L`idea che le nostre emozioni siano un elemento negativo per la

IL CONFLITTO È L’ANIMA
DELL’ETICA E DELLA MORALE
L’ANIMALE CHE È IN NOI DOMATO DALLA RAZIONALITÀ DI ADOLF
HITLER O DI HERCULE POIROT. TRE PARADOSSI CHE NON HANNO
FONDAMENTO SCIENTIFICO
di Maria Grazia Turri*
1. Il paradosso di essere animali con sovrapposta la facoltà della razionalità
L’idea, che le nostre emozioni rappresentino un elemento negativo per la singola
personalità e nelle relazioni sociali, ha una storia molto lunga e articolata. La razionalità
umana è stata deputata per molto tempo a unico rimedio per l’essere umano dominato
da paure, odi, disgusti, rabbie, gioie. L’unica emozione primaria accettata con una certa
neutralità è stata lo stupore, anche se per lo più lo si è interpretato come una
caratteristica dell’infanzia, del Peter Pan presente in ciascuno di noi.
L’idea cardine è che le emozioni impediscano di per sé di pensare, e soprattutto di
pensare in modo “buono”, “saggio” e “utile” per sé e per gli altri.
In misura ancora più marcata le emozioni sono state viste come una forza che impedisce
il comportamento etico o morale.
Le attuali ricerche in campo neuroscientifico suggeriscono invece di prendere atto che
esiste uno stretto intreccio tra emozioni, processo logico cognitivo e morale, e
attribuiscono alle emozioni, al sistema limdico, il ruolo chiave in quanto fattore
propulsivo sia del pensiero logico cognitivo sia dei comportamenti etici e morali.
La storia del pensiero occidentale si caratterizza per una visione per lo più negativa del
ruolo delle emozioni. Come è noto, Platone (427-347 a.C.) riteneva l’anima prigioniera
del corpo e Aristotele ( 384-322 a. C.) definiva l’uomo come un animale razionale,
tant’è che nel De anima la psyché è analizzata a tre stadi successivi - l’anima vegetativa,
l’anima sensitiva e l’anima razionale - con un passaggio qualitativo, dal vegetale,
all’animale all’umano, descritto come un’aggiunta di facoltà che via via si sommano
alle precedenti.
Da questi due filosofi greci deriva, da un lato, la contrapposizione corpo anima
(Platone), che ha caratterizzato gran parte del pensiero e delle ricerche in campo
scientifico, e, dall’altro, l’individuazione della facoltà psichica umana come una
sovrapposizione a facoltà già presenti nel mondo vegetale e animale (Aristotele).
Il passaggio da animale a persona sulla base della facoltà razionale viene sancito da
Boezio (475/477- 525) che definisce nel De persona et duabus naturis lo statuto di
persona come “naturae rationalis individua substantia”. L’uomo per essere persona
deve esercitare sulla propria animalità la razionalità e si vede costretto per essere tale a
dominare un conflitto tra una parte di sé e un’altra parte di sé. Si viene a configurare in
tal modo una dualità, una scissione, tra la parte animale (la componente sensitiva ed
emotiva) e la parte umana (la facoltà della razionalità).
* docente di Comunicazione dei Linguaggi Aziendali presso Università di Torino e
Consulente Aziendale
1
Cartesio (1596-1650) sulla scia di Platone nel trattato sulle Passioni dell’anima
convalida una supremazia assiologia della razionalità sulle emozioni. E l’intera storia
teorica del positivismo assevera ulteriormente questa posizione, tant’è che la natura
metafisica della razionalità ne diviene il cardine.
Pertanto l’uomo assume il valore di persona precisamente perché, e se, mantiene piena
padronanza sulla propria natura animale. E ha una natura animale per poter misurare su
di essa il proprio statuto assoluto di persona. Cosicché, in questa visione, l’uomo
possiede un’area sana governata da ragione e morale e un’altra insana e irrazionale
affidata all’istinto e alle passioni. Ovviamente queste ultime assumono caratteri
distruttivi e autodistruttivi.
Si sprecano così le immagini letterarie, pittoriche e teoriche dove una passione cieca o
una sfrenata ambizione inducono a rappresentare la persona, che ne è preda, sopraffatta
a tal punto dall’emozione da non essere responsabile delle proprie azioni. In balia delle
emozioni anche il senso etico e il senso morale vengono meno. E così il nesso tra
emozioni, razionalità e morale si chiude.
