1 definizione della medicina di laboratorio

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INDICE
Definizione della medicina di laboratorio
Pag 2
Finalità della medicina di laboratorio
Pag 2
Finalità e modalità di richiesta della medicina di laboratorio
Pag 3
Finalità di screening
Pag 3
Finalità diagnostiche
Pag 3
Modalità di richiesta
Pag 4
La variabilità
Pag 5
Variabilità pre-analitica
Pag 6
Variabilità analitica
Pag9
Il controllo di qualità
Pag9
I valori di riferimento
Pag11
Logica diagnostica
Pag12
Livelli decisionali
Pag15
Scelta delle analisi
Pag15
Tecniche separative
Pag20
Tecniche analitiche
Pag23
Esame delle urine e funzionalità renale
Pag34
Diagnostica enzimatica
Pag46
Markers tumorali
Pag64
Malattie metaboliche acquisite : La celiachia
Pag82
Tossicità indotta da sovradosaggio di vitamine
Pag86
DEFINIZIONE DELLA MEDICINA DI LABORATORIO
1
La medicina di Laboratorio è quella disciplina che studia in campioni biologici provenienti
dall’uomo (analisi in vivo: per esempio spettroscopia a risonanza magnetica nucleare) quei
parametri fisico-chimici che possono fornire informazioni su processi fisiologici e/o
patologici che avvengono nell’uomo stesso a vari livelli d’organizzazione strutturale, e
quindi di sistemi, d’organi, di tessuti, di cellule, ed anche di singole molecole (vedi DNA,
proteine, ecc).
FINALITA’ DELLA MEDICINA DI LABORATORIO
La finalità della medicina di laboratorio è quindi in sintesi, quella di fornire informazioni,
vale a dire elementi che, da soli ma più frequentemente unitamente ad altri raccolti dal
clinico, indirettamente (strumentali) o direttamente (storia clinica, esame obiettivo),
consentano di formulare una diagnosi con la più alta probabilità statistica, oppure di
coadiuvare il clinico nella scelta di una decisione, sia essa un approfondimento diagnostico,
oppure una modifica terapeutica.
Affinchè la Medicina di Laboratorio possa fornire informazioni realmente utili occorre,
però, che il medico ne conosca, al pari di altri strumenti diagnostici, l’uso più appropriato.
In breve, cioè, egli deve conoscere:
a) quali indagini di laboratorio richiedere, vale a dire conoscere le informazioni su base
fisiopatologica che si possono ricavare dall’utilizzo di specifici test;
b) quando richiedere un test, cioè in che momento temporale dell’iter patologico del
paziente un test fornisce l’informazione voluta;
c) come interpretare correttamente il risultato di un test, vale a dire come valutare il
risultato ottenuto, congiuntamente a quelli relativi alle altre indagini eseguite sullo
stesso paziente e come confrontarlo criticamente con quello atteso, anche in termini di
probabilità statistica, per una certa patologia.
Acquisiti questi elementi, il clinico sarà in grado di utilizzare al meglio tutte le potenzialità
diagnostiche offerte dal laboratorio e, cosa ancora più importante, tenderà ad instaurare
un dialogo reciprocamente proficuo con lo specialista della medicina laboratoristica, al
quale farà riferimento come consulente professionale, cioè come colui che lavorando in
sintonia gli consentirà di pervenire più rapidamente alla formulazione diagnostica.
FINALITA’
E
MODALITA’
DI
RICHIESTA
DELLE
INDAGINI
DI
LABORATORIO
2
Abbiamo già sottolineato che la richiesta di indagini di laboratorio da parte del clinico è in
realtà una richiesta di informazioni; essa può essere fatta per motivi diversi, ma il fine
ultimo è sempre quello di prendere una decisione clinica.
Le principali finalità per la richiesta di indagini di laboratorio sono le seguenti:
FINALITA’ DI SCREENING
Sono indagini che vengono chieste in assenza di un segno o sospetto clinico definito, ma
che risultano utili nell’ambito della Medicina Preventiva o Sociale (per esempio Test
mirati quali quelli per la fenilchetonuria e per l’ipotiroidismo, nei neonati ; test mirati per
l’epatite o per l’AIDS su sangue donato che deve essere trasfuso; ricerca di composti
tossici quali piombo, organofosfati, selenio, mercurio, ecc. nell’ambito delle malattie
professionali; ricerca di droghe quali anfetamine, marijuana, ecc. in atleti; test non mirati,
quali quelli più noti come pannelli di “check-up”, cioè indagini su soggetti presunti sani
per finalità diverse, per esempio assicurative.
FINALITA’ DIAGNOSTICHE
Sono indagini richieste come ausilio o anche indirizzo alla formulazione diagnostica, per
confermare o escludere un sospetto diagnostico o per riformularne un altro.
In questo caso le modalità di richiesta potranno variare dai profili metabolici generali o
profili ad ampio raggio (sempre basati su sospetti di alterazioni funzionali), a uno o pochi
test mirati. C’è da sottolineare a questo proposito che, aumentando il numero di indagini
richieste, aumenta la probabilità statistica di ottenere, in una persona apparentemente
sana, risultati anormali (cioè al dì fuori dell’intervallo di riferimento) secondo una
progressione matematica: la probabilità passa infatti dallo 0.05% per un singolo test a
0.40% per 10 test.
Ciò se da un lato suggerisce di limitare le richieste di analisi a quelle realmente utili per
l’esplorazione funzionale di uno o più organi o metabolismi che si intendono studiare,
adottando preferenzialmente profili concordati preliminarmente tra il clinico e lo
specialista di laboratorio, dall’altro indica che la richiesta di un pannello più esteso di test
a volte può abbreviare i tempi di degenza del paziente permettendo di individuare
alterazioni clinicamente silenti.
Un singolo test, o gruppi di test, possono fornire informazioni prognostiche (per es., livelli
di transaminasi in corso di epatite; livelli del CEA in corso di carcinoma) o essere utilizzati
per il monitoraggio terapeutico o del decorso di una malattia (per es.,tempo di
protrombina per monitorare la terapia con anticoagulanti nel post-infarto; esame
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emocromocitometrico per valutare la tossicità di farmaci antiblastici; emoglobina
glicosilata e fruttosamina per il monitoraggio del paziente diabetico in terapia).
MODALITA’ DI RICHIESTA
La modalità di richiesta delle indagini di laboratorio può variare, come abbiamo già
accennato, in dipendenza della logica diagnostica seguita dal medico, attribuibile in parte
alla sua formazione culturale ed in parte allo specifico problema clinico in esame.
Quando la situazione clinica è complessa e non facilmente inquadrabile si avrà la tendenza
a richiedere le indagini secondo profili diagnostici più allargati, tendenti ad esplorare vie
metaboliche o funzioni d’organo, mentre, quando la situazione clinica è di più immediato
riconoscimento da parte del medico, si avrà più la tendenza a richiedere test diagnostici
mirati, che possono essere di prima istanza, oppure test di approfondimento, anche
talvolta conseguenti a un profilo biochimico generale risultato alterato.
Quando il quesito diagnostico richiede una risposta immediata (entro 1-2 ore dall’invio del
campione biologico), così come avviene in alcuni reparti clinici per particolari sospette
patologie (pronto soccorso, chirurgia d’urgenza) dove la vita di un paziente può essere in
pericolo e necessita una pronta decisione clinica, le indagini possono essere richieste come
test di urgenza o di emergenza.
Si tratta ovviamente di un gruppo più ristretto di indagini, selezionate opportunamente
per rispondere a quesiti clinici più drammatici, come modificare prontamente una terapia,
intervenire o meno chirurgicamente, definire una diagnosi per instaurare un’adeguata
terapia ecc. (per es., CK-MB, nell’infarto miocardico, P-amilasi nella pancreatite acuta,
emogasanalisi nei disturbi da iperacidosi o alcalosi, elettroliti nelle gravi alterazioni
metaboliche, ematocrito nelle emorragie, glicemia nei pazienti gravi diabetici, tempo di
protrombina nelle turbe della coagulazione, anche da farmaci, ecc.).
Quando l’iter diagnostico è stato completato, può essere necessario richiedere test singoli o
gruppi di test mirati per seguire il decorso della malattia (per es., CK-MB, LDH, nel
decorso dell’infarto acuto del miocardio) o per effettuare il monitoraggio di una terapia
(per es., farmaci anticoagulanti nel post-infarto, farmaci antiepilettici, ecc.).
LA VARIABILITA’
Il referto di laboratorio si esprime con un risultato che il medico richiedente deve
interpretare confrontandolo con i valori di riferimento.
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Il dato finale che esce dal laboratorio può essere influenzato da numerosi fattori mal
controllabili o mal controllati.
Alcuni di questi sono legati al paziente, altri alla conservazione dei campioni ed altri
ancora ai metodi di analisi.
Avremo pertanto
•
variabilità pre-analitica
•
variabilità legata al paziente
•
variabilità legata alla conservazione del campione
•
variabilità analitica, legata al metodo di analisi
VARIABILITA’ PRE-ANALITICA
VARIABILITÀ PRE-ANALITICA LEGATA AL PAZIENTE
E’ evidente che a maggior variabilità corrisponda maggior difficoltà interpretativa dei
risultati.
Non è possibile eliminare la variabilità, si può solamente tentare di restringere i limiti.
Esiste una variabilità individuale che non è in alcun modo eliminabile né conoscibile a
priori.
Per ridurla, la popolazione può essere raggruppata in classi omogenee come, ad esempio, i
maschi e le femmine, gli adulti e i bambini, ecc.
Una sorgente notevole di variabilità è costituita dal fatto che il paziente, specialmente
quello ambulatoriale, ben difficilmente è standardizzato quanto ad abitudini alimentari,
all’assunzione di farmaci, all’attività fisica, ecc. e talvolta può essere difficile comprendere
che l’origine di un dato apparentemente abnorme risiede in una di queste cause.
L’assunzione di medicamenti può essere importante anche perché può sfuggire
all’indagine anamnestica.
Il paziente riferisce infatti prevalentemente quello che lo colpisce, mentre bisogna
compiere un interrogativo più accurato per scoprire fatti che secondo lui non sono
importanti ed ai quali non ha prestato molta attenzione (un medicamento che ha “sempre”
preso, che ritiene innocuo,ecc.).
La dieta è un altro importante agente di variabilità.
Per questo motivo i prelievi vengono generalmente eseguiti dopo un periodo di digiuno di
6-8 ore.
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Vi sono certi tipi di analisi che richiedono una dieta particolare per un certo periodo di
tempo prima dell’esecuzione, come, ad esempio le prove da carico con glucosio o la ricerca
del sangue occulto nelle feci.
La postura, il riposo fisico ed altre condizioni possono pure influenzare i risultati
dell’analisi.
Ricordo ad esempio come l’attività fisica possa far aumentare la concentrazione ematica
di certi enzimi di provenienza muscolare, come la CK.
Non esiste purtroppo una regola generale ed unica che ci permetta di evitare questi
inconvenienti.
Soltanto la conoscenza delle singole analisi può indicare le attenzioni da applicare.
E’ buona norma seguire protocolli concordati con il laboratorio in modo da ridurre al
minimo la variabilità e le possibilità di errori interpretativi.
Un aspetto particolare che può portare a variabilità è costituito dai ritmi biologici, tra
questi in natura sono comuni quelli circadiani (alternanza luce buio) od anche quelli circamensili (ciclo mestruale).
Sono molto note le variazioni circadiane del cortisolo plasmatico, che vengono proprio
sfruttate a scopo analitico per valutare il controllo della funzione surrenalica.
VARIABILITA’ LEGATA AL PRELIEVO ED ALLA CONSERVAZIONE DEL
CAMPIONE
Si possono prelevare diversi fluidi, secrezioni o tessuti, e solitamente si prelevano sangue e
urine.
Nel caso del sangue, si preleva con maggior frequenza il sangue venoso.
Il prelievo di sangue deve essere effettuato in presenza di anticoagulanti o conservanti.
Purtroppo non esiste un anticoagulante o un preservante universale e quindi, a seconda
del tipo di analisi, è necessario usare anticoagulanti o preservanti diversi.
In generale, quanto più a lungo il campione deve essere conservato tanto maggiori sono le
probabilità di alterazioni da varie cause.
Alcune di queste come l’evaporazione del solvente, la fotolisi, la polimerizzazione, ecc.
sono di natura fisica o chimico fisica.
Molto più importante è la denaturazione, poiché le proteine denaturate variano la loro
capacità catalitica e quindi possono essere falsati i risultati di dosaggi enzimatici.
Spesso le cause di alterazione sono metaboliche o biologiche, come l’impianto di batteri, la
modificazione dei gradienti di concentrazione o il fatto che alcuni metabolismi possono
continuare anche dopo il prelievo facendo di conseguenza variare le concentrazioni di
alcuni analiti.
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Per ovviare a questi problemi si possono adottare i seguenti mezzi:
-
addizionare conservanti
-
tenere i campioni al freddo e/o al buio
-
eseguire i dosaggi il più presto possibile
A parte l’ultimo espediente che presenta il solo problema dell’organizzazione e del tempo
richiesto per il trasporto ai centri di analisi, tutti gli altri presentano dei pro e dei contro.
Per questo si preleva il campione biologico con modalità diverse a seconda delle analisi o
dei gruppi di analisi che si intendono effettuare.
L’emolisi è una delle cause che possono portare ad alterazioni importanti dei risultati
analitici, in quanto il passaggio di sostanze dai globuli al plasma può alterare i risultati.
Un caso classico è quello del potassio, più concentrato nelle cellule che al di fuori di esse.
L’emolisi può essere determinata da diverse cause:
a) Chimica. Presenza di acqua, alcool, detergenti, nell’ago, nella siringa o nei contenitori.
b) Meccanica. Specialmente quando si travasa il sangue dalla siringa alle provette senza
togliere l’ago.
c) Fisica. E’ dovuta alla conservazione prolungata del campione in condizioni poco
idonee (troppo caldo o troppo freddo, congelamento del sangue)
d) Biologica. In presenza di difetti dell’eritrocita.
Le prime due cause di emolisi sono oggi ovviate dall’uso di vacutainers sotto vuoto.
Tutte vengono limitate dalla rapida separazione tra parte figurata e plasma.
LA VARIABILITA’ ANALITICA
La variabilità analitica è quella legata al metodo di analisi.
L’attendibilità di un metodo analitico dipende da diversi fattori, tra cui l’accuratezza, la
precisione, e la specificità.
