c., relativo alle donazioni manuali. Peraltro, aggiunge la stessa, non tutti i donativi, fatti in diverse occasioni, rivestono il carattere di preziosità e, comunque, anche quelli più costosi non potevano aver costituito un apprezzabile depauperamento del patrimonio del donatore, tenuto conto delle buone condizioni economiche dello stesso, tanto è vero che il Del Ninno, nel corso della convivenza, le aveva donato un immobile sito nell'elegante Via Cortina d'Ampezzo in Roma. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 360, n. 3, c.p.c. in relazione all'art. 329, comma 2, c.p.c. La C.A., a giudizio della ricorrente, non aveva rilevato i limiti dell'impugnazione e la genericità dei motivi proposti. L'appellante non aveva, infatti impugnato le parti della sentenza relative alla potenzialità economica dell'attore e alle singole liberalità d'uso quali negozi a distinta rilevanza giuridica, per cui su tali enunciazioni si sarebbe formato il giudicato, non potendosi ritenere che l'impugnativa incentrata sull'interpretazione e l'interferenza del giudicato penale coprisse anche tali parti. La mancata espressa censura dell'inciso del I giudice comporterebbe, comunque, l'inammissibilità dell'appello per difetto di specificità dei motivi. Con il terzo motivo la Colomba deduce la violazione dell'art. 360, n. 3, c.p.c. per violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. Lamenta l'indebita inversione dell'onere della prova postulata dalla C.A., che non aveva considerato affatto che l'inefficacia delle singole liberalità doveva essere eccepita dal Del Ninno, il quale poi avrebbe dovuto provare i fatti su cui l'eccezione si fondava. Con il quarto motivo si denuncia la nullità della sentenza per violazione dell'art. 360, n. 4, c.p.c. in relazione all'art. 112 c.p.c. Sostiene la ricorrente che la C.A. avrebbe rilevato d'ufficio, in violazione dell'art. 112 c.p.c., la causa invalidante delle liberalità, sproporzione delle stesse rispetto alle condizioni economiche del donante, dallo stesso mai eccepite. Con il quinto motivo la ricorrente deduce la nullità della sentenza per violazione dell'art. 360, n. 4, c.p.c. in relazione agli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell'art. 360, n. 5, c.p.c. in relazione all'art. 1367 c.c. per omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. La Colomba lamenta che la C.A. non ha esaminato la rilevanza dell'intento liberale del donante, non privilegiando l'interpretazione che consente al negozio di produrre i suoi effetti, ma aderendo a quella che ne comportava la nullità con l'allegazione di un condizionamento psicologico del donante e non rilavando l'inattendibilità delle versioni prospettate dal Del Ninno, peraltro diverse, nella denuncia e nella citazione. Con il sesto motivo si denuncia la violazione dell'art. 360, n. 3, c.p.c. per violazione e falsa applicazione degli art. 652 c.p.p. e segg. La sentenza della C.A. avrebbe, a giudizio della ricorrente, violato gli artt. 652 c.p.p. e segg. per non aver tenuto nel giusto conto l'accertamento del fatto così come risultava nel giudicato penale. Il ricorso non può essere accolto. Quanto al primo motivo, contrariamente a quanto assume la ricorrente, la corte di merito ha escluso che, nella fattispecie, ricorresse l'ipotesi della donazione di modico valore, sulla base di un accertamento di fatto, incensurabile in questa sede perché logicamente motivato (descrizione dei gioielli, testimonianza del gioielliere), secondo il quale ogni regalo di cui si discute aveva avuto ad oggetto gioielli costosi; il che faceva venir meno il presupposto di cui all'art. 783 c.c. Da ciò, tuttavia, la corte non ha tratto la conseguenza che la ricorrente assume, e cioè che, per qualificarsi "d'uso" una liberalità debba necessariamente avere ad oggetto beni di modico valore. La corte territoriale, invece, ha escluso che di liberalità "d'uso" si trattasse sulla base di due argomentazioni: l'intento del Del Ninno (soggiogato dalla relazione con la Colomba - di trentacinque anni più giovane - e quindi in condizione di soggezione psicologica) di voler mantenere a tutti i costi la relazione; e la mancata prova di una posizione economica del Del Ninno che gli consentisse di donare gioielli costosi (oltre a denaro e immobili come dichiarato dalla stessa Colomba) senza provocare con ciò "ripercussioni negative" dal lato economico, sulla propria famiglia (moglie e figli). Entrambe le argomentazioni giustificano la conclusione alla quale è pervenuta la Corte, in quanto una elargizione di gioielli fatta allo scopo di consentire la prosecuzione di una convivenza, non è assimilabile alla liberalità d'uso, caratterizzata dal fatto che, colui che la compie intende osservare un uso, cioè adeguarsi ad un costume vigente nell'ambiente sociale di appartenenza, costume che determina, anche, la misura dell'elargizione in funzione della diversa posizione sociale delle parti, delle diverse occasioni ed in proporzione delle loro condizioni economiche, nel senso che, comunque, la donazione non debba comportare un depauperamento apprezzabile del patrimonio di chi la compie (v. Cass., n. 6720 del 1988). Nella presente fattispecie, invece, come si evince dalla motivazione della sentenza impugnata, risultava non solo lo stato di dipendenza psicologica del Del Ninno, tale da indurlo a fare regali alla Colomba, a prescindere da quelle "determinate occasioni" che il costume sociale normalmente festeggia; quindi, a prescindere dall'uso, al solo scopo di gratificare la controparte per convincerla a proseguire la relazione; ma anche con riferimento al profilo economico, il rilevante costo dei gioielli regalati, che incideva in astratto sull'entità del patrimonio del donante, che la donazione dell'immobile in precedenza effettuata dal Del Ninno alla Colomba ben poteva aver già naturalmente prosciugato. Il 1° motivo di ricorso va, pertanto, respinto. Anche il secondo motivo va disatteso. Le censure di inammissibilità dell'appello sollevate sotto il duplice profilo della mancata specificità dei motivi e dell'intervenuta acquiescenza, non possono essere condivise. Esse sono, infatti, fondate sull'assunto che l'appellante non avrebbe impugnato le affermazioni del primo giudice relative: alla potenzialità economica del Del Ninno (ritenuta compatibile con la configurabilità nella specie della liberalità d'uso), ed alla valutazione degli atti di liberalità considerati dal Tribunale singolarmente e non nel loro complesso. Tale assunto non trova riscontro negli atti, avendo il Del Ninno, impugnando siccome erronea la valutazione effettuata dal Tribunale delle circostanze di fatto accertate nell'istruttoria penale, e contrastando la qualificazione di liberalità d'uso data dallo stesso Tribunale ai pretesi regali dei quali parlava la Colomba, messo in evidenza come l'ingente valore dei gioielli, anche singolarmente considerati, valutati complessivamente in L. 500.000.000, costituiva una "abnorme elargizione" in relazione alle condizioni economiche del Del Ninno "sicuramente benestante, ma non certamente ricco". L'appellante, quindi, lungi dal fare acquiescenza alle affermazioni del Tribunale, ha specificato le circostanze rilevanti al fine di ottenere un diverso giudizio sulla qualificazione giuridica dei fatti data dal Tribunale, mostrando, peraltro, di ritenere sostanzialmente ininfluente in ordine alla decisione richiesta, la valutazione degli atti di liberalità nella loro singolarità, come effettuata dal Tribunale, piuttosto che nel loro complesso, dal momento che, comunque presi in considerazione, quegli atti avevano sempre ad oggetto preziosi di ingente valore. Parimenti infondato è il terzo motivo di ricorso. La ricorrente, infatti, nel sostenere che spettava al resistente, che agiva per la restituzione dei monili, allegare e provare la inadeguatezza delle sue condizioni economiche, quale circostanza ostativa alla configurabilità delle liberalità d'uso, non tiene conto del fatto che, con la domanda introduttiva del giudizio il Del Ninno aveva chiesto che fosse accertato il suo diritto di proprietà sui monili e che, pertanto, non essendo stato contestato da parte della Colomba che il Del Ninno fosse l'originario titolare dei gioielli, per averli ereditati o per averli personalmente acquistati, l'onere probatorio su di lui gravante, in relazione alla domanda proposta, doveva ritenersi soddisfatto. Spettava, viceversa, alla Colomba che, nel contrastare la domanda attorea aveva eccepito di aver ricevuto in regalo i gioielli dall'originario titolare, e di esserne quindi diventata a sua volta proprietaria, provare i fatti a sostegno della sua eccezione, e quindi che la sua disponibilità dei gioielli derivava da un atto di liberalità del Del Ninno, e sostenendosi che di liberalità d'uso si trattava, che la situazione economica del Del Ninno era compatibile con la natura dell'atto di liberalità sostenuta (quella d'uso). Non sussiste il vizio di extrapetizione denunciato con il quarto motivo di ricorso, avendo il resistente, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, denunciato la non compatibilità con la propria situazione economica, dei cosiddetti "regali", considerati singolarmente e nel complesso, come già esposto nel respingere il secondo motivo di ricorso. Va disatteso anche il quinto motivo, censurandosi con esso inammissibilmente, apprezzamenti di merito compiuti dalla corte territoriale, che ha correttamente e logicamente ricostruito i termini della relazione sentimentale intercorsa fra le parti, tenendo conto delle risultanze del processo penale svoltosi a carico della Colomba. Infondato è infine, il sesto motivo di ricorso, limitandosi l'accertamento contenuto nella sentenza penale passata in giudicato a fare stato in ordine alla insussistenza della appropriazione indebita dei gioielli da parte della Colomba, senza affrontare il problema che ha costituito l'oggetto di entrambi i giudizi di merito in sede civile, e cioè la sussistenza o meno, nella specie, della figura della liberalità d'uso, affermata dal Tribunale ed esclusa dalla corte di appello. Il ricorso va, pertanto, respinto. Sussistono giusti motivi per dichiarare interamente compensate fra le parti le spese del presente giudizio. P.Q.M. La corte rigetta il ricorso; dichiara compensate fra le parti, le spese del presente giudizio. Così deciso in Roma il 24 febbraio 1998. DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 24 NOVEMBRE 1998. 7 SENTENZE RECENTI IN MATERIA DI COMUNIONE LEGALE (a cura di Antonio Albanese) Cass. civ. Sez. II, 09-11-2012, n. 19513 (rv. 624096) Mascotti c. Scarpa e altri La dichiarazione di assenso ex art. 179, secondo comma, cod. civ. del coniuge formalmente non acquirente, ma partecipante alla stipula dell'atto di acquisto, relativa all'intestazione personale del bene immobile o mobile registrato all'altro coniuge, può assumere natura ricognitiva e portata confessoria - quale fatto sfavorevole al dichiarante e favorevole all'altra parte - sebbene esclusivamente di presupposti di fatto già esistenti, laddove sia controversa, tra i coniugi stessi, l'inclusione del medesimo bene nella comunione legale. Analoga efficacia in favore del coniuge formalmente acquirente non può, invece, attribuirsi ad una tale dichiarazione nel diverso giudizio fra i coeredi di colui che l'aveva resa, terzi rispetto al suddetto atto, in cui si discuta della configurabilità del menzionato acquisto come una donazione indiretta di quello stesso bene in favore del coniuge da ultimo indicato, nonchè della sussistenza dei presupposti per il suo conferimento nella massa ereditaria del "de cuius". (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza impugnata, che aveva qualificato come donazione indiretta, conseguentemente assoggettandola a collazione, l'acquisito di un immobile successivamente al matrimonio da parte di uno dei coniugi, in relazione al quale era stato provato il diretto versamento del prezzo all'alienante ad opera dell'altro, negando rilievo alla contraria dichiarazione di quest'ultimo contenuta nell'atto di acquisto). (Rigetta, App. Trento, 21/07/2005) REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. NUZZO Laurenza - rel. Presidente Dott. PARZIALE Ippolisto - Consigliere Dott. BERTUZZI Mario - Consigliere Dott. FALASCHI Milena - Consigliere - Dott. VINCENTI Enzo - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso 9601-2006 proposto da: M.A.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato PRATI MARINA; - ricorrente contro S.G., S.M., S.F. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA COSSERIA 5, presso lo studio dell'avvocato GUIDO FRANCESCO ROMANELLI, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato DE BERTOLINI GIANFRANCO; - controricorrenti avverso la sentenza n. 297/2005 della CORTE D'APPELLO di TRENTO, depositata il 21/07/2005; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/09/2012 dal Presidente Dott. LAURENZA NUZZO; udito l'Avvocato Giuseppe Antonini con delega depositata in udienza dell'Avv. Marina Prati difensore della ricorrente che ha chiesto di richiamare gli scritti illustrando le difese depositate; udito l'Avv. Romanelli Guido Francesco difensore dei controricorrenti che ha chiesto il rigetto del ricorso; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto che ha concluso per il rigetto del ricorso. FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE) Fatto Diritto P.Q.M. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. NUZZO Laurenza - rel. Presidente Dott. PARZIALE Ippolisto - Consigliere Dott. BERTUZZI Mario - Consigliere Dott. FALASCHI Milena - Consigliere Dott. VINCENTI Enzo - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso 9601-2006 proposto da: M.A.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato PRATI MARINA; - ricorrente contro S.G., S.M., S.F. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA COSSERIA 5, presso lo studio dell'avvocato GUIDO FRANCESCO ROMANELLI, che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato DE BERTOLINI GIANFRANCO; - controricorrenti avverso la sentenza n. 297/2005 della CORTE D'APPELLO di TRENTO, depositata il 21/07/2005; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/09/2012 dal Presidente Dott. LAURENZA NUZZO; udito l'Avvocato Giuseppe Antonini con delega depositata in udienza dell'Avv. Marina Prati difensore della ricorrente che ha chiesto di richiamare gli scritti illustrando le difese depositate; udito l'Avv. Romanelli Guido Francesco difensore dei controricorrenti che ha chiesto il rigetto del ricorso; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto che ha concluso per il rigetto del ricorso. Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 23.5.2002 S.F., S.G. e S.M. convenivano in giudizio, innanzi al Tribunale di Trento, M.A.M., moglie del loro padre, S.B., deceduto il (OMISSIS). Chiedevano lo scioglimento della comunione ereditaria e la divisione dei beni, previa reintegrazione nelle quote loro riservate,mediante riduzione delle disposizioni testamentarie e conferimento nella massa ereditaria dell'appartamento sito in (OMISSIS), attraverso la restituzione del relativo prezzo maggiorato di interessi, trattandosi di immobile che S.B. aveva donato, tra il (OMISSIS), alla convenuta, sposata in seconde nozze. Esponevano gli attori che il de cuius aveva disposto dei propri beni con testamento olografo del 3.11.1994, lasciando metà del patrimonio ai tre figli in parti uguali e l'altra metà alla M. cui aveva anche attribuito l'usufrutto di" tutti i suoi averi". L'eredità comprendeva: due immobili in località (OMISSIS) in P.t. 1416 p.m. 6 p.ed.770, casa di abitazione p.f. 4627-(OMISSIS); Euro 1344,28 depositati sul c/c ord. n. (OMISSIS) Banca Intesa BCI Comit di Trento; l'arredamento della casa in (OMISSIS) ed alcuni mobili nella casa della M. in (OMISSIS); l'attrezzatura per officina e falegnameria; un'automobile FIAT Campagnola; una FIAT 126; una volkswagen Golf. Assumevano gli attori che, nel (OMISSIS)6, il de cuius aveva donato detto appartamento in (OMISSIS), contraddistinto dalla p.m. 28 p.ed.1800 in P.T. 5816, pagando il prezzo effettivo di acquisto per L. 56.000.000. Si costituiva in giudizio la convenuta aderendo alla domanda di scioglimento della comunione e di divisione dei beni e domandando che fosse dichiarata nulla la donazione del prezzo di acquisto (L.2.907.000) dell'immobile in (OMISSIS), da lei fatta al de cuius, con addebito dell'importo alla massa, oltre alla restituzione delle spese funerarie e di quelle di successione anticipate per conto della massa. Con sentenza non definitiva 9.9.2004 il Tribunale di Trento dichiarava: che la casa in (OMISSIS), p.m. 28 p.ed.1800 C.C., era soggetta a collazione e M.A.M. la doveva conferire ai coeredi in natura o per imputazione; che la residenza dei coniugi S. - M. era costituita dalla casa di (OMISSIS); che M.A.M. vantava, verso la comunione ereditaria, i crediti specificati in motivazione; rimetteva la causa in istruttoria come da separata ordinanza. Avverso tale sentenza la M. proponeva appello cui resistevano gli appellati. Con sentenza 4.7.2005 la Corte d'Appello di Trento rigettava l'appello e condannava l'appellante al pagamento delle spese processuali del grado. Osservava la Corte di merito che dalla prova testimoniale e dalla documentazione bancaria emergeva la prova che il de cuius aveva donato alla moglie il denaro necessario per l'acquisto dell'appartamento in questione, sito in (OMISSIS), così realizzando una donazione indiretta in favore della moglie, dell'appartamento stesso. Tale decisione è impugnata con ricorso per cassazione dalla M. sulla base di quattro motivi illustrati da successiva memoria. Resistono con controricorso S.F., S.G. e S.M.. Motivi della decisione La ricorrente deduce: 1) violazione dell'art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia sui motivi di appello, relativamente: a) al vizio di travisamento delle dichiarazioni del teste C.G., avendo il Tribunale attribuito a dette dichiarazioni un "valore diverso" da quello da esse risultante; b) alla affermazione del Tribunale circa il difetto di prova sull'utilizzo, da parte della M., del prestito ottenuto dal fratello, M.S., per il pagamento del prezzo dell'appartamento in questione; escusso come testimone, il M. stesso aveva dichiarato di aver prestato alla sorella il denaro necessario per l'acquisto dell'appartamento, circostanza confermata dalla venditrice che, all'atto del pagamento, aveva rilasciato dichiarazione di quietanza, indicando gli importi ricevuti con i numeri dei relativi assegni tratti "su un istituto diverso da quello presso il quale il de cuius operava"; c) alla erronea valutazione, da parte del Tribunale, della dichiarazione resa da S.B., nell'atto di acquisto dell'appartamento da parte della M., dichiarazione che l'immobile era stato acquistato dalla moglie con denaro proprio, equiparabile a confessione, con efficacia anche nei confronti dei terzi cui incombeva la prova necessaria a superare la presunzione di proprietà esclusiva del bene in capo al coniuge acquirente; la corte di appello non aveva motivato in ordine a tale censura, ma si era limitata ad esaminare la questione subordinata con cui l'appellane assumeva che la casa di (OMISSIS) andava ricompresa nella comunione ereditaria; aveva, inoltre, omesso di decidere sulle altre questioni prospettate in via subordinata, riguardanti la natura "comune" del denaro utilizzato dal de cuius, per l'acquisto dell'immobile nonchè la mancanza, nell'atto di vendita dell'immobile, della dichiarazione del coniuge, richiesta al fine di consentire l'acquisto esclusivo da parte di S.B.; 2) subordinatamente al mancato accoglimento del primo motivo, la ricorrente impugnava i medesimi capi della sentenza di appello per omessa e/o carente e/o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, laddove la Corte di merito aveva ritenuto provato che il prezzo di acquisto dell'immobile in (OMISSIS), fosse stato pagato dal de cuius, non tenendo conto che tale circostanza non risultava nè dalle dichiarazioni rese dal teste C.G. nè dalla documentazione bancaria, stante il difetto di corrispondenza tra le entrate e le uscite dei conti correnti intestati a S.B. ed alla venditrice dell'immobile, D.C.; 3) violazione e falsa applicazione degli artt. 179 e 809 c.c. nonchè omessa e/o contraddittoria e/o illogica motivazione circa un punto decisivo della controversia concernente la dichiarazione con cui S.B. dichiarava, in calce all'atto di acquisto della moglie, ex art. 379 c.c., comma 2, che "l'immobile oggetto dell'acquisto resta escluso dalla comunione legale e di questo ne da conferma il marito intervenuto", dando luogo ad una presunzione assoluta di acquisto esclusivo dell'immobile da parte della M.; in subordine, sussistenza del vizio di violazione di legge e difetto di motivazione, in relazione alla dichiarata sussistenza di donazione indiretta da parte di S.B., posto che detta dichiarazione, in difetto di contestazione, comportava l'esclusivo l'acquisto dell'immobile in capo all'acquirente M.; in ulteriore subordine, essendo stato il bene acquistato in costanza di matrimonio, doveva considerarsi incluso nella comunione e, quindi, cadere in successione solo per la metà indivisa appartenente al de cuius, ex art. 179 c.c., comma 2, mancando nell'atto di compravendita, l'apposita dichiarazione della M. circa la natura e la provenienza del denaro (art. 179 c.c., comma 1, lett. f) e conseguentemente circa l'esclusione del medesimo dalla comunione; 4) violazione e falsa applicazione dell'art. 1224 c.c.; omessa e/o carente e/o contraddittoria e/o illogica motivazione circa un punto decisivo della controversia, con riferimento al mancato riconoscimento della rivalutazione monetaria, con decorrenza dalla data di esborso, sulla somma versata dalla M. a titolo di prezzo dell'immobile sito in (OMISSIS). Il