Persino la teoria economica ha fatto per lungo tempo riferimento allo spirito animale, al
cieco desiderio di possedere, che coincide con l’immagine di un consumatore, di un
attore economico, dominato dalle emozioni, da desideri irrefrenabili, da un istinto senza
controllo.
2.Il paradosso di una razionalità metafisica che definisce la natura umana: Adolf
Hitler
Le due posizioni - quella di Aristotele che sovrappone la caratteristica umana a quella
animale o quella di Platone, Boezio e poi Cartesio che creano una contrapposizione tra
corpo e anima, corpo e spirito o corpo e mente - si basano su un presupposto identico:
l’uomo è tale perché possiede ragione e, grazie a questa, volontà e senso morale.
Il paradosso di questa posizione risulta immediatamente tale quando si prendono in
esame i manuali di eugenetica nazisti, dove la persona ha ragione, volontà e senso
morale (la metafisica della ragione criticata dalla Scuola di Francoforte e in particolare
da Theodor Adorno e Max Horkheimer ) e dove la non degnità di essere persona è
definita non dal punto di vista della società ma dalla natura animale degli stessi
candidati alla soppressione sicché la de-animalizzazione coincide con la depersonalizzazione.
La concezione metafisica che ha esaltato la razionalità e la conoscenza scientifica come
mezzi ideali per affrancare l’essere umano dai molti mali che lo affliggono ha
consentito alle diverse ideologie di tipo totalitario di affermarsi, con il conseguente
corollario di un’idea di ragione come continuo progresso che, liberando dai pregiudizi
propri della teologia e della metafisica astratta, consente sempre maggiore e più
concreta possibilità di controllo delle forze operanti nel mondo economico e politicosociale. Baluardo di questa posizione è certamente Voltaire, secondo il quale l’individuo
diviene in grado di pervenire a una totale conoscenza di se stesso e delle passioni che lo
animano se usa la razionalità.
Questa tesi si è tanto più consolidata quanto più lo sviluppo tecnico scientifico ha
assunto caratteri straordinari in termini di velocizzazione. Tant’è che la riflessione di
Gunther Anders, sulla scia del pensiero di Martin Heidegger, ha messo in evidenza
come la tecnica, in quanto trasformazione radicale della condizione umana attraverso il
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potenziamento illuminato dell’uomo, ha potuto apparire come la dimensione per
eccellenza per salvare l’uomo dal “panico della contingenza”, così da assumere il ruolo
proprio della religione nel mondo antico.
Eppure il buon senso non può non indurci a definire la Shoa come un evento compiuto
da esseri umani che hanno calpestato la morale e l’etica della persona e soppresso
qualsiasi sentimento di compassione verso il proprio simile. Un evento che sanziona lo
smarrimento di un aspetto significativo dell’uomo. In fondo bolliamo il comportamento
freddo, razionale e distaccato adottato dai membri del regime nazista come compiuto da
uomini che hanno perso essi stessi la dignità di persona sopprimendo al contempo
quella di altri esseri umani. Tale atteggiamento è stato esaminato in centinaia di
documenti scritti e visivi, e noi stessi lo valutiamo negativamente, proprio perché,
rinvenendo nei fautori dello sterminio l’incapacità di emozionarsi, di sperimentare
emozioni verso altri esseri umani, consideriamo il loro freddo calcolo e gelido
comportamento come non appartenenti alla morale e all’etica umane. Evochiamo così,
come caratteristica dell’uomo, non tanto la razionalità quanto le emozioni e quella
particolare facoltà umana che è l’empatia.
3.La disarmonia tra emozioni e razionalità
Le attuali ricerche in campo neuroscientifico dimostrano che tra le emozioni e il
processo razionale avviene una vera e propria integrazione su più livelli e nel corso del
tempo, così da determinare uno sviluppo contestuale di entrambi, in alcuni casi
armonico, più frequentemente disarmonico.
Avviene di provare emozioni negative, quali rabbia o paura, e il malessere non sta nel
provarle ma nel tentare di reprimerle, provocando una disintegrazione dell’organismo,
facendo sì che agisca in modo conflittuale, anziché in un tutto unico, generando così una
disarmonia nello sviluppo della personalità, derivante principalmente dallo stress, dallo
sforzo generato dal controllo dei fattori ritenuti negativi.