Questi concetti si esprimono meglio al negativo, per cui l’inaccuratezza di un metodo
riflette l’errore sistematico e l’imprecisione quello casuale.
Se vogliamo, possiamo pensare ad un fucile da caccia a pallini.
L’imprecisione dà l’ampiezza della rosa, l’inaccuratezza dà la distanza tra il punto colpito
e quello mirato.
La sensibilità è data dalla differenza minima delle quantità di una sostanza rilevabili in un
campione.
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La specificità indica quanto il metodo distingue tra una sostanza e possibili sostanze
interferenti.
E’ evidente che la scelta di un metodo, quando, come sovente accade, ne esistano più di
uno, è legata a numerosi fattori.
Infatti un metodo dovrebbe essere il più accurato, preciso, sensibile, specifico (e poco
costoso) possibile.
La scelta è il frutto di un compromesso che tiene conto di tutti i fattori e dello scopo per
cui deve venire impiegato.
IL CONTROLLO DELLA QUALITA’
Un controllo che dovrebbe essere costantemente espletato è quello di come nel singolo
laboratorio il metodo di analisi venga eseguito: vale a dire il controllo della qualità.
E’ evidente che le ragioni più varie, come errori casuali troppo frequenti o grandi, dovuti
a distrazione, sbagli nel prelievo di campioni o di reagenti, possono rendere inattendibili i
risultati.
Più spesso, l’errore non è casuale (le procedure meccanizzate abbassano la probabilità di
errore umano), ma è sistematico.
Il metodo va fuori taratura per alterazioni di reagenti o di apparecchiature.
E’ quindi necessario tener d’occhio i metodi analitici effettuando il controllo di qualità,
per la cui esecuzione esistono diversi procedimenti.
Se ne citano solo alcuni.
Le carte di controllo di Shewhart-Levey-Jannings (fig. 1) si costruiscono dosando per una
ventina di giorni dei campioni a contenuto noto (esistono dei sieri liofilizzati che si possono
acquistare) dell’analita da determinare.
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Si calcola così la media e l’errore standard.
In seguito si effettuano analisi e ogni giorno si inserisce un campione noto.
Il concetto è che i dati devono distribuirsi casualmente intorno alla media.
Se questo non avviene (sette valori consecutivi progressivamente crescenti o decrescenti,
oppure sette valori consecutivi al di sopra o al di sotto della media oppure un valore
ripetuto superiore o inferiore alla media di tre volte l’ES) il metodo è fuori controllo e
quindi bisogna intervenire.
Un altro metodo è quello della somma cumulativa (cusum) .
Bisogna sapere la media del metodo.
Si fa quindi la media dei campioni esaminati ogni giorno e si sottrae alla media del
metodo.
Le variazioni dei singoli giorni tendono a compensarsi e la linea è una spezzata oscillante
intorno al valore zero.
Esistono altri metodi per la valutazione del controllo di qualità, sia intralaboratorio che
interlaboratorio.
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I VALORI DI RIFERIMENTO
Il dato di laboratorio serve per poter decidere un comportamento verso un paziente.
Bisogna quindi avere il mezzo per confrontare il dato ottenuto con quello della
popolazione da cui il paziente stesso è tratto.
La rilevazione statistica dei dati permette da molti dati singoli di ricavare una regola
generale che descriva una popolazione nella maniera più accurata possibile.
Nell’interpretare il dato di laboratorio nella pratica medica è invece necessario trasferire
il generale al particolare, il che è molto difficile ed insicuro. Si dovranno stabilire dei
valori al di fuori dei quali si presume vi sia un’anormalità con un limite di errore
accettabile.
Vorrei far osservare che la parola normale ha diversi significati.
In senso statistico definisce un tipo di distribuzione, in senso epidemiologico può essere
confusa con il valore tipico di una popolazione; questo però non significa desiderabile
come ha insegnato lo studio Framingham sulla colesterolemia nella popolazione americana
e la sua correlazione con il rischio di incidenti cardiovascolari.
In senso clinico la parola normale spesso indica un’assenza di una certa malattia. Si
preferisce quindi parlare di “VALORI DI RIFERIMENTO”.
Questo termine indica a differenza del termine “normale” non un fatto assoluto, ma
relativo all’uso che se ne vuole fare.
I valori di riferimento vengono arbitrariamente fissati come pari alla media
2 E.S.; vi si
include così circa il 95% della popolazione sana. Se la distribuzione non è statisticamente
normale (cioè non è descrivibile con una gaussiana) e non si può rendere normale con
procedimenti matematici, si usa prendere un limite inferiore in percentuale 2.5% e come
limite superiore quello 97.5% degli individui affetti dalla patologia.
Ciò vuol dire che per il 5% dei casi si avranno valori troppo bassi o troppo alti senza che
vi sia una patologia presente (falsi positivi).
La probabilità che un individuo sia un falso positivo sono (1-0.95n), ove n è il numero di
analisi effettuate.
Ripetendo 10 volte la medesima analisi sullo stesso soggetto avremo il 40% di probabilità
che almeno una volta il risultato cada tra i falsi positivi.
Tra parentesi, questo ci dice anche di non fidarci mai del tutto di un solo test eseguito una
sola volta, specialmente in assenza di altri segni.
La produzione di valori di riferimento è piena di difficoltà.
Infatti si presuppone che la popolazione sia standardizzata almeno per le fonti di errore
più probabili.
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Nella parte dedicata alla variabilità pre-analitica legata al paziente si è già detto come vari
parametri fisiologici possano influenzare i risultati dell’analisi.
Un aspetto delicato nell’elaborazione dei valori di riferimento è dato dalla valutazione
delle probabilità di malattia o di rischio di malattia per ciascun ambito di valori.
LOGICA DIAGNOSTICA
Per i motivi sopra esposti, non si può affermare a priori che un valore all’interno
dell’intervallo di riferimento appartenga ad un individuo senz’altro sano ed uno
all’esterno ad un individuo senz’altro ammalato.
Quindi alcuni pazienti sani possono presentare dei valori non inclusi nei valori di
riferimento.
D’altronde può accadere anche il contrario e cioè che persone ammalate presentino valori
che cadono all’interno dei valori di riferimento.
La produzione di falsi negativi e di falsi positivi è legata alla distribuzione dei valori nelle
due popolazioni.
Si possono avere 3 situazioni estreme:
1) Le medie sono molto lontane e l’E.S. è molto piccolo: è il caso ideale. Le probabilità
che si possa far confusione tra il sano sono minime.
2) Le medie sono identiche e la distribuzione intorno alle medie simile. In questo caso il
test non è utile per la patologia che si vuol indagare.
3) Le medie sono abbastanza lontane, ma si ha anche una discreta sovrapposizione dei
valori.
E’ evidente che i casi 1 e 2 sono teorici. Infatti il primo presuppone che non vi sia
sovrapposizione tra i sani ed i malati ed il secondo che la sovrapposizione sia completa
(inutile prospettare l’uso del test). Nel caso intermedio il test sarà più o meno utile in
dipendenza della minore o maggiore sovrapposizione tra i valori ottenuti in una
popolazione sana ed in una popolazione malata.
Si possono cioè avere oltre ai veri positivi (VP) ed ai veri negativi (VN), anche i falsi
positivi (FP) ed i falsi negativi (FN).
Si definiscono quindi come:
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-
sensibilità di un test il rapporto tra i veri positivi e tutti i malati, cioè:
VP
SENSIBILITA’ = ________ X 100
VP + FN
-
specificità il rapporto tra i veri negativi e tutti i sani, e cioè:
VN
SPECIFICITA’ = ________ X 100
VN + FP
E’ evidente che un test ottimale dovrebbe essere contemporaneamente molto sensibile e
molto specifico.
Nell’ambito dello stesso test, la specificità e la sensibilità sono due caratteristiche
interdipendenti, cioè quando si abbassa l’una s’alza l’altra e viceversa.
Le due caratteristiche del test possono essere dosate scarificando l’una all’altra. Basta
variare il valore di riferimento del test spostando il punto di discriminazione tra positivo e
negativo.
Il punto di discriminazione più conveniente di un test si ricava dalle curve ROC (Receiver
Operating Characteristics), ottenute mettendo in grafico il rapporto tra sensibilità e
specificità.
Il clinico però non è direttamente interessato alla sensibilità e specificità analitiche a
priori, ma piuttosto alla probabilità di trovarsi di fronte ad una persona sana o malata
dato il risultato, normale o patologico del test (probabilità a posteriori).
-
Il valore predittivo positivo (sensibilità diagnostica) è il rapporto tra i veri positivi
e tutti i positivi al test, e cioè:
VP
valore predittivo positivo =________ X 100
VP + FP
Il valore predittivo (che ci indica la percentuale dei pazienti ammalata dopo test positivo)
non dipende soltanto dalla sensibilità e dalla specificità analitiche del test, ma anche dalla
prevalenza della malattia.
-
La prevalenza è il numero dei pazienti che sono affetti da una data malattia
(calcolati su 100000 individui)
12
L’incidenza è il numero di persone (sempre ogni 100000) che contraggono la malattia ogni
anno. Quindi esiste la seguente relazione:
-
PREVALENZA = INCIDENZA X DURATA
Le probabilità a posteriori (probabilità di essere un VP, dopo l’esecuzione del test) sono
influenzate dalla prevalenza (Teorema di Bayes).
Maggiore è la prevalenza, maggiore è la probabilità che il risultato positivo del test
corrisponda alla presenza della malattia, mentre per prevalenze piccole aumentano le
probabilità che il risultato positivo corrisponda ad una falsa positività.
Detto in altre parole, la prevalenza sposta il punto discriminante.
In tutte queste considerazioni si dovrebbe anche dare importanza al cosiddetto costo
clinico, ossia al danno che deriva al paziente in caso di falsa positività o falsa negatività.
Per esempio, nel caso di una malattia grave, ma facilmente curabile può essere più
conveniente trattare un FP che non trattare un FN.
Il contrario sarà vero nel caso di una malattia non grave, ma curabile soltanto con terapie
molto tossiche e costose.
Tutto questo discorso serve molto per migliorare l’inferenza diagnostica o per svelare i più
frequenti errori di stimi commessi dai medici, ma non è uno strumento pratico per
risolvere quesiti diagnostici al letto del malato.
In caso di dubbio è opportuno:
-
Ripetere il test
-
Raccogliere altri dati
-
Seguire il paziente nel tempo
LIVELLI DECISIONALI
I valori di un test possono essere dispersi in una vasta gamma di valori entro e fuori i
valori di riferimento per l’individuo sano e per varie patologie.
A questo punto è necessario per il medico valutare il rischio per il paziente.
Poiché si sa bene che certi valori di laboratorio possono essere una spia di complicazioni
più o meno imminenti, possono venir fissati dei valori per i quali vari il comportamento
medico.
Analogamente alla determinazione degli intervalli di riferimento per la persona sana, si
possono determinare intervalli di riferimento per certe complicazioni.
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SCELTA DELLE ANALISI
Le analisi da richiedere vanno quindi scelte in modo da dare informazioni complete ed
esaurienti, da aver il minor disturbo per il paziente ed il minor costo possibile.
Un punto di fondamentale importanza è il sapere quello che si vuole dal test che ci
proponiamo di eseguire.
La scelta di un test piuttosto che di un altro si deve quindi basare
non solo su considerazioni statistiche, ma anche e soprattutto su considerazioni cliniche,
perché è necessario conoscere lo scopo per cui un dato test viene eseguito.
Un inquadramento fisiopatologico degli analiti da determinare, il sapere cioè il perché in
una data malattia un analista subisce delle variazioni può essere molto utile al medico per
gestire adeguatamente la propria professione.
INDAGINE BIOCHIMICO-CLINICA
Le indagini biochimico-cliniche sono un importante e talvolta indispensabile mezzo di
indagine nella pratica della medicina e della chirurgia. Il reperto del laboratorio
biochimico è un potente strumento nella mano del clinico. ma come tutti gli strumenti
efficaci. deve saper essere usato. sia nel tipo di analisi da scegliere sia nelle
interpretazioni.
MOTIVI
Vi sono molti motivi che possono indurre il medico alla richiesta di un'indagine
biochimico clinica che si possono fondamentalmente raggruppare in motivi a: vantaggio
del paziente, a vantaggio dei medico e a vantaggio dell'ente o della collettività.
Un'indagine di laboratorio può risultare utile al paziente nei seguenti casi:
Per l'istituzione di un trattamento immediato in casi d'urgenza, prima di interventi
chirurgici.
Analisi biochimico cliniche possono essere utilizzate a scopo diagnostico, prognostico o
per evidenziare uno staging della malattia
Un ulteriore motivo è rappresentato dall'individuazione di una malattia in fase preclinica (check-up).
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Il controllo di una terapia, della concentrazione di farmaci, di precedenti test di
laboratorio e la possibilità di seguire un paziente in particolari situazioni, possono
essere altrettanti motivi per eseguire o richiedere analisi biochimico cliniche.
Vi sono poi alcuni esami a vantaggio parziale o totale dei medico. Vale la pena di ricordare
l'aspetto medico legale, la ricerca può essere un'ulteriore ragione.
Alcuni esami possono poi essere richiesti a beneficio della collettività, per scopi di
medicina preventiva, per ricerca biomedica o per l'istituzione di una politica sanitaria
Le analisi biochimiche non servono quindi come:
Sostituto dei ragionamento
Difesa contro accuse di negligenza medica
Sostegno morale
Ricerca casuale di qualche malattia
IL PAZIENTE
Il paziente è l'oggetto dell'indagine ed è la persona che da essa dovrebbe trarre i maggiori
benefici. Le indagini biochimico-cliniche sono un potente mezzo per la diagnosi, la
prognosi e il fallow-up, ma non sono certamente il solo. Esse forniscono indicazioni tanto
più veritiere quanto più vengono confrontate con la realtà del paziente nella sua globalità.
Pertanto il laboratorio è un complemento e non un sostituto di un'anamnesi accurata e di
tutti gli altri mezzi che la semeiotica classica e strumentale può fornire.
LE ANALISI
Vi è per il medico la possibilità di richiedere molti diversi tipi di analisi, di diversa
complessità. di diverso costo e di diverso significato. Possiamo raggruppare questi tipi
come segue:
Analisi singole
Profili biochimici
Prove di funzionalità dinamica
Altri
Cominciamo a parlare delle analisi singole. Come dice il nome, lo scopo di queste analisi è
quello di fornire una risposta ad una domanda specifica. Un esempio: il paziente presenta
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una glicemia elevata? La risposta a questa domanda potrebbe confermare o meno una
diagnosi di diabete mellito.