ricorso è infondato. I primi due motivi di ricorsi, da esaminasi congiuntamente per la loro evidente connessione, attengono a valutazioni di prove che il giudice di appello avrebbe omesso di esaminare; al riguardo va rilevato, in aderenza alla giurisprudenza di questa Corte, che spetta al giudice di merito scegliere tra le risultanze istruttorie quelle ritenute idonee ai fini del decidere, potendosi configurare, peraltro, il vizio di omessa motivazione solo se le risultanze processuali non valutate incidano sull'efficacia probatoria delle altre su cui è stato basata la decisione, facendo venir meno la "ratio decidendi" (Cass. n. 3004/2004; n. 7058/2003). Non ricorre, quindi, il vizio di omessa pronuncia dedotto, spettando alla Corte di legittimità solo il compito di controllare, sotto il profilo logico- giuridico, la motivazione del giudice di merito sulle prove poste a fondamento della decisione senza che le sia consentito riesaminare il merito della causa. Orbene, la sentenza impugnata ha dato conto, con congrua e logica motivazione, che dalla documentazione bancaria acquisita e dalle dichiarazioni testimoniali del direttore della banca e della venditrice sig. D., risultava provato che il prezzo di acquisto dell'immobile in questione era stato pagato da S. B., posto che i primi due assegni di L. 20.000.000 erano stati tratti sul conto corrente intestato al solo S.B. che, quindi, aveva così posto in essere una donazione indiretta a favore della moglie. Quanto al pagamento del saldo del prezzo per L. 16.000.000, il giudice di appello ha evidenziato che il prestito, da parte del fratello della M., risultava contraddetto dal fatto che la venditrice D. aveva riferito di aver ricevuto gli assegni dallo S. sul cui conto risultava addebitata la somma di L. 16.000.000, sia pure alcuni giorni dopo la vendita. Con riferimento alle altre censure il giudice di secondo cure ha ritenuto che la dichiarazione resa da S.B. nell'atto pubblico di vendita, in ordine all'acquisto dell'immobile con denaro della moglie, fosse smentita dalle prove suddette, attestanti che il prezzo dell'immobile acquistato dalla moglie era stato pagato dallo S. con denaro proprio. A fronte di tale accertamento in fatto, riservato al giudice di merito, deve escludersi che a detta dichiarazione del donante possa attribuirsi valenza di confessione in favore del coniuge donatario, nel giudizio fra coeredi riguardante il conferimento nella massa ereditaria del bene donato, essendo i coeredi della M. nella posizione di terzi estranei all'atto di donazione e dovendosi intendere per fatto sfavorevole al dichiarante e favorevole all'altra parte quello che, in concreto, è idoneo a produrre effetti giuridici sfavorevoli per colui che rende la dichiarazione, avuto riguardo all'oggetto della controversia che, nella specie, verte non sugli effetti della donazione nei rapporti fra coniugi, al fine di includere o meno il bene donato dalla comunione legale fra coniugi, ma sulla configurabilità di una donazione indiretta di un immobile e sulla sussistenza dei presupposti per il relativo conferimento nella massa ereditaria. Una volta esclusa dalla Corte territoriale la natura "comune" del denaro utilizzato dallo S. per l'acquisto dell'immobile in base all'accertamento che il pagamento del prezzo era avvenuto mediante assegni tratti sul conto corrente intestato solo a S.B., incombeva, comunque, alla M. fornire elementi di prova sulla sussistenza della comunione legale con il coniuge ex art. 177 c.c., comma 1 in ordine alla somma versata per l'acquisto dell'immobile in questione. Va, infine, rigettata la doglianza sub 4), avendo il giudice di appello correttamente qualificato il credito della M. per "la restituzione delle somme pagate in esecuzione di un contratto nullo", come debito di valuta e non di valore, stante la sua natura restitutoria e non risarcitoria, riconducibile alla "condictio indebiti" ex art. 2033 c.c. (cfr. Cass. n 5926/95; n. 9910/03). Alla stregua di quanto osservato il ricorso va rigettato. Consegue la condanna della ricorrente al pagamento della spese processuali del presente giudizio, liquidate come da dispositivo. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 8.000,00 di cui Euro 100,00 per spese oltre accessori di legge. Così deciso in Roma, il 25 settembre 2012. Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2012 Trib. Roma Sez. X, 26-10-2012 Ba.Al. c. Sc.Ma. FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE) La dichiarazione del coniuge non acquirente resa, ai sensi dell'art. 179, comma 2, c.c., sulla natura personale della provvista per l'acquisto di un immobile da parte dell'altro coniuge, con conseguente esclusione dell'acquisto del bene in comunione legale, ha natura ricognitiva e portata confessoria di presupposti di fatto già esistenti, con la conseguenza che l'azione di accertamento negativo della natura personale del bene postula la revoca della confessione stragiudiziale resa nei limiti in cui è ammessa in via generale, ossia per errore di fatto o violenza. Cass. civ. Sez. III, 19-07-2012, n. 12466 (rv. 623485) Albarello c. Imp. Jelmini s.r.l. e altri FAMIGLIA MATRIMONIO (REGIME E PATRIMONIALE) DIVORZIO Matrimonio in genere FAMIGLIA - Matrimonio - Rapporti patrimoniali tra coniugi - Comunione legale - Oggetto Acquisti - Preliminare di acquisto di immobile stipulato da uno dei coniugi prima della separazione - Sentenza ex art. 2932 cod. civ. pronunciata dopo la separazione - Conseguenze Non cade in comunione legale l'immobile che, promesso in vendita a persona coniugata in regime di comunione legale, sia coattivamente trasferito ex art. 2932 cod. civ,. a causa dell'inadempimento del promittente venditore, al promissario acquirente, con sentenza passata in giudicato dopo che tra quest'ultimo ed il coniuge era stata pronunciata la separazione. (Rigetta, Trib. Busto Arsizio, 17/07/2006) REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. UCCELLA Fulvio - Presidente Dott. SPIRITO Angelo - Consigliere Dott. AMENDOLA Adelaide - rel. Consigliere Dott. DE STEFANO Franco - Consigliere Dott. BARRECA Giuseppina Luciana - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso 7224/2007 proposto da: \ALBARELLO ANTONELLA\, *Ibrnnl64d56d869w*, in proprio e quale genitore esercente la patria potestà sul minore \BELOTTI LORENZO ERMES\, elettivamente domiciliato in ROMA, CIRCONVALLAZIONE CLODIA 36B, presso lo studio dell'avvocato CERTOMA' ANTONIO FRANCESCO, rappresentato e difeso dall'avvocato POLERA' EDOARDO delega in atti; - ricorrente contro IMPRESA JELMINI FELICE SRL, *00189920127*, in persona dell'amministratore unico Signor \Ielmini Giovanni\, elettivamente domiciliata in ROMA, CIRCONVALLAZIONE CLODIA 86, presso lo studio dell'avvocato MARTIRE ROBERTO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato PULLI SALVATORE giusta delega in atti; - controricorrente contro BANCA INTESA SPA, \PERONI ISABELLA\, \TONETTI MARCO\, \BELOTTI VALERIO\; - intimati - sul ricorso 11565/2007 proposto da: ITALFONDIARIO SPA, *00399750587*, nella sua qualità di procuratore di INTESA SANPAOLO s.p.a., in persona del Dr. \\Braschi Bruno Angelo\, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA SCROFA 14, presso lo studio dell'avvocato CAPRINO GAETANO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato CHIERICHETTI ANGELO giusta delega in atti; - ricorrenti e contro \PERONI ISABELLA\, \ALBARELLO ANTONELLA\, \BELOTTI VALERIO\, IMP JELMINI FELICE SRL, \TONETTI MARCO\; - intimati avverso la sentenza n. 663/2006 del TRIBUNALE di BUSTO ARSIZIO, depositata il 17/07/2006; R.G.N. 2637/2004; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/06/2012 dal Consigliere Dott. ADELAIDE AMENDOLA; udito l'Avvocato ROBERTO MARTIRE; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per previa riunione, accoglimento 3 motivo ricorso principale, rigettati gli altri motivi anche del ricorso incidentale. ESECUZIONE Opposizione in del FAMIGLIA MATRIMONIO Divorzio (assegnazione Matrimonio in genere FORZATA terzo genere (REGIME PATRIMONIALE) E della Fatto Diritto P.Q.M. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. UCCELLA Fulvio - Presidente Dott. SPIRITO Angelo - Consigliere Dott. AMENDOLA Adelaide - rel. Consigliere Dott. DE STEFANO Franco - Consigliere Dott. BARRECA Giuseppina Luciana - Consigliere - DIVORZIO casa coniugale) ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso 7224/2007 proposto da: \ALBARELLO ANTONELLA\, *Ibrnnl64d56d869w*, in proprio e quale genitore esercente la patria potestà sul minore \BELOTTI LORENZO ERMES\, elettivamente domiciliato in ROMA, CIRCONVALLAZIONE CLODIA 36B, presso lo studio dell'avvocato CERTOMA' ANTONIO FRANCESCO, rappresentato e difeso dall'avvocato POLERA' EDOARDO delega in atti; - ricorrente contro IMPRESA JELMINI FELICE SRL, *00189920127*, in persona dell'amministratore unico Signor \Ielmini Giovanni\, elettivamente domiciliata in ROMA, CIRCONVALLAZIONE CLODIA 86, presso lo studio dell'avvocato MARTIRE ROBERTO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato PULLI SALVATORE giusta delega in atti; - controricorrente contro BANCA INTESA SPA, \PERONI ISABELLA\, \TONETTI MARCO\, \BELOTTI VALERIO\; - intimati sul ricorso 11565/2007 proposto da: ITALFONDIARIO SPA, *00399750587*, nella sua qualità di procuratore di INTESA SANPAOLO s.p.a., in persona del Dr. \\Braschi Bruno Angelo\, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA SCROFA 14, presso lo studio dell'avvocato CAPRINO GAETANO, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato CHIERICHETTI ANGELO giusta delega in atti; - ricorrenti e contro \PERONI ISABELLA\, \ALBARELLO ANTONELLA\, \BELOTTI VALERIO\, IMP JELMINI FELICE SRL, \TONETTI MARCO\; - intimati avverso la sentenza n. 663/2006 del TRIBUNALE di BUSTO ARSIZIO, depositata il 17/07/2006; R.G.N. 2637/2004; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/06/2012 dal Consigliere Dott. ADELAIDE AMENDOLA; udito l'Avvocato ROBERTO MARTIRE; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per previa riunione, accoglimento 3 motivo ricorso principale, rigettati gli altri motivi anche del ricorso incidentale. Svolgimento del processo I fatti di causa possono così ricostruirsi sulla base della sentenza impugnata. Con ricorso ex art. 619 c.p.c., depositato in data 15 settembre 2004 \Antonella @Albarello\ espose che l'Impresa Jelmini, creditrice di \Valerio @Bellotti\, aveva pignorato, con atto trascritto il 17 maggio 2002, l'immobile sito in *Gallarate, via Aleardi 1*, del quale il debitore era proprietario solo per la metà; che tale esecuzione era invalida e inefficace, posto che sul cespite ella vantava un diritto di abitazione, essendo stato lo stesso a lei assegnato, quale affidataria del minore \Lorenzo Hermes\, nel giudizio di separazione, definito con sentenza n. 826 del 1999, trascritta in data 23 maggio 2002; che tale provvedimento era opponibile al terzo acquirente per la durata di un novennio dalla data della sua adozione; che peraltro l'immobile pignorato era stato acquistato in regime di comunione legale ed apparteneva, pertanto, pro Indiviso, anche a lei. Costituitasi in giudizio, l'Impresa Ielmini Felice contestò le avverse deduzioni. Nel giudizio si costitui anche, con comparsa di intervento del 15 aprile 2005, Intesa Gestione Crediti s.p.a. (procuratore di Banca Intesa s.p.a.), creditrice ipotecaria, la quale assunse, tra l'altro, che, ai sensi dell'art. 2812 c.c., il diritto di abitazione trascritto dopo l'iscrizione della garanzia non era ad essa opponibile, con conseguente sua facoltà di chiedere la substazione dell'immobile come libero. Con sentenza del 17 luglio 2006 il Tribunale di Busto Arsizio respinse l'opposizione, compensando integralmente tra le parti le spese del procedimento. Avverso detta pronuncia ricorre per cassazione \Albarello Antonella\, formulando tre motivi. Resistono con due distinti controricorsi Impresa Ielmini Felice s.r.l. e Italfondiario s.p.a., nella qualità di procuratore di Intesa San Paolo s.p.a. (già Banca Intesa s.p.a.), quest'ultima proponendo altresì ricorso incidentale condizionato affidato a un solo mezzo. Motivi della decisione 1 Con il primo motivo la ricorrente denuncia nullità assoluta della sentenza impugnata per violazione dell'art. 132 c.p.c.. Evidenzia che l'opposizione era stata da lei proposta in proprio e quale legale rappresentante del figlio minore \Belotti Lorenzo Ermes\, laddove nè dall'epigrafe, nè dal dispositivo, nè dal corpo della motivazione della sentenza impugnata, risultava riferimento alcuno al minore da essa rappresentato, minore il cui nominativo era completamente assente. 2 Le critiche seno infondate. L'omessa menzione del minore, in nome e per conto del quale, oltre che in proprio, l'opponente ha agito, integra un semplice errore materiale. Si ricorda che la mancata indicazione espressa della parte nella sentenza - non prescritta a pena di nullità dall'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 2, - non ne determina la nullità per inidoneità al raggiungimento dello scopo ove l'atto abbia indicato un provvedimento intervenuto nel corso del processo il cui contenuto consenta di individuare per relationem il soggetto non menzionato, dovendosi ritenere, in applicazione dei principi di cui all'art. 156 c.p.c., commi 2 e 3, che la pronuncia, pur carente di un requisito formale, sia comunque idonea a soddisfare lo scopo al quale è preposta l'indicazione delle parti (confr. Cass. civ. 11 novembre 2011, n. 236709). In sostanza dirimente, al fine di stabilire se l'omissione incida sulla validità della sentenza, è la sussistenza o meno di una situazione di incertezza in ordine ai soggetti tra i quali si è costituito il contraddittorio e ai quali, quindi la decisione si riferisce (confr. Cass. civ. 26 marzo 2010, n. 7343). Nella fattispecie, il semplice riferimento alla procura a margine della comparsa di nuovo difensore, contenuto nell'intestazione della sentenza impugnata, nonchè alla qualità dell'opponente di affidataria del minore \Lorenzo Hermes\, fugano ogni dubbio in ordine alle parti del giudizio tra le quali la decisione è stata resa. 3 Con il secondo mezzo si lamentano vizi motivazionali con riferimento al punto della controversia riguardante la comproprietà dell'immobile oggetto di esecuzione forzata. Le critiche si appuntano contro l'affermazione del giudice di merito secondo cui il bene pignorato era di esclusiva spettanza del debitore esecutato, nonchè coniuge separato dell'opponente, \Bellotti Valerio\, di talchè la tesi difensiva dell'\Albarello\ - di essere titolare, pro indiviso, della metà del bene stesso - non aveva alcun fondamento. Significativo era in proposito, secondo il giudice di merito, che il \Bellotti\ avesse stipulato il preliminare di vendita con Impresa Jelmini s.a.s. in data 8 novembre 1991 e che la proprietà del cespite fosse stata trasferita con sentenza ex art. 2932 c.c., resa dal Tribunale di Busto Arsizio in data 21 gennaio 2002. In tale contesto, sia a volere accedere alla tesi, peraltro minoritaria, secondo cui gli effetti traslativi di tale pronuncia retroagisco al momento della stipulazione del preliminare, sia a voler ritenere che l'effetto traslativo si verifichi alla data della sentenza, non poteva ipotizzarsi sotto alcun profilo l'ingresso dell'immobile nel patrimonio comune dei coniugi, considerato che la comunione legale era venuta meno alla data della separazione, e cioè l'11 giugno 1999. Secondo l'esponente tale giudizio sarebbe viziato da mancata, adeguata considerazione della documentazione versata in atti. E invero, se certamente il preliminare di vendita era stato stipulato prima del matrimonio, l'effetto acquisitivo del diritto si era prodotto successivamente. Considerato allora che la sentenza di separazione in data 11 giugno 1999 era diventata definitiva il 10 ottobre 2000; che, ai sensi dell'art. 191 c.c., lo scioglimento della comunione legale si era verificato solo in siffatto momento (confr. Cass. civ. 27 febbraio 2001, n. 2844); che l'Impresa Jelmini aveva notificato domanda di esecuzione in forma specifica dell'obbligo di concludere il contratto il 5 ottobre 1999, quando i coniugi erano ancora in regime di comunione, l'effetto acquisitivo del diritto, stante la retroattività della sentenza ex art. 2932 c.c., si era prodotto sin dalla domanda introduttiva del giudizio. Aggiunge anche l'impugnante che l'immobile era stato consegnato al \Bellotti\ in costanza di matrimonio; che sempre in costanza di matrimonio il mutuo era stato frazionato e che il \Bellotti\ aveva potuto fruire di benefici connessi alla convenzione stipulata dalla impresa costruttrice con il Comune proprio in ragione del fatto che la futura moglie era colà residente. 4 Con il terzo motivo la ricorrente denuncia vizi motivazionali con riferimento al mancato riconoscimento dell'opponibilità al creditore pignorante del diritto personale di godimento suo e del figlio sul bene pignorato, in forza del provvedimento di separazione. Le critiche hanno quindi ad oggetto quella parte della sentenza impugnata in cui il decidente ha escluso che l'assegnazione della casa familiare possa considerarsi istituto affine alla locazione, conseguentemente negando, in difetto di espressa previsione, l'applicabilità della norma in tema di opponibilità al terzo delle locazioni infranovennali, ritenendola consentita, senza limiti predeterminati di tempo, solo in presenza della trascrizione del provvedimento di assegnazione (confr. Cass. civ. 6 maggio 1999, n. 4529). Sostiene per contro l'impugnante che la giurisprudenza di legittimità è ormai consolidata nell'affermare che il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, è opponibile, ancorchè non trascritto, al terzo acquirente in data successiva per nove anni dalla data dell'assegnazione, ovvero - se il titolo sia stato in precedenza trascritto - anche oltre i nove anni (confr. Cass. civ. 26 luglio 2002, n. 11096). Nella fattispecie l'assegnazione dell'immobile pignorato aveva data certa anteriore al pignoramento. Esso era pertanto indiscutibilmente opponibile ai terzi per un novennio, a decorrere dalla data di assegnazione. 5 Le critiche sono prive di pregio, ancorchè la motivazione della sentenza impugnata debba essere, in qualche punto, integrata e corretta, ex art. 384 c.p.c., u.c.. Contrariamente a quanto affermato dal giudice di merito, invero, lo scioglimento della comunione legale dei beni fra coniugi si verifica, con effetto ex nunc, dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di separazione ovvero dell'omologazione degli accordi di separazione consensuale, non spiegando, per converso, alcun effetto, al riguardo, il provvedimento presidenziale di cui all'art. 708 del codice di rito, autorizzativo dell'interruzione della convivenza tra i coniugi, stante il contenuto del tutto limitato e la funzione meramente provvisoria dello stesso (confr. Cass. civ. 12 gennaio 2012, n. 324; Cass. civ. 26 febbraio 2010, n. 4757). Vero è, invece, che la sentenza di esecuzione in forma coattiva dell'obbligo di contrarre, ex art. 2932 c.c., produce gli effetti del contratto definitivo, che è destinata a surrogare, solo con il passaggio in giudicato (confr. Cass. civ. 28 febbraio 2011, n. 4907; Cass. civ. sez. un. 22 febbraio 2010, n. 4059). Ne deriva che, secondo la stessa prospettazione dell'impugnante, l'effetto acquisitivo del diritto di proprietà sull'immobile staggito si è verificato in un momento in cui la comunione legale era già sciolta, di talchè di quel diritto è titolare, in via esclusiva, il debitore esecutato. 6 Infine l'esistenza di un provvedimento di assegnazione non è elemento che possa incidere sulla pignorabilità del bene. E' invero giurisprudenza consolidata di questa Corte, dalla quale non v'è ragione di discostarsi, che, ai sensi dell'art. 6, comma 6, della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (nel testo sostituito dall'art. 11 della legge 6 marzo 1937, n. 74), applicabile anche in tema di separazione personale, il provvedimento giudiziale di assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario, avendo per definizione data certa, è opponibile, ancorchè non trascritto, al terzo acquirente in data successiva per nove anni dalla data dell'assegnazione, ovvero - ma solo ove il titolo sia stato in precedenza trascritto - anche oltre i nove anni (confr. Cass. civ. sez. un. 26 luglio 2002, n. 11096; Cass. civ. 10 giugno 2006, n. 12296). Merita evidenziare, per quanto qui interessa, che a siffatte conclusioni il Supremo Collegio è pervenuto all'esito di una completa ricostruzione dell'evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia, valorizzando la ratio della norma in discorso e le esigenze di ordine sistematico, in base alle quali, divelta agevole, superando le ambiguità del tenore letterale dell'art. 6, comma 6, della legge sul divorzio (...), ravvisare nel richiamo all'art. 1599 c.c., in esso contenuto, la precisa volontà del legislatore di assimilare al meri fini della trascrizione, il diritto dell'assegnatario a quello del conduttore, così attribuendo all'istituto un quoziente di opponibilità ai terzi, anche a prescindere dalla trascrizione. In tale contesto va pertanto affermato che il diritto vantato dall'assegnataria, opponibile a terzo acquirente, non paralizza tuttavia quello del creditore di procedere in executivis sul bene oggetto dell'assegnazione, pignorandolo e facendolo vendere coattivamente, di talchè la scelta adottata nella sentenza impugnata va confermata sia pure per ragioni diverse da quelle addotte dal giudice di merito. 7 Resta assorbito l'esame del ricorso incidentale, in quanto espressamente proposto in via subordinata, per il non creduto caso di accoglimento del ricorso proposto dalla signora \Albarello Antonella\ (pag. 13 del controricorso), e quindi sostanzialmente, anche se non formalmente, condizionato. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte, pronunciando sui ricorsi riuniti, rigetta il ricorso principale, assorbito l'incidentale; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 4.200,00 (di cui Euro 4.000,00 per onorari), oltre IVA e CPA, nei confronti di Impresa Jelmini Felice s.r.l. e in Euro 4.000,00 (di cui Euro 3.800,00 per onorari), oltre IVA e CPA, nei confronti di Italfondiario, nella qualità. Così deciso in Roma, il 7 giugno 2012. Depositato in Cancelleria il 19 luglio 2012 Cass. civ. Sez. I, 17-07-2012, n. 12197 V.D. e altri c. T. S. e altri FAMIGLIA VENDITA Vendita di immobili (REGIME PATRIMONIALE) La dichiarazione resa nell'atto pubblico dal coniuge non acquirente, ai sensi dell'art. 179, secondo comma, c.c., in ordine alla natura personale dell'immobile contestualmente acquistato, si atteggia diversamente a seconda che la personalità dell'acquisto dipenda dal pagamento con provvista proveniente dal prezzo del trasferimento di beni personali del coniuge acquirente, o invece dalla destinazione del bene all'uso personale o all'esercizio della professione propria di quest'ultimo. Nel primo caso, la dichiarazione riveste natura ricognitiva e portata confessoria dei presupposti di fatto già esistenti (la provenienza del denaro utilizzato per l'acquisto), con la conseguenza che l'azione di accertamento negativo della natura personale del bene postula la revoca della confessione stragiudiziale resa dall'altro coniuge, nei limiti in cui la stessa è ammessa dall'art. 2732 c.c., e cioè per errore di fatto o violenza. Laddove, nell'ipotesi alternativa la verifica dell'effettiva destinazione consente la prova contraria libera, indipendentemente dall'indagine sulla sincerità dell'intento manifestato. FONTI Notariato, 2012, 5, 502 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Presidente Dott. PICCININNI Carlo - Consigliere - Dott. BERNABAI Renato - rel. Consigliere Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria - Consigliere Dott. ACIERNO Maria - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso 9186/2009 proposto da: V.D. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in R0MA, VIA DARDANELLI 13, presso l'avvocato LIUZZI MILENA, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato CARCERERI FRANCO, giusta procura a margine del ricorso; - ricorrente contro T.S. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE B. BUOZZI 99, presso l'avvocato D'ALESSIO ANTONIO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato SQUASSABIA GIUSEPPE, giusta procura in calce al controricorso; - controricorrente avverso la sentenza n. 84/2009 della CORTE D'APPELLO di VENEZIA, depositata il 16/01/2009; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/05/2012 dal Consigliere Dott. RENATO BERNABAI; udito, per il ricorrente, l'Avvocato CARCERERI FRANCO che ha chiesto l'accoglimento del ricorso; udito, per la controricorrente, l'Avvocato SQUASSABIA GIUSEPPE che ha chiesto il rigetto del ricorso; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto del ricorso. FAMIGLIA (REGIME SEPARAZIONE Separazione (addebitabilità) VENDITA Vendita di immobili Fatto Diritto P.Q.M. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Presidente - DEI PATRIMONIALE) CONIUGI Dott. PICCININNI Carlo - Consigliere Dott. BERNABAI Renato - rel. Consigliere Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria - Consigliere Dott. ACIERNO Maria - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso 9186/2009 proposto da: V.D. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in R0MA, VIA DARDANELLI 13, presso l'avvocato LIUZZI MILENA, che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato CARCERERI FRANCO, giusta procura a margine del ricorso; - ricorrente contro T.S. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE B. BUOZZI 99, presso l'avvocato D'ALESSIO ANTONIO, che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato SQUASSABIA GIUSEPPE, giusta procura in calce al controricorso; - controricorrente avverso la sentenza n. 84/2009 della CORTE D'APPELLO di VENEZIA, depositata il 16/01/2009; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/05/2012 dal Consigliere Dott. RENATO BERNABAI; udito, per il ricorrente, l'Avvocato CARCERERI FRANCO che ha chiesto l'accoglimento del ricorso; udito, per la controricorrente, l'Avvocato SQUASSABIA GIUSEPPE che ha chiesto il rigetto del ricorso; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto del ricorso. Svolgimento del processo Con ricorso notificato il 18 novembre 2002 il sig. V.D. conveniva dinanzi al Tribunale di Verona la propria moglie, signora T.S., per ottenere la dichiarazione di separazione personale, con addebito ed assegnazione a sè dell'abitazione coniugale. Costituitasi ritualmente, la signora T. svolgeva domanda riconvenzionale di addebito della separazione al coniuge per inadempimento dei doveri di fedeltà, coabitazione ed assistenza, chiedendo, a sua volta, l'assegnazione della casa coniugale ed un assegno di mantenimento di Euro 1.500,00. Nel corso del giudizio veniva disposta la riunione ex art. 274 c.p.c., con altro processo promosso dalla signora T. per l'accertamento della simulazione dell'atto di compravendita del terreno su cui era stato edificato il fabbricato adibito a casa coniugale, nella parte in cui conteneva la sua dichiarazione che il prezzo era stato pagato con il ricavo di una precedente vendita di immobile di proprietà del V.. Nel corso dell'istruttoria era ammessa ed espletata prova testimoniale. Con sentenza 6 dicembre 2007 il Tribunale di Verona pronunziava la separazione personale, rigettando le reciproche richieste di addebito; respingeva la domanda di simulazione e confermava il provvedimento presidenziale ex art. 708 c.p.c., che assegnava la casa coniugale al V., a cui carico poneva un assegno mensile di mantenimento di Euro 600,00, soggetto a rivalutazione. Compensava tra le parti le spese di lite. In parziale accoglimento dei gravami hinc et inde proposti, la Corte d'appello di Venezia, con sentenza 16 gennaio 2009, dichiarava addebitabile al V. la separazione personale, riducendo il suo contributo di mantenimento ad Euro 450,00 mensili,ed accertava che il fondo oggetto dell'atto di compravendita 30 luglio 1991, stipulato in costanza di matrimonio, ricadeva nella comunione coniugale; così come, per l'effetto, la casa familiare su esso edificata. Confermava nel resto l'impugnata sentenza e compensava per un terzo le spese del doppio grado di giudizio, ponendo la residua frazione a carico del V.. Motivava: - che dalle prove assunte emergeva una relazione extraconiugale intrattenuta dal marito all'origine della crisi matrimoniale: in assenza di prova, il cui onere incombeva sull'autore della violazione dell'obbligo di fedeltà, del venir meno, già in precedenza, dell'affectio coniugalis; - che la disparità reddituale tra i coniugi appariva minore di quella ritenuta dal giudice di primo grado: onde si doveva ridurre il contributo di mantenimento a carico del V.; - che la dichiarazione della signora T., resa in sede di rogito della compravendita del terreno su cui era poi stata edificata la casa coniugale, che il prezzo era stato pagato con denaro proveniente dal trasferimento di beni personali del V. aveva solo natura ricognitiva ed appariva smentita dalla mancata prova dell'effettiva provenienza della provvista da precedenti vendite di beni personali. Avverso la sentenza, notificata il 16 febbraio 2009f il sig. V. proponeva ricorso per cassazione, articolato in otto motivi e notificato il 16 aprile 2009. Deduceva: 1) la violazione degli artt. 151 e 143 c.c., nell'accogliere la domanda di addebito sulla base del solo accertamento della violazione dell'obbligo di fedeltà, senza verificarne il nesso di causalità con la crisi del matrimonio; 2) la carenza di motivazione in ordine all'accertamento dei comportamenti contrari ai doveri coniugali; 3) la violazione dell'art. 2697 c.c., in ordine all'onere della prova dei presupposti giustificativi della pronunzia di addebito; 4) l'inosservanza dell'art. 2697 cod. e dell'art. 156 c.c., nella determinazione dell'assegno di mantenimento mediante ricorso all'equità; 5) la violazione degli artt. 179, 2733 e 2735 c.c., e la carenza di motivazione nell'accertamento della comunione legale sul terreno, acquistato dal solo V. con i proventi della vendita di beni personali, come da conforme dichiarazione del coniuge riportata nell'atto pubblico di compravendita; 6) l'erroneità della ritenuta inefficacia della dichiarazione, avente natura negoziale, resa dalla signora T. in sede di stipulazione e riportata nell'atto pubblico; 7) la violazione dell'art. 112 c.p.c., per omessa pronunzia sulla domanda riconvenzionale, riproposta in secondo grado, per ottenere il rimborso pro quota dei costi di edificazione del fabbricato sul terreno, subordinatamente all'eventuale accertamento della comunione legale. 8) la violazione di legge e la carenza di motivazione nel rigetto della domanda di revoca del sequestro dell'immobile, disposto ex art. 156 c.c., comma 6. Resisteva con controricorso la signora T.. Entrambe le parti depositavano memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c.. In essa il ricorrente eccepiva l'inammissibilità del controricorso, tardivamente notificatogli. All'udienza del 21 maggio 2012 il Procuratore generale e i difensori precisavano le rispettive conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate. Motivi della decisione Dev'essere preliminarmente dichiarata l'inammissibilità del controricorso, notificato al V. in data 29 ottobre 2009, e quindi oltre il termine di giorni venti dal 26 maggio 2009, data di scadenza del termine per il deposito del ricorso, notificato il 16 aprile 2009 (art. 369 c.p.c., e art. 370 c.p.c., comma 1). Dalla predetta tardività discende, in via derivativa, l'analoga preclusione della successiva memoria illustrativa. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 151 e 13 c.c.. Il motivo è infondato. Dal tenore della motivazione si evince, in punto di fatto, che la corte territoriale ha positivamente attribuito alla violazione dell'obbligo di fedeltà da parte del V. piena efficienza causale in ordine alla intollerabilità della prosecuzione della convivenza, all'origine della separazione giudiziale (art. 151 c.c.); con esclusione, per contro, di analogo comportamento a carico della moglie. Ciò si evince dalla descrizione delle modalità della relazione adulterina, definita stabile e perfino ostentata, sfociata poi nell'abbandono della casa coniugale. La successiva enunciazione del riparto dell'onere della prova liberatoria riveste quindi solo natura teorica; senza revocare in dubbio l'accertamento del nesso eziologico autonomamente motivato. Con il secondo ed il terzo motivo, da esaminare congiuntamente per affinità di contenuto, si denunzia la carenza di motivazione e la violazione dell'art. 2697 c.c., in ordine alla ritenuta sussistenza dei presupposti giustificativi della pronunzia di addebito. Entrambe le censure si palesano infondate, dal momento che la corte territoriale ha dato adeguatamente conto dell'addebito, ponendo in evidenza, con corretto riparto dell'onere probatorio, gli elementi di fatto giustificativi dell'addebito, consistenti nella violazione del dovere di fedeltà, all'origine della crisi coniugale. Per il resto, le doglianze si risolvono in una difforme valutazione, nel merito, delle risultanze istruttorie - di cui si chiede la disamina diretta da questa Corte - che non può trovare ingresso in questa sede. Il quarto motivo è infondato nella parte in cui lamenta il ricorso all'equità, in quanto la corte territoriale non ha inteso applicare un criterio alternativo a quello legale in sede di determinazione dell'assegno di mantenimento, bensì ha tratto le dovute conseguenze dalla disparità di reddito documentata, in modo del tutto conforme ai principi ordinari in materia (art. 156 c.c., comma 1 e 2). Nel contesto della motivazione il riferimento all'equità riveste quindi solo un valore empirico, nel senso di conforme a giustizia sostanziale; senza deroga alcuna alla pronuncia secondo diritto (artt. 113 e 114 c.p.c.). Le ulteriori argomentazioni difensive ripropongono, poi, un sindacato di merito sull'apprezzamento delle prove, esulante dai limiti del giudizio di legittimità. Con il quinto ed il sesto motivo, di contenuto analogo, ricorrente denunzia la violazione degli artt. 179, 2733 e 2735 c.c., e la carenza di motivazione nell'accertamento della comunione legale sul terreno da lui acquistato. Le censure sono fondate. A prescindere dalla contraddizione in cui incorre la sentenza impugnata nel riconoscere natura di presunzione juris et de jure alla dichiarazione del coniuge non acquirente sulla natura personale della provvista utilizzata per l'acquisto dell'immobile e, nel contempo, consentirne il superamento mediante la prova contraria della sua non veridicità (per definizione, esclusa in tema di presunzioni assolute), si osserva come il recente arresto di questa Corte, a sezioni unite, 28 ottobre 2009 n. 22.755 abbia risolto il contrasto in precedenza verificatosi sulla questione dell'efficacia probatoria da riconoscere alla dichiarazione stessa. Si è infatti statuito, sul punto, che la dichiarazione resa nell'atto pubblico dal coniuge non acquirente, ai sensi dell'art. 179 c.c., comma 2, in ordine alla natura personale dell'immobile contestualmente acquistato, si atteggia diversamente a seconda che la personalità dell'acquisto dipenda - come nella specie - dal pagamento con provvista proveniente dal prezzo del trasferimento di beni personali del coniuge acquirente, o invece dalla destinazione del bene all'uso personale o all'esercizio della professione propria di quest'ultimo. Nel primo caso, la dichiarazione riveste natura ricognitiva e portata confessoria dei presupposti di fatto già esistenti (la provenienza del denaro utilizzato per l'acquisto): con la conseguenza che l'azione di accertamento negativo della natura personale del bene postula la revoca della confessione stragiudiziale resa dall'altro coniuge, nei limiti in cui la stessa è ammessa dall'art. 2732 c.c., e cioè per errore di fatto o violenza. Laddove, nell'ipotesi alternativa, non pertinente al caso in esame, la verifica dell'effettiva destinazione consente la prova contraria libera, indipendentemente dall'indagine sulla sincerità dell'intento manifestato. Alla luce di tale insegnamento (seguito, più di recente, da Cass., sez. 1, 2 febbraio 2012, n. 1523), appare erronea la svalutazione della dichiarazione confessoria della signora T., operata dalla corte territoriale; che, per l'effetto, ne ha ritenuto il superamento tramite la prova negativa indiretta tratta dall'inesistenza di documentate vendite precedenti di beni personali del V.: da cui inferire, presuntivamente, la non veridicità dell'enunciato pagamento del prezzo del terreno con provvista esclusivamente propria. L'accoglimento della censura assorbe l'ulteriore deduzione circa la natura negoziale della dichiarazione della T.: cui in sostanza, secondo il ricorrente, sarebbe da ascrivere il significato di un valido rifiuto volitivo del coacquisto. Del pari assorbito risulta anche il settimo motivo, concernente la violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. per omessa pronunzia sulla domanda riconvenzionale, riproposta in secondo grado subordinatamente all'accertamento positivo della comunione legale. L'ultimo motivo, concernente il rigetto della domanda di revoca del sequestro dell'immobile disposto ex art. 156 c.c., comma 6, è inammissibile. Il provvedimento in questione ha, infatti, natura cautelare e, come tale, non è soggetto a ricorso per Cassazione, proponibile solo avverso provvedimenti definitivi e decisori (Cass., sez. 1, 2 Febbraio 2012, n. 1518). La sentenza dev'essere dunque cassata nei limiti sopra indicati, con rinvio alla Corte d'appello di Venezia, anche per il regolamento delle spese della fase di legittimità. P.Q.M. - Rigetta i motivi nn. 1-4, dichiara inammissibile il n.8, accoglie il quinto motivo, assorbiti i nn.6 e 7, cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa alla Corte d'appello di Venezia, in diversa composizione, anche per il regolamento delle spese della fase di legittimità. Così deciso in Roma, il 21 maggio 2012. Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2012 App. Roma Sez. III, 04-07-2012 Ru.Ma. c. Ma.Ri. FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE) In tema di comunione legale tra coniugi, la costruzione realizzata, in costanza di matrimonio, da uno dei coniugi su di un fondo a lui appartenente in proprietà esclusiva entra (in via del pari esclusiva) a far parte del suo patrimonio per effetto delle disposizioni generali in materia di accessione, senza cadere, pertanto, nel novero dei beni oggetto di comunione di cui all'art. 177, comma 1, lett. b), c.c. Ne consegue che la tutela del coniuge non proprietario del suolo opera non sul piano del diritto reale (non potendo quegli vantare, in mancanza di uno apposito titolo o di una specifica disposizione di legge, alcun diritto di comproprietà, nemmeno superficiaria, sulla costruzione), bensì su quello meramente obbligatorio, nel senso che va a lui riconosciuto un diritto di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione. Cass. civ. Sez. II, 16-04-2012, n. 5972 (rv. 622288) Chironi c. Leone e altri FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE) FAMIGLIA - Matrimonio - Rapporti patrimoniali tra coniugi - Comunione legale - Scioglimento In genere - Scioglimento della comunione legale - Decorrenza - Passaggio in giudicato della sentenza di separazione - Configurabilità - Appello sui soli capi relativi ad addebito, affidamento dei figli ed assegno di mantenimento - Rilevanza ai fini delle cessazione del regime di comunione legale - Esclusione - Mutamento di indirizzo giurisprudenziale - Applicabilità dei principi in materia di "overruling" - Esclusione - Fondamento In tema di regime patrimoniale della famiglia, lo scioglimento della comunione legale dei beni fra i coniugi si verifica "ex nunc" con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione, il quale non è impedito dalla proposizione dell'appello con esclusivo riferimento all'addebito, all'affidamento dei figli ed all'assegno di mantenimento, importando esso acquiescenza alla parte autonoma della sentenza sulla separazione. Tale indirizzo interpretativo (inaugurato da Cass. S.U. n. 15279 del 4 dicembre 2001) non vale soltanto per il futuro, in quanto dal mutamento di esegesi sulla scindibilità della pronuncia sulla separazione dal capo riferito all'addebito, non derivano preclusioni o decadenze per la parte, il cui diritto di azione e difesa non è compromesso, onde non è applicabile il principio in tema di "overruling", secondo cui il mutamento della precedente interpretazione della Corte di cassazione su di una norma processuale non opera nei confronti della parte, che in detta interpretazione abbia incolpevolmente confidato. (Rigetta, App. Lecce, 19/07/2007) FONTI CED Cassazione, 2012 Cass. civ. Sez. II, 16-04-2012, n. 5972 (rv. 622287) Chironi c. Leone e altri FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE) FAMIGLIA - Matrimonio - Rapporti patrimoniali tra coniugi - Comunione legale Amministrazione - Atti compiuti senza il necessario consenso - Annullabilità - Compravendita immobiliare di bene in comunione compiuta da un solo coniuge - Annullamento ex art. 184 cod. civ. - Condizioni - Sentenza intervenuta in altra causa tra i coniugi relativa ad accertamento del passaggio in giudicato del capo sulla separazione personale - Efficacia di giudicato esterno nei confronti dell'acquirente - Configurabilità - Esclusione - Conseguenze - Autonoma determinazione del momento di scioglimento della comunione nel giudizio sulla validità della compravendita Necessità COSA GIUDICATA CIVILE - Interpretazione del giudicato - Giudicato esterno - Compravendita immobiliare di bene in comunione compiuta da un solo coniuge - Annullamento ex art. 184 cod. civ. - Condizioni - Sentenza intervenuta in altra causa tra i coniugi relativa ad accertamento del passaggio in giudicato del capo sulla separazione personale - Efficacia di giudicato esterno nei confronti dell'acquirente - Configurabilità - Esclusione - Conseguenze - Autonoma determinazione del momento di scioglimento della comunione nel giudizio sulla validità della compravendita Necessità In tema di comunione legale tra coniugi, il terzo che abbia acquistato da uno dei coniugi, "ante rem iudicatam", la quota di contitolarità di un bene immobile ad essa appartenente, non è vincolato dal successivo giudicato, derivante da sentenze pronunciate tra i coniugi (nella specie, in cause di divorzio e di caduta in comunione di altro bene), le quali abbiano ritenuto inidonea a determinare l'allentamento del legame matrimoniale la sentenza di primo grado di separazione personale in pendenza di appello sul titolo della separazione stessa, l'affidamento dei figli e la misura dell'assegno di mantenimento. Ne consegue che nel successivo giudizio, cui partecipi anche l'acquirente, avente ad oggetto la validità di detta alienazione di quota in relazione alla regola dell'amministrazione congiuntiva dettata dall'art. 184 cod. civ., il giudice deve stabilire autonomamente quando sia passata in giudicato la sentenza di separazione personale dei coniugi, al fine di determinare il momento di scioglimento del regime di comunione legale. (Rigetta, App. Lecce, 19/07/2007) REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. FELICETTI Francesco - Presidente Dott. MAZZACANE Vincenzo - Consigliere Dott. BIANCHINI Bruno - Consigliere Dott. BERTUZZI Mario - Consigliere Dott. GIUSTI Alberto - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: C.D., rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale a margine del ricorso, dall'Avv. Massa Gianfranco, elettivamente domiciliata nello studio dell'Avv. Ferri Alessandro in Roma, via Carlo Mirabello, n. 11; - ricorrente contro L.G. e E.R.; - intimati avverso la sentenza della Corte d'appello di Lecce n. 508 depositata il 19 luglio 2007; Udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del 2 aprile 2012 dal Consigliere relatore Dott. GIUSTI Alberto; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del ricorso. FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE) VENDITA Vendita di immobili Fatto Diritto P.Q.M. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. FELICETTI Francesco - Presidente Dott. MAZZACANE Vincenzo - Consigliere Dott. BIANCHINI Bruno - Consigliere Dott. BERTUZZI Mario - Consigliere Dott. GIUSTI Alberto - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: C.D., rappresentata e difesa, in virtù di procura speciale a margine del ricorso, dall'Avv. Massa Gianfranco, elettivamente domiciliata nello studio dell'Avv. Ferri Alessandro in Roma, via Carlo Mirabello, n. 11; - ricorrente contro L.G. e E.R.; - intimati - avverso la sentenza della Corte d'appello di Lecce n. 508 depositata il 19 luglio 2007; Udita la relazione della causa svolta nell'udienza pubblica del 2 aprile 2012 dal Consigliere relatore Dott. GIUSTI Alberto; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del ricorso. Svolgimento del processo 1. - Con sentenza in data 1 marzo 2005, il Tribunale di Lecce ha annullato, su domanda di C.D., l'atto pubblico stipulato il 1 marzo 1996 per notar Rossi, con il quale il marito dell'attrice, L.G., aveva venduto a E.R. la nuda proprietà della quota indivisa di 1/2 dell'immobile sito in (OMISSIS) e censito in catasto al foglio 15, p.lla 548 sub 1 e sub 2. Ha rilevato il Tribunale che la vendita era avvenuta in violazione del disposto di cui all'art. 184 c.c.: il bene era stato infatti acquistato dal L. con la moglie C.D. in regime di comunione legale, mentre la vendita di cui all'atto impugnato era intervenuta prima della cessazione della comunione legale, avutasi solo a seguito della separazione tra i predetti coniugi pronunciata in via definitiva con sentenza della Corte d'appello di Lecce in data 7 marzo 1997. 2. - La Corte d'appello di Lecce, con sentenza depositata il 19 luglio 2007, ha accolto il gravame del L. e, in riforma della pronuncia di primo grado, ha rigettato la domanda di annullamento del contratto avanzata dalla C.. 2.1. - La Corte territoriale ha rilevato: - che quando il L. alienò la sua quota di proprietà dell'immobile con l'atto pubblico del 1 marzo 1996, il bene non era più soggetto al regime della comunione legale, essendo la comunione legale cessata, ex art. 191 c.c., a seguito della separazione personale dei coniugi pronunciata dal Tribunale di Brindisi in data 10 giugno 1989; - che la formazione del giudicato sulla separazione non era stata impedita dal fatto che la sentenza di primo grado era stata appellata, dal momento che il gravame aveva riguardato esclusivamente il rigetto della domanda di addebito: l'appello non aveva quindi riguardato la separazione in sè ed il relativo capo della sentenza doveva ritenersi coperto dal giudicato allo spirare del termine di impugnazione della sentenza 10 giugno 1989, ben prima che sull'impugnazione pronunciasse la Corte d'appello con la sentenza 7 marzo 1997; - che l'atto di disposizione del quale la C. ha chiesto l'annullamento, riguardando appunto un bene regolato oramai dalle norme sulla comunione ordinaria, non è invalido per difetto di legittimazione dell'alienante, giacchè ciascun comproprietario può liberamente disporre della sua quota ideale del bene, indipendentemente dal consenso prestato dall'altro o dagli altri comproprietari (art. 1103 c.c.). 3. - Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello la C. ha proposto ricorso, con atto notificato il 2 ed il 3 settembre 2 008, sulla base di due motivi, illustrati con memoria. Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede. Motivi della decisione 1. - Con il primo mezzo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 184 e 2909 c.c. e art. 324 c.p.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3. Premette la ricorrente che, nelle more dell'appello avverso la sentenza di separazione del Tribunale di Brindisi in data 26 aprile 1989, il L. aveva proposto domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio: e mentre il Tribunale di Lecce aveva accolto la domanda, la Corte d'appello, con sentenza in data 3 dicembre 1998, ne aveva dichiarato l'inammissibilità, perchè il divorzio era stato richiesto prima della definitività della sentenza del Tribunale di Brindisi, avutasi soltanto con il passaggio in giudicato della decisione della Corte di Lecce del 7 marzo 1997. Tanto premesso, la ricorrente osserva che la decisione impugnata avrebbe violato il giudicato, quello derivante dalla sentenza della Corte salentina del 3 dicembre 1998, la quale, dichiarando inammissibile la domanda di cessazione degli effetti civili del matrimonio, ha dichiarato che la separazione tra i coniugi L. - C. si è prodotta solo con il passaggio in giudicato della sentenza in data 7 marzo 1997. Di qui l'invalidità dell'alienazione, perchè effettuata - come eccepito già nel grado di merito - prima del passaggio in giudicato della sentenza di separazione, quindi in persistenza del regime di comunione dei beni. Facendo seguito ad analoga prospettazione avanzata nel corso del giudizio di gravame, la ricorrente richiama anche la sentenza della Corte d'appello di Lecce in data 17 ottobre 2003, con la quale è stato accertato che "il bene immobile acquistato da L.G. e C.S., in comunione tra loro, a seguito di decreti emessi dal giudice delegato ai fallimenti del Tribunale di Lecce, in data 19 aprile 1993, nelle more del giudizio di appello avverso la indicata sentenza di separazione, è entrato, ope legis, ex art. 177 c.c., quanto alla quota di spettanza del L., in comunione con il coniuge C., a nulla rilevando che quest'ultimo non abbia partecipato all'atto di acquisto". 1.1. - Il motivo è infondato. La complessiva doglianza muove dall'assunto che la statuizione, contenuta nella sentenza (divenuta definitiva) del giudice investito della domanda di divorzio, di inammissibilità di detta domanda, per non essersi verificato il passaggio in giudicato della pronuncia sullo status di separazione nella pendenza dell'appello sulla richiesta di addebito, costituisca un giudicato esterno sull'interpretazione da dare alla sentenza di separazione del Tribunale di Brindisi del 26 aprile 1989, rilevante anche nel presente giudizio, nel quale - per stabilire se sia o meno valida la vendita della quota compiuta separatamente da un coniuge, senza il consenso dell'altro - occorre stabilire se, al momento dell'alienazione, sussistesse ancora il regime di comunione legale tra gli stessi o se esso non si fosse sciolto a seguito della separazione personale tra i coniugi. Al medesimo risultato condurrebbe, ad avviso della ricorrente, un'altra sentenza, pronunciata tra la C. ed il L., la quale, nel ricomprendere nella comunione legale un bene acquistato dal marito nella pendenza del giudizio di appello avverso la sentenza di separazione, ha rilevato che "lo scioglimento del regime di comunione tra i coniugi è avvenuto... solo con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione emessa, in sede di gravame contro quella del Tribunale di Brindisi, dalla Corte d'appello di Lecce in data 7 marzo 1997". L'assunto alla base della doglianza è radicato su un erroneo presupposto interpretativo. In primo luogo, perchè, ai fini della preclusione derivante dall'esistenza di un giudicato esterno, fondamentale ed imprescindibile risulta il raffronto della situazione contenuta nella precedente decisione con l'oggetto specifico del processo nell'ambito del quale il giudicato dovrebbe fare stato, e quindi il riscontro dell'esistenza di una relazione giuridica tra i diritti dedotti nei due giudizi (Cass., Sez. Un., 16 giugno 2006, n. 13916; Cass., Sez. 5, 5 febbraio 2007, n. 2438; Cass., Sez. Lav., 10 novembre 2008, n. 26927). Nella specie siffatta preclusione deve essere esclusa, mancando la riferibilità al medesimo rapporto giuridico: nella presente controversia, infatti, non si discute nè di ammissibilità del divorzio nè di ricomprensione nella comunione legale tra i coniugi del bene acquistato dal L. dal fallimento, ma della validità dell'alienazione compiuta dal L. in relazione ad un altro cespite. Tale evidente diversità non viene meno per il fatto che il giudice si sia trovato, allora, e si trovi, ora, a dare soluzione ad una questione relativa ad un punto comune, vale a dire l'essere o meno i coniugi L. - C. già separati a seguito della sentenza del Tribunale di Brindisi del 10 giugno 1989, prima della definizione del giudizio di appello avverso quella sentenza. Inoltre, condizione dell'efficacia del giudicato esterno è che esso si sia formato tra le stesse parti, non essendo sufficiente che esso riguardi un accertamento riferibile ad una questione di fatto comune ad entrambe le cause (tra le tante, Cass., Sez. 3, 24 gennaio 2007, n. 1514; Cass., Sez. 5, 15 settembre 2008, n. 23658); e tale condizione di identità soggettiva nella specie non sussiste, giacchè mentre al giudizio di cessazione degli effetti civili del matrimonio e alla controversia sull'ambito oggettivo della comunione legale (in relazione al bene acquistato in data 19 aprile 1993 da un fallimento) hanno preso parte i coniugi, a questo procedimento partecipa anche l'acquirente della quota, il quale non può trovarsi vincolato ad una accertamento compiuto in un giudizio al quale non ha partecipato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte (Cass., Sez. 3, 22 maggio 1979, n. 2959; Cass., Sez. 2, 24 febbraio 1981, n. 1131; Cass., Sez. 3, 23 ottobre 1985, n. 5194), infatti, gli aventi causa nei cui confronti, a norma dell'art. 2909 c.c., fa stato l'accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato, sono quei soggetti che, dopo la formazione del giudicato, sono subentrati nella titolarità delle correlative situazioni giuridiche, attive e passive, dedotte in giudizio e sulle quali incide il comando giurisdizionale passato in giudicato. Nella specie, per un verso la E. ha acquistato la contitolarità del bene in un momento cronologicamente anteriore alla formazione del giudicato, ossia nel marzo 1996, laddove la sentenza che ha dichiarato l'inammissibilità del divorzio è stata pronunciata nel dicembre 1998 e la sentenza che ha ritenuto ricompreso nella comunione legale altro bene acquistato in comunione con un terzo dal L. in un'asta fallimentare dell'aprile 1993, è dell'ottobre 2003; per l'altro verso, il diritto che l' E. ha acquistato a titolo derivativo dal L. non è il medesimo oggetto dell'uno o dell'altro giudicato nè un diritto diverso ma che tuttavia da uno dei due tragga origine. Conclusivamente, deve affermarsi il principio secondo cui le sentenze, pronunciate tra i coniugi e passate in cosa giudicata (in cause, rispettivamente, di divorzio e di caduta in comunione legale di altro bene acquistato separatamente da uno dei coniugi), le quali, nell'interpretare il contenuto e la portata precettiva di una precedente pronuncia intervenuta tra le stesse parti, abbiano ritenuto non idonea a determinare l'allentamento del legame matrimoniale la sentenza di primo grado di separazione personale in pendenza di un appello sul titolo della separazione stessa, sull'affidamento dei figli e sulla misura dell'assegno di mantenimento, non vincolano, in relazione a detto accertamento incidentale, il terzo che, ante rem iudicatam, abbia acquistato da uno dei coniugi la quota di contitolarità di un bene immobile; ne consegue che, nel successivo giudizio, al quale partecipi anche l'acquirente, in cui si controverta della validità di detta alienazione di quota in relazione alla regola dell'amministrazione congiuntiva dettata dall'art. 184 c.c., il giudice è abilitato a stabilire autonomamente quando è passata in giudicato la sentenza che ha pronunciato la separazione personale tra i coniugi, al fine di determinare il momento di scioglimento del regime di comunione legale. 2. - Il secondo motivo lamenta violazione dell'art. 191 c.c., in relazione all'art. 360 c.p.c., n. 3. La ricorrente contesta che possa esservi "autonomia decisoria sulla domanda di separazione rispetto all'effettivo titolo di cui alla pronuncia". E precisa che, in ogni caso, l'autonomia della richiesta di addebito è stata affermata, in giurisprudenza, soltanto a partire dalla sentenza delle Sezioni Unite 4 dicembre 2001, n. 15279, laddove l'indirizzo precedente era di segno contrario: sicchè, ove i giudici avessero deciso tempestivamente la causa, che era stata proposta dalla C. con citazione del 23 luglio 1996, l'esito dell'impugnazione sarebbe stato diverso, in applicazione del precedente orientamento. 2.1. - Il motivo è privo di fondamento. Lo scioglimento della comunione legale dei beni tra i coniugi si verifica ex nunc con il passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale; e poichè l'appello proposto con esclusivo riferimento all'addebito, all'affidamento dei figli e agli aspetti economici della separazione segna acquiescenza alla pronuncia sulla separazione, e quindi definitività della stessa, quale parte autonoma della decisione, deve escludersi che la pendenza del gravame su tali aspetti precluda il passaggio in giudicato della separazione stessa ed impedisca la cessazione del regime di comunione legale, cessazione alla quale si riconnettono l'inoperatività del complesso normativo di cui agli artt. 177 e segg. c.c. (e, in particolare, dell'art. 184 c.c.) e l'automatica instaurazione delle regole proprie della comunione legale, ivi compresa quella, ex art. 1103 c.c., che abilita ciascun contitolare a disporre del suo diritto nei limiti della quota senza il consenso dell'altro comunista. Inoltre, contrariamente a quanto ritiene la ricorrente (la quale sostiene di avere riposto un legittimo affidamento sul precedente, costante orientamento giurisprudenziale che negava la possibilità di scindere la pronuncia di separazione e quella di addebito all'interno dello stesso processo in cui l'una e l'altra fossero state richieste), l'indirizzo interpretativo inaugurato da Cass., Sez. Un., 4 dicembre 2001, n. 15279, non è suscettibile di operare solo per il futuro, cioè per le cause introdotte in data successiva. Infatti, dal mutamento di indirizzo discendente dalla citata pronuncia delle Sezioni Unite non derivano preclusioni o decadenze per la parte, il cui diritto di azione e difesa non è compromesso; pertanto, non trova applicazione il principio, in tema di overruling, secondo cui il mutamento da parte della Corte della propria precedente interpretazione di una norma processuale non opera nei confronti della parte che in detta interpretazione abbia incolpevolmente confidato (Cass., Sez. lav., 27 dicembre 2011, n. 28967; Cass., Sez. 6 - 1, 30 dicembre 2011, n. 30111). 3. - Il ricorso è rigettato. Nessuna statuizione sulle spese deve essere adottata, non avendo gli intimati svolto attività difensiva in questa sede. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Trib. Trento, 29-09-2011 Ta.Na. c. Gi.An. FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE) I titoli obbligazionari, le azioni ed i crediti rientrano nell'ambito della comunione legale coniugale, in quanto istituto, regolato dagli artt. 177 e ss. c.c., recante uno schema normativo non finalizzato, come quello della comunione ordinaria, alla tutela della proprietà individuale, bensì alla tutela della famiglia attraverso particolari forme di protezione della posizione dei coniugi nel suo ambito, con speciale riferimento al regime degli acquisti. In relazione a tale aspetto, la ratio della disciplina, che è quella di attribuirli in comunione ad entrambi i coniugi, trascende il carattere del bene della vita che venga acquisito e la natura reale o personale del diritto che ne forma oggetto. Anche i crediti, pertanto, in quanto beni ex artt. 810, 812 e 813 c.c. sono suscettibili di entrare nella comunione legale, qualora non ricorra una delle eccezioni contemplate dagli artt. 177 e 179 c.c. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI TRENTO SEZIONE CIVILE in composizione monocratica, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. 530 del ruolo affari contenziosi dell'anno 2006 e promossa con atto di citazione notificato il 14.2.2006 da Ta.Na. elettivamente domiciliata in Trento, presso l'avv. M.Ro. che la rappresenta e difende in virtù di procura speciale a margine dell'atto di citazione Attrice contro Gi.An. elettivamente domiciliato in Trento, presso l'avv. A.Ca. che lo rappresenta e difende in virtù di procura speciale a margine della comparsa di costituzione Convenuto avente ad oggetto: scioglimento comunione legale FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE) Fatto - Diritto P.Q.M. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI TRENTO SEZIONE CIVILE in composizione monocratica, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. 530 del ruolo affari contenziosi dell'anno 2006 e promossa con atto di citazione notificato il 14.2.2006 da Ta.Na. elettivamente domiciliata in Trento, presso l'avv. M.Ro. che la rappresenta e difende in virtù di procura speciale a margine dell'atto di citazione Attrice contro Gi.An. elettivamente domiciliato in Trento, presso l'avv. A.Ca. che lo rappresenta e difende in virtù di procura speciale a margine della comparsa di costituzione Convenuto avente ad oggetto: scioglimento comunione legale Svolgimento del processo - Motivi della decisione Con atto di citazione notificato il 14.2.2006 Na.Ta. ha convenuto in giudizio An.Gi. asserendo che le parti si erano sposate il 21.5.1983 e che nel corso del matrimonio avevano acquistato la casa di abitazione sita in Pergine Valsugana (...)), avevano aperto un conto corrente presso la Ca.Ru. ed avevano sottoscritto una polizza Cresco con il Mo.Pa. di Siena (denaro sempre gestito autonomamente dal convenuto). Ha precisato che i coniugi si erano separati con sentenza dd.29.1.2004 ed ha chiesto che venga disposto lo scioglimento della comunione ed alla divisione dei beni, con assegnazione dell'abitazione al convenuto e liquidazione della metà del valore all'attrice. Con comparsa dd.5.4.2006 si è costituito An.Gi. asserendo che l'abitazione coniugale era stata acquistata grazie ai proventi del proprio lavoro professionale, così come anche il conto corrente e la polizza Cr.. Ha affermato che la attrice si era impossessata di alcuni buoni postali fruttiferi destinati ai figli minori ed ha chiesto, quindi, che la stessa sia condannata a restituire la metà dell'importo. Ha, inoltre, asserito che moglie lo aveva diffamato di fronte agli insegnati dei figli ed ha chiesto il risarcimento dei danni. Deve, preliminarmente rilevarsi come le parti, in corso di causa, abbiano definito le questioni relative agli autoveicoli Lancia Y 10 e Caravan 6 posti e che, pertanto, la causa di divisione non debba comprendere tali beni. Inoltre, nella comparsa conclusionale il convenuto ha dato atto che anche la questione relativa alla riscossione dei buoni postali infruttiferi è stata definita tra le parti ed ha chiesto che venga dichiarata cessata la materia del contendere in relazione a tale aspetto. L'intervenuto passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale dei coniugi (in data 23 gennaio 2005) comporta l'intervenuto scioglimento della comunione legale (Sentenza n. 8707 del 2.9.1998: "lo scioglimento della comunione legale dei beni fra coniugi si verifica, con effetto "ex nunc", dal momento del passaggio in giudicato della sentenza di separazione ovvero dell'omologazione degli accordi di separazione consensuale, non spiegando, per converso, alcun effetto, al riguardo, il provvedimento presidenziale di cui all'art. 708 del codice di rito (autorizzativo dell'interruzione della convivenza tra i coniugi), attesone il contenuto (del tutto limitato) e la funzione (meramente provvisoria)"). Tuttavia, la prospettazione giuridica della vertenza - effettuata sia da parte attrice che da parte convenuta - non pare corretta: invero, l'attrice pretende una ricostruzione e restituzione di tutte le somme percepite ed utilizzate dal marito a partire dal 1998, mentre il convenuto asserisce che l'immobile è stato comperato solo attraverso i propri guadagni (dato che la moglie era casalinga) ed in parte utilizzando somme ricevute dai genitori ed afferma, quindi, che la domanda attorea dovrebbe essere respinta. Tale impostazione contrasta con la disciplina della comunione legale predisposta dal Codice Civile. Invero, ai sensi dell'art. 177 c.c. rientrano nell'oggetto della comunione gli acquisti effettuati dai due coniugi insieme o separatamente, durante il matrimonio ed è del tutto irrilevante, al riguardo, che le somme utilizzate provengano o meno dal lavoro professionale di uno solo dei coniugi (Sentenza n. 10896 del 24.5.2005: "in tema di scioglimento della comunione legale tra coniugi, la norma dell'art. 192, terzo comma, cod. civ. attribuisce a ciascuno di essi il diritto alla restituzione delle somme prelevate dal patrimonio personale ed impiegate in spese ed investimenti del patrimonio comune (ad es., quelle impiegate per la ristrutturazione di bene immobile appartenente alla comunione), e non già alla ripetizione - totale o parziale - del denaro personale e dei proventi dell'attività separata (che cadono nella comunione "de residuo" solamente per la parte non consumata al momento dello scioglimento) impiegati per l'acquisto di beni costituenti oggetto della comunione legale "ex" art. 177, primo comma lett. a), cod. civ., rispetto ai quali trova applicazione il principio inderogabile, posto dall'art. 194, primo comma, cod. civ., secondo