Fisiologicamente si riscontra infatti che gli elementi stressanti in funzione della loro
gravità provocano nel sangue l’innalzamento dei livelli di sostanza che possono risultare
neurotossiche se presenti a elevate concentrazioni, quali ad esempio i glucocorticoidi,
che sono capaci di causare la morte delle cellule cerebrali situate nelle aree dei circuiti
limdici coinvolti, in particolare a livello dell’emisfero destro, nel processare
informazioni socioemozionali e gli stati del corpo.
La gravità delle alterazioni neuroanatomiche si manifesta in diversi modi (il numero e la
struttura dei neuroni, la crescita dei dendriti, ecc.) che conducono ad alterazioni del
metabolismo cerebrale e quindi anche del numero e della funzionalità delle connessioni
sinaptiche.
Per questa via si suffraga scientificamente il fatto che l’accentuazione forzata su uno dei
due fronti (il razionale o l’emozionale) tende a produrre una dis-integrazione o una nonintegrazione della personalità e del comportamento, con il risultato di evidenti
disfunzioni sulla singola soggettività, nella comunicazione e nei comportamenti
individuali, organizzativi, sociali.
Cosicché, se il controllo delle emozioni è molto forte e il conflitto tra emozioni e
processo logico cognitivo è intenso, vanno perdute cellule e connessioni sinaptiche e
dendritiche che presiedono ciò che noi definiamo comunemente processo razionale, dal
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che ne deriva una relazione d’integrazione tra processo emozionale e processo
razionale è vitale.
Infine, gli studi in campo neuroscientifico aprono un sipario inedito nella comprensione
dei processi empatici tra gli individui, cioè su quella particolare tipologia di intelligenza
relazionale che sottende la maggior parte dei nostri comportamenti e della nostra
comunicazione.
In quest’ottica di processo integrato, gli attuali studi sull’empatia mettono in luce che
con questo termine si deve intendere non solo la capacità di comprendere le emozioni
altrui ma anche la comprensione delle azioni e delle sensazioni, la capacità di intuirne le
cause e di prevedere il comportamento futuro derivante da tutti e tre gli agenti.
4.Il paradosso di una razionalità limitata dall’ assenza di tutte le informazioni utili
e dalla mancanza di memoria: Hercule Poirot
All’evidenza che l’uomo non è nelle condizioni di svolgere un processo razionale
“puro”, poiché fortemente condizionato nelle proprie valutazioni e nei propri
comportamenti da molti fattori - quali la propria psicologica individuale o
l’insufficienza d’informazioni –, ha fatto eco una posizione definita di “razionalità
limitata” che interpreta l’uomo come un essere limitato nell’esercizio della razionalità
da queste insufficienze, benché tale facoltà permanga come il carattere che lo definisce
per antonomasia.
In questa ottica si sono esaltate da un lato la mancanza di informazioni e l’omogeneità
delle informazioni stesse (tesi proposta in primo luogo da Friedrich Von Hayek e
successivamente dalla scuola di economia legata al cognitivismo con i due premi Nobel
per l’economia Herbert Simon e Daniel Kahneman, oltre che da Amos Tversky) su fatti,
oggetti e processi comportamentali. Dall’altro si è puntato l’indice sulle carenze
mnestiche, sia sensoriali sia cognitive, soprattutto perché la memoria sensoriale trattiene
per poco tempo le informazioni.
Questo modo di prendere in esame la natura del comportamento umano non considera
scientificamente il ruolo della memoria emotiva, quella specifica memoria che nei primi
due anni di vita dà origine all’inconscio emotivo, e che svolge un compito e un ruolo
cruciali in una fase della vita nella quale l’ippocampo non è ancora sviluppato ( sede
della memoria autobiografica) e le memorie sono archiviate dall’amigdala (sede delle
memorie emotive). La memoria emotiva è quella che condiziona gran parte delle nostre
reazioni ai comportamenti altrui in età adulta.
Questa idea di razionalità è stata compiutamente interpretata sul piano narrativo e
filmico dal personaggio di Hercule Poirot e dalle sue famose “celluline grigie” che si
mettono in moto in modo efficace ed efficiente man mano che le varie informazioni
vengono ottenute e che la memoria autobiografica recupera dati apparentemente
insignificanti.