L'analisi singola presenta alcuni vantaggi ed alcuni svantaggi. Vantaggi: può fornire tutte
le indicazioni richieste per confermare od escludere una determinata diagnosi o per
variare un trattamento già in atto e può essere effettuata su di un campione singolo il che
è comodo per il medico, per il paziente e per il laboratorio. Svantaggi: la sensibilità e la
specificità sono scarse.
Per questo (e per altri) motivi, si usano i profili biochimici. Il concetto su cui questi sono
basati è il seguente: misurando due o più parametri correlati tra loro e valutando
l'insieme dei risultati, è possibile ottenere un maggior numero di informazioni che non da
ciascun risultato considerato separatamente. Esempi di profili biochimici possono essere i
seguenti: elettroliti plasmatici, tests per la diagnosi differenziale dell'ittero, il gruppo delle
proteine, ecc.
Vantaggi dei profili biochimici sono molto evidenti. Si effettua un singolo prelievo
(comodo per il medico, per il paziente e per il laboratorio), sono di maggiore utilità e di
costo minore rispetto alla somma delle singole analisi e spesso forniscono tutti i dati per
formulare o dar sostegno ad una diagnosi preliminare. In alcuni casi possono dare
informazioni in altro modo difficili da ottenere. I profili biochimici possono essere
sottoclassificati in varie maniere e possono essere "mirati" secondo criteri talvolta molto
vari, come raggruppamenti strumentali, protocolli diagnostici fissi o variabili, concordati
tra il laboratorio e la clinica. Sebbene i profili presentino un lungo numero di vantaggi,
non bisogna dimenticare alcuni svantaggi, si riferiscono ad un unico istante (quello dei
prelievo) possono mettere in evidenza anomalie per altro innocue e possono portare ad
affaticamento in lettura per eccesso di dati. Il primo di questi svantaggi ha indotto
all'individuazione di un altro tipo di analisi, le prove di funzionalità dinamica. Queste si
differenziano dai profili biochimici nello stesso modo in cui un film è diverso da una
fotografia, permettendo di esaminare la risposta del paziente sottoposto a particolari
stimoli.
Le prove di funzionalità dinamica sono molto usate per studi metabolici ed in
endocrinologia e vanno da un test di tolleranza all'indagine dopo stimolo o soppressione.
E’ evidente che le prove di funzionalità dinamica esigono una standardizzazione molto
accurata e sono di esecuzione solitamente più difficile, costosa e fastidiosa che la singola
analisi o il profilo biochimico.
Un altro tipo di esame è il cosiddetto "screening" che ha lo scopo di individuare in
popolazioni sane, soggetti asintomatici, ma anormali per qualche caratteristica
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biochimica. Evidentemente il senso di effettuare uno screening deve trovarsi, oltre che in
una possibile tematica di ricerca biomedica, nella possibilità di individuare per tempo un
potenziale danno al paziente e di poterlo quindi trattare preventivamente. Le indagini di
screening possono essere anche usate per gruppi di persone "a rischio" di determinate
patologie, come per esempio avviene in medicina dei lavoro. Indagini di screening sono
consigliabili nel periodo neonatale per evidenziare errori congeniti dei metabolismo.
Esistono altri tipi di analisi, che si possono raggruppare in:
Analisi d'urgenza: (necessarie per stabilire immediatamente un trattamento efficace.
Analisi ambulatoriali: di tipo semi-quantitativo ed eseguite in ambulatorio o al letto del
paziente.
Non esiste purtroppo una regola generale ed unica che ci permetta di evitare questi
inconvenienti. Soltanto la conoscenza delle singole analisi può indicare le attenzioni da
applicare. Buona norma è seguire protocolli concordati con il laboratorio in modo da
ridurre al minimo la variabilità e le possibilità di errori interpretativi.
METODI
Le metodologie usate in biochimica clinica sono moltissime. Il dosaggio di un analita viene
compiuto in diversi passaggi:
Si preleva una quantità nota del campione da analizzare da cui
Si separa la sostanza di interesse
Si dosa la sostanza
evidente che quanto più semplice è l'analisi e quanto meno sono i passaggi da compiersi,
tanto minore risulterà l'errore finale. Molte tecniche usate nel laboratorio di analisi sono
già conosciute allo studente perché apprese in altri corsi. Si illustrano qui alcune tecniche
scelte in base alla loro diffusione o al loro interesse.
17
TECNICHE SEPARATIVE
SISTEMI CROMATOGRAFICI
La cromatografia rappresenta un insieme di sistemi analitici versatili per la separazione,
l’identificazione e dosaggio quantitativo di una grande varietà di analiti. La separazione
cromatografica si basa sulle differenze tra le velocità di trasporto dei vari analiti sciolti in
una fase mobile (liquida o gassosa) che attraversa un'appropriata fase stazionaria (solida o
liquida).
I meccanismi di separazione si basano su processi chimico-fisici che regolano le interazioni
del soluti con le due fasi. Queste interazioni sono essenzialmente l'adsorbimento, la
ripartizione, lo scambio ionico, l'esclusione sterica e l’affinità molecolare.
L'adsorbimento dovuto ad interazioni elettrostatiche tra una molecola ed un supporto
adsorbente e la separazione è legata alla competizione tra la fase mobile ed i soluti per i siti
adsorbenti sul supporto (tipicamente una cromatografia liquido-solido).
La ripartizione si basa sulle differenze di solubilità dei soluti in due liquidi immiscibili a
contatto tra loro (tipicamente una cromatografia liquido-liquido,).
Nello scambio ionico la separazione di soluti in una miscela è legata alle loro differenze di
segno e di grandezza di carica ionica. La fase stazionaria (solida) costituita da una resina.
Le resine a scambio cationico possiedono gruppi funzionali carichi negativamente (gruppi
acidi) che possono legare debolmente cationi come H+ o Na+ che, a loro volta, possono
essere disponibili allo scambio con i cationi del soluto. Le resine a scambio anionico
possiedono gruppi funzionali carichi positivamente (gruppi basici) che possono legare
anioni. I composti ionici possono essere eluiti selettivamente variando il pH (e quindi la
carica dell'analita) e la forza ionica della fase mobile.
L'esclusione sterica (nota anche come gel-filtrazione o esclusione molecolare) separa i soluti
sulla base delle differenze di dimensione delle molecole.
La fase stazionaria (solida)
costituita da un gel formato da microsfere di destrano (Sephadex), poliacrilammide (BioGel) o agarosio (Sepharose) che presentano pori, interstizi e microcanali. Le molecole più
grandi, che non riescono ad entrare nelle microsfere, passano tra queste e vengono eluite
per prime. Il solvente e le molecole di soluto con dimensioni inferiori a quelle dei pori
entrano nelle microsfere rimanendo "intrappolate" negli interstizi e nei canali, e quindi
vengono eluite successivamente. Mediante gel di microsfere di dimensioni appropriata
quindi è possibile separare composti in base al loro peso molecolare.
Il termine affinità molecolare si applica ad un'ampia serie di meccanismi di separazione
che si basano su interazioni di specie diverse come enzima-substrato, ormone-recettore e
antigene-anticorpo. La fase stazionaria (solida) viene realizzata immobilizzando una
18
molecola (ligando) su un supporto che deve essere il più possibile inerte per evitare
adsorbimenti aspecifici. Se l'interazione tra l'analita e il ligando è specifica, l'analita può
essere spostato mediante aggiunta di un substrato o di un inibitore, oppure variando il pH
o la forza ionica, o mediante l'aggiunta di sostanze che rompono i legami di idrogeno.
CROMATOGRAFIA SU STRATO SOTTILE
La fase stazionaria è costituita da un sottile strato di adsorbente (es. gel di silice)
uniformemente distribuito su di un supporto rigido. Il campione da analizzare è deposto
vicino al bordo della lastra che viene a sua volta messa a contatto con un opportuno
solvente (fase mobile) che risale per capillarità. L'identificazione delle macchie
cromatografiche, rivelate mediante colorazione o illuminazione con luce UV, viene
effettuata tramite il valore di Rf (rapporto tra la migrazione dell'analita e quella della fase
mobile) e l'impiego di standard.
coperchio
lastra cromatografica
fronte del solvente
contenitore
A
sostanze
separate
B
fase mobile
punto di applicazione
del solvente
ELETTROFORESI
Un'altra tecnica usatissima è l'elettroforesi, impiegata specialmente per la separazione di
proteine. Fondamentalmente, questa tecnica sfrutta la capacità di sostanze cariche di
migrare in un campo elettrico. La velocità è in relazione positiva con la carica (che a sua
volta dipende dal pH del mezzo) ed è in relazione negativa con la massa (la forma anche è
importante) della molecola da separare. L'elettroforesi viene fatta solitamente avvenire su
supporto solido (elettroforesi zonale). Anche nel caso dell'elettroforesi, le tecniche devono
essere accuratamente standardizzate, perché una variazione dei parametri standard può
portare ad alterazioni del tracciato elettroforetico con conseguente difficoltà per
l’identificazione dei composti separati.
19
+
Striscia di acetato di cellulosa
anodo
Soluzione tampone
catodo
Camera elettroforetica
_
+
Punto
applicazione
del campione
γ
β
α
Globuline
2
α
1
Albumina
TECNICHE ANALITICHE
SPETTROFOTOMETRIA
Le tecniche che hanno trovato maggior impiego nel Laboratorio clinico, sono quelle che
derivano dall'interazione tra luce e materia.
La spettrofotometria primeggia fra le altre. Qualsiasi sostanza che assorba luce (nel
visibile o nell'ultravioletto) può essere dosata spettrofotometricamente. I procedimenti
sono semplici e le attrezzature relativamente poco costose.
Uno spettrofotometro consiste essenzialmente in una o più lampade (visibile ed
ultravioletto), in un monocromatore (a prisma o a reticolo) che selezioni una lunghezza
d'onda tra quelle emesse dalla lampada ed in un fotorivelatore capace di misurare la
quantità di luce. La soluzione contenente la sostanza da esaminare è versata in un
recipiente di vetro. di quarzo o di plastica (chiamato cuvetta) che è posto tra il
20
monocromatore ed il fotorivelatore. Ogni sostanza capace di assorbire radiazioni
elettromagnetiche ha uno spettro di assorbimento in funzione della lunghezza d'onda λ.
Per ogni λ, esiste una relazione tra luce assorbita. lunghezza della cuvetta e concentrazione
della sostanza. chiamata legge di Lambert-Beer che è :
Io
log ----- = K x L x c
It
ove
Io
log ---It
(chiamato assorbanza)
viene letto dall’apparecchio (Io la luce incidente e It quella trasmessa), L la lunghezza
della cuvetta, c la concentrazione della sostanza e k una costante chiamata coefficiente di
estinzione molare (cioè l'assorbanza che si avrebbe con una soluzione 1 M del soluto).
Poiché la lunghezza della cuvetta è nota (di solito uguale a 1 cm), k è noto (o si può
misurare usando concentrazioni note della sostanza in esame), il valore dell'assorbanza si
legge sul quadrante dell'apparecchio, diventa semplice calcolare c, cioè la concentrazione
dell'analita. Per questo, ogni volta sia possibile, si usa la spettrofotometria, magari facendo
precedentemente reagire il composto da analizzare in modo da ottenere un composto
colorato. Probabilmente le tecniche spettrofotometriche compiono più della metà del
lavoro svolto nel laboratorio di analisi.
Prisma
Cuvetta
Registratore
Lampada
FLUORIMETRIA
Altri metodi che sfruttano l’interazione tra luce e materia sono quelli che fanno uso della
fluorescenza
Il fenomeno della fluorescenza è dovuto a molecole dette fluorocromi che, quando vengono
eccitate da una luce di una certa lunghezza d'onda, emettono luce fluorescente.
21
L'assorbimento dell’energia luminosa porta un elettrone ad un livello energetico
superiore, cioè in uno stato eccitato. Quando l'elettrone eccitato ricade al livello di
partenza, il fluorocromo emette luce fluorescente di una specifica lunghezza d’onda.
I fluorocromi hanno spettri di assorbimento e di emissione caratteristici, spostati verso
una lunghezza d'onda maggiore, rispetto allo spettro di assorbimento. Ciò permette di
separare la luce di eccitazione da quella emessa usando dei filtri ottici.
La fluorescenza viene letta su un piano perpendicolare rispetto al piano di luce eccitante.
Il suo uso è più delicato di quello della spettrofotometria, ma in compenso la sensibilità
analitica può essere di 1.000-10.000 volte superiore a quella dei metodi spettrofotometrici,
la specificità è per lo meno paragonabile.
Monocromatore
Cella di misura
Lampada
Monocromatore
Rivelatore
TRACCIANTI RADIOATTIVI
L'utilizzazione di traccianti radioattivi (uguali chimicamente al composto non radioattivo,
ma distinguibili da questo perché emettono radiazioni) e le reazioni immunologiche hanno
permesso l'introduzione delle tecniche RIA (radio immuno assay) che hanno
rappresentato un vero balzo in avanti per le possibilità di dosaggio, sia per la specificità
che per la sensibilità. Un atomo instabile può, nel corso della sua esistenza emettere una
radiazione (α
α, β o γ a seconda della sua natura) trasformandosi in un altro elemento. La
radioattività si misura in Bequerel (Bq =1 disintegrazione s-1 ). A volte si trova anche
utilizzato il Curie (Ci) come unità di radioattività. Esso corrisponde a 3,7 x 1010
disgregazioni s-1, mentre la radioattività specifica è il rapporto tra la radioattività e la
massa. Esistono strumenti molto precisi per misurare anche quantità minime di
radioattività.
22
TECNICHE IMMUNOCHIMICHE
Un antigene è una sostanza che ha due proprietà fondamentali:
• quella di poter stimolare la produzione di anticorpi specifici;
• quella di poter reagire con questi anticorpi.
In condizioni appropriata si può avere un precipitato antigene-anticorpo che può essere
utilissimo in campo analitico anche perché avviene in maniera massimale per rapporti
definiti di anticorpo e di antigene (punto di equivalenza).
Si hanno molti metodi di immunoprecipitazione che vengono usati in laboratorio. tra di
essi:
-
diffusione monodimensionale;
-
diffusione doppia bidimensionale;
-
immunodiffusione radiale semplice;
-
immunoprecipitazione in mezzo liquido.