cui, in sede di divisione, l'attivo e il passivo sono ripartiti in parti eguali indipendentemente dalla misura della partecipazione di ciascuno dei coniugi agli esborsi necessari per l'acquisto dei beni caduti in comunione"). Non vi è prova, inoltre, che le somme versate dai genitori del convenuto siano direttamente state utilizzate per il pagamento del prezzo di acquisto dell'abitazione (ben potendo tali importi essere stati impiegati per investimenti di borsa o per spese di altro genere). Inoltre - all'atto dell'acquisto dell'immobile - non è stata resa la dichiarazione prevista dall'art. 179 u.c.c.c., necessaria per impedire che il bene rientri in comunione (Sentenza n. 19250 del 24.9.2004:"in tema di regime della comunione legale fra i coniugi, la dichiarazione di cui è onerato il coniuge acquirente, prevista nella lettera f) del primo comma dell'art. 179 cod. civ. al fine di conseguire l'esclusione, dalla comunione, dei beni acquistati con il prezzo del trasferimento dei beni strettamente personali o con il loro scambio, non è meramente facoltativa. Quanto poi al profilo per cui, allorché l'acquisto esclusivamente personale si indirizzi ad avere ad oggetto beni immobili o beni mobili registrati, il secondo comma dell'art. 179 cod. civ. fissi l'ulteriore requisito della necessaria partecipazione, all'atto, dell'altro coniuge, un tale trattamento differenziato si pone in relazione agli evidenti profili di particolare certezza che (nell'ottica del codice del 1942) debbono accompagnarsi alla circolazione di un tale tipo di beni; esigenze di certezza sottolineate dal particolare meccanismo di pubblicità per essi contemplato e rappresentato dalla "trascrizione". Tale partecipazione all'atto, dell'altro coniuge acquista i contenuti di un'"adesione" alla dichiarazione resa dal coniuge acquirente e di ricognizione del ricorso dei presupposti per l'operatività della natura meramente "personale" dell'acquisto. Ne emergono i tratti di una fattispecie complessa al cui perfezionamento concorrono, ad un tempo, il ricorso effettivo dei presupposti di cui alla lettera f) (o alle lettere c) ed)) dell'art. 179 cod. civ.; la relativa dichiarazione resa dal coniuge il quale si rende "acquirente esclusivo", e la "adesiva" partecipazione - all'atto - dell'altro coniuge"). Deve, quindi, ritenersi che l'immobile in oggetto rientri nella comunione tra i coniugi. La p.m. (...) Pergine, e la quote delle (...) c.c. Pergine sono costituite da un appartamento, con garage e sottotetto, e da un andito a forma rettangolare che circonda l'edificio. Il ctu, geom. Lu., ha stimato tali immobili in Euro 196.500,00 ed ha escluso che l'appartamento sia comodamente divisibile. Il ctu, inoltre, ha precisato che gli arredi presenti all'interno dell'appartamento - stimati in Euro 15.000,00 - sono "funzionali alla conduzione dello stesso e quindi una loro divisione sarebbe antieconomica". Ne consegue che - non avendo nessun comproprietario chiesto l'assegnazione del bene l'appartamento (ammobiliato) dovrà essere venduto all'asta ed il ricavato di tale vendita dovrà, essere diviso tra i comproprietari in parti uguali. L'attrice ha asserito, inoltre, che il Gi. aveva acceso una polizza (...) e che tale polizza era stata liquidata al convenuto il 25.6.2001 (il quale aveva ricevuto l'importo di Euro 17.404,62); inoltre ha precisato che a partire dal 1998 il convenuto aveva aperto un conto (...) e relativo dossier titoli, provvedendo - nel corso degli anni successivi - ad acquisti e vendite di titoli on line. Ha chiesto, quindi, che la metà delle somme liquidate a titolo di rimborso della polizza e dei complessivi conferimenti effettuati sul conto (...) le siano riconosciuti. Deve, al riguardo, rilevarsi come anche i titoli obbligazionari, le azioni ed i crediti rientrino nella comunione legale; invero, la Suprema Corte ha statuito (Sentenza n. 21098 del 9.10.2007) che "la comunione legale fra i coniugi, come regolata dagli artt. 177 e segg. cod. civ., costituisce un istituto che prevede uno schema normativo non finalizzato, come quello della comunione ordinaria regolata dagli artt. 1100 e segg. cod. civ., alla tutela della proprietà individuale, ma alla tutela della famiglia attraverso particolari forme di protezione della posizione dei coniugi nel suo ambito, con speciale riferimento al regime degli acquisti, in relazione al quale la ratio della disciplina, che è quella di attribuirli in comunione ad entrambi i coniugi, trascende il carattere del bene della vita che venga acquisito e la natura reale o personale del diritto che ne forma oggetto; ne consegue che anche i crediti - così come i diritti a struttura complessa, come i diritti azionari - in quanto "beni" ai sensi degli art. 810, 812 e 813 cod. civ., sono suscettibili di entrare nella comunione, ove non ricorra una delle eccezioni alla regola generale dell'art. 177 cod. civ. poste dall'art. 179 cod. civ.". E' pacifico che il credito nascente dalla Po.Cr. è stato liquidato, incassato e trattenuto solo dal signor Gi. (nonostante fosse da ritenersi in comunione) e proprio nel luglio 2001 e quindi in un periodo in cui era già in atto la crisi familiare (la richiesta di separazione è, infatti, stata depositata il 24.8.2001). Ne consegue che - per tale motivo - deve essere riconosciuto all'attrice il diritto ad ottenere la restituzione della metà di tale importo, pari ad Euro 8.702,31. Per quanto concerne l'acquisto dei titoli azionari effettuato mediante il conto (...) anche tali beni rientravano nella comunione legale ex art. 177 c.c.. Dalla documentazione prodotta risulta che nel corso degli anni di matrimonio, a partire dal 1998, il Gi. ha effettuato continui acquisti e vendite di tali titoli. Non può, al riguardo, essere accolta la domanda attorea, la quale pretende che tutti gli importi di denaro movimentati durante il periodo matrimoniale siano restituiti alla comunione. Invero - come ammesso anche dalla attrice nell'atto di citazione - deve ritenersi che gli acquisti dei titoli (e le successive vendite) siano stati effettuati (quantomeno inizialmente) con il consenso dell'altro coniuge: infatti, la stessa signora Ta. ha affermato che era il marito che si interessava di tali investimenti e che lei gli aveva completamente delegato tale compito. Si deve escludere, quindi, che le varie contrattazioni siano state perfezionate senza il consenso (sia pure espresso in via generale) dall'altro coniuge. Diversa valutazione deve essere effettuata a partire dal momento in cui è stata presentata dalla signora Ta. la domanda di separazione personale: invero, la formalizzazione della crisi coniugale porta ad escludere che la moglie possa aver successivamente autorizzato il marito ad effettuare ulteriori vendite dei titoli di cui erano in quel momento comproprietari (ed è quindi evidente che quantomeno da quel momento in poi - le successive operazioni sono state compiute dal signor Gi. unilateralmente ed anche con la piena consapevolezza che il mandato originariamente affiato era oramai venuto meno). Ne consegue che deve trovare applicazione l'art. 184 u.c. c.c. e che - pertanto - il convenuto (il quale ha venduto beni mobili appartenenti alla comunione senza il consenso dell'altro coniuge) è obbligato "a ricostruire la comunione nello stato in cui era prima del compimento dell'atto o, qualora ciò non sia possibile, al pagamento dell'equivalente secondo i valori correnti all'epoca della ricostruzione della comunione". Per tali motivi che la causa deve essere rimessa in istruttoria al fine di fare accertare quali fossero i titoli azionari appartenenti ai coniugi alla data del 23.8.2001 e di farne determinare il valore di tali titoli alla data odierna. Per quanto concerne, infine, le somme di denaro presenti sul conto corrente n.(...), cointestato ai coniugi ed acceso presso la Ca.Ru., deve ritenersi che le somme ivi depositate (risultanti soprattutto dai proventi dell'attività lavorativa personale del convenuto) costituiscano la c.d. comunione de residuo. Tale termine denota quella comunione meramente residuale e differita che viene a formarsi all'atto stesso dello scioglimento del regime legale, a condizione che i beni che ne costituiscono l'oggetto non siano stati consumati prima di tale momento, secondo quanto stabilito dagli artt. 177, lett. b) e c), nonché 178 c.c.. Tale principio, unitamente al fatto che lo scioglimento della comunione legale presuppone il passaggio in giudicato della sentenza di separazione, determinane il rischio (rectius la quasi certezza) che - di fatto - molto raramente tali beni siano presenti sui vari conti correnti al momento dello scioglimento della comunione. Tale problema e l'esigenza di tutelare "il coniuge debole" ha fattosi che la Suprema Corte - in talune pronunce - abbia affermato che (Sentenza n. 14897 del 17.11.2000) "costituiscono oggetto della comunione cosiddetta "de residuo", ai sensi dell'articolo 177 lett. c) cod. civ., non solo quei redditi per i quali si riesca a dimostrare che sussistano ancora al momento dello scioglimento della comunione ma anche quelli, percetti e percipiendi, rispetto ai quali il coniuge titolare non riesca a dimostrare che siano stati consumati o per il soddisfacimento dei bisogni della famiglia o per investimenti già caduti in comunione (nella specie la S.C. ha confermato la decisione di merito secondo cui ricadevano in comunione de residuo le somme depositate su un conto corrente cointestato, ritirate prima della separazione e asseritamente utilizzate per l'attività d'impresa del coniuge prelevante)". Questo orientamento è stato disatteso da pronunce più recenti, le quali, al contrario, hanno stabilito in conformità ad una lettura (a parere di questo Tribunale) maggiormente corretta dell'art. 177 c.c. che (Sentenza n. 2597 del 7.2.2006) "l'art. 177 lett. c) del codice civile esclude dalla comunione legale i proventi dell'attività separata svolta da ciascuno dei coniugi e consumati, anche per fini personali, in epoca precedente allo scioglimento della comunione". Ed hanno escluso, pertanto, che vi possa essere un obbligo di rendiconto ed un correlato potere di controllo dell'altro coniuge sui proventi che costituiscono la comunione de residuo, i quali, fino allo scioglimento, rimangono di esclusiva titolarità del percettore. La corretta esigenza di tutela del coniuge debole, al contrario, può e deve essere soddisfatta mediante un altro e difforme approccio interpretativo, operando, cioè, una distinzione tra consumazione e sottrazione. In altre parole, costituisce una massima di comune esperienza il principio secondo cui (salvo prova contraria offerta dal titolare) i proventi soprattutto se vi è stato (come nel caso in esame) una repentina ed improvvisa chiusura del conto in prossimità della formalizzazione della domanda di separazione - una volta che ne sia stata accertata la percezione, si possono reputare esistenti al momento di scioglimento della comunione, in quanto o accantonati o reinvestiti. Ne consegue che il convenuto deve corrispondere alla attrice anche la somma di Euro 542,49, pari alla metà dell'importo trattenuto al momento della chiusura improvvisa del conto corrente, non essendo stata fornita prova della consumazione di tale somma. Complessivamente, quindi, il signor Gi. deve essere condannato a corrispondere alla sinora Ta. la somma di Euro 9.244,80 oltre ad interessi legali dal 23.1.2005 al saldo. La causa deve essere rimessa in istruttoria al fine di assumere la ctu sopra indicata e di provvedere alla vendita del bene immobile. Le spese saranno liquidate con la sentenza definitiva. P.Q.M. Il Tribunale di Trento, in composizione monocratica, non definitivamente pronunciando, ogni contraria istanza ed eccezione respinta, così provvede: 1. dichiara lo scioglimento della comunione legale tra Ta.Na. e Gi.An.; 2. accerta che la (...) Pergine, e la quote delle (...) Pergine - che rientrano nella comunione - non sono comodamente divisibili; 3. condanna Gi.An. a corrispondere a Ta.Na. la somma di Euro 9.244,80 oltre ad interessi legali dal 23.1.2005 al saldo; 4. rimette la causa in istruttoria come da separata ordinanza; 5. spese al definitivo. Cass. civ. Sez. II, 09-12-2010, n. 24921 M.G. c. Ma.Ma.Mi. FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE) Nell'ipotesi in cui la costruzione di un immobile sia stata realizzata su un suolo di proprietà esclusiva di uno dei coniugi in regime di comunione dei beni, al coniuge non proprietario che abbia contribuito all'onere della costruzione, spetta, ai sensi dell'art. 2033 c.c., il diritto di ripetere nei confronti dell'altro coniuge le somme spese, stante la natura meramente obbligatoria dei suoi diritti. FONTI Notariato, 2011, 2, 136 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ROVELLI Luigi - Presidente Dott. PICCIALLI Luigi - Consigliere Dott. MIGLIUCCI Emilio - Consigliere Dott. CORRENTI Vincenzo - Consigliere Dott. GIUSTI Alberto - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: M.G., rappresentato e difeso, in forza di procura speciale a margine del ricorso, dall'Avv. PASANISI Alfredo, per legge domiciliato presso la cancelleria civile della Corte di Cassazione, Piazza Cavour, Roma; - ricorrente contro MA.Ma.Mi., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a margine del controricorso, dall'Avv. PARCO Cosimo, elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio dell'Avv. Giuliano Pela, Via Lucio Apuleio, n. 22; - controricorrente e sul ricorso promosso da: MA.Ma.Mi., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a margine del controricorso, dall'Avv. Cosimo Parco, elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio dell'Avv. Giuliano Pela, Via Lucio Apuleio, n. 22; - ricorrente in via incidentale condizionata contro M.G.; - intimato avverso la sentenza della Corte d'appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, n. 34, depositata il 10 febbraio 2004. Udita la relazione della causa svolta nell'udienza Pubblica del 12 ottobre 2010 dal Consigliere relatore Dott. Alberto Giusti; udito l'Avv. Cosimo Parco; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARINELLI Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e l'assorbimento dell'incidentale. COMODATO FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE) Fatto Diritto P.Q.M. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ROVELLI Luigi - Presidente Dott. PICCIALLI Luigi - Consigliere Dott. MIGLIUCCI Emilio - Consigliere Dott. CORRENTI Vincenzo - Consigliere Dott. GIUSTI Alberto - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: M.G., rappresentato e difeso, in forza di procura speciale a margine del ricorso, dall'Avv. PASANISI Alfredo, per legge domiciliato presso la cancelleria civile della Corte di Cassazione, Piazza Cavour, Roma; - ricorrente contro MA.Ma.Mi., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a margine del controricorso, dall'Avv. PARCO Cosimo, elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio dell'Avv. Giuliano Pela, Via Lucio Apuleio, n. 22; - controricorrente e sul ricorso promosso da: MA.Ma.Mi., rappresentata e difesa, in forza di procura speciale a margine del controricorso, dall'Avv. Cosimo Parco, elettivamente domiciliata in Roma presso lo studio dell'Avv. Giuliano Pela, Via Lucio Apuleio, n. 22; - ricorrente in via incidentale condizionata contro M.G.; - intimato avverso la sentenza della Corte d'appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, n. 34, depositata il 10 febbraio 2004. Udita la relazione della causa svolta nell'udienza Pubblica del 12 ottobre 2010 dal Consigliere relatore Dott. Alberto Giusti; udito l'Avv. Cosimo Parco; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARINELLI Vincenzo, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale e l'assorbimento dell'incidentale. Svolgimento del processo Ma.Ma.Mi. - premesso che in sede di separazione dal marito M.G. le era stata assegnata la causa coniugale di (OMISSIS), mentre essa aveva concesso al coniuge in comodato gratuito, per due mesi e per consentirgli di trovare altro alloggio, la casa arredata, di sua esclusiva proprietà, posta in (OMISSIS) alla contrada (OMISSIS), costruita su terreno acquistato con atto notar Adami del (OMISSIS) - convenne in giudizio il M. per sentire dichiarare risolto il contratto di comodato e per ottenere la condanna del convenuto al rilascio dell'immobile che egli, pur sollecitato, si era rifiutato di restituire. Resistette il convenuto, precisando che la casa, costruita tra il 1979 ed il 1988, doveva ritenersi caduta in comunione legale, quanto meno per tutte le opere eseguite sino al 1984, data in cui le parti avevano optato per il regime della separazione legale. Il M. domandò l'indennizzo ex art. 936 cod. civ., anche per le opere e i miglioramenti eseguiti dopo la stipulazione della convenzione di separazione. A questo giudizio ne venne riunito altro, pendente tra le stesse parti dinanzi al medesimo Tribunale, con cui il M. chiese la condanna della Ma. a rimborsargli le "notevoli somme sopportate per la totale trasformazione e il miglioramento del suo immobile". Con sentenza non definitiva in data 20 giugno 2000, il Tribunale di Tarante condannò il M. a rilasciare l'immobile di contrada (OMISSIS), disponendo il prosieguo dell'istruttoria sulla domanda riconvenzionale formulata dal convenuto. La Corte d'appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, con sentenza n. 34 depositata il 10 febbraio 2004, ha rigettato il gravame del M., condannandolo al rimborso delle spese sostenute dall'appellata. Esaminando il motivo con cui l'appellante censurava la decisione di primo grado per violazione dell'art. 112 cod. proc. civ., per averlo condannato al rilascio dell'abitazione in virtù della ritenuta fondatezza dell'azione di rivendica, in realtà mai proposta dall'attrice, la Corte territoriale ha rilevato che "se ... dal canto suo l'istante non ha provato il contratto di comodato concluso con il marito - e non ha neppure esperito azione di rivendica sul bene, come invece opinato impropriamente dal Tribunale - dal canto suo il M. non ha dimostrato, come doveva, perchè stava in quella casa, che di conseguenza deve ritenersi occupata senza titolo, e dunque va restituita alla proprie-taria a sua semplice richiesta, come nella specie è stato". La Corte d'appello ha inoltre ritenuto corretto il rigetto, da parte del Tribunale, della richiesta del convenuto di sentirsi dichiarare comproprietario della casa di contrada (OMISSIS); ed esente da censure sia la decisione del primo giudice di considerare partitamente i periodi compresi fra gli anni 1977 e 1988, sia - per il periodo che va dal 13 gennaio 1984 al 19 febbraio 1988 - la riserva al prosieguo dell'accertamento della data dei lavori di miglioramento assuntivamente effettuati sull'immobile e sull'incremento di valore ad esso conseguito. Per la cassazione della sentenza della Corte d'appello il M. ha proposto ricorso, sulla base di quattro motivi. Ha resistito, con controricorso, la Ma., proponendo a sua volta ricorso incidentale condizionato, affidato ad un motivo. In prossimità dell'udienza il ricorrente ha depositato una memoria illustrativa. Motivi della decisione 1. - Preliminarmente, il ricorso principale ed il ricorso incidentale (condizionato) devono essere riuniti, essendo entrambe le impugnazioni riferite alla stessa sentenza. 2. - Con il primo motivo (violazione dell'art. 2697 cod. civ. e art. 112 cod. proc. civ., nonchè vizio di motivazione su punto decisivo della controversia, in relazione all'art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5), il ricorrente in via principale censura il capo della sentenza che ha confermato l'accoglimento della domanda di rilascio, essendo mancata da parte del convenuto la prova del titolo della sua detenzione. Avrebbe errato la Corte territoriale a ritenere che, pur in mancanza di prova atta a sostenere la fondatezza dell'azione restitutoria di natura personale, la domanda andasse comunque accolta in mancanza di dimostrazione da parte del convenuto del titolo della sua detenzione. La sentenza impugnata avrebbe incidentalmente riconosciuto un diritto di proprietà il cui accertamento non era stato richiesto. 2.1. - Il motivo è privo di fondamento. In tema di difesa della proprietà, l'azione di rivendicazione e quella di restituzione, pur tendendo al medesimo risultato pratico del recupero della materiale disponibilità del bene, hanno natura e presupposti diversi: con la prima, di carattere reale, l'attore assume di essere proprietario del bene e, non essendone in possesso, agisce contro chiunque di fatto ne disponga onde conseguirne nuovamente il possesso, previo riconoscimento del suo diritto di proprietà; con la seconda, di natura personale, l'attore non mira ad ottenere il riconoscimento di tale diritto, del quale non deve, pertanto, fornire la prova, ma solo ad ottenere la riconsegna del bene stesso, e, quindi, può limitarsi alla dimostrazione dell'avvenuta consegna in base ad un titolo e del successivo venir meno di questo per qualsiasi causa, o ad allegare l'insussistenza ab origine di qualsiasi titolo. In tale seconda ipotesi, la difesa del convenuto che pretenda di essere proprietario del bene in contestazione, non è idonea a trasformare in reale l'azione personale proposta nei suoi confronti, atteso che, per un verso, la controversia va decisa con esclusivo riferimento alla pretesa dedotta, e, per altro verso, la semplice contestazione del convenuto non costituisce strumento idoneo a determinare l'immutazione, oltre che dell'azione, anche dell'onere della prova incombente sull'attore, imponendogli una prova ben più onerosa - la probatio diabolica, della rivendica - di quella cui sarebbe tenuto alla stregua dell'azione inizialmente introdotta (Cass., Sez. 2^, 26 febbraio 2007, n. 4416; Cass., Sez. 2^, 27 gennaio 2009, n. 1929). A tale principio si è correttamente attenuta la Corte territoriale, la quale ha accertato che la Ma. esclusiva proprietaria del terreno su cui venne realizzata la casa di abitazione - non ha esperito alcuna azione di rivendica, ma ha esercitato un'azione personale deducendo l'insussistenza di un titolo di detenzione del bene da parte del convenuto, che attualmente la occupava, laddove questi non ha dimostrato il titolo giuridico che lo legittimava alla detenzione del bene nei confronti dell'attrice ed ha fallito nella pretesa di vedersi riconosciuta la comproprietà dell'immobile. 