5.Il nesso emozioni, processo logico cognitivo e morale
Per Aristotele, da geniale osservatore della realtà quale era, l’emozione è un effetto
congiunto del sentire e del pensare, tant’è che nel De anima definisce l’emozione come
il principio motore dell’esperienza umana. E già per Aristotele in ciò che sentiamo è
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presente il mutamento (il movimento), poiché la gelosia, l’ira, la compassione non sono
semplici emozioni o sensazioni ma sono emozioni sulle quali abbiamo riflettuto, cioè per proferirla nella terminologia del neurofisiologo americano Antonio Damasio, che
per primo ha messo in luce il ruolo fondamentale delle emozioni nei processi cognitivi esse sono sentimenti.
Da questa considerazione di Aristotele sulle emozioni risulta evidente che il pensiero è
movimento, così come poi lo sarà per Edmund Husserl, per John Austin e per la
corrente fenomenologica della filosofia e della psicologia, che ha rivalutato il pensiero
aristotelico. E’ proprio questa caratteristica peculiare delle emozioni che ci permette di
agire nel mondo, di occuparcene e di cambiarlo.
L’emozione è pertanto senza interruzione, è un atto interpretativo di coinvolgimento,
un’attribuzione di senso al mondo, che ci rende sempre legalmente e moralmente
responsabili di ciò che sentiamo.
E proprio la psicologia fenomenologia di Karl Jaspers, di Ludwig Binswanger, di
Eugene Minkowsky, sviluppata in altra chiave da Jean Piaget e da Jerome Bruner, ha
forti implicazioni riguardanti il mondo sociale e le relazioni interpersonali
Secondo questa linea interpretativa, mediante le emozioni gli uomini esternano una
piena consapevolezza l’uno dell’altro. Mediante le emozioni, le persone cercano di
esprimere il significato umano e morale delle istituzioni nelle quali si vive.
Ed è per questa via che sul piano teorico, prima ancora che scientifico, si è intuito il
legame tra emozioni e comportamento etico e morale.
Ancora Immanuel Kant metteva in contrapposizione il senso morale alle emozioni,
infatti nelle Conclusioni alla Critica della ragion pratica afferma: “Due cose riempiono
l’animo di ammirazione e di reverenza sempre nuove e crescenti, quanto più spesso e
più a lungo il pensiero vi si ferma su:il cielo stellato sopra di me e la legge morale in
me. … Non devo presumerle:le vedo davanti a me, e le connetto immediatamente con la
coscienza della mia esistenza. … La seconda innalza infinitamente il mio valore, come
valore di una intelligenza, in grazia della mia personalità, in cui la legge morale mi
rivela una vita indipendente dall’animalità, e perfino dall’intero mondo sensibile ...” e
nella Antropologia pragmatica sostiene che “ essere soggetti a emozioni e a passioni è
ben sempre una malattia dell’animo, perché ambedue escludono il dominio della
ragione”
In entrambi i testi Kant tende a considerare l’amore di sé unicamente come egoismo che
deve essere superato per potersi disporre al bene morale. L’amore di sé appartiene in
primo luogo alla posizione originaria dell’uomo, alla sua animalità orientata da un lato
alla conservazione e propagazione della specie e dall’altro alla comunione con gli altri
uomini, ovvero all’istinto sociale
L’individuo morale di Kant, in conformità con il pensiero illuminista, è colui che è in
grado di sottrarsi agli impulsi sensibili e di non far dipendere la sua azione dal desiderio
di questo o quell’oggetto, o situazione.
“La pura ragione è per sé sola pratica, e dà (all’uomo) una legge universale, che
chiamiamo legge morale.” E alle tesi kantiane più che ad altre filosofie etiche fanno
riferimento sia la
• Dichiarazione per un’etica mondiale approvata il 4 settembre 1993 a
conclusione del secondo Parlamento delle religioni mondiali, il cui testo base è
stato approntato da Hans Küng;
sia la
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•
Dichiarazione universale delle responsabilità dell’uomo proposta il 1 settembre
1997 all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite dall’InterAction Council, un
sodalizio internazionale di ex capi di Stato e di governo, che si è avvalso di una
stesura di Hans Küng. Si basa sulla Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo del 1948.