TECNICHE RADIOIMMUNOLOGICHE
Queste tecniche hanno permesso avanzamenti notevolissimi specialmente nel dosaggio
degli ormoni, ma sfortunatamente esse implicano costi piuttosto elevati e l'uso di materiali
radioattivi che sono instabili nel tempo ed il cui smaltimento è costoso.
Concettualmente le tecniche radioinununologiche sono molto semplici. E’ necessario avere
un analita marcato (reperibile in commercio) e un anticorpo che ad esso specificamente si
leghi. Quando si incuba l'analita con il suo anticorpo si ottiene un legame e quindi un
aumento della radioattività legata all'antigene ed una diminuzione della radioattività
libera. Nel campione biologico esiste una certa quantità dell'analita (ovviamente non
radioattivo) e quando il campione viene incubato insieme all'antigene e all'analita marcato
si ha una competizione per l'antigene tra l'analita marcato (aggiunto) e quello non
marcato (presente nel campione). Maggiore la quantità di analita non marcato, minore la
radioattività nella fase legata (complesso antigene-anticorpo), mentre maggiore quella
della fase libera (antigene non legato all'anticorpo). Pertanto la radioattività della fase
legata diminuisce quando la concentrazione dell'analita nel campione da dosare aumenta.
I pregi di questa tecnica consistono nell'elevata specificità e sensibilità. E’ evidente che per
usare questo metodo è necessario ottenere una perfetta separazione tra antigene libero ed
antigene legato. Sono state proposte varie metodiche, tra cui l'adsorbimento dell'antigene
libero su supporti vari, come la cellulosa e resine varie; oppure la precipitazione mediante
doppio anticorpo o ancora l'utilizzazione dell'anticorpo in fase solida (l'anticorpo viene
23
legato ad una resina e la soluzione contenente l'antigene fatta scorrere attraverso la resina
stessa).
TECNICHE ENZIMOIMMUNOLOGICHE
In alternativa agli antigeni marcati con radionuclidi si possono usare antigeni marcati con
enzimi (EIA-Enzyme Immuno Assay).
Per utilizzare le tecniche enzimoimmunologiche innanzitutto è necessario preparare
l’enzima unito alle proteine o agli apteni. Gli enzimi più utilizzati come marcatori sono la
perossidasi, la fosfatasi alcalina, la glucosio ossidasi, l'acetilcolinesterasi, la malato
deidrogenasi ed altri.
Sostanzialmente la tecnica prevede:
• il legame di un enzima con un aptene;
• il legame dell'enzima-aptene con l'anticorpo in presenza dell'aptene da dosare
(maggiore quest'ultimo minore l'anticorpo che si lega al complesso enzima- aptene);
• l'individuazione della quantità del complesso aptene-enzima-anticorpo mediante
variazione dell'attività enzimatica o previa separazione della frazione libera e legata.
Lo stesso discorso può essere fatto legando l'enzima all'anticorpo anziché all'aptene.
L'enzimoimmunologia omogenea comprende quelle metodiche per cui l’enzima nel
complesso marcato (antigene o anticorpo) si comporta in maniera diversa dall'enzima
libero. In questo caso non esiste la necessità di separare la frazione libera e frazione legata,
la cui separazione invece è necessaria se le due frazioni non possono essere altrimenti
distinguibili e può essere effettuata con varie tecniche, tra le quali la E.L.I.S.A. (Enzyme
Linked ImmunoSorbent Assay) che prevede il legame dell’anticorpo ad una matrice
insolubile, come cellulosa, biogel, sephadex, ecc. La sostanza da dosare si lega all’anticorpo
già legato alla resina. Viene quindi usato un secondo anticorpo a cui è unito l’enzima. Se il
primo anticorpo è legato con l’aptene, anche il secondo vi si lega. Questo può essere svelato
dosando l’attività enzimatica.
La ricerca di nuove tecnologie che utilizzino il legame antigene anticorpo è molto attiva
perché queste presentano l'indubbio vantaggio di essere molto sensibili e specifiche e
quindi permettono dosaggi di sostanze in quantità piccolissime, prima non rilevabili.
Il confronto si pone tra EIA e RIA. La sensibilità delle due tecniche è notevole, anche se
spesso è superiore quella ottenibile con i metodi RIA. Le analisi RIA sono però più
24
inquinanti (materiale radioattivo) e richiedono attrezzature più costose, sia in fase di
investimento che d'uso.
ALTRE METODICHE IMMUNOLOGICHE
Altre metodiche immunologiche sono quelle che utilizzano anticorpi marcati (IRMA:
ImmunoRadioMetric Assay). e le altre tecniche derivate (IEMA: ImmunoEnzimoMetric
Assay, simile all'EIA. ecc.) che prevedono l'uso di quantità in eccesso di anticorpo. Dopo
separazione della fase libera dalla fase legata, si può determinare l'anticorpo legato
tramite misure di radioattività, di attività enzimatiche, ecc. secondo il metodo utilizzato.
Un ulteriore sviluppo in campo analitico è stato dato dall'introduzione di anticorpi
monoclonali. Essi sono stati ottenuti per fusione cellulare tra cellule di mieloma di topo e
cellule di milza di topo immunizzato con un particolare antigene. Queste cellule “ibride”
sono capaci di produrre un anticorpo specifico mantenendo il carattere di immortalità
delle cellule mielomatose. Le cellule singole possono essere clonate ed utilizzate per la
produzione di anticorpi specifici.
La specificità del prodotto e la possibilità di ottenerlo in maniera costante sono i vantaggi
principali dei monoclonali.
LA DIAGNOSTICA GENETICO-MOLECOLARE CON SONDE DNA.
Negli ultimi tempi la biologia molecolare ha avuto un incremento significativo. Sono stati
clonati, in pratica isolati, numerosi geni derivanti dal patrimonio genetico umano: i geni
immunoglobulinici, il gene dell'insulina, i geni degli ormoni della crescita ematopoietica,
25
gli oncogeni e molti altri ancora. La patogenesi di diverse malattie ereditarie non sarebbe
nota senza i progressi della ricerca biomolecolare; un tipico esempio è rappresentato dal
chiarimento delle cause genetico-molecolari della distrofia muscolare di Duchenne, una
malattia in cui è possibile l'identificazione di una proteina muscolare abnorme derivante
dalla 'deviazione'della clonazione del suo gene.
Questi progressi non sono solo di interesse fondamentale per la ricerca; la
caratterizzazione genetico-molecolare di numerose malattie ha reso possibile formulare la
diagnosi di malattia a livello molecolare. I principali obiettivi della diagnostica geneticomolecolare sono:
• la diagnosi prenatale di diverse malattie ereditarie
• la diagnosi di malattie neoplastiche,
• l'accertamento della presenza dell'agente patogeno in Microbiologia.
Gli studi di genetica molecolare non fanno ancora parte della comune routine di ricerca.
Tuttavia, alcune tecniche sono già così sviluppate da poter essere impiegate nella
diagnostica medica. L'impiego razionale di questi nuovi mezzi richiede da parte dei medici
e dei laboratoristi la comprensione del 'nuovo'linguaggio della biologia molecolare e dei
principi della diagnostica genetico-molecolare.
La diagnostica genetico-molecolare è basata in buona parte sul principio fondamentale
dell'ibridizzazione degli acidi nucleici: due frammenti di DNA a filamento singolo o un
frammento di DNA a filamento singolo ed un filamento di RNA (I'RNA è 'per sua natura'
a filamento singolo) possono legarsi in un saldo doppio filamento se le sequenze di basi di
entrambi i filamenti sono complementari (fig. 1). L'ibridizzazione può essere paragonata,
come principio, alla reazione antigene-anticorpo, in cui un anticorpo specifico riconosce il
'suo'antigene in un vasto insieme di antigeni estranei.
Ogni frammento clonato di DNA può essere marcato ed utilizzato come sonda (probe) per
la ricerca delle sequenze complementari di DNA o di RNA nel materiale da esaminare. Le
sonde possono essere marcate con "P radioattivo; spesso si preferiscono le tecniche che
non richiedono l'uso di isotopi radioattivi.
GGA
TTC
GTTG
G GGAATTCGG
C
CCTTTAAGCC
CAAC
26
Fig. 1 Sequenze di basi complementari e non
complementari di DNA.
Due filamenti singoli di
DNA si legano in un filamento doppio (ibridazione)
se le sequenze delle loro basi sono complementari.
L'adenina (A) si lega solo alla timina (T), la guanina
(G) solo alla citosina (C) (a destra). Nella zona in cui
si fronteggiano basi non complementari non si ha
formazione di legame stabile (a sinistra).
Esistono diverse tecniche che possono essere utilizzate nella
diagnostica di routine:
• nell'ibridizzazione per filtrazione i frammenti di DNA (a filamento singolo) da
esaminare aderiscono ad un filtro e le sonde marcate sono poi aggiunte alla soluzione.
Le reazioni di ibridizzazione possono avvenire nella soluzione anche fra due frammenti
di DNA.
• L'amplificazione specifica di frammenti corti di DNA mediante polymerase chain
reaction (PCR) rappresenta uno dei progressi tecnici più importanti della biologia
molecolare. Con la PCR è possibile amplificare in provetta, in modo programmato e nel
giro di poche ore, con l'ausilio della DNA-polimerasi e da quantità minime di DNA, un
determinato frammento, è possibile in pratica ricavare da questo materiale copie
multiple. Il frammento 'arricchito'può essere poi ulteriormente analizzato. E’ spesso
sufficiente impiegare l'elettroforesi in gel per rendere visibile il frammento amplificato
e determinare le sue dimensioni molecolari. Grazie all'ibridizzazione con le cosiddette
sonde oligonucleotidiche corte è possibile ad esempio accertare, in un frammento
amplificato, l'esistenza di una mutazione in una regione del gene.
• Nell'ibridizzazione in situ si introduce la sonda marcata in una sezione di tessuto o in
uno striscio cellulare, ove avviene la marcatura delle cellule che contengono DNA o
RNA con sequenze complementari. I segnali della sonda vengono registrati mediante
autoradiografia e successivamente letti al microscopio ottico dopo controcolorazione
delle colture cellulari.
27
MALATTIE EREDITARIE MONOGENICHE
Come previsto, le tecniche genetico-molecolari sono di fondamentale importanza nella
diagnostica delle malattie ereditarie. Nel caso ideale, la mutazione genica alla base di una
malattia ereditaria può essere accertata in modo diretto. Ciò è possibile quando il gene
corrispondente è clonato e siano note le mutazioni, ad es. in caso di anemia a cellule
falciformi e, recentemente, di fibrosi cistica. Il DNA di pazienti con anemia a cellule
falciformi mostra, a livello del gene della β-globina, una mutazione puntiforme (cioè
un'unica coppia 'sbagliata'di basi) responsabile della formazione di emoglobina abnorme.
L'anemia a cellule falciformi rappresenta uno dei primi esempi di impiego della PCR nella
diagnostica prenatale. L'analisi con PCR del DNA fetale durante la gravidanza è da
preferire all'accertamento dell’ emoglobina S patologica (e quindi del prodotto del gene),
dato che può essere effettuata impiegando minime quantità di sangue fetale. Essa consente
la diagnosi della malattia nello stadio iniziale della gravidanza, quando non si è ancora
verificata la formazione delle catene β emoglobina.
In caso di malattie ereditarie in cui il gene non è clonato oppure non è possibile
individuare la corrispondente mutazione genica, è necessario procedere alla diagnosi
28
indiretta con marker del DNA, ad es. nella nefropatia policistica ereditaria, i cui geni non
sono ancora noti in dettaglio. Anche nel caso dei fattori della coagulazione VIII:C e IX, le
cui mutazioni note sono responsabili della comparsa delle diverse forme di emofilia, spesso
è necessario ricorrere a questo tipo di studio genetico-molecolare, dato che la gamma delle
possibili mutazioni dei geni FVIII-C e FIX è vasta, anche se nel singolo caso risulta di
solito troppo dispendioso procedere all'identificazione a livello familiare del difetto genico
individuale.
L'accertamento indiretto di una mutazione genica avviene quando si può avere un DNA
marker come nel caso del polimorfismo del DNA e vengono ereditati accoppiati (linked)
alleli normali e mutati nel locus genico interessato.
Dal punto di vista fenotipico i
polimorfismi del DNA sono di solito semplici variazioni della sequenza di basi del DNA
trasmesse di generazione in generazione. Se in una famiglia si accerta che un marker di
questo tipo viene ereditato accoppiato al fenotipo (cioè al quadro clinico riconoscibile e/o
identificabile in laboratorio) di una malattia ereditaria, è possibile utilizzare il marker
stesso negli altri individui della famiglia in questione, ad es. per identificare portatori
(asintomatici) eterozigoti o nella diagnostica prenatale effettuata durante la gravidanza.
In caso di malattie ereditarie è evidente lo svantaggio dell'analisi genica indiretta rispetto
a quella diretta. L'accertamento diretto di una mutazione genica consente la diagnosi
genetico-molecolare di malattia ereditaria in un unico paziente, senza ricorrere all'esame
di tutta la famiglia. Se con i markers polimorfi di DNA è possibile soltanto l'analisi
indiretta, bisogna prima dimostrare l'esistenza di una correlazione fra markers e malattia
in una determinata famiglia.
Questo di solito significa che è necessario avere a
disposizione soggetti malati e sani appartenenti alla stessa famiglia.
Soltanto in un
secondo tempo sarà possibile chiarire la situazione degli altri membri della famiglia o
effettuare la diagnosi prenatale.
La diagnostica genetico-molecolare delle malattie ereditarie è utile soltanto se i risultati
sono stati interpretati alla luce dei reperti clinici e se l'impegno diagnostico è associato ad
una consulenza genetica competente nei confronti del paziente o di tutti i membri della
famiglia.
29
ESAME DELLE URINE E FUNZIONALITÀ RENALE
Le funzioni principali del rene sono le seguenti:
1) regolazione dell’acqua, degli elettroliti e del bilancio osmale
2) regolazione dello stato acido-base
3) eliminazione dall’organismo dei prodotti finali del catabolismo unitamente ad
eventuali sostanze tossiche
4) trasformazione della vitamina D nel suo metabolita biologicamente attivo
5) produzione di sostanze di natura endocrina come la renina da parte dell’apparato
inxtaglomerulare e produzione della eritropoietina
La maggior parte di queste funzioni sono già state trattate in capitoli specifici.