3. - Con il secondo mezzo del medesimo ricorso (violazione dell'art. 177 cod. civ., in relazione all'art. 360 cod. proc. civ., n. 3) ci si duole che la Corte d'appello abbia negato il diritto del M. a riceve indennizzo o comunque ad essere riconosciuto creditore per le spese relative alle opere di costruzione eseguite tra la data del matrimonio ed il 1934 (data in cui venne stipulata tra le parti la convenzione di separazione dei beni), sull'assunto che in base alle risultanze istruttorie lo stesso non sarebbe risultato in tale arco di tempo percettore di redditi. Sostiene il ricorrente che, benchè la costruzione realizzata durante il matrimonio sul suolo di proprietà esclusiva di uno dei coniugi appartenga soltanto a quest'ultimo, in forza della normativa dell'accessione, e pertanto non formi oggetto della comunione legale, ciononostante la tutela del coniuge non proprietario operi sul piano obbligatorio, spettando a costui un diritto di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della manodopera impiegati nella costruzione. Avrebbe errato la Corte di merito a dare rilievo alla provenienza del denaro utilizzato per gli acquisti. Con il terzo motivo il ricorrente in via principale denuncia violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e dell'art. 2697 cod. civ., nonchè vizio di motivazione nella parte in cui si è riconosciuta la proprietà in capo alla Ma. del denaro utilizzato dal M. per effettuare i pagamenti per la costruzione della casa. Il quarto mezzo prospetta violazione degli artt. 1362 e 1262 cod. civ. e dell'art. 179 cod. civ., e vizio di motivazione "nella parte in cui si è implicitamente dichiarata la natura personale degli acquisti della Ma. precedenti al 1984 sulla base della dichiarazione scritta in data 8 novembre 1983 e della deposizione del teste m.". 3.1. - Tutti e tre i motivi - i quali, stante la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente - sono infondati, per la parte in cui non sono inammissibili. Questa Corte ha precisato che, in caso di costruzione realizzata su un suolo di proprietà esclusiva di uno dei coniugi in regime di comunione dei beni, al coniuga non proprietario che abbia contribuito all'onere della costruzione spetta, ai sensi dell'art. 2033 cod. civ., il diritto di ripetere nei confronti dell'altro coniuge le somme spese, stante la natura meramente obbligatoria dei suoi diritti (Cass., Sez. 2^, 11 agosto 1999, n. 8585; Cass., Sez. 1^, 14 aprile 2004, n. 7060; Cass., Sez. 1^, 4 febbraio 2005, n. 2354). La sentenza impugnata, confermando la statuizione di primo grado, ha escluso che, nel periodo considerato, il M. abbia contribuito, in qualche modo, alla realizzazione della costruzione. A tal fine, la Corte ha fatto leva: sul fatto che il M., all'epoca studente universitario, non esercitava alcuna attività lavorativa ed era nullatenente; sulla circostanza che la Ma., più grande di età rispetto al marito di circa quindici anni e svolgente una propria attività lavorativa, ha impiegato, per la realizzazione dei primi stadi di costruzione del predetto immobile, somme di denaro di cui aveva la disponibilità, derivanti sia dalla vendita di un fondo rustico, sia dai proventi della propria attività, sia dai risparmi della madre. La Corte territoriale ha dato altresì rilievo, al pari del primo giudice, alla dichiarazione in data 8 novembre 1983, con cui il M. ha riconosciuto che la costruzione era stata realizzata con i soldi della moglie. La sentenza impugnata riposa su una motivazione congrua ed esente da vizi logici e giuridici. Nè nel ragionamento della Corte di merito vi è traccia del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia. Condividendo la motivazione della sentenza del Tribunale, la Corte d'appello ha infatti fatto propria la scelta del primo giudice di non includere nel novero delle risultanze processuali decisive le prove testimoniali valorizzate dal M., perchè l'effettuazione, da parte di questo, dei pagamenti in favore degli artigiani che realizzarono la costruzione non significa che "il denaro versato sia di proprietà di chi effettua materialmente il pagamento". Le censure articolate dal ricorrente si risolvono nella prospettazione di una diversa soluzione del merito della causa e nella pretesa di contrastare apprezzamenti di fatto che sono inalienabile prerogativa del giudice di merito e la cui motivazione al riguardo non è censurabile se - come nel caso di specie - sufficiente ed esente da vizi logici ed errori di diritto. 4. - Il ricorso principale è rigettato. L'esame del ricorso incidentale condizionato resta assorbito. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte, rivaliti i ricorsi, rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale condizionato; condanna il ricorrente in via principale al rimborso delle spese processuali sostenute dalla controricorrente, liquidate in complessivi Euro 2.200,00 di cui Euro 2.000,00 per onorari, oltre a spese processuali e ad accessori di legge. Cass. civ. Sez. I, 30-09-2010, n. 20508 D.A. c. C.L. FAMIGLIA PROPRIETA' Accessione (REGIME E PATRIMONIALE) CONFINI Resta escluso dalla comunione legale l'immobile costruito, in costanza di matrimonio, sul terreno di proprietà esclusiva di uno dei due coniugi, posto che le disposizioni sull'accessione prevalgono sempre sulla disciplina che regola i rapporti patrimoniali dei coniugi, fatto salvo, per il coniuge non proprietario, il riconoscimento del diritto di ripetere nei confronti dell'altro quanto eventualmente speso per la costruzione. FONTI Foro It., 2011, 5, 1, 1468 Cass. civ. Sez. I, 04-08-2010, n. 18114 D.S. c. V.F. FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE) Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all'atto dell'altro coniuge non acquirente, prevista dall'art. 179, comma 2, c.c., si pone come condizione necessaria ma non sufficiente per l'esclusione del bene dalla comunione: occorrendo, a tal fine, non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene - richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura - ma anche l'effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall'art. 179, comma 1, lett. c), d) ed f). c.c.. Con la conseguenza che l'eventuale inesistenza di tali presupposti può essere fatta valere con una successiva azione di accertamento negativo, non risultando precluso tale accertamento dalla circostanza che il coniuge non acquirente sia intervenuto nel contratto per aderirvi. FONTI Notariato, 2010, Famiglia e Diritto, 2011, 5, 475 nota di FAROLFI 6, 608 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Presidente Dott. FORTE Fabrizio - Consigliere Dott. NAPPI Aniello - Consigliere Dott. BERNABAI Renato - rel. Consigliere Dott. GIANCOLA Maria Cristina - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: D.S. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE CARSO 51, presso l'avvocato MORANDI NICOLETTA, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso; - ricorrente contro V.F.; - intimato sul ricorso 1736-2007 proposto da: V.F. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SARDEGNA 38 presso l'avvocato DI GIOVANNI FRANCESCO, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale condizionato; - controricorrente e ricorrente incidentale contro D.P.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE CARSO 51, presso l'avvocato MORANDI NICOLETTA, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso principale; - controricorrente al ricorso incidentale avverso la sentenza n. 1424/2006 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 22/03/2006; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/06/2010 dal Consigliere Dott. RENATO BERNABAI; udito, per la ricorrente, l'Avvocato NICOLETTA MORANDI che ha chiesto l'accoglimento del ricorso principale, il rigetto dell'incidentale; udito, per il controricorrente e ricorrente incidentale, l'Avvocato FRANCESCO DI GIOVANNI che ha chiesto il rigetto del ricorso principale o l'accoglimento dell'incidentale; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CENICCOLA Raffaele che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, per l'assorbimento dell'incidentale. CONFESSIONE IN MATERIA CIVILE FAMIGLIA (REGIME PATRIMONIALE) Fatto Diritto P.Q.M. REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella - Presidente Dott. FORTE Fabrizio - Consigliere Dott. NAPPI Aniello - Consigliere Dott. BERNABAI Renato - rel. Consigliere Dott. GIANCOLA Maria Cristina - Consigliere ha pronunciato la seguente: sentenza sul ricorso proposto da: D.S. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE CARSO 51, presso l'avvocato MORANDI NICOLETTA, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso; - ricorrente contro V.F.; - intimato sul ricorso 1736-2007 proposto da: V.F. (C.F. (OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SARDEGNA 38 presso l'avvocato DI GIOVANNI FRANCESCO, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale condizionato; - controricorrente e ricorrente incidentale contro D.P.S., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE CARSO 51, presso l'avvocato MORANDI NICOLETTA, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso principale; - controricorrente al ricorso incidentale - avverso la sentenza n. 1424/2006 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 22/03/2006; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/06/2010 dal Consigliere Dott. RENATO BERNABAI; udito, per la ricorrente, l'Avvocato NICOLETTA MORANDI che ha chiesto l'accoglimento del ricorso principale, il rigetto dell'incidentale; udito, per il controricorrente e ricorrente incidentale, l'Avvocato FRANCESCO DI GIOVANNI che ha chiesto il rigetto del ricorso principale o l'accoglimento dell'incidentale; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CENICCOLA Raffaele che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, per l'assorbimento dell'incidentale. Svolgimento del processo Con atto di citazione notificato il 10 aprile 2001 il sig. V. F. conveniva dinanzi al Tribunale di Roma il proprio coniuge, signora D.S., con la quale era in corso il giudizio per la separazione personale, per l'accertamento del proprio diritto di proprietà sulla quota indivisa del 50% di un appartamento, con relativo box per automobile, sito in (OMISSIS), corso (OMISSIS), intestato solo alla moglie benchè acquistato in regime di comunione legale. Costituitasi ritualmente, la D. eccepiva di aver acquistato l'immobile con denaro proprio, come emergeva dalla dichiarazione resa dallo stesso marito in sede di stipulazione dell'atto pubblico di compravendita. Con sentenza 12 dicembre 2002 il Tribunale di Roma rigettava la domanda, sulla base della predetta dichiarazione, cui attribuiva valore di "testimonianza privilegiata". In accoglimento del successivo gravame del V., la Corte d'appello di Roma con sentenza 22 marzo 2006 accertava la comunione legale sull'appartamento e relativa pertinenza. Motivava: - che la dichiarazione del coniuge formalmente non acquirente che assentiva all'altrui intestazione esclusiva del bene, oggetto dell'acquisto, aveva mero valore ricognitivo, e non costitutivo, ed era quindi efficace solo in concorso con i requisiti oggettivi di cui all'art. 179 c.c., comma 1, lett. c), d) ed f); - che dall'istruttoria esperita non era emersa la prova dell'origine personale della provvista necessaria per il pagamento del prezzo, derivata dal trasferimento di beni già in proprietà esclusiva della D. o da altrui atti di liberalità, o ancora, da risarcimento di danni in suo favore; ed anzi, vi erano elementi di prova presuntiva in senso contrario, evincibili dal pagamento della somma di L. 40 milioni alla venditrice con assegno emesso dallo stesso V.. Avverso la sentenza, notificata il 29 settembre 2006, la signora D. proponeva ricorso per Cassazione, articolato in quattro motivi, notificato il 24 novembre 2006. Deduceva: 1) la violazione dell'art. 179 c.c., comma 2, e art. 2727 c.c., per avere attribuito valore presuntivo al pagamento delle spese notarili da parte del coniuge non acquirente, senza considerare altre spiegazioni dell'esborso, alternative alla volontà di coacquisto; 2) la contraddittorietà della motivazione, per inversione dell'onere della prova sulla provenienza del denaro impiegato, in presenza di una espressa adesione del V. alla dichiarazione della moglie in sede di rogito notarile; 3) la violazione dell'art. 179 c.c., comma 2, nella ritenuta insufficienza, ai fini dell'esclusione dell'immobile acquistato dalla comunione legale, della dichiarazione confessoria del coniuge non acquirente, revocabile solo per errore di fatto o violenza, indipendentemente dal ricorrere dei requisiti oggettivi di cui all'art. 179 c.c., lett. c), d) e f); 4) la carenza di motivazione in ordine al punto controverso dall'appartenenza del denaro impiegato per l'acquisto con riferimento alle asserite rimesse del coniuge sul conto corrente intestato alla D.. Resisteva con controricorso il sig. V. che proponeva, a sua volta, ricorso incidentale condizionato, affidato a due motivi, in cui deduceva: 1) la violazione dell'art. 179, comma 1, lett. f), per l'omesso accertamento dell'inesistenza della ed. dichiarazione di assenso, indispensabile per sottrarre l'acquisto alla comunione legale; 2) la carenza di motivazione per la mancata valorizzazione di elementi di prova emersi in istruttoria dall'interrogatorio formale della D. sul carattere non personale del denaro utilizzato per il pagamento del prezzo. Entrambe le parti depositavano memorie illustrative ex art. 378 c.p.c.. All'udienza del 22 giugno 2010 il Procuratore generale e i difensori precisavano le rispettive conclusioni come da verbale, in epigrafe riportate. Motivi della decisione Dev'essere preliminarmente disposta la riunione del ricorso principale n. 32631 R.G. 2006 e del ricorso incidentale n. 1.736 R.G. 2007, entrambi proposti avverso la medesima sentenza (art. 335 cod. proc. civ.). Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione dell'art. 179 c.c., comma 2, e art. 2727 c.c.. Il motivo è inammissibile, ex art. 366 bis cod. proc. civ., per assoluta indeterminatezza del quesito di diritto, che si limita a enunciare un principio di ordine generale, disancorato dagli elementi concreti della fattispecie in esame ("se sia legittima la decisione assunta esclusivamente in base alla prova per presunzione che non costituisca la conseguenza logica dei fatto noto, e in assenza dei requisiti di gravità e concordanza rispetto al fatto ignorato, nella specie ove nell'ipotesi di cui all'art. 179 cod. civ., comma 2, il coniuge non acquirente e partecipante all'atto intenda successivamente contestare la ricorrenza dei presupposti per l'acquisto personale"). E' appena il caso d'aggiungere, poi, che la censura si risolve in una diversa valutazione delle circostanze apprezzate dalla Corte d'appello di Roma, volta ad introdurre un riesame del merito che non può trovare ingresso in questo sede; anche prescindendo dal rilievo che essa è formalmente rubricata come violazione di legge: laddove, in concreto, mira piuttosto a contestare l'impianto argomentativo della sentenza sotto il profilo del rigore logico-consequenziale. Con il secondo motivo si deduce la contraddittorietà della motivazione circa l'accertamento della provenienza del denaro impiegato nella compravendita, con inversione dell'onere della prova. Il motivo è infondato. Ancora una volta vi è un'inesatta prospettazione della doglianza, sotto la rubrica della contraddittorietà della motivazione, anzichè della violazione di legge (art. 2697 cod. civ.). In ogni caso, anche se l'erroneo nomen juris non è preclusivo della disamina, riuscendo chiari, nel contesto espositivo, contenuto e natura della censura, si osserva come il pur esatto rilievo che l'onere della prova incombeva sul coniuge non acquirente, autore di una dichiarazione di adesione all'altrui acquisto solitario consacrata nell'atto pubblico, resta il fatto che, al di là dell'enunciazione di principio, la corte territoriale ha positivamente escluso, sulla base dell'interpretazione delle deposizioni testimoniali e della praesumptio hominis tratta dal pagamento da parte del V. delle spese notarili, che il prezzo dell'immobile fosse stato pagato con denaro appartenente alla sola D.. Accertamento riassunto nella proposizione conclusiva: "tali circostanze consentono di presumere che, in realtà, detto appartamento sia stato pagato, quanto meno, in comune". Con il terzo motivo si denunzia la violazione dell'art. 179 cod. civ., comma 2, nel diniego del valore decisivo della dichiarazione del coniuge non acquirente ai fini dell'esclusione del bene acquistato dalla comunione legale, a prescindere dall'effettiva sussistenza dei requisiti oggettivi elencati nella norma e, nella specie, di quello indicato alla lett. f). Il motivo è infondato. Nel caso di acquisto di un immobile effettuato dopo il matrimonio da uno dei coniugi in regime di comunione legale, la partecipazione all'atto dell'altro coniuge non acquirente, prevista dall'art. 179 cod. civ., comma 2, si pone come condizione necessaria ma non sufficiente per l'esclusione del bene dalla comunione: occorrendo, a tal fine, non solo il concorde riconoscimento da parte dei coniugi della natura personale del bene - richiesto esclusivamente in funzione della necessaria documentazione di tale natura - ma anche l'effettiva sussistenza di una delle cause di esclusione dalla comunione tassativamente indicate dall'art. 179 c.c., comma 1, lett. c), d) ed f). Con la conseguenza che l'eventuale inesistenza di tali presupposti può essere fatta valere con una successiva azione di accertamento negativo, non risultando precluso tale accertamento dalla circostanza che il coniuge non acquirente sia intervenuto nel contratto per aderirvi (Cass. sez. unite, 28 Ottobre 2009, n. 22755). Nè si può assegnare alla dichiarazione del V., verbalizzata nell'atto pubblico di compravendita e riportata per esteso nel presente ricorso, valore di confessione di un fatto storico (pagamento del prezzo con il ricavato del trasferimento di beni personali della D.): come tale, revocabile successivamente solo per errore di fatto o violenza (art. 2732 cod. civ.), secondo l'insegnamento delle sezioni unite, nella sentenza sopra citata. L'espressione adottata ("L'acquirente dichiara di effettuare il presente acquisto con suo denaro personale, come conferma il di lei consorte, signor V.F. al presente atto appositamente intervenuto ai sensi dell'art. 179 c.c. ... pertanto gli immobili in oggetto costituiscono beni personali della sola signora D. S., non facendo parte della comunione legale dei beni vigente tra essi coniugi") non fa puntuale riferimento al fatto costitutivo del preteso diritto esclusivo della D. sul denaro utilizzato per il pagamento: e cioè, ad una delle tipologie di beni personali descritte nelle lett. a, b, c, d, e) testualmente richiamate nella fattispecie di cui all'art. 179 c.c., lett. f), pertinente al caso in esame dalla cui vendita (o dal cui scambio) abbia tratto origine la provvista utilizzata per l'acquisto esclusivo. Definire sic et simpliciter personale il denaro con cui si è adempiuta l'obbligazione del prezzo non identifica un fatto, bensì esprime una qualificazione giuridica; come tale, insuscettibile di confessione, oltre che non vincolante per l'interprete, potendo anche discendere da un errore di diritto del dichiarante. Con l'ultimo motivo la ricorrente deduce la carenza di motivazione in ordine al punto controverso dall'appartenenza del denaro impiegato per l'acquisto. Anche questo motivo è infondato. E' irrilevante la circostanza, valorizzata a sostegno della censura, che il prezzo dell'immobile sia stato pagato con denaro proveniente dal conto corrente intestato alla sola D., dal momento che il presupposto oggettivo richiesto dall'art. 179, comma 1, lett. f) è, come sopra chiarito, che esso traesse origine dal prezzo di trasferimento di beni personali: restando, per contro, irrilevante che costituisse risparmio derivante da reddito da lavoro, in costanza di matrimonio, stante il principio solidaristico di pari valore degli apporti, immanente al regime di comunione legale dei beni tra coniugi. Ciò premesso in sede dogmatica, si osserva poi in punto di fatto che la corte territoriale ha escluso che dalle prove raccolte fosse rimasto confermata la versione della D. secondo cui la provvista per l'acquisto immobiliare costituiva oggetto di donazione da parte dei suoi genitori. Si tratta di un accertamento di fatto, sorretto da adeguata motivazione, sulla base di un apprezzamento critico delle deposizioni testimoniali raccolte, insuscettibile di sindacato di merito in questa sede. Il ricorso principale deve essere quindi rigettato, assorbito il ricorso incidentale condizionato del V.. L'incertezza oggettiva della fattispecie concreta, dovuta anche alla dichiarazione di tenore ambiguo resa dal coniuge non acquirente in sede di stipulazione del contratto di compravendita, giustifica l'integrale compensazione delle spese della fase di legittimità. P.Q.M. - Riunisce i ricorsi; - rigetta il ricorso principale, assorbito il ricorso incidentale e compensa le spese di giudizio; - dispone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati significativi, a norma del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52 (Codice in materia di protezione dei dati personali). Cass. civ. Sez. II, 05-03-2010, n. 5424 (rv. 611877) Barbarulo e altri c. Min. Giustizia e altri La disciplina della comunione legale tra coniugi è animata dall'intento di tutelare la famiglia attraverso una specifica protezione della posizione dei coniugi che si manifesta, a norma dell'art. 177, primo comma, lettera a), cod. civ., nel regime dell'attribuzione comune degli acquisti compiuti durante il matrimonio. Tale finalità di protezione è del tutto assente nell'ipotesi in cui i beni acquistati - astrattamente riconducibili al regime della comunione legale - abbiano una provenienza illecita; pertanto, ove il giudice penale abbia sottoposto a confisca, ai sensi dell'art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575, beni di persona sottoposta a procedimento di prevenzione per sospetta appartenenza ad associazioni di tipo mafioso, il coniuge non può invocare la disciplina della comunione legale per sottrarre determinati beni alla predetta misura, salvo che dimostri di aver contribuito all'acquisto con proprie disponibilità frutto di attività lecite. (Rigetta, App. Salerno, 19/11/2003) FONTI CED Cassazione, 2010 Famiglia e Diritto, 2010, 6, 606 Famiglia e Diritto, 2010, 11, 1009 nota di ANTONUCCIO 8 COMUNIONE LEGALE E SUCCESSIONE DEL CONIUGE di Antonio Albanese (Paragrafi estratti dalla monografia Delle successioni legittime, in Cod. civ. Comm., fondato da P. Schlesinger e dir. da F.D. Busnelli, Giuffrè, Milano, 2012). 