Entrambe le Dichiarazioni hanno la stessa struttura e il medesimo contenuto: la ricerca
di un consenso sociale di fondo basato sulla Regola kantiana che ogni uomo deve essere
trattato in maniera umana, cioè non come mezzo ma come fine e sulla Regola Aurea del
“non fare agli altri quello che non vuoi che gli altri facciano a te”. Entrambe le
Dichiarazioni ignorano altri due importante filoni etici, il primo legato al principio
dell’intenzionalità, sviluppato da Abelardo, e poi in diverso modo ripreso da Max
Weber e da Hans Jonas, il secondo imperniato sull’etica delle capacità e sviluppato da
Amartya Sen – economista e filosofo – e dalla filosofa america Martha Nussbaum.
6.Componente biologica, sociale e culturale delle emozioni
Difforme dalle posizioni kantiane è il percorso avviato da Charles Darwin circa il
rapporto emozioni e comportamenti. Darwin prende in esame le componenti biologica e
sociale delle emozioni, al fine di costruire su base scientifica una classificazione delle
emozioni in quanto fattore intrinseco all’uomo, a sua volta fattore determinato
dall’adattamento all’ambiente. Darwin esamina quindi sia la componente biologicoereditaria sia l’influenza dell’ambiente sulle emozioni umane, cosicché la relazione tra
componente biologica e aspetti culturali e sociali risulta biunivoca e di complessa
interazione. Sulla base del percorso avviato da Aristotele circa l’individuazione delle
emozioni, continuato da Cartesio e poi da Kant, indica sei emozioni primarie - paura,
rabbia, odio, disgusto, gioia, stupore - distinguendole dalle emozioni “discrete”, “di
base” o “sociali”, che si riferiscono a stati della mente differenziati, come la vergogna,
la tenerezza, il dolore, il piacere, ecc.
Gli studi di psicologia sociale hanno attinto ampiamente dalle riflessioni e dalle tesi
darwiniane circa l’influenza dell’ambiente sociale e culturale nel favorire e nel decretare
le emozioni maggiormente adattative e i comportamenti, da esse derivanti, considerati
accettabili sul piano morale, tanto che l’indifferenza emotiva è ritenuta socialmente
deprecabile.
Molteplici recenti esperimenti hanno mostrato quanto e come le emozioni rivestano un
ruolo cruciale per il pensiero morale. Ad esempio Jorge Moll e Jordan Grafman neuroscienziati dell’Istituto Nazionale della Sanità statunitense - hanno scoperto il nesso
tra il sistema limdico, sede di molte emozioni primarie, e l’atteggiamento morale
dell’individuo. I loro esperimenti con la risonanza magnetica hanno rivelato che quando
l’interesse altrui è posto al di sopra del proprio viene stimolata una parte del cervello
primitiva che si attiva anche in reazione al cibo o al sesso. Identici risultati sono stati
ottenuti nello stesso periodo dagli esperimenti di Antonio Damasio e dei suoi colleghi
dell’Università della California Meridionale, dove pazienti che hanno subito danni in
un’area del cervello denominata corteccia prefrontale ventromediale sono risultati del
tutto privi della capacità di pervenire a risposte morali, sostenendo che i fini giustificano
qualsiasi mezzo. Inoltre, da entrambi gli studi emerge che la moralità non si riduce
soltanto alle decisioni prese dalle persone, ma che è in relazione con il processo
attraverso cui si perviene alla decisione stessa e che molti aspetti del senso morale
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dell’uomo paiono connaturati al cervello come conseguenza di processi evolutivi
probabilmente iniziati in altre specie, confermando per via indiretta così molte delle
intuizioni darwiniane.
Da questo insieme di esperimenti emerge, da un lato, che l’origine della moralità pare
risiedere nell’empatia, cioè nella capacità di riconoscere o di provare per interposta
persona ciò che un’altra creatura sta provando e dall’altro, che il senso morale non è
determinato unicamente dal fattore biologico. Già Darwin negava un riduzionismo di tal
specie, ma ancor più lo dimostrano le succitate ricerche. Infatti, le stesse identiche
ricerche mettono in luce l’ estrema plasticità del cervello umano, tant’è che fino ad una
decina di anni fa si riteneva che fosse impossibile modificare la struttura neurale
dell’individuo nell’arco della vita, mentre ora si constata che cambiamenti significativi e
consistenti avvengono assai celermente nella vita di un individuo e che un ruolo
rilevante lo ricoprono sia il processo di attaccamento affettivo nei primi anni di vita
(John Bowlby e Giovanni Liotti), sia il contesto sociale e culturale.