FORMAZIONE DELLE URINE
Il rene attua pertanto la formazione dell’urina mediante 3 processi: la filtrazione
glomerulare per la quale un liquido che assomiglia al plasma filtra dai capillari
glomerulari al tubulo; il riassorbimento tubulare che riduce di volume questo liquido e ne
modifica la composizione; la secrezione tubulare che determina il passaggio di sostanze dal
sangue al liquido tubulare.
Attraverso questi complessi meccanismi il rene interviene in maniera determinante nel
mantenere costanti il volume ed i caratteri fisico-chimici dei liquidi corporei, mediante
l’eliminazione di prodotti di rifiuto e la conservazione dell’acqua e di importanti elettroliti
e metaboliti.
La tabella 1 riporta i meccanismi che portano alla formazione delle urine di un numero di
sostanze estremamente ampio, sia dal fatto che la concentrazione di una sostanza può
essere maggiore o minore di quella del sangue.
GRANDEZZE UTILI PER LO STUDIO DELLA FUNZIONALITÀ RENALE.
CLEARANCE RENALE
La clearance renale di una sostanza esprime il volume di plasma depurato da quella
sostanza nell’unità di tempo attraverso l’attività renale. E’ quindi il risultato finale
dell’azione associata dei meccanismi di filtrazione glomerulare, di riassorbimento tubulare
e di secrezione tubulare.
Se una sostanza a livello dei glomeruli viene completamente filtrata, cioè passa tutta dal
plasma all’ultrafiltrato mantenendo in questo la stessa concentrazione del plasma, e non
30
viene né riassorbita né secreta dai tubuli, la sua clearance si identifica con il volume del
filtrato glomerulare.
La sostanza che risponde completamente a questo scopo è l’inulina. Le sostanze che oltre a
filtrare completamente attraverso la membrana glomerulare vengono anche secrete dai
tubuli hanno una clearance maggiore del volume del filtrato glomerulare.
Infatti, una maggiore quantità di queste sostanze passa nelle urine nell’unità di tempo
(una parte perché è filtrata, una parte perché è secreta), aumentando la quantità di
plasma depurato, e quindi la clearance.
Le sostanze, invece, che vengono riassorbite parzialmente dai tubuli hanno una clearance
minore del volume del filtrato glomerulare: la quantità di plasma depurata, è, infatti, più
piccola perché una parte della sostanza filtrata torna di nuovo nel sangue.
Questi concetti chiariscono il significato delle clearances.
La clearance si esprime in ml/min e può essere definita attraverso il seguente rapporto:
UxV
1.86
CLEARANCE = ------------- X --------P
A
dove:
U è la concentrazione urinaria della sostanza in mg/dl
P è la concentrazione plasmatici della sostanza in mg/dl
V è il flusso urinario espresso in ml/min
1.73 è la superficie corporea standard (m2)
A è la superficie corporea del paziente (m2)
La clearance è un vero e proprio coefficiente di depurazione plasmatica. La clearance deve
essere corretta per la superficie corporea di riferimento, che nell’adulto è di 1.73 m2 .
Questo accorgimento è essenziale nei bambini.
La sostanza ideale per il calcolo del ritmo del filtro glomerulare GFR è l’inulina che, dopo
essere stata filtrata dal glomerulo , non viene riassorbita né secreta dal tubulo.
Essa ci dà esattamente l’entità della filtrazione glomerulare (circa 120 ml/min).
Generalmente però nel laboratorio clinico si misura la clearance della creatinina o quella
dell’urea.
31
FLUSSO PLASMATICO RENALE
Il flusso plasmatici renale (RPF) è di circa 650 ml/min pari ad un flusso ematico renale di
1000 ml/min (1/5 della portata cardiaca).
Si calcola infondendo in vena a bassa concentrazione l’acido para-amino-ippurico (PAI);
esso viene eliminato sia per filtrazione glomerulare che per secrezione tubulare. A basse
concentrazione tutto il PAI risulta uguale alla portata renale plasmatici.
FRAZIONE DI FILTRAZIONE
La frazione di filtrazione è data dal rapporto tra filtrato glomerulare e flusso plasmatici
renale:
GFR
FF% = --------- x 100
RPF
MASSA TUBULARE ATTIVA
La massa tubulare attiva si misura in base al tasso di secrezione massimale (Tm) di una
sostanza eliminata essenzialmente dal tubulo.
In questo caso il PAI deve essere infuso ad alte concentrazioni in modo da saturare il
meccanismo di secrezione tubulare.
Si esprime in mg/min e il Tm PAI è di 80 mg/min.
CREATININA – CLEARANCE
La creatina è presente essenzialmente nel muscolo, sia in forma libera che fosforilata come
fosfocreatina; sotto tale forma funge da riserva di fosfati ad alta energia per la resintesi di
ATP, necessario per la contrazione muscolare.
E’ presente anche nel cervello e, in tracce, nel sangue e nell’urina normale.
La creatinina è l’anidride interna della creatina; si forma nel muscolo per deidratazione
irreversibile (non enzimatica) della CREATINA FOSFATO.
Questa trasformazione è necessaria per l’escrezione della maggior parte della creatina.
32
La creatina nell’organismo viene sintetizzata a partire da tre amminoacidi; per un
processo di transamidinazione (processo che avviene essenzialmente nel rene) da arginina
si forma glicociamina (o acido guanidino-acetico) che, per successiva metilazione (nel
fegato) ad opera della metionina attivata, dà luogo alla formazione di creatina.
La sintesi di creatina è regolata da un processo tipo feedback in cui la concentrazione della
creatina agisce sull’attività transamidinasica.
L’escrezione giornaliera di creatinina con le urine è una costante dell’organismo e,
rapportata alla taglia corporea, è costante in individui diversi della stessa età e sesso
(coefficiente creatininico).
I valori della creatininemia possono restare invariati nelle prime fasi di una insufficienza
renale.
In queste condizioni può essere di grande utilità la determinazione della clearance della
creatinina, che esprime in modo sufficientemente fedele i valori del filtrato glomerulare.
La sostanza, la cui eliminazione nelle urine riflette con assoluta precisione i valori del
filtrato glomerulare, è come abbiamo visto l’inulina.
Essa, tuttavia, non è presente nel sangue: per utilizzarla ai fini di misura della clearance è
necessario quindi somministrarla a velocità costante per via endovenosa, tecnica usata per
tutte le clearances endogene, riferite a misure di sostanze normalmente presenti nel
plasma, il cui prototipo è la creatina.
L’identificazione del volume del filtrato glomerulare con la clearance della creatina non è
del tutto corretta, perché la creatina viene in piccola parte (circa il 10%) secreta dai tubuli
renali, e la quota tubulare aumenta con l’aumentare della concentrazione della creatina
nel plasma.
Tuttavia in condizioni normali, o lievemente patologiche, la clearance della creatinina che
si determina in laboratorio assume valori assai vicini a quelli del filtrato glomerulare.
Infatti con i metodi di misura più largamente usati noi dosiamo, oltre alla creatinina,
sostanze interferenti non creatininiche, gran parte delle quali non compaiono nelle urine
dove invece compare la piccola quota di creatinina secreta dai tubuli.
Le 2 quote in eccesso si compensano a vicenda nella determinazione della misura della
clearance, in quanto compaiono una al numeratore e una al denominatore, e come
risultato finale si ha una clearance della creatinina quasi identica al filtrato glomerulare.
Quando invece l’insufficienza renale è avanzata, le sostanze interferenti, che restano
sempre le stesse, non compensano più la quota di creatinina secreta dai tubuli, che invece
aumenta.
I valori della clearance della creatinina tendono quindi ad essere più alti di quelli del
volume del filtrato glomerulare; in altri termini, il dato sopravvaluta lievemente la
funzionalità renale.
33
La clearance della creatinina costituisce comunque l’indice più pratico e più sensibile per
lo studio della funzionalità renale nella larga routine.
La sua riduzione si verifica assai prima dell’aumento della creatininemia: c’è tutta una
fase iniziale nello sviluppo dell’insufficienza renale caratterizzata da una riduzione della
clearance pur in presenza di valori normali di creatininemia.
Di qui l’importanza e l’utilità della sua determinazione.
Bisogna ancora ricordare che i valori della clearance della creatinina
( uomini cc. 105 +/- 20 ; donne cc. 97 +/- 20) tendono a ridursi fisiologicamente con l’età a
partire da 40 anni, fino a giungere al 50% dei valori normali sui 70 anni.
UREA – CLEARANCE
Dell’azoto non proteico totale presente a digiuno nel plasma di individui normali, l’azoto
dell’urea costituisce circa il 50%.
In casi patologici può raggiungere il 70-80%.
Il fegato efficiente utilizza l’ammoniaca, prodotta nel corso del metabolismo degli
amminoacidi e nel tubo gastrointestinale, per la formazione di urea.
Aumenti della concentrazione di urea si hanno:
1) nell’insufficenza renale
2) nella ritenzione urinaria
3) nello scompenso cardiaco con riduzione del filtrato glomerulare
4) nella dieta ipoproteica o nell’ ipercatabolismo proteico
5) nell’emoconcentrazione e nella disidratazione
La clearance dell’urea è inferiore a quella della creatinina e ha parecchi svantaggi.
La clearance dell’urea è considerevolmente minore del GFR e dipende dalla velocità del
flusso urinario.
Infatti l’urea,, molecola piccola e molto diffusibile, viene riassorbita per il 40% dal tubulo
e tale riassorbimento è tanto maggiore quanto minore è la velocità del flusso urinario.
A flussi superiori a 2 ml/min la quantità riassorbita è costante e la clearance dell’urea è di
circa 70 ml/min (urea clearance massima).
Quando la velocità del flusso è inferiore a 2 ml/min, l’urea clearance varia con l’entità del
flusso e si discosta molto di più dall’inulina.
Oggi si tende a non usare questo parametro, per la sua stretta dipendenza dalla diuresi e
dalla dieta.
34
CLEARANCE OSMOLALE E CLEARANCE DELL’ACQUA LIBERA
La clearnce osmolale viene definita secondo la formula generale:
Osm U
Cosm = ---------------- x V
Osm P
Dove :
Osm U = osmolalità urina
Osm P = osmolalità plasma
V = Volume diuresi urine/min
La clearance dell’ acqua libera delle urine viene definita come
>0
CH2O libera = V – Cosml ➔
<0
può risultare positiva, quando indica la presenza nelle urine di acqua in eccesso rispetto
alla isotonicità del plasma; trattasi in altre parole di urine diluite; può risultare negativa
quando indica la presenza nelle urine di acqua in difetto rispetto alla isotonicità del
plasma; si è allora in presenza di urine concentrate.
In questo senso viene anche definito il concetto di:
•
acqua legata, che rappresenta il volume idrico richiesto per
eliminare con le urine un carico osmotico sotto forma
isomolare (rispetto al plasma)
•
acqua libera, che rappresenta il volume di acqua che
dovrebbe venire aggiunto alle urine iperosmotiche per
raggiungere la isoosmoticità.
ESCREZIONE FRAZIONATA DEL SODIO
35
L’escrezione frazionata del sodio (FENa ) viene definita nel seguente modo:
Na+ urina Creatinina plasma
FENa =
----------------------------------------Na+ plasma Creatinina urine
ESAME CHIMICO
Nell’esame chimico preliminare si raccolgono dati qualitativi o semiquantitativi dei
seguenti parametri:
1) Glucosio
2) pH
3) Corpi chetonici
4) Proteine
5) Emoglobina
6) Urobilinogeno
7) Pigmenti biliari
pH
Nei soggetti normali il pH urinario è di solito o lievemente acido (fra 5.5 e 6.5).
Esso può variare da 4.5 a 8.0 a seconda della dieta carnea oppure vegetariana.
Il pH con le sue variazioni è l’espressione della capacità del rene di mantenere l’equilibrio
acido-base nell’organismo, aumentando la escrezione di acidi o di basi a seconda del
fabbisogno.
Gli acidi forti escreti sono H2SO4, H3PO4, HCl; quelli organici: lattico, piruvico, citrico.
Gli acidi vengono filtrati normalmente come sali di sodio.
A livello tubulare il sodio viene riassorbito e sostituito con H+ o con NH4+ proveniente dalla
NH3 prodotta dal rene.
Si ha così recupero del Na+ e NaHCO3 e le urine si acidificano.
Tale meccanismo, a rene integro, si attua come fenomeno di compenso nei casi di acidosi
metabolica o di acidosi respiratoria.
L’acidità titolabile è la misura di tutti gli H+ emessi dai reni nella giornata e viene
determinata per controtitolazione dell’urina con NaOH N/10 a pH 7.4.
36
Anche la determinazione dell’escrezione di NH4+ è importante per valutare l’efficacia
tamponante del rene.
DETERMINAZIONE DEL GLUCOSIO
La valutazione semiquantitativa viene eseguita con multistics (strisce reattive contenenti
aree di 0,5 cm di lato imbevute di reagenti in grado di evidenziare il metabolita in esame
attraverso una reazione enzimatica) in grado di modificare il colore di base. Viene
considerata normale una glicosuria fino a150 mg/l.
Si ha glicosuria evidente ogni volta che la glicemia supera il valore soglia (circa 170 mg/dl
di glucosio nel sangue) o anche per valori normoglicemici quando esiste un abbassamento
della soglia renale o in certe tubulopatie dove viene a mancare la capacità di
riassorbimento del glucosio.
CORPI CHETONICI
Sono costituiti da acetone, acido acetico, acido-beta-idrossibutirrico.
Aumentano nell’alterazione del metabolismo glucidico e, di riflesso, di quello lipidico, es.
nel diabete grave.
Nei bambini possono aumentare in seguito a febbre, digiuno, vomito; avviene così anche
nel vomito delle gravidiche.
PROTEINE
La messa in evidenza delle proteine urinarie sulle strisce reattive si basa sul cosiddetto
errore di proteina nella determinazione del pH .
Un indicatore di pH che si lega all’albumina, cambia il suo stato di dissociazione e di
conseguenza cambia colore, assumendo quello che avrebbe in ambiente alcalino, pur
essendo a pH acido.
Come indicatori si usano il blu di bromofenolo o il verde di bromocresolo posto sulla
striscia in ambiente fortemente tamponato a pH acido.
Con tali reattivi si mette essenzialmente in evidenza l’albumina attraverso la valutazione
semiquantitativa basata sull’intensità del colore che si forma.
Nelle urine normali la proteinuria può raggiungere valori fino a
50 mg / 24 h.
37
La proteinuria normale è costituita per 1/2 - 2/3 da globuline (
1e
2e
piccole quantità di β
e di γ, trasferrina, ceruloplasmina, aptoglobina); per il resto da albumina, proteine delle
vie urinarie, mucoproteine di Tamm-Horsfall, enzimi.