1. L'incidenza, sulla vocazione legittima, del regime di comunione legale tra coniugi. La comunione legale fra i coniugi, come regolata dagli artt. 177 ss. c.c., costituisce un istituto che prevede uno schema normativo non finalizzato, come quello della comunione ordinaria regolata dagli artt. 1100 ss. c.c., alla tutela della proprietà individuale, ma alla tutela della famiglia attraverso particolari forme di protezione della posizione dei coniugi nel suo ambito, con speciale riferimento al regime degli acquisti. L’autonomia privata in ambito familiare ha visto aprirsi nuovi spazi dopo che la Riforma del ’75 ha introdotto la regola dell’accordo dei coniugi quale elemento centrale della disciplina della famiglia, in ottemperanza ad un’esigenza primaria della stessa Riforma: quella di assicurare la partecipazione paritaria dei coniugi all’amministrazione dei beni comuni, in aderenza al principio costituzionale della “eguaglianza morale e giuridica dei coniugi” (art. 29 Cost.). Le convenzioni patrimoniali stipulate in vita tra i coniugi hanno evidenti riflessi sugli assetti successori, perché comportano che alla parte di patrimonio attribuito al superstite in via successoria possa andare ad aggiungersi una parte ulteriore di beni. Inoltre, nel caso di morte di un coniuge, è naturale pensare che i coniugi abbiano già, in certa misura, regolato in anticipo i riflessi di ordine patrimoniale che quell’evento produce sugli assetti familiari. Non è un caso, d'altronde, se un importante sistema successorio straniero, come quello contenuto nel BGB, abbia espressamente previsto un coordinamento tra trasmissione mortis causa e regime patrimoniale dei coniugi: il legislatore tedesco, infatti, non si è limitato all'applicazione delle regole della successione intestata nel caso di separazione o di comunione dei beni (par. 1414 BGB), ma ha anche previsto per il regime di comunione nella partecipazione agli acquisti (Zugewinngemeinschaft) che il congiunto riceva la metà della successione (par. 1931 coordinato al par. 1371 BGB) se concorre con eredi della prima classe ed i tre quarti se concorre con eredi della seconda (31). Si noti, peraltro, che esiste, anche nel nostro sistema, la possibilità di piegare a fini successori l'autonomia conferita in ambito patrimoniale coniugale, ad esempio attraverso un uso accorto del regime di partecipazione “differita” incarnato dalla c.d. comunione de residuo, la quale comprende, come noto, nell'oggetto nella comunione determinati beni a patto che sussistano ancora al momento dello scioglimento della comunione, momento, quindi, che può essere quello della morte. Infatti, il «coniuge che volesse arricchire l’altro, con effetto dal verificarsi della propria morte, potrebbe accantonare i frutti dei beni propri e i proventi della propria attività separata (art. 177 lett. b e c) e, precostituendo la prova della loro provenienza, disporre per testamento della metà di essi e di quella dei beni destinati all’esercizio della propria impresa o degli incrementi di questa costituita prima della comunione (art. 178)» (32). Alcuni beni trasferiti attraverso l’operare delle convenzioni matrimoniali sono ritenuti oggetto di donazioni indirette, e, come tali, rientrano nella massa ereditaria eventualmente conseguente alla delazione legittima per effetto della collazione: si pensi alla costituzione da parte di uno dei coniugi di beni in fondo patrimoniale, e all’acquisto di beni effettuato da un coniuge mediante alienazione di beni personali ma con attribuzione alla comunione legale. Quanto al fondo patrimoniale, è nota la sua natura di patrimonio separato destinato a « far fronte ai bisogni della famiglia » (art. 167, 1° c., c.c.). Questo scopo, che coinvolge non solo i beni costituiti in fondo ma anche i loro frutti (art. 168, cpv., c.c.) impedisce che gli atti dispositivi possano essere liberamente compiuti, e spiega perché l’art. 169 c.c., rubricato «alienazione dei beni del fondo», distingua tra differenti ipotesi e imponga determinate garanzie (33). La costituzione del 31 ZOPPINI, Le successioni in diritto comparato, in Tratt. dir. comparato, dir. da R. Sacco, Torino, 2002, p. 63 s. 32 PALAZZO, Attribuzioni patrimoniali tra vivi e assetti successori per la trasmissione della ricchezza familiare, in La trasmissione familiare della ricchezza. Limiti e prospettive di riforma del sistema successorio, Padova, 1995, p. 69. V. anche BURDESE, Se, scioltosi il matrimonio e venuto meno il regime di comunione legale tra coniugi per morte di uno di loro, il regolamento della cosiddetta comunione de residuo trovi applicazione in concorso con la disciplina delle successioni, e in caso affermativo come quest'ultima si coordini col primo, in Questioni di diritto patrimoniale della famiglia, Padova, 1989. 33 Precisamente, l’art. 169 c.c. sancisce che, se non è stato espressamente consentito nell’atto di costituzione, non si possono alienare, ipotecare, dare in pegno o comunque vincolare beni del fondo patrimoniale senza il consenso di entrambi i coniugi e, se vi sono figli minori, con l’autorizzazione concessa dal giudice, con provvedimento emesso in camera di consiglio, nei soli casi di necessità od utilità evidente. La norma va coordinata con il terzo comma dell’art. 168 c.c., fondo patrimoniale potrebbe concretizzare una liberalità in favore del coniuge tutte le volte in cui i beni, costituiti in fondo da un solo coniuge, siano attribuiti anche all’altro al momento dello scioglimento del fondo medesimo. Inoltre, sebbene questo profilo sia stato generalmente trascurato in dottrina (mentre la prassi, come noto, ha apprezzato l’istituto a fini prevalentemente “ elusivi ” delle pretese dei creditori), si tratta di uno strumento idoneo ad attuare « un trasferimento di ricchezza (...) abbinato alla soddisfazione dei bisogni della famiglia, sì da assicurare, al di là della morte, il mantenimento o la formazione educativa e professionale ». Quanto detto acquista particolare valore in presenza di figli minori, giacché in tal caso alla cessazione del matrimonio non corrisponde la cessazione del vincolo sui beni, con la conseguenza che, sia nell’ipotesi di trasferimento del diritto di proprietà sia in quella della costituzione di un diritto di godimento, « vi è il trasferimento di una ricchezza destinato a durare, nel suo vincolo di scopo, ben al di là nel tempo » (34). È da escludere che il regime della collazione, alla morte di un coniuge, obblighi l’altro a conferire quanto conseguito per effetto della comunione legale: sebbene, in astratto, anche un’attribuzione realizzata attraverso effetti legali possa rientrare nel concetto di donazione indiretta, nella specie una tale soluzione confliggerebbe con lo stesso fondamento del regime patrimoniale legale. Questo ragionamento cade, però, se l’arricchimento del coniuge superstite non è direttamente prodotto dalla legge ma è imputabile al coniuge defunto, nel senso che l’ingresso del bene in comunione è dipeso da una sua scelta: è, questo, il caso degli acquisti fatti con il prezzo del trasferimento dei beni personali di un coniuge o con il loro scambio, i quali sono esclusi dalla comunione solo se l’acquirente dichiara la provenienza personale del bene utilizzato per lo scambio (art. 179 c.c.). In mancanza di questa dichiarazione, che è rimessa alla libera scelta del coniuge che rinvia alle norme sulla comunione legale per la regolamentazione dell’amministrazione dei beni costituenti il fondo patrimoniale. Il rapporto tra le due norme si presta a diverse interpretazioni, ma la corretta applicazione della lettera dell’art. 169 c.c., la quale non distingue tra amministrazione ordinaria e straordinaria, rende operative tutte le norme relative all’amministrazione della comunione legale (artt. 180–185 c.c.) per ogni tipo di atti, salvo che per gli atti enunciati all’art. 169 c.c. Quella del fondo patrimoniale è pertanto un’amministrazione speciale, modellata su quella della comunione legale, ma che se ne differenzia per gli atti che maggiormente distoglierebbero i beni dalla loro precipua destinazione. Prima della Riforma del diritto di famiglia, l’alienazione dei beni costituenti il patrimonio familiare era sottoposta a una disciplina ancora più rigorosa: l’art. 170 c.c., testo originario, richiedeva sempre l’autorizzazione del tribunale, che la consentiva solo per necessità o utilità evidente, disponendo le modalità di reimpiego del prezzo. Sul rapporto tra vecchio art. 170 c.c. e nuovo art. 169 c.c. v. Corte Cost., 24 gennaio 1992, n. 18, in Giur. cost., 1992, p. 93, in Giust. civ., 1992, p. 859, in Giur. it., 1992, I, 1, c. 1404, in Dir. fam. pers., 1992, p. 497. 34 ORRICO, Il fondo patrimoniale: un istituto da valorizzare, in La trasmissione familiare della ricchezza. Limiti e prospettive di riforma del sistema successorio, Padova, 1995, p. 196. acquirente, il bene cade in comunione, con conseguente arricchimento a favore dell’altro coniuge: il quale, pertanto, all’apertura della successione sarà obbligato a conferire il bene, per la sua quota, in collazione (35). Vanno altresì ricordate le norme che fanno diretto riferimento alla successione o agli eredi. L'art. 179 c.c. nell'escludere dalla comunione i beni acquisiti da uno dei coniugi per successione, fa salva l'ipotesi che essi siano stati attribuiti, per testamento, alla comunione legale (36). L'art. 195 c.c. stabilisce il diritto non solo dei coniugi, ma anche dei loro eredi, nella divisione, «di prelevare i beni mobili che appartenevano ai coniugi stessi prima della comunione o che sono ad essi pervenuti durante la medesima per successione o donazione. In mancanza di prova contraria si presume che i beni mobili facciano parte della comunione» (37). E le due norme successive aggiungono che «Se non si trovano i beni mobili che il coniuge o i suoi eredi hanno diritto di prelevare a norma dell'articolo precedente essi possono ripeterne il valore, provandone l'ammontare anche per notorietà, salvo che la mancanza di quei beni sia dovuta a consumazione per uso o perimento o per altra causa non imputabile all'altro coniuge» (art. 196 c.c.). E che «Il prelevamento autorizzato dagli articoli precedenti non può farsi, a pregiudizio dei terzi, qualora la proprietà individuale dei beni non risulti da atto avente data certa. È fatto salvo al coniuge o ai suoi eredi il diritto di regresso sui beni della comunione spettanti all'altro coniuge nonché sugli altri beni di lui» (art. 197 c.c.). Non va poi sottaciuta l'incidenza, sugli assetti successori futuri, del regime di amministrazione dei beni. Tradizionalmente, nello scorso secolo, esistevano due sistemi di gestione della ricchezza 35 BIANCA, Comunione legale e collazione, in Vita not., 1981, I, p. 805 ss. In tema: ZUDDAS, L'acquisto dei beni pervenuti al coniuge per donazione o successione, in La comunione legale, a cura di Bianca, Milano, 1989; SALANITRO, Comunione legale tra i coniugi e acquisti per donazione o successione, in Familia, 2003, p. 369. Si noti che, ex art. 188 c.c., i beni della comunione (salvo quanto disposto nell'articolo 189 c.c.) non rispondono delle obbligazioni da cui sono gravate le donazioni e le successioni conseguite dai coniugi durante il matrimonio e non attribuite alla comunione. 37 In tema di comunione legale tra coniugi, poiché l'art. 195 (ultima parte) — il quale prevede, con riguardo al prelevamento dei beni mobili nell'ambito della divisione dei beni della comunione, che, in mancanza di prova contraria, si presume che i beni mobili facciano parte della comunione — non richiede una prova qualificata, è sufficiente, per rovesciare la presunzione, una prova libera, e quindi anche una prova testimoniale o indiziaria. Tale sistema probatorio, pur se dettato per disciplinare la divisione tra i coniugi (o i loro eredi) di beni ad essi appartenenti prima della comunione o ad essi pervenuti durante la medesima per successione o donazione, ha carattere generale, sicché è applicabile anche quando debba giudicarsi, nei rapporti tra i coniugi (rispetto ai terzi vale, invece, la regola prevista dall'art. 197), se determinati beni siano di proprietà esclusiva di uno di essi o siano in comunione (nella specie, tale accertamento aveva per oggetto titoli azionari nell'ambito di un procedimento di separazione personale) (Cass., 18 agosto 1994, n. 7437, cit.). 36 all'interno della famiglia nucleare, entrambi fondati sul presupposto di una netta divisione del lavoro fra i due coniugi e di una forte asimmetria di potere fra marito e moglie. Con il primo, detto “ad assegnazione periodica”, il marito dava una parte delle entrate alla moglie, la quale se ne serviva per le spese quotidiane necessarie a mandare avanti la casa. Con il secondo, detto “a salario completo”, più frequente nelle famiglie con basso reddito, il marito tratteneva il denaro per le sue spese personali e dava tutta la somma restante alla moglie, affinché la amministrasse (38). Nell'ultimo ventennio del Novecento, il sistema più diffuso divenne la gestione congiunta: marito e moglie formano con i loro redditi una cassa comune, alla quale hanno entrambi libero accesso per le spese familiari e personali (39). A seguito dell'aumento dei livelli di istruzione e di reddito delle donne, nell'ultimo periodo, si è diffuso anche il sistema a gestione indipendente: i redditi rimangono separati e ciascuno dei coniugi provvede per proprio conto alle esigenze familiari e personali. Tratto comune di tutti gli enunciati sistemi è la struttura monogamica della famiglia, alla quale, nella tradizione del pensiero occidentale, si lega indissolubilmente la necessità del trasferimento in via ereditaria della ricchezza, tanto che, a volte, il rapporto è stato rovesciato nel senso di attribuire allo stesso diritto successorio la nascita della monogamia (40). I sistemi di 38 BARBAGLI e KERTZER, in AA.VV., Storia della famiglia in Europa. Il novecento, a cura di M. Barbagli e D.I. Kertzer, Roma-Bari, 2005, p. 16 s.: «Nelle famiglie in cui dominava il primo sistema succedeva spesso che il marito controllasse come venivano spesi i soldi dalla moglie, mentre questa non aveva informazioni precise sull'ammontare e sulle fonti del reddito che entrava in casa. In quelle dove vigeva il sistema a salario completo, l'incarico di gestire il poco denaro era affidato alla moglie perché questo compito era fonte non di potere, ma di problemi e preoccupazioni». 39 BARBAGLI e KERTZER, in AA.VV., Storia della famiglia in Europa. Il novecento, cit., p. 17: «Coloro che usano questo sistema si rifanno ai valori della reciprocità e dell'altruismo e ritengono che il denaro non appartenga a chi lo ha guadagnato, ma sia patrimonio comune della famiglia». 40 Per un'immagine dell'accoglienza, poi, di questa idea tra i pensatori, basti pensare alla contrapposizione radicale tra Hegel ed Engels. Per il primo (HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, cit., § 167), «Il matrimonio, ed essenzialmente la monogamia, è uno dei princìpi assoluti su cui si fonda l'eticità di una comunità». Per il secondo (F. ENGELS, L'origine della famiglia della proprietà privata e dello Stato, prima ed. 1884, trad. it. di D. Della Terza, a cura di F. Codino, Roma, 2005, p. 102), «La monogamia sorse dalla concentrazione di grandi ricchezze nelle stesse mani, e precisamente in quelle di un uomo, e dal bisogno di lasciare queste ricchezze in eredità ai figli di questo uomo e di nessun altro». Engels quindi auspicava l'eliminazione della famiglia monogamica in quanto unità economica della società (p. 101). Tale eliminazione avrebbe portato con sé la scomparsa del fenomeno ereditario (p. 102): «Poiché dunque la monogamia è sorta da cause economiche, scomparirà se queste cause scompaiono». E ancora (p. 103): «Col passaggio dei mezzi di produzione in proprietà comune, la famiglia singola cessa di essere l'unità economica della società. L'amministrazione domestica privata si trasforma in un'industria sociale. La cura e l'educazione dei fanciulli diventa un fatto di pubblico interesse; la società ha cura in egual modo di tutti i fanciulli, legittimi e illegittimi». ripartizione della ricchezza in vita e quelli inerenti la gestione dei beni, ad ogni modo, non sono calibrati alla disciplina legale delle attribuzioni mortis causa. E ciò può comportare gravi iniquità, in specie nel concorso tra coniuge e figli. Ebbene, il sistema di amministrazione dei beni approntato per i coniugi in comunione legale ha un riflesso indiscusso, anche se poco studiato in dottrina, sul futuro regime successorio. Si tratta di un sistema che tenta di contemperare un’esigenza primaria della Riforma del diritto di famiglia, che era quella di assicurare la partecipazione paritaria dei coniugi alla gestione dei beni comuni, con l’esigenza di non creare eccessivi intralci all’attività di godimento e di uso dei beni ricadenti nella comunione. Il contemperamento, come noto, è stato attuato attraverso la distinzione tra amministrazione ordinaria e amministrazione straordinaria: il primo comma dell’art. 180 c.c., al fine di snellire lo svolgimento delle operazioni più ricorrenti nella quotidianità, stabilisce che l’amministrazione dei beni della comunione e la rappresentanza in giudizio per gli atti ad essa relativi spettano disgiuntamente ad entrambi i coniugi. Il secondo comma norma cit., per converso, in sintonia con una concezione egualitaria del rapporto di coppia, garantisce il controllo reciproco dei coniugi, a garanzia di una gestione più oculata, per gli atti di maggior rilievo. Il compimento degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione, nonché la stipula dei contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento e la rappresentanza in giudizio per le relative azioni, spettano congiuntamente ad entrambi i coniugi. Imponendo la previa valutazione di entrambi i coniugi sull’opportunità degli atti più importanti, e la loro convergenza sulla soluzione positiva, l’art. 180 c.c. non prende minimamente in considerazione gli effetti che questo vincolo può avere sulla predisposizione successoria o viceversa. A ciascun coniuge, infatti, è consentito di opporsi alla alienazione di un bene, a sua tempo acquistato dall’altro (e non rientrante tra i beni personali) al solo scopo di vedere quel bene, in futuro, ricadere nella successione del partner. E questa stessa ragione, speculativa sulla morte altrui, può fondare la decisione del coniuge, non intestatario formale di un bene immobile o mobile registrato, di agire in giudizio per l’annullamento del contratto stipulato dall’altro (art. 184 c.c.). (41). Il coniuge, solo per tale sua qualità, diviene automaticamente comproprietario del bene anche 41 La previsione dell’azione di annullamento, quale rimedio fornito al coniuge contrario all’atto, è stata al centro di un ampio dibattito, non del tutto sopito, perché giudicata in contrasto sia con i principi generali della relatività del contratto sia con lo spirito della riforma, che reclamerebbe una maggiore tutela per il coniuge debole. Infatti, il contratto non dovrebbe poter produrre alcun effetto nei confronti dell’altro coniuge, che rispetto ad esso si pone come terzo. Il rimedio dell’annullamento, d’altronde, è solitamente concesso a tutela di chi è stato parte del contratto, non invece rispetto a chi, come nella specie, non dovrebbe subirne alcuna conseguenza, salvo quella derivante dall’acquisto a non domino di bene mobile ad opera del terzo contraente di se questo è stato acquistato esclusivamente dall'altro ed egli non ha partecipato all'acquisto: se, ad esempio, la moglie non acconsente alla vendita di un bene caduto in comunione che era stato acquistato col denaro del marito, ed eventualmente domanda l’annullamento della vendita comunque effettuata dal marito, il profilo successorio interviene con riferimento alla quota del marito; perché l’altra quota è già acquisita al patrimonio della moglie. Questa, quindi, potrebbe essere spinta ad un atteggiamento ostruzionistico dal solo fine di conservare, per il futuro, il diritto ereditario anche sull’altra metà, e quindi sulla totalità del bene. Si tratta di un comportamento unilaterale funzionalmente analogo a quello sanzionato dal divieto dei patti successori dispositivi o rinunciativi (i quali, si badi, possono avere anche struttura unilaterale), perché il bene alienato è considerato dal coniuge non alienante come