E’ dunque necessario muoversi entro una prospettiva di interdipendenza tra natura e
cultura secondo la quale le strutture nervose e i processi neurofisiologici condivisi in
modo universale a livello di specie umana sono organizzati in configurazioni differenti
secondo le culture di appartenenza e si modificano nel corso della vita o di generazioni.
Vengono così rifiutate sul piano scientifico le due forme prevalenti di riduzionismo: da
un lato, la prospettiva innatista e neuroculturale che attribuisce un programma nervoso
per ogni emozione, in quanto prodotto delle necessità ancestrali e che si riproduce in
modo meccanico anche quando non è più necessario; dall’altro la prospettiva
culturalista, secondo la quale i comportamenti e la comunicazione sono unicamente il
risultato di influenze culturali e sociali.
7.Il ruolo della formazione tra conformità e conflitto
Sul piano della formazione sono quindi da allontanare sia le tesi sostenute dalla
Programmazione Neurolinguistica - che propone un modello di comportamento efficace
ed efficiente basato sulla massima valorizzazione della componente razionale del
proprio e dell’altrui comportamento e che consiglia tecniche per attivare e sviluppare
tale capacità -, sia l’ Intelligenza Emozionale - che argomenta che risultati più duraturi e
stabili vengono raggiunti riconoscendo che è la componente emozionale a essere
rilevante nel comportamento umano e che pertanto si tratta di identificarla e di attivare
un controllo delle emozioni negative (ad esempio rabbia, paura, odio) e uno sviluppo di
quelle positive, con un’attenzione particolare alla comprensione empatica come forma
fondamentale di intelligenza -. Importante è notare che, all’interno di questo quadro
teorico proposto dall’Intelligenza Emozionale si attua uno confusione tra il termine
simpatia e il termine empatia, quest’ultima intesa come comunicazione emozionale,
caratteristica cardine invece della sola simpatia.
Come è noto in azienda i manager possono influenzare la vita di molte persone e il mito
della razionalità ha teso a signoreggiare.
Nelle aziende la razionalità è definita dallo strumentalismo che è implicito nel
managerialismo. Le persone e le loro azioni vengono vivisezionate solo in relazione agli
effetti che possono produrre rispetto a obiettivi e strategie definite dai manager. Le
aziende si sono sviluppate prevalentemente nel culto della razionalità, considerando la
gestione di emozioni e sentimenti come un impaccio da evitare, un fastidio in grado di
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creare dissesto nel mondo formale. Salvo poi evocare le emozioni a ogni piè sospinto
nella comunicazione pubblicitaria.
La razionalità dei mezzi prescrive il modo con cui raggiungere determinarti obiettivi la
cui individuazione riguarda la razionalità dei fini, che in questa ottica ha evidentemente
a che fare con la sfera dei principi etici e dei valori dell’uomo. In tal modo si accettando
acriticamente molti presupposti della concezione metafisica della razionalità.
Anche l’Intelligenza Emozionale è stata usata per ottenere risultati rapidi, immediati e
quantificabili; testimonianza ne è il proliferare di test per misurare questo tipo di
intelligenza. E il tema dello sviluppo del sé in azienda ha assunto un obiettivo
esplicitamente strumentale, quello di modellare e di “fiaccare” le emozioni negative. Si
è così preso atto che la complessità relazionale non può essere ignorata e si è cercato di
normarla, generando una sottile sudditanza. Si tende ad imporre una struttura di
costrizione del carattere, dando assoluta preminenza all’obbedienza alla norma, alla
capacità di abnegazione e alla volontà e si favorisce la formazione di personalità
incapaci di comunicare con se stesse, di amare se stesse, di entrare in rapporto con le
proprie componenti inconsce.
Le persone così formate tenderanno ad affermare che tutto può essere risolto con la sola
volontà, osservando i precetti morali ed etici giusti, e pertanto esse tenderanno a
caricare anche sugli altri pesi, che esse stesse non sono, in realtà, in grado di sopportare.
Negare il desiderio, escludere le passioni e le emozioni, ridurre il dolore, evitare il
pensiero della morte vuol dire togliere di mezzo componenti essenziali del nostro
esistere, vivere un’esperienza dimezzata che solo chi pretende di chiudersi
nell’indifferenza verso la realtà e verso gli altri può, in ipotesi, raggiungere.