Esistono anche proteinurie intermittenti non superiori a 0.5-1 g/l.
Tra queste ricordiamo:
-
l’albumina ortostatica
-
l’albumina da sforzo
-
la proteinuria da febbre
Le proteinurie patologiche possono venire distinte in:
minima: 0.5 g/l, nella glomerulonefrite cronica, nel rene policistico, nelle malattie tubulari,
nella calcolosi renale;
moderata: da 0.5 a 4 g/l, nella glomerulonefrite acuta, nella sindrome nefrosica, nel lupus
(LES); nella glomerulonefrite cronica, nella nefrosclerosi, nella pielonefrite con
ipertensione, nel mieloma multiplo, nella nefropatia diabetica;
grave: > 4 g/l, nella sindrome nefrosica, nel lupus, nella glomerulonefrite acuta.
Un’altra definizione si può dare alla proteinuria non selettiva che si ha quando il danno
glomerulare è maggiore per cui passano nelle urine tutte le frazione proteiche del sangue
(compreso α1, α2, β e γ-globuline).
E’ stato elaborato un’indice di selettività della proteinuria glomerulare, basato sul
rapporto tra clearance della IgG e della transferrina; un valore inferiore a 0.1 indica una
proteinuria selettiva.
Nella proteinuria monoclonale si nota all’elettroforesi delle proteine urinarie un picco
stretto che migra in zona β o γ; la proteinuria monoclonale più frequente è la proteina di
Bence Jones, che si ha nel 50% dei casi di mieloma, costituita dalle catene leggere delle
immunoglobuline.
I metodi per evidenziare la proteina di Bence Jones sono costituiti dall’elettroforesi.
La proteinuria tubulare è contraddistinta dalla presenza nelle urine di globuline a basso
P.M. (10.000 – 30.000 dalton) che migrano in zona β e γ (α
α2 e β2 microglobulina); questa
forma è rara e compare in caso di lesione delle cellule tubulari (m. di Fanconi, pielonefrite,
intossicazione da cadmio, ecc.).
La proteinuria tubulare è indice di marcato riassorbimento da parte delle cellule tubulari.
EMOGLOBINA E SANGUE
38
I tests chimici per la rivelazione del sangue si basano tutti sulla reazione
pseudoperossidasica della emoglobina e dei suoi derivati contenenti ferro (la mioglobina
dà la stessa reazione). Tale reazione consiste nella liberazione di ossigeno da perossido.
L’ossigeno liberato ossida un substrato cromogeno.
La valutazione microscopica degli eritrociti viene fatta sul sedimento, possibilmente in
modo quantitativo (sedimento di 10 ml di urina, risospeso in 1 ml, valutazione in camera
contaglobuli) oppure in modo semiquantitativo (eritrociti per campo 400X).E’ importante
osservare le caratteristiche morfologiche degli eritrociti con opportuni accorgimenti nella
raccolta del campione; esse possono indicare l’origine alta o bassa della ematuria.
Può essere utile a tale proposito anche il metodo dei tre bicchieri, cioè la raccolta in tre
porzioni successive dell’urine durante la minzione.
UROBILINOGENO E UROBILINA
Il bilinogeno che si forma nell’intestino dalla bilirubina viene parzialmente riassorbito, in
parte rielaborato dal fegato e in parte escreto nell’urina.
Si presenta come tale solo nelle urine fresche perché con l’esposizione all’aria si ossida a
urobilina.
Aumenta nell’ittero emolitico e nell’ittero epatotossico, nell’ittero da occlusione delle vie
biliari.
PIGMENTI BILIARI
La bilirubina passa nelle urine quando aumenta la concentrazione sierica della forma
coniugata (ittero da stasi, ittero epatotossico; in quest’ultimo è presente anche
urobilinogeno); assieme alla bilirubina coniugata passano nelle urine anche sali biliari
(tensioattivi – schiuma gialla).
Le urine assumono color marsala più o meno intenso.
Restando all’aria prendono una nuance verdastra (osssidazione a biliverdina).
39
ENZIMI E DIAGNOSTICA ENZIMATICA
A cura di Stefania Gizzi
Il dosaggio di enzimi è una pratica molto in uso in biochimica clinica.
Tramite il dosaggio enzimatico si possono ottenere informazioni dirette sugli enzimi
oppure su reazioni che essi stessi catalizzano. ( fig 1 )
Generalmente sono dosati sul plasma o sul siero, ma anche altri liquidi biologici
rappresentano il punto di partenza per la determinazione di attività enzimatica.
Onde evitare una cessazione di enzimi da parte delle cellule viene eseguita una separazione
( entro le 24 ore ) tra parte liquida e parte corpuscolata. Un’ altra piccola accortezza
consiste nel prelevare il sangue utilizzando anticoagulanti e preservanti che non
interferiscono con gli enzimi da esaminare poiché le attività enzimatiche possono essere
sensibili a varie molecole presenti nel mezzo ( che possono agire da inibitori o da attivatori
).
A causa della quantità in peso estremamente piccola dell’enzima generalmente presente
nei campioni biologici, il mezzo pratico di misura attualmente più conveniente consiste nel
valutare la reazione catalizzata dall’enzima stesso.
In pratica si misura la velocità della reazione enzimatica cioè la quantità di substrato
trasformato nell’unità di tempo; quando la concentrazione del substrato, la temperatura,
il pH, la forza ionica etc… sono ottimali, la velocità della reazione enzimatica dipende
dalla concentrazione dell’enzima e ne consente la misura.
La misura può essere effettuata valutando o una reazione colorata ( sul substrato o sui
prodotti ) o titolando o analisi gasometrica oppure misurando direttamente l’estinzione
quando una delle sostanze della reazione possiede una banda specifica di assorbimento.
L’ATTIVITA’ ENZIMATICA rivela :
un aumento della concentrazione dei prodotti
una diminuzione della concentrazione del substrato
una variazione della concentrazione del coenzima
L’unità di misura della attività enzimatica è il KATAL ( Kat ) che esprime l’attività
capace di trasformare una mole di substrato al secondo; questa attività è enorme e
pertanto si usano i suoi sottomultipli o più spesso le U.I.
40
Una UNITA’ è la quantità di enzima che catalizza la conversione di una micromole di
substrato ( o di coenzima ) per minuto in condizioni definite di temperatura, pH e
concentrazione di substrato.
1 U = 1 micromole / minuto
Un requisito molto importante per poter effettuare il dosaggio enzimatico è che l’enzima
deve costituire il fattore limitante della reazione; pertanto il substrato deve essere presente
in eccesso; in questo caso la velocità della reazione è indipendente dalla concentrazione del
substrato e si dice che la reazione è di ordine zero. ( fig 2 )
La equazione di Michaelis-Menten definisce la relazione tra la concentrazione del
substrato e la attività enzimatica:
V max X ( S )
V=
---------------KM + ( S )
S= concentrazione del substrato
Vmax= velocità massima
KM= concentrazione del substrato che determina metà della velocità massima
Questa equazione prevede che la reazione sia allo stato stazionario e che il prodotto sia
presente in concentrazione trascurabile.
Per determinare la velocità massima è necessario che la concentrazione di substrato siano
da 5 a 10 volte superiori alla costante di Michaelis.
Per poter paragonare determinazioni diverse è necessario che le condizioni sperimentali (
pH, tamponi, concentrazioni di reagenti ) siano identiche.
L’attività enzimatica in U / l si calcola applicando la seguente formula:
Attività enzimatica: ( U / l ) =
41
∆A x 1000 x V
____________
εxtxdxv
dove:
-
∆A = variazione di assorbanza
-
V = volume della miscela di reazione
-
1000 = conversione della concentrazione a litro
-
ε = coefficiente di estinzione molare
-
t = tempo di reazione in minuti
-
d = spessore della cuvetta ( in cm )
-
v = volume del campione ( in ml )
Come ricordato, se sono accuratamente selezionate le condizioni di saggio si può affermare
che l’attività enzimatica è proporzionale direttamente alla concentrazione dell’enzima.
La determinazione dell’attività enzimatica è facile se si formano sostanze capaci di
assorbire la luce nel visibile o nell’ultravioletto.
Prima che vengano effettuate le misure, il campione in esame ( per lo più siero ) viene
preincubato insieme ai componenti del sistema di reazione per un lasso di tempo di alcuni
minuti.
La velocità di reazione è definita dalle espressioni – dS/dt e + dP/dt, ed è misurabile dalle
variazioni delle concentrazioni che il substrato o il prodotto della reazione subiscono in un
prefissato periodo di tempo.
Le misure devono essere effettuate all’inizio della reazione e per tempi relativamente brevi
per evitare inconvenienti dovuti all’accumulo dei prodotti di reazione o all’esaurimento
del substrato. Dal punto di vista operativo si distinguono:
sistemi di misura a due punti
sistemi di misura in continuo
Esempi di determinazione in discontinuo o a due punti sono dati dal metodo Shinowara,
Jones e Reinhar per la fosfatasi nel quale si determina il fosforo inorganico liberato dalla
alfa-glicerofosfato per azione della fosfatasi alcalina dopo 1 ora di incubazione a 37° C, o
42
dal metodo di Cherry e Crandall per la lipasi nel quale l’incubazione ha una durata di 24
ore al termine della quale si procede alla titolazione titrimetrica degli acidi grassi liberati
dal substrato costituito da olio di oliva.
Il principale svantaggio di questo tipo di determinazione consiste nel fatto che, non
seguendo la reazione enzimatica durante tutto il suo decorso ma limitandosi a una
determinazione finale dopo un periodo di incubazione, non si sa in quale modo e
attraverso quale via si è giunti al punto finale di reazione.
Infatti al termine del periodo di incubazione si può giungere al risultato finale o per la via
teorica o per altre strade ognuna con un tipo di errore diverso a seconda dei fenomeni che
si sono verificati durante l’incubazione ( fig. 3 ).
Un esempio tipico di misura in continuo è dato dagli enzimi NAD o NADP dipendenti.
Infatti i coenzimi piridinici ridotti presentano un picco di assorbimento ad una lunghezza
d’onda di 340 nm, pressocchè assente negli stessi coenzimi ossidati.
Nel 1936 Warburg e Christian descrissero un semplice test fotometrico (ottico) per la
determinazione di tali enzimi trasportatori di idrogeno. Il passaggio dalla forma ridotta
alla forma ossidata, e viceversa, della deidrogenasi costituisce il parametro sul quale si
fonda il test ottico di Warburg; nel caso di idrogenazione del NAD +, scompare la natura
aromatica dell’anello pirimidinico e si forma un composto di natura semichinolica che
possiede un forte assorbimento nel vicino ultravioletto con un massimo a 340nm. A questa
lunghezza il NAD+ non dimostra alcun assorbimento. Entrambe le sostanze invece
possiedono un assorbimento identico a 260nm dovuto ad un gruppo adenilico. ( fig. 4 )
La lettura spettrofotometrica a 340 nm permette quindi di stabilire quanto NAD o NADP
si è ossidato o ridotto e quindi quanto substrato è stato consumato.
In casi meno fortunati, ossia per enzimi i cui prodotti non siano in grado di assorbire la
luce in maniera diversa da quella dei substrati, si possono usare delle reazioni accoppiate,
in cui il prodotto del primo enzima ( quello da dosare) costituisce il substrato di un enzima
successivo che produca sostanze capaci di assorbire la luce.
In altri termini è necessario accoppiare alla reazione primaria che utilizza l’attività
enzimatica presente nel liquido biologico, una seconda reazione detta indicatrice che
utilizzi uno dei prodotti della prima reazione, secondo il principio del test ottico ( test
ottico accoppiato) :
TEST OTTICO ACCOPPIATO
REAZIONE 1 :
43
alfa-CHETOGLUTARATO + ALANINA
L-GLUTAMMATO + PIRUVATO
REAZIONE 2:
PIRUVATO + NADH + H+
LATTATO + NAD+
E’ opportuno ricordare anche la legge di Lambert-Beer:
Log I0 / I = K.l.C
K = coeff. di assorbimento molare ( unità di litro per moli-centimetro )
C = concentrazione della specie che assorbe la luce ( moli per litro )
L = lunghezza del cammino ottico ( campione che assorbe la luce in centimetri )
CONSIDERAZIONI GENERALI SUL METODO DI MISURA DELLE ATTIVITA’
ENZIMATICHE
In
“ vitro” l’attività catalitica degli enzimi dipende da diversi fattori tra di loro
interdipendenti, ognuno dei quali può essere convenientemente studiato mantenendo
costanti le altre variabili.
I principali fattori che interferiscono sulla velocità di reazione possono essere classificati
nei seguenti:
-
la concentrazione del substrato
-
la quantità di enzima che catalizza la reazione
-
lo stato di attivazione dell’enzima e la quantità di cofattori che intervengono
nella reazione
-
la presenza di inibitori
-
la temperatura di incubazione
-
il pH del mezzo di reazione
-
altri fattori.
44
Più precisamente per quanto riguarda la concentrazione del substrato essa deve essere tale
da consentire la completa saturazione dell’enzima durante tutto il tempo di misura; in tal
modo la velocità della reazione enzimatica risulta indipendente dalla concentrazione del
substrato ( cinetica di ordine zero ); si ottengono condizioni ottimali di misura quando
risulta possibile eseguire le misure delle attività enzimatiche con valori di concentrazione
del substrato almeno 50 volte superiori alla Km ( costante di Michaelis ) dell’enzima. Non
sempre è possibile realizzare questa condizione perché in alcuni casi il substrato non è
sufficientemente solubile per cui non è possibile raggiungere una concentrazione
abbastanza elevata mentre, in altri casi, una concentrazione elevata del substrato inibisce
l’enzima.
Tuttavia, anche quando non è possibile raggiungere una concentrazione molto elevata del
substrato, nella fase iniziale la velocità della reazione si mantiene costante, essendo
indipendente, per un tempo limitato, dalla concentrazione del substrato.
La temperatura di reazione per la misura delle attività enzimatiche più frequentemente
impiegate sono rappresentate da 30° C ( metodi di riferimento della IFCC = International
Federation of Clinical Chemistry ) e 37° C
(temperatura consigliata dalla Società
Chimica Clinica Svedese e Italiana); una volta scelta la temperatura per la misura essa
deve essere mantenuta costante entro ± 0.1 °C.