entità di una futura successione. Come avviene negli atti dispositivi e rinunciativi, si tratta di un’azione che contrasta con l’esigenza morale, socialmente diffusa, di evitare speculazioni sulla vita del de cuius, desiderandone la morte (c.d. votum captandae mortis). E tuttavia, la legge non considera questo profilo psicologico del coniuge che agisce in annullamento, che peraltro sarebbe di ardua dimostrazione. Non resta che prendere atto, allora, che il legislatore ha concepito la facoltà di disporre dei beni della comunione legale quale potere che inerisce per l’intero a ciascun coniuge disgiuntamente, ma ha ritenuto di limitare questo potere prescrivendo il necessario consenso dell’altro coniuge; il quale, attraverso la domanda di annullamento, fa valere in giudizio il suo diritto alla partecipazione alla vita familiare, violato dal buona fede. Né la concessione di un’azione di annullamento potrebbe trovare più razionale spiegazione se si ritenesse che la comunione legale è, essa stessa, un soggetto di diritti: anche in questo caso l’atto compiuto dal non legittimato non dovrebbe essere efficace nei confronti della comunione. La soluzione legislativa più adeguata sarebbe stata, pertanto, l’inefficacia del contratto concluso senza il necessario consenso dell’altro coniuge. Secondo altra tesi i coniugi sarebbero solidalmente titolari di un diritto avente ad oggetto i beni della comunione. Nei rapporti con i terzi ciascun coniuge avrebbe il potere di disporre dei beni, perché il consenso dell’altro non lo costituisce, ma solo rimuove un limite al suo esercizio, essendo così requisito di regolarità per la formazione dell’atto di alienazione, la cui mancanza si traduce in un vizio dell’atto stesso. Il terzo acquisterebbe pertanto a domino, ma con titolo viziato e quindi annullabile, con conseguenze anche sul piano processuale, per assenza di litisconsorzio necessario, attesa la solidarietà. In tal modo, però, sembra quasi che i beni siano di proprietà della comunione, intesa come società civile e non commerciale, e, in analogia con l’art. 2266, solo amministrati dai coniugi. Sennonché, il nostro ordinamento non conosce una titolarità solidale di diritti, analoga a quella della proprietà collettiva romana. Essa non sarebbe nemmeno assimilabile alla comunione a mani riunite di tipo germanico, la cui disciplina è comunque diversa da quella della comunione legale, che non dà vita ad un patrimonio di destinazione o separazione, come si desume dagli artt. 186 d), 189. La Corte costituzionale ha respinto con decisione ogni sospetto di incostituzionalità della norma: v. Corte Cost., 17 marzo 1988, n. 311, in Giust. civ., 1988, I, p. 1388, con nota di Natucci; in Vita not., 1988, p. 640; in Riv. notar., 1988, p. 1306. comportamento del partner (42). Analoghe considerazioni possono farsi per la previsione di cui al terzo comma dell’art. 184 c.c., relativa ai beni mobili, in base alla quale gli atti straordinari compiuti senza il necessario consenso e aventi ad oggetto questi beni, sono a tutti gli effetti validi ed efficaci, anche nei confronti dei terzi contraenti di mala fede, comportando soltanto una regolamentazione interna tra i coniugi (43). Il coniuge che ha compiuto l’atto può essere obbligato dall’altro, con una domanda non necessariamente giudiziale, ad una reintegrazione in forma specifica, vale a dire a recuperare i beni alienati; se ciò non è possibile, la reintegrazione avverrà per equivalente, attraverso il pagamento di una somma di denaro attualizzata al valore della moneta al momento della ricostituzione della comunione. Il problema qui enunciato non è del tutto risolto dal fatto che l’art. 181 c.c. prevede, per il caso che uno dei coniugi rifiuti il consenso, che l'altro coniuge possa rivolgersi al giudice per ottenere l'autorizzazione allo scopo di compiere l’atto da solo senza timore di future impugnative ex art. 184 c.c. da parte dell’altro coniuge. L’atto può essere autorizzato, infatti, soltanto se necessario 42 Recentemente, infatti, la Corte Suprema ha espressamente richiamato le motivazione della sent. n. 311 del 1988 della Consulta, ribadendo che «la comunione legale dei beni tra i coniugi, a differenza da quella ordinaria, è una comunione senza quote, nella quale i coniugi sono solidalmente titolari di un diritto avente per oggetto i beni di essa e rispetto alla quale non è ammessa la partecipazione di estranei. Ne consegue che, nei rapporti con i terzi, ciascun coniuge, mentre non ha diritto di disporre della propria quota, può tuttavia disporre dell'intero bene comune, ponendosi il consenso dell'altro coniuge (richiesto dal comma 2 dell'art. 180 c.c. per gli atti di straordinaria amministrazione) come un negozio unilaterale autorizzativo che rimuove un limite all'esercizio del potere dispositivo sul bene e che rappresenta un requisito di regolarità del procedimento di formazione dell'atto di disposizione, la cui mancanza (ove si tratti di bene immobile o di bene mobile registrato) si traduce in un vizio da far valere nei termini fissati dall'art. 184 c.c.» (Cass. 14 gennaio 1997, n. 284, in Fam. e dir., 1997, p. 285. Nella specie, un soggetto, prima dell'entrata in vigore della l. n. 151 del 1975, aveva promesso in vendita un appartamento che non era ancora entrato nella sua proprietà. Verificatosi l'acquisto della proprietà alcuni anni dopo, quando era ormai in vigore il nuovo regime patrimoniale tra i coniugi, il promissario acquirente aveva convenuto in giudizio il solo promittente per ottenere, ex art. 2932 c.c., l'esecuzione in forma specifica del contratto. Il giudice del merito, in secondo grado, dichiarava trasferita al promissario acquirente soltanto la metà della proprietà dell'immobile, ossia quella spettante al promittente, e non anche l'altra metà spettante al suo coniuge non consenziente al trasferimento. La S.C., in applicazione dell'enunciato principio, ha dichiarato la nullità delle sentenze di entrambi i gradi ed ha rinviato la causa al primo giudice, rilevando che era stata omessa l'integrazione del contraddittorio nei confronti del coniuge del promittente venditore, la cui posizione era inevitabilmente coinvolta in una controversia che doveva avere ad oggetto l'immobile nel suo intero, stante l'inconcepibilità dell'ingresso di estranei nella comunione e la conseguente impossibilità di trasferimento della sola quota del coniuge promittente). 43 Contra, ma con posizione minoritaria: CORSI, Il regime patrimoniale della famiglia, in Trattato di dir. civ. e comm., fondato da A. Cicu e F. Messineo, VI, 2, Milano, 1984, p. 144 ss., secondo il quale la norma trova attuazione soltanto nei casi in cui il bene è definitivamente acquistato dal terzo per effetto della regola «possesso vale titolo» ex art. 1153 c.c.; BIANCA, Diritto civile. 2. La famiglia. Le successioni, cit., p. 113. nell’interesse della famiglia o dell’azienda di cui alla lett. d dell’art. 177 c.c., non rilevando l’utilità. Altra circostanza che, sotto il profilo funzionale, ricorda una deroga ai patti successori, è la possibilità – ricavabile dal primo comma, lett. b) dell’art. 179 c.c. e dal 2° comma dell’art. 210 c.c. – di attribuire alla comunione fra coniugi i futuri beni acquistati per successione mortis causa. 2. Segue. L’ampliamento del lascito al coniuge per effetto del regime patrimoniale legale. Lo scioglimento della comunione legale, correlato al verificarsi di una delle cause indicate nell'art. 191 c.c., implica, oltre alla caducazione del regime di comunione legale per i rapporti giuridici successivi, la permanenza, per quanto attiene ai rapporti anteriori già ricadenti nella comunione legale, dello stato di contitolarità indivisa dei diritti sui beni comuni, senza ultrattività della disciplina della comunione legale e con la sostituzione ad essa della disciplina della comunione ordinaria (44). In caso, pertanto, di apertura della successione legittima del coniuge che ha effettuato l'acquisto (purché di beni non ricadenti tra quelli personali elencati dall'art. 179 c.c.), il coniuge che gli sopravvive si troverà nella titolarità di una metà indivisa del bene per effetto dell'acquisto automatico alla comunione legale, mentre, nell'altra metà, se concorre, ad esempio, con un solo figlio, succederà per un mezzo, con la conseguenza che sarà proprietario del bene per ¾, mentre i diritti del figlio saranno limitati ad un quarto. Se, poi, il bene in questione fosse la casa coniugale, in aggiunta alla suddescritta quota di piena proprietà il coniuge vanterebbe i diritti di abitazione e di 44 Mentre è indiscusso che sia, agli effetti dell’art. 191 c.c., irrilevante la separazione di fatto, diverse tesi sono state avanzate in giurisprudenza a proposito del momento a partire dal quale la comunione legale si scioglie. Una prima tesi vuole che gli effetti risalgano al momento della proposizione della domanda; altra soluzione fa discendere lo scioglimento della comunione dall'emissione del provvedimento interinale ex art. 708 c.p.c. che autorizza i coniugi a vivere separati. La soluzione, infine, che prevale tra i giudici (v. ad es., ora, Cass., 26 febbraio 2010, n. 4757) fa valere il principio generale sancito dall'art. 2909 c.c., secondo il quale la sentenza produce i suoi effetti dal momento in cui passa in giudicato. Questo indirizzo, nel richiedere la necessità del passaggio in giudicato, afferma di regola che la declaratoria di scioglimento della comunione non possa essere richiesta antecedentemente alla formazione del giudicato sulla separazione dei coniugi, e che la domanda in tale senso, eventualmente formulata prima di tale data, debba essere dichiarata improponibile: il passaggio in giudicato della sentenza di separazione è quindi configurato come un presupposto processuale. Fa eccezione, però, la sentenza del 2010 da ultimo citata, la quale ha appunto esaminato la questione «se sia proponibile la domanda di scioglimento della comunione legale ove, all'atto introduttivo del relativo giudizio, fosse ancora pendente la causa di separazione personale, ma il passaggio in giudicato della relativa sentenza sia intervenuto anteriormente alla decisione di primo grado sulla domanda stessa»; ed ha modificato il precedente orientamento, ritenendo che il passaggio in giudicato della sentenza di separazione (o l'omologa) non costituisca un presupposto processuale, bensì una condizione dell'azione. uso di cui al 2° comma art. 540 c.c. Si pensi, poi, all’ipotesi che, vigendo il regime di comunione legale, siano intestati ad uno solo dei coniugi contratti di conto corrente o depositi bancari: anche il denaro depositato in un istituto bancario resta oggetto della comunione in via di presunzione assoluta ai sensi degli artt. 177 e 195 c.c., e ciò sia che provenga dall'attività di uno solo dei coniugi sia che provenga dalle singole attività di ciascuno di essi. Inoltre, la portata di questo fenomeno diviene ancora maggiore seguendo un indirizzo giurisprudenziale che tende ad ampliare l’oggetto della comunione legale, facendo entrare negli “acquisti” di cui all’art. 177 c.c. anche i crediti (45). In proposito, l'orientamento tradizionale ha sempre escluso l'ingresso dei crediti nella comunione legale, perché si è ritenuto che il termine “acquisti” di cui all’art. 177, lett. a), c.c., riguardi gli atti implicanti l’effettivo trasferimento della proprietà della res o la costituzione di diritti reali sulla medesima, non quindi i diritti di credito sorti dal contratto concluso da uno dei coniugi, i quali per la loro stessa natura relativa e personale, pur se strumentali rispetto all'acquisizione di una res, non sono suscettibili di cadere in comunione (46). Sul punto, invero oggetto di fermento dottrinale e giurisprudenziale, una direzione opposta è stata presa, però, da un’importante pronuncia nel 2007 (47), secondo cui anche i crediti — così come 45 In dottrina, sullo specifico problema dei rapporti tra diritti di obbligazione e regime di comunione legale dei beni, v.: LEMMI, Comunione legale e vendita obbligatoria (sul concetto di acquisti ex art. 177, lett. a) c.c.), in Giur. it. 1989, IV, c. 428; SANTARSIERE, Acquisizione per legge alla comunione legale di bene promesso in vendita, in Arch. civ., 1988, p. 1193; VITUCCI, I diritti di credito, in La comunione legale, a cura di C.M. Bianca, I, Milano 1989, p. 33; DE MARZO, Acquisto in comunione ordinaria da parte di coniugi in regime di comunione legale, in Fam. e dir. 2003, p. 533; FINELLI, Un atteso revirement della Cassazione: i diritti di credito ricadono nella comunione legale degli acquisti ex art. 177, comma 1, lett. a) c.c., in Corr. giur., 2008, p. 957; RIMINI, Cadono in comunione i diritti di credito acquistati durante il matrimonio?, in Fam. e dir., 2008, p. 5; RINALDI, Preliminare di vendita, diritti di credito: la problematica individuazione dell'oggetto della comunione legale, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, p. 320; RIVA, Comunione legale tra coniugi e diritti di credito, in Giur. it., 2008, p. 851; SCOTTI, Comunione legale e titoli di credito, in Notariato, 2008, p. 148; TOSCANO, Un “nuovo” orientamento della Cassazione sulla caduta in comunione legale dei diritti di credito, in Riv. notar., 2008, p. 411. 46 Cass., 11 settembre 1991, n. 9513; Cass., 9 luglio 1994, n. 6493, in Riv. giur. edilizia, 1995, I, p. 114; Cass., 27 gennaio 1995 n. 987, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, p. 889, p. 897, con nota critica di REGINE, Questioni in tema di contratto preliminare e comunione legale; Cass., 18 febbraio 1999, n. 1363, in Studium Juris, 1999, p. 692; Cass., 22 settembre 2000, n. 12544; Cass., 1° aprile 2003, n. 4959. Per i giudici di merito, sempre nello stesso senso, Trib. Roma, 17 maggio 1984, in Giust. civ. 1985, I, p. 1212, con nota adesiva di LUISI, Rapporti di locazione e comunione legale dei beni, in Riv. notar., 1985, p. 1207; Cass. 4 marzo 2003, n. 3185, in Giust. civ., 2004, I, p. 2832; Cass., 1° aprile 2003, n. 4959; Cass., 23 luglio 1987, n. 6424, in Giust. civ., 1988, I, p. 459; App. Roma, 14 ottobre 2009. 47 Cass., 9 ottobre 2007, n. 21098, in Giust. civ., 2008, p. 360; in Riv. notar., 2008, p. 407. Per l'affermazione che rientrano nel regime patrimoniale di comunione legale tra i coniugi i diritti a struttura complessa, come i diritti azionari — in quanto “beni” ai sensi degli artt. 810, 812 e 813 c.c., sono suscettibili di entrare nella comunione (ove non ricorra una delle eccezioni alla regola generale dell'art. 177 c.c. poste dall'art. 179 c.c.). L'accoglimento di codesta soluzione interpretativa comporta una serie di conseguenze che ampliano ulteriormente la sfera, già notevole, dei diritti del coniuge superstite. Dall'applicazione di tale principio, ad esempio, deriverebbe la legittimazione ad agire, per l'adempimento di un preliminare di vendita stipulato da uno solo dei coniugi, anche del coniuge superstite rimasto estraneo alla conclusione del preliminare stesso. A conferma dell'indirizzo tradizionale è però intervenuta una nuova pronuncia della Suprema Corte (48), la quale, in motivazione, ha affermato che anche a voler considerare superata o in via di superamento la tesi secondo la quale possono qualificarsi come "acquisti" soltanto le acquisizioni patrimoniali derivanti dal compimento di atti implicanti l'effettivo trasferimento della proprietà della res o la costituzione di diritti reali sulla medesima e non quindi i diritti di credito pur se strumentali all'acquisizione di una res, resta fermo che l'atto deve avere ad oggetto l'acquisizione di un "bene", ai sensi degli artt. 810, 812 e 813 c.c., dovendosi escludere, pertanto, che la comunione degli acquisti possa comprendere tutti indistintamente i diritti di credito che ciascun coniuge può acquistare. Ne deriva che se ben possono ritenersi acquisiti alla comunione legale i titoli di partecipazione azionaria, le quote di fondi d'investimento o i titoli obbligazionari acquistati con proventi di attività separata, in quanto entità che hanno una componente patrimoniale suscettibile di acquisire un valore di scambio, restano esclusi i meri diritti di credito, come quelli derivanti da un contratto preliminare di vendita, dalla partecipazione a una cooperativa edilizia a contributo erariale o dal deposito bancario. 3. L'assegno alimentare spettante al coniuge dell'assente. Una previsione particolare è prevista in favore del coniuge dell’assente. L’art. 51 c.c., così sostituito ex art. 2 l. 19 marzo 1975, n. 15, gli concede, purché versi in stato di bisogno, la anche gli acquisti conseguenti a negozi ad effetti obbligatori, conclusi in costanza di matrimonio dai coniugi insieme ovvero da uno solo di essi, Trib. Trani, 28 febbraio 1983, in Giur. it., 1983, I, 2, c. 628, con nota adesiva di VENTURINI, Comunione legale e diritti di credito; in Rass. dir. civ., 1984, p. 807, con nota di LA ROCCA, Comunione legale tra coniugi e diritti di credito; Trib. Monza, 25 ottobre 1983, in Giust. civ., 1984, I, p. 583, con osservazione critica di M. FINOCCHIARO, Legittimazione del coniuge estraneo al contratto preliminare di compravendita a chiedere l'esecuzione specifica in nome della comunione legale dei beni. 48 Cass., 15 gennaio 2009, n. 799, in Fam. e dir., 2009, p. 571, con nota di Rimini; in Nuova giur. civ. comm., 2009, p. 706, con nota di Alvisi. possibilità di ottenere dal tribunale un assegno alimentare da determinarsi secondo le condizioni della famiglia e l’entità del patrimonio dell’assente. In tal modo la legge soddisfa «l’interesse superiore di evitare perturbamenti nell’ordine delle famiglie», assicurando che al coniuge siano riconosciuti, nei limiti del possibile, gli stessi diritti che gli spetterebbero se l’assente fosse in vita (49). Si tratta di una speciale applicazione dei principi che regolano l’istituto degli alimenti, che trovano attuazione in punto di modalità della prestazione, di garanzie e di privilegi. La disciplina delle prestazioni alimentari non trova invece applicazione quanto ai criteri di misura: infatti, sebbene l’assegno spetti al coniuge che versa «in stato di bisogno», è pacifico che nella specie lo stato di bisogno debba intendersi in senso atecnico, semplicemente come situazione di fatto di disagio. L’assegno spetta, quindi, al coniuge che, nonostante abbia esercitato i propri diritti sul patrimonio dell’assente, non abbia mezzi sufficienti a conservare il tenore di vita di cui godeva in precedenza, tenendosi però anche conto, oltre che dei mezzi che il coniuge può trarre dal patrimonio dell’assente, delle sostanze patrimoniali di cui disponga egli stesso: deve escludersi, quindi, che il coniuge astenutosi dal far valere i diritti che gli spettano a titolo successorio o per effetto delle convenzioni matrimoniali possa chiedere la corresponsione dell’assegno alimentare (50). L’assegno non può essere richiesto dal coniuge separato con addebito, neanche se goda degli alimenti, avendo egli già diritto, in tal caso, all’assegno successorio di cui all’art. 548, cpv., c.c., richiedibile a titolo temporaneo ex art. 50, 3° c., c.c. Il diritto all’assegno viene meno se il coniuge dell’assente ha contratto nuovo matrimonio (provvisoriamente non impugnabile ex art. 117 c.c.). In concreto, le ipotesi più frequenti nelle quali la previsione dell’assegno al coniuge trova attuazione sono quelle del coniuge che domandi l’attribuzione, a titolo di assegno alimentare, di una quota della pensione dell’assente. In ordine a questa pretesa, si ritiene che l’INPS sia passivamente legittimato nel giudizio inerente alla dichiarazione di assenza ed al regolamento interinale del patrimonio dello scomparso (51). Inoltre, stante il diritto della moglie del pensionato assente alla pensione di reversibilità che le spetta per legge iure proprio in caso di morte del marito, si può ritenere che ella abbia diritto, durante l’assenza del pensionato, ad esigere l’erogazione pro-quota dei ratei pensionistici sotto il profilo di una anticipata e provvisoria liquidazione della pensione di reversibilità, nei limiti della quota a lei autonomamente riservata, nell’esercizio temporaneo di quei 49 ROMAGNOLI, Dell’assenza, in Commentario del c.c. Scialoja e Branca, BolognaRoma, 1970, p. 256. 50 ROMAGNOLI, Dell’assenza, cit., p. 256. 51 Cass., 19 marzo 1992, n. 3405, in Mass. Giust. civ., 1992, p. 447. In dottrina, v. G. MAZZONI, Il diritto ai ratei pensionistici, in Nuova giur. civ. comm., 1990, I, p. 108. diritti cui è abilitata per il combinato disposto degli artt. 50 e 51 c.c. (52). In tale ipotesi, peraltro, non si configura alcun eventuale sacrificio degli interessi dell’istituto previdenziale, giacché questo, se l’assente fa ritorno, deve corrispondergli solo la differenza fra l’importo a lui spettante e le somme corrisposte alla moglie, non potendo il pensionato far valere a carico dell’ente alcuna azione o pretesa ulteriore. Si è infine affermato che « qualora, a seguito della dichiarazione di assenza di una persona, il coniuge di quest’ultima si rivolga al giudice per ottenere dall’ente previdenziale (nella specie l’Inps) l’erogazione della pensione di riversibilità quale coniuge superstite, se il diritto alla pensione (diretta) del coniuge assente sia contestato dall’ente erogatore, va dichiarato il diritto del coniuge, per il solo fatto della dichiarazione pregressa di assenza, di chiedere, in via amministrativa e, se del caso, giudiziaria (davanti al giudice previdenziale) la pensione di riversibilità a seguito della morte dell’assente; tale pronuncia sarà vincolante nel successivo procedimento, nel senso che il diritto alla pensione non potrà essere negato per il fatto che non risulti la morte del coniuge dell’istante, ma solo la sua assenza » (53). 52 Cfr. Cass., 5 novembre 1988, n. 5988, in Giust. civ., 1989, I, p. 947; in Dir. famiglia, 1989, p. 30. 53 Trib. Catania, 4 giugno 1993, in Dir. famiglia, 1994, I, p. 229.