La rottura dell’immediatezza istintuale derivante dalla consapevolezza autoriflessiva
comporta una serie di interrogativi: chi sono, dove vado, cosa debbo fare, che senso ha
la vita, cosa avviene dopo la morte.
Ne consegue che il principio che governa sia la Programmazione Neurolinguistica sia
l’Intelligenza Emozionale è la conformità.
L’individuo, in entrambe le prospettive è legato mani e piedi all’immagine di sé che
emerge dalla relazione con gli altri, tanto che teme un giudizio negativo e cerca di
suscitare opinioni positive e si appoggia sugli altri per stabilire il suo punto di vista, di
concerto con essi.
La conformità riveste un ruolo sociale assai rimarchevole, poiché il consenso del gruppo
risulta necessario in numerose circostanze ed è spesso preferito all’isolamento che
implicherebbe la certezza di avere ragione contro gli altri.
Ne consegue che alla conformità è attribuito il compito di facilitare l’azione individuale
e sociale, mentre il suo opposto, la devianza, l’impedisce.
8.Il conflitto è l’anima dell’etica e della morale
Non si tratta di risalire, purificando se stessi, a un proprio sé originario già dato
(ascetica di tipo platonico) , così come non si tratta di sviluppare un autocontrollo sulla
propria vita secondo un modello ideale precostituito (stoici, epicurei, cristianesimo) e
neppure di decidere arbitrariamente l’essere che vogliamo diventare (esistenzialismo di
Paul Sartre). Si tratta invece di lasciarsi coinvolgere nell’esperienza concreta
dell’esistenza sfuggendo ad ogni tentazione di esorcizzarne l’inconciliabilità.
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Un sistema adattativo comporta di per sé una grado di perdita e genera la paura della
differenza.
Il rifiuto dell’influenza minoritaria deriva dalla paura di essere diversi, sicché gli
individui o i gruppi evitano la minaccia di vedersi categorizzati come devianti.
Nella percezione della minoranza, ciò che è saliente, a prima vista, è la sua diversità, e
non il contenuto del suo discorso.
La sicurezza della minoranza suscita curiosità. Si cerca di mettersi al posto dell’altro per
comprendere come sia possibile essere qualcosa d’altro, non fare come fanno tutti.
Nel contempo si ha paura di essere messi ai margini o espulsi dal gruppo nel timore di
essere giudicati diversi.
Si innesta così un conflitto, ma è evidente a ognuno di noi che il vissuto del conflitto
non è mai quello di una lotta piacevole. Per chi vi è implicato, si tratta spesso di un
momento critico e a volte penoso. Spesso il conflitto è difficile da vivere, ma è
strutturante, poiché la nostra opposizione ci fa sentire che non siamo completamente
vittime delle circostanze e che possediamo un’identità originale e unica.
Il comportamento non conforme è quindi quello che genera maggiori interrogativi, che
crea una contesa interna ed esterna e che richiede una dose “massiccia” di
autoriflessione. Per queste caratteristiche il conflitto è l’anima dell’etica e della morale e
fa dell’individuo un essere dinamico. Per i protagonisti, i conflitti rappresentano un
punto nodale di ancoraggio dei giudizi, dei sentimenti, delle azioni. Per i bersagli,
costituiscono occasioni di rimessa in discussione che li inducono a vivificare idee
passeggere e azioni consuetudinarie, oppure ad abbandonare le une e le altre.
Il conflitto consente di attuare una continua reinterpretazione di se stessi e del mondo, di
rivedere i propri bisogni per metterli in discussione o coltivarli e non solo soddisfarli.
Da queste considerazioni emerge il legame indissolubile tra percorsi di crescita
professionale e percorsi di crescita personali e viceversa, in una continua e costante
interazione.
Infine, si tratta di non confondere l’esperienza del conflitto con la sua importanza e il
suo valore sul piano sociale, il che comporta un chiarimento circa i legami fondamentali
che connettono, da un lato, il conflitto e la negoziazione dell’influenza e, dall’altro,
questi con i cambiamenti sociali.
Il discorso eterodosso deve non solo contribuire a troncare il consenso al mondo del
senso comune, professando pubblicamente la rottura con l’ordine abituale, ma deve in
primo luogo produrre un nuovo senso comune e investire di legittimità le pratiche e le
esperienze tacite o rimosse da un intero gruppo con il riconoscimento collettivo.