Ricordiamo che mediamente la variazione di 1° C determina una variazione di circa
il’10% nella misura della attività enzimatica. La standardizzazione della temperatura
riveste un’importanza fondamentale: per la quasi totalità degli enzimi l’aumento della
temperatura da 25°C a 37°C comporta un aumento dell’attività dell’enzima di circa il
doppio. Per questo la standardizzazione della temperatura deve precedere qualsiasi
tentativo di standardizzazione dei metodi enzimatici.
Tralasciando la temperatura di 32°C e 35°C, si può dire che le temperature più
frequentemente consigliate sono quelle di 20°C, 30°C e 37°C.
La misura delle attività enzimatiche vengono eseguite all’ optimum di pH, cioè ad un
valore di pH in corrispondenza del quale l’attività dell’enzima risulta massima; talvolta il
valore ottimale del pH dipende anche dalla natura e dalla concentrazione del tampone ( es.
fosfatasi alcalina ).
Gli eventuali coenzimi e/o gli attivatori metallici ( Mg ) devono essere presenti nel mezzo
di reazione in condizioni ottimali.
I substrati impiegati nelle reazioni di misura degli enzimi di interesse clinico sono alle
volte naturali ( LDH, AST, ALT, CK ) talvolta artificiali ( ALP, CHE, AMY ); la scelta
viene fatta fondamentalmente in funzione della comodità di misura dei prodotti formati;
infatti quando i prodotti assorbono nel visibile ( p-nitofenolo, p-nitroanilina) o nel vicino
U.V. ( NADH o NADPH ), risulta agevole seguire la misura spettrofotometrica in continuo
45
( misura cinetica), cioè man mano che la reazione enzimatica avviene nella cella di lettura
dello strumento.
Fondamentalmente, come abbiamo visto, la misura della velocità della reazione enzimatica
è rapportabile alla variazione della concentrazione del/dei prodotti nel tempo ( dP/dt ).
Le misure devono essere effettuate all’inizio della reazione, cioè a partire dal momento
della miscelazione del materiale biologico con il substrato tamponato, e per tempi
relativamente brevi, per evitare inconvenienti dovuti all’esaurimento del substrato.
SIGNIFICATO CLINICO DEGLI ENZIMI NEL SIERO
La determinazione dell’attività di numerosi enzimi nel siero ha acquistato, in questi ultimi
decenni, una grandissima importanza clinica consentendo molte volte di giungere a
diagnosi precise e precoci.
Molte volte il comportamento di un solo enzima nel sangue è sufficiente per consentire la
formulazione di una diagnosi sicura di lesione di un determinato organo o tessuto: infatti
le variazioni della concentrazione degli enzimi nel sangue sono generalmente espressione
di un danno di quei tessuti nelle cui cellule gli stessi enzimi sono presenti, e ciò è
particolarmente significativo nel caso di enzimi organospecifici.
Tralasciando il gruppo degli enzimi contenuti nei globuli rossi, che hanno un significato
particolare e le cui variazioni, non di rado su base genetica, sono legate a determinate
situazioni morbose, accenneremo solo ad alcuni enzimi presenti nel plasma.
Gli enzimi presenti nel plasma sono stati distinti, da Bucher e da Hess, in due grandi
categorie:
-
enzimi plasma specifici
-
enzimi non plasma-specifici.
Questi ultimi poi possono essere distinti in enzimi di secrezione e in enzimi legati al
metabolismo cellulare.
Gli enzimi plasma-specifici sono enzimi che svolgono la loro funzione nel plasma quali
tutti gli enzimi che regolano la coagulazione, la lipoproteina lipasi, la lectina-colesterolo
aciltransferasi.
Questi enzimi vengono sintetizzati a livello delle cellule epatiche e si mantengono nel
sangue a un livello costante grazie a questa attività degli epatociti. Quando per un danno
delle cellule epatiche venga compromessa la loro attività protidopoietica, il livello di
questi enzimi nel sangue diminuisce: per tale motivo la loro concentrazione nel plasma è
presa come indice dello stato funzionale delle cellule epatiche ed in particolare della loro
46
capacità protidosintetica, salvo i casi in cui la loro diminuzione nel plasma è dovuto ad un
difetto genetico.
Gli enzimi non plasma-specifici non esercitano nel plasma alcuna funzione fisiologica. Si
distinguono in:
- enzimi di secrezione si trovano nel siero perché secreti da alcune cellule ghiandolari (
amilasi, lipasi, fosfatasi ) e vengono eliminati attraverso le vie biliari o attraverso le urine.
Questi enzimi possono aumentare nel plasma o perché ne è ostacolata la secrezione, come
avviene, per esempio per la fosfatasi alcalina, normalmente eliminata con la bile, nei casi
di ittero colestatico ( anche se l’aumento della fosfatasi alcalina nel siero in corso di ittero
riconosce cause più complesse ), o perché è aumentata la sintesi e quindi la secrezione,
come si verifica per la fosfatasi acida nel corso di tumori della prostata metastatizzati nei
quali le cellule conservano la proprietà peculiare delle cellule prostatiche di sintetizzare la
fosfatasi acida, o per lesione delle cellule che normalmente li producono, come avviene per
la lipasi e l’amilasi nei casi di pancreatite acuta
-
enzimi legati al metabolismo cellulare sono enzimi presenti nelle cellule in elevata
concentrazione e che si trovano nel plasma, dove non esercitano alcuna funzione, solo in
piccole quantità.
La loro concentrazione aumenta nel plasma nel caso di lesioni delle cellule in cui essi
hanno normalmente sede.
Alcuni di questi enzimi sono specifici di un determinato organo o tessuto; così, ad esempio,
la sorbitolo deidrogenasi, è localizzata esclusivamente nelle cellule epatiche. Accanto ad
enzimi organo-specifici ve ne sono altri, quali gli enzimi della glicolisi ( lattato
deidrogenasi, aldolasi ecc. ) largamente diffusi nei vari tessuti dell’organismo, sia pure con
diversa concentrazione.
Un aumento di questi ultimi enzimi si osserva perciò in numerose condizioni morbose
potendo essere liberati nel torrente circolatorio dalle cellule dei più diversi organi o tessuti
mentre, nel caso degli enzimi organo-specifici il loro aumento nel plasma ha un significato
diagnostico molto maggiore in quanto consente di stabilire a livello di quale organo o
tessuto risiede la lesione causa dell’aumento dell’attività enzimatica nel plasma. Così un
aumento nel plasma della lipasi, enzima a localizzazione quasi esclusivamente pancreatica,
è indice di un danno pancreatico, mentre un aumento della sorbitolo deidrogenasi, enzima
specifico delle cellule epatiche, indica l’esistenza di un danno epatico.
Sotto questo aspetto acquista particolare importanza la determinazione degli isoenzimi nel
siero perché la lesione d’un organo tende a riprodurre nel siero lo stesso quadro
isoenzimatico caratteristico delle cellule del tessuto leso.
Così per quanto riguarda la lattato deidrogenasi, nel caso di infarto miocardio l’aumento
più accentuato nel siero è quello dell’isoenzima LDH1, presente in concentrazione
47
particolarmente elevata nel tessuto del miocardio mentre, nel caso di epatite virale,
aumenta nel siero prevalentemente l’isoenzima LDH5 che prevale nelle cellule epatiche.
Infine nel caso di lesione delle cellule epatiche, la determinazione degli enzimi nel siero
consente di stabilire se il danno cellulare ha interessato in modo particolare i mitocondri,
nel qual caso vi sarà nel siero un aumento spiccato di glutammato deidrogenasi, enzima a
localizzazione mitocondriale.
In definitiva la determinazione degli enzimi nel siero, consente di stabilire in modo sicuro
l’organo o tessuto a carico del quale si è verificato il danno cellulare, mentre l’entità
dell’aumento è un indice, spesso abbastanza fedele, della estensione della lesione.
Il passaggio degli enzimi dalle cellule al torrente circolatorio dipende da vari fattori, quali
la permeabilità delle membrane cellulari e il peso molecolare della molecola enzimatica.
Esso avviene in modo massivo e improvviso e in caso di necrosi cellulare acuta perché, in
questa condizione, tutti i costituenti cellulari sono riversati in circolo.
Tuttavia non è necessaria la necrosi per avere un maggior passaggio degli enzimi dalle
cellule del sangue.
E’ infatti sufficiente un’alterazione, anche funzionale, della permeabilità della membrana
cellulare per consentire la fuoriuscita degli enzimi dalle cellule. Così dopo uno sforzo
muscolare intenso, vi è un aumento nel plasma degli enzimi caratteristici del muscolo (
aldolasi, creatina fosfochinasi ) per un’alterazione funzionale transitoria delle membrane
cellulari. Anche la parziale interruzione delle membrane, l’ ipossia delle cellule, la
mancanza di metaboliti essenziali ( ipoglicemia protratta ) , traumi chirurgici e meccanici,
intossicazioni da farmaci e infezioni rappresentano cause di aumento di attività
enzimatica.
Quando l’aumento degli enzimi nel plasma è la conseguenza di una necrosi cellulare
improvvisa ed estesa, la contemporanea determinazione di diversi enzimi ( enzimogramma
o prifilo enzimatico) dimostra un aumento caratteristico per la sede della lesione in quanto
si trovano aumentati nel siero degli enzimi specifici delle cellule lese.
Gli enzimi di sortita sono quegli enzimi che presentano un netto aumento nel plasma subito
dopo una lesione cellulare.
Esempi di enzimi di sortita sono le transaminasi e la sorbitolo deidrogenasi che aumentano
nettamente nel siero fin dalle fasi iniziali della epatite virale.
Il destino degli enzimi passati in circolo e il modo con cui vengono eliminati dal circolo non
sono ancora stati chiariti. Solo alcuni enzimi hanno un peso molecolare basso tanto da
poter attraversare il filtro costituito dai glomeruli renali ed essere eliminati con le urine (
per es. l’amilasi il cui P.M. è di circa 45000 ).
48
Si può dire in conclusione che i meccanismi di allontanamento degli enzimi dal plasma non
sono ancora ben conosciuti pur costituendo un elemento che dovrebbe essere attentamente
valutato nella interpretazione di un elevato livello degli enzimi nel plasma.
METODO DI STUDIO DEGLI ISOENZIMI
Gli isoenzimi sono proteine che catalizzano la stessa reazione, ma presentano diversa
carica elettrica, diversa solubilità, cioè diverse caratteristiche chimico-fisiche.
Nella diagnosi di alcune patologie è importante poter distinguere tra le diverse forme
isoenzimatiche perché prodotte in diversi organi e quindi indicativi di una specifica
patologia piuttosto che di un’altra.
I metodi di studio degli isoenzimi possono essere di tipo generale se consentono di
separare, e quindi di misurare, tutti i possibili isoenzimi presenti nel materiale biologico;
oppure possono essere specifici se sono diretti alla misura del singolo isoenzima di
interesse diagnostico. Tra i metodi generali annoveriamo l’elettroforesi, la cromatografia,
l’elettrofocalizzazione.
I metodi selettivi si basano sull’ inibizione selettiva di uno o più isoenzimi, seguita dalla
misura dell’attività residua. I metodi di inibizione sono quelli che hanno trovato più vaste
applicazioni, anche perché possono sfruttare svariati principi di tipo chimico, fisico e
immunologico.
LAD ( o LDH ) Lattico – deidrogenasi
E’ un enzima che catalizza la riduzione dell’acido piruvico ad
acido lattico:
piruvato + NADH + H+
lattato + NAD+
E’ un enzima ubiquitario, diffuso nei più svariati organi e tessuti: miocardio, globuli rossi,
reni ( con la più elevata concentrazione ), milza, pancreas, tiroide, linfonodi, fegato e
muscoli scheletrici.. L’aumento in circolo può quindi essere dovuto a processi di
danneggiamento o di necrosi di ciascuno di questi organi e tessuti. Si conoscono 5 forme
isoenzimatiche con diversa migrazione elettroforetica.
In caso di infarto al miocardio l’aumento più accentuato nel siero è quello dell’isoenzima
LDH1. In caso di epatite virale, aumenta nel siero prevalentemente l’isoenzima LDH5 che
49
prevale nelle cellule epatiche. Nell’infarto polmonare vi è un aumento nel siero delle forme
isoenzimatiche LDH2 e LDH3.
CK ( o CPK ) Creatinfosfochinasi
La cratinfosfochinasi è un enzima che catalizza la reazione:
Creatina + ATP
fosfocreatina + ADP
E’ un enzima la cui importanza in laboratorio è legata quasi esclusivamente
alla sua utilizzazione nella diagnostica dell’infarto del miocardio.
E’ presente prevalentemente, ma non esclusivamente, nei muscoli scheletrici, nel
miocardio e nel cervello. Quantità minori si trovano nella muscolatura liscia, nella tiroide,
nel rene, nel fegato.
Gli eritrociti non contengono CK.
Dal punto di vista chimico è un dimero costituito dall’associazione di due subunità.
La varia associazione delle due subunità è alla base della differenziazione nei tre isoenzimi
conosciuti: MM, MB, BB.
AST ( o GOT ) Aspartato aminotransferasi
Le aminotrasferasi catalizzano il trasporto di un gruppo amminico da un amminoacido
all’altro.
L-aspartato + alfa-chetaglutarato
ossalaceteto + L-glutammato
L’ AST ( GOT) è un enzima legato ai mitocondri.
E’ bene ricordare che l’AST è un enzima ubiquitario, presente dunque non solo nel fegato.
Si trova anche nel miocardio, nella muscolatura scheletrica, nei tessuti renali e celebrali.
Oltre che nelle epatopatie aumenta quindi anche in molte altre malattie. La localizzazione
della AST spiega come questo enzima aumenti nel siero, talvolta in modo notevolissimo,
nelle affezioni interessanti il miocardio e il fegato, soprattutto se queste affezioni sono
caratterizzate da necrosi cellulare, e quindi nell’infarto del miocardio e nella epatite
virale.