L’esercizio dell’influenza non può essere accantonato nella sfera interindividuale. Al
contrario, l’intersoggettività tende a farci apprendere con un unico colpo d’occhio la
costituzione dei rapporti di senso con e per gli individui e la loro iscrizione in un campo
sociale a dimensioni e determinazioni multiple.
Nessuno si può considerare, in virtù di una naturale ostinazione, al riparo dall’influenza
e ognuno è idoneo ad esercitare influenza, riproducendola, in rapporto a inserimenti
sociali connotati di specifici significati, significati che si collocano nel cuore stesso
dell’articolazione individuo-società, nell’epicentro di ogni demarcazione delle scienze
sociali, delimitandone così il punto d’incontro e la possibilità di fecondazione reciproca.
Pertanto si tratta di costruire uno statuto della persona in grado di coniugare libertà e
responsabilità verso se stessi e verso le relazioni, quale nuova base delle relazioni con
sé, con le organizzazioni e con il sociale.
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9. Etica e morale: interdipendenza vitale
Ricordiamo che la morale è connessa alla dimensione sociale e che il termine è di
derivazione latina, mentre l’etica, termine di derivazione greca, pone l’accento sul
carattere individuale.
È proprio l’etica che invita a scoprire le proprie possibilità come processo, come
scoperta, senza una conclusione definitiva e non alla ricerca di una coerenza a priori
normativamente determinata.
L’etica richiama il fatto che si tratta di fare i conti con un’ambivalenza dell’esistenza,
rafforzando il proprio potere individuale, ovvero quale capacità pratica di gestire le
contraddizioni proprie dell’esistenza, nel rispetto del rapporto di reciproco
riconoscimento che la costituisce.
La morale attinge all’esperienza etica traducendola in determinazioni culturali
socialmente generalizzabili, mentre l’esperienza etica può, a sua volta, riferirsi alla
morale come a un insieme di risorse da cui trarre orientamenti per il suo impegno
pratico.
Possiamo configurare la morale come il risultato dell’interpretazione dei caratteri
generali della situazione esistenziale e del carattere costitutivo che in essa assume la
dimensione del reciproco riconoscimento, in quanto volta a definire in senso
essenzialmente cognitivo-normativo tali caratteri generali, la morale ha soprattutto la
funzione di orientare verso valori e principi condivisi (regole) che garantiscano la
convivenza e la solidarietà sociale.
L’etica si presenta come l’invito a vivere fino in fondo nella pratica l’esistenza,
prendendola per il suo verso, secondo un’autenticità che non può essere definitivamente
costituita da regole, ma che rinvia alle scelte concrete e al senso di responsabilità che
ciascuno deve, di volta in volta, assumere in base al proprio giudizio.
Ne deriva che la morale è ampia quanto a geografia e breve in quanto a memoria,
mentre l’etica è tipicamente circoscritta dal punto di vista geografico ma di memoria
lunga. La morale ha relazioni sottili in quanto più vaste nello spazio e più brevi nel
tempo e può riguardare anche soggetti che non si conoscono, l’etica ha relazioni intense
poiché maggiormente circoscritte nello spazio, più lunghe nel tempo e con soggetti
molto prossimi.
La morale attinge all’esperienza etica, traducendola in determinazioni culturali
socialmente generalizzabili, mentre l’esperienza etica può a sua volta riferirsi alla
morale come un insieme di risorse da cui trarre orientamenti per il suo impegno pratico:
la nostra assunzione di responsabilità quotidiana.
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STRILLI
PAG.2 Le emozioni sono state viste come una forza che impedisce il comportamento
etico o morale
PAG.3 La concezione metafisica che ha esaltato la razionalità ha consentito alle diverse
ideologie di tipo totalitario di affermarsi
PAG.4 La memoria emotiva è quella che condiziona gran parte delle nostre reazioni ai
comportamenti altrui in età adulta
PAG.5 In ciò che sentiamo è presente il mutamento, un movimento
PAG. 6 Indifferenza emotiva è ritenuta socialmente deprecabile
PAG. 7 In azienda i manager possono influenzare la vita di molte persone
PAG.8 Si tende ad imporre una struttura di costrizione del carattere
PAG. 9 Il conflitto fa dell’individuo un essere dinamico
“Per approfondire il dialogo con gli Autori”:
Maria Grazia Turri, docente di Linguaggi della Comunicazione Aziendale presso
l’Università degli Studi di Torino e Consulente Aziendale
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10121 Torino
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