50
Nei casi di infarto del miocardio la AST aumenta nel siero dopo 8-12 ore dall’inizio della
sintomatologia dolorosa, raggiunge il massimo livello dopo 24-48 ore e poi, nei casi a
decorso favorevole, decresce fino a tornare a valori normali dopo 4-7 giorni. ( fig. 5 )
La determinazione della AST nel siero in caso di infarto del miocardio serve soprattutto
per quattro scopi:
1-
distinguere l’infarto del miocardio da un attacco di angina pectoris
2-
diagnosticare un infarto del miocardio soprattutto nei casi con
elettrocardiogramma dubbio
3-
stabilire l’estensione dell’infarto del miocardio
4-
seguire il decorso della malattia
Più in generale le AST aumentano in caso di:
-
epatite virale ( aumento rapido per 1-2 settimane )
-
epatite tossica ( aumenta anche la LDH )
-
epatite cronica ( fase attiva)
-
necrosi acuta ( aumenta molto l’ ALT )
-
cirrosi
-
neoplasie
-
sindrome di Reye
-
mononucleosi
-
leucemia mielocitica
-
ipertiroidismo
-
chetoacidosi diabetica
-
infarto miocardio
-
infarto renale
-
distofia muscolare
-
morbo di Gaucher
-
morbo di Nieman- Pick
ALT ( o GPT ) Alanina aminotransferasi
Tale enzima catalizza la reazione:
51
L-alanina + alfa-chetaglutarato
piruvato + L-glutammato
l’ ALT ( GPT) è libero nella frazione citoplasmatica degli epatociti con una quota minore
legata ai mitocondri.
La differenza di concentrazione tra i due comparti, extracellulare e intracellulare, è
enorme ( 1:10000 per l’ALT e 1:11000 per l’AST ).
Gli enzimi sono presenti all’interno delle cellule, e di norma le membrane cellulari sono
impermeabili ad essi. Se la cellula è integra e la membrana cellulare è ben funzionante, nel
sangue si versano poche molecole enzimatiche, corrispondenti ai valori considerati
normali nei soggetti sani.
L’ ALT invece è presente in quantità assai più alta nel fegato che negli altri tessuti. La sua
determinazione nel siero risulta utile, di conseguenza, solo nella diagnostica
delle
epatopatie.
Fosfatasi alcalina ( ALP )
Le fosfatasi sono un gruppo di enzimi che catalizzano l’idrolisi del legame esterico fra
alcoli e acido fosforico con liberazione di fosforo inorganico. E’ presente nelle cellule di
molti organi o tessuti: anzitutto fegato e ossa e, in secondo luogo, intestino, placenta e reni.
Sono noti numerosi suoi isoenzimi: epatico, osseo ( osteoblasti ), intestinale, placentare e
renale. Meno conosciuto è un gruppo di tre isoenzimi denominati Regan, non Regan e
Nagao, presenti in alcuni casi di carcinoma.
I valori normali di fosfatasi alcalina circolante sono più elevati in due condizioni
fisiologiche; nei bambini ( perché l’accrescimento osseo è fonte di più abbondante enzima )
e nella gravidanza ( perché passa in circolo l’isoenzima di origine placentare ).
I livelli della fosfatasi alcalina aumentano in circolo prevalentemente in due grandi gruppi
di malattie: nella epatopatie e nelle malattie ossee.
Fosfatasi acida ( ACP )
Catalizza l’idrolisi del legame esterico fra alcoli ed acido organico ad un pH ottimale
leggermente acido, compreso fra 4.8 e 6.0
E’ costituita da un complesso di isoenzimi, presenti anzitutto negli eritrociti, nelle
piastrine e nella prostata, ed anche nelle ossa, nel fegato, nella milza e nei reni
52
E’ secreta dalle cellule all’esterno e la sua funzione si svolge soprattutto nel secreto
prostatico. La prostata sintetizza la fosfatasi acida sotto lo stimolo del testosterone e di
altri androgeni: le cellule prostatiche, non stimolate da androgeni ( bambini, castrati ) non
producono fosfatasi acida.
Aumenta, spesso in modo notevolissimo, ( fino a oltre 100 volte i valori normali ), nei casi
di carcinoma prostatico metastatizzato.
Aumenta, inoltre, nei casi di distruzione intensa delle piastrine
Nei casi di piastrinopenia la determinazione della fosfatasi acida nel siero può essere utile
per distinguere le forme di eccessiva distruzione di piastrine dalle forme di diminuita
formazione.
γ-GT ( o GGT ) γ-glutamil- transpeptidasi
Catalizza il trasporto del gruppo gamma-glutammile da un gamma-glutammilpeptide a
un altro peptide o ad un amminoacido
-glutammil-cisteinil-glicina ( glutatione ) + amminoacido
gamma -glutammil-
amminoacido + cisteinil-glicina
E’ una glicoproteina legata alle membrane plasmatiche, responsabile della sintesi
intracellulare di glutatione.
Il suo livello nel sangue aumenta fortemente negli alcolisti, perché l’alcool etilico induce
una sua elevata produzione da parte del fegato.
L’aumento dell’enzima può essere conseguenza della sola induzione alcolica, senza
epatopatie associate. Il danno epatocellulare e la colestasi possono a loro volta contribuire,
ma non obbligatoriamente, all’aumento della GGT sierica. Anche vari farmaci, in primo
luogo la rifampicina, gli antiepilettici, i barbiturici e gli antidepressivi triciclici possono
indurre una aumentata produzione dell’enzima.
Per quel che riguarda l’utilizzazione del dosaggio della GGT nella diagnosi delle
epatopatie, si può affermare che esso è un enzima della colestasi come la fosfatasi alcalina
di origine epatica, e si differenzia da questa per la maggiore sensibilità e la minore
specificità.
53
Colinesterasi
Gruppo di enzimi in grado di idrolizzare gli esteri della colina.
Il termine esatto per definire questo enzima, quando si parla dell’enzima circolante, è
quello di pseudocolinesterasi.
E’ un tipico esempio di enzima plasmaspecifico, prodotto dal fegato per essere immesso
nel circolo, il cui livello diminuisce quando è danneggiata la capacità di sintesi epatica
delle proteine.
Il dosaggio della pseudocolinesterasi è di scarso aiuto nella diagnosi delle epatiti
perché l’enzima si abbassa solo dopo la prima settimana di malattia, quando la diagnosi è
già stata posta.
Nelle epatiti croniche e nelle cirrosi, i livelle di pseudocolinesterasi circolante
diminuiscono
proporzionalmente
al
danno
epatico.
Esistono
due
forme
di
pseudocolinesterasi, una normale e una atipica.
Amilasi ( AMS )
Enzimi che idrolizzano alcuni polisaccaridi quali l’amido e il glicogeno.
L’attività amilasica è il risultato di molteplici attività isoenzimatiche di diversa origine:
solo il 30% delle amilasi circolanti sono di origine pancreatica, il 60% circa è di origine
salivare, il 10% ha origine dal fegato, dalle ghiandole sudoripare, dalle trombe di
Falloppio, dai muscoli, dal tessuto adiposo e dai polmoni. Amilasi sono presenti, oltre che
nel sangue e nel succo pancreatico, anche nelle urine, nelle feci, nel latte e nello sperma.
L’interesse clinico della determinazione dell’amilasi consiste nel fatto che essa aumenta sia
nel siero che nelle urine, raggiungendo non di rado valori elevatissimi, nella pancreatite
acuta per cui la sua determinazione costituisce un elemento essenziale nella diagnosi di
questa affezione.
Aumenti della amilasi nel siero, sia pur di entità più modesta di quelli che possono
osservarsi nella pancreatite acuta, si hanno o si possono avere anche in altre condizioni
morbose delle quali alcuni interessanti il pancreas ( ulcera gastrica perforata nel pancreas,
traumi addominali, ostruzione dei dotti pancreatici per calcoli, per tumori o per spasmo di
Oddi in seguito alla somministrazione di oppiacei) o le ghiandole salivari, ( parotite ) etc.
54
MARKERS TUMORALI
I marcatori tumorali sono prodotti dai tumori maligni determinabili sia nelle cellule
tumorali che nei liquidi biologici.
Il marker tumorale per eccellenza dovrebbe essere quello che consente una distinzione non
equivoca tra cellule normali e cellule trasformate in tumorali, ma sfortunatamente tale
marker non è ancora stato scoperto.
Esistono però diversi marcatori che possono essere misurati nel laboratorio analisi e
rivelano la loro utilità nell’identificare l’origine delle cellule metastatiche o delle cellule di
tumori primari non differenziati.
Le cellule metastatiche possono essere così indifferenziate da non consentire la distinzione
tra cellule di origine epiteliale e cellule di origine mesenchimale.
Il determinare l’origine delle cellule tumorali altamente indifferenziate è importante
perché la decisione terapeutica può essere basata sull’identificazione corretta dell’origine
della linea tumorale.
Per fare un esempio, il trattamento di un carcinoma è chirurgico, mentre i linfomi sono
trattati esclusivamente con radio e chemioterapia.
I markers tumorali comprendono in genere immunoglobuline, proteine fetali
normalmente non sintetizzate da cellule differenziate, enzimi, ormoni, proteine del
citoscheletro e molecole di adesione o giunzionali.
La validità di un marker tumorale si esprime come sensibilità e specificità diagnostica
secondo quanto già esposto per i metodi di laboratorio.
In linea teorica la specificità dovrebbe essere 100% (nessun risultato falso positivo), ma in
realtà questa cifra è sempre inferiore al 100% per qualsiasi marker sperimentato.
Qualche marker usato nella diagnosi di tumori particolari, come per esempio il CA 72-4
nel carcinoma gastrico, ha comunque mostrato specificità molto vicina a 100%.
Un buon marker si avvicina ad una sensibilità del 95% con un valore della specificità
sopra 80%.
Per i markers tumorali non ha significato parlare di valori normali e si parla così di valore
cut-off o valore di soglia superiore.
Spesso è anche necessario definire una zona intermedia tra la soglia superiore e i valori
che possono essere riferiti come valori patologici, entro la quale i valori, vicini ai valori
della soglia superiore hanno scarso valore predittivo.
I valori della zona intermedia devono essere controllati perché possono riferirsi a reazioni
infiammatorie più che a presenza di tumore.
In caso di valori entro la zona intermedia bisogna escludere la presenza di affezioni
tumorali benigne.
55
Spesso si è pensato all’uso dei markers tumorali in epidemiologia e per operazioni di
screening (valutazione del numero di malati in una popolazione).
I markers non sono assolutamente adatti ad operazioni di questo tipo perché il numero di
falsi positivi, classificati come portatori di tumore, risulterebbe così alto da comportare
difficoltà tali da non giustificare il numero dei casi di tumori maligni effettivamente
scoperti.
I markers tumorali si possono dividere in:
-
markers cellulari rilevabili con metodi istologici, istochimici e istoimmunochimici
su cellule o tessuti fissati su vetrino. Di grande aiuto in questo tipo di
determinazioni sono gli anticorpi monoclonali altamente specifici.
-
markers umorali rilevabili nei liquidi biologici come antigeni associati al tumore.
CRITERI DI VALUTAZIONE DEI MARKERS
Vari fattori contribuiscono alla valutazione della validità di un marker tumorale
La sensibilità definisce la capacità di un marker di riconoscere la presenza di malattia in
pazienti realmente ammalati.
La
specificità definisce la capacità di un marker di discriminare tra soggetti sani e
soggetti malati.
L’ efficacia diagnostica è espressa dalla sommatoria della specificità e della sensibilità per
differenziare tra malati e sani.
Valore predittivo positivo o negativo esprimono rispettivamente l'attendibilità di un
risultato positivo o negativo.
Per la valutazione della utilità diagnostica di un marcatore, quando applicato in una data
popolazione, è necessario usare formule più complesse che tengano conto della prevalenza
della malattia indagata nella popolazione che si intende studiare.
CURVA DI ROC
Il diagramma della Specificità e della Sensibilità, chiamato anche curva ROC (receiveroperating characteristics) è un'ulteriore e più moderno approccio per valutare il valore
diagnostico di un marcatore tumorale.
Per la costruzione della curva sul diagramma vengono usati diversi valori soglia che più o
meno identificano diverse coppie di valori di Sensibilità e Specificità.
Questo permette di:
56
1) paragonare due marcatori differenti
2) scegliere il valore soglia più o meno consono alle diverse esigenze diagnostiche.
QUANDO USARE I MARKERS
L'utilità dei markers tumorali varia al variare dei momenti clinici della malattia
neoplastica. E'pertanto opportuno indicare schematicamente il diverso ruolo dei markers
nelle differenti situazioni cliniche in cui possono essere richiesti
Screening
I marcatori tumorali non sono generalmente indicati in una popolazione asintomatica.
Infatti, i livelli di sensibilità e specificità dei markers sono troppo bassi per assicurare una
quota accettabile di falsi negativi e positivi.
Diagnosi
Diagnosi di un tumore primitivo La mancanza di una assoluta sensibilità e specificità ne
limitano l'utilità. Sono però di sicuro aiuto in alcune neoplasie come: Carcinoma midollare
della tiroide; Carcinoma del testicolo; Carcinoma dell'ovaio; Carcinoma della prostata;
Carcinoma del polmone (a piccole cellule). Infatti per queste neoplasie esistono marcatori
tumorali ad alta specificità tissutale.
Localizzazione del tumore primitivo
Nelle metastasi a partenza ignota, quando hanno origine da neoplasie che esprimono
marcatori con alta specificità tissutale, l'uso dei markers tumorali è sicuramente molto
utile per l'identificazione della zona dove il tumore si è originato.
Tumore primitivo già diagnosticato
La determinazione dei markers tumorali va eseguita per i seguenti obiettivi:
1) per ottenere un valore basale prima di una terapia
2) per avere ulteriori indicazioni sull'estensione della malattia considerando la
proporzionalità che esiste tra i livelli ematici di un marcatore e la dimensione del
tumore.
Monitoraggio terapia tumore primario.
Il dosaggio dei markers tumorali dopo terapia primaria è utile per:
57
1) evidenziare l'eventuale presenza di malattia residua non completamente radicata.
2) evidenziare il più precocemente possibile la eventuale comparsa di recidive.
Monitoraggio malattia avanzata
In questa fase se si vuole monitorare l'efficacia di una terapia i markers tumorali sono
sicuramente necessari. Infatti, i markers tumorali indicano in maniera più precoce,
rispetto ad altre tecniche cliniche o strumentali, il successo o l'insuccesso della terapia.
Incrementi non specifici dei markers
Principali condizioni non patologiche per le quali si possono rilevare aumentati livelli
ematici di alcuni markers
Condizione Markers gravidanza
alfaFetoproteina, hCG, CA125, TPS, Target ciclo mestruale CA125, fumo CEA, TPS,
Target alcool CEA, TPS, Target terapia marziale Ferritina, emotrasfusioni, Target
catetere vescicale PAP, PSA, NMP22
Principali condizioni patologiche non neoplastiche per le quali si possono rilevare
aumentati livelli ematici di alcuni markers
Condizione Markers epatopatia cronica
CEA, TPS, Ferritina, CA15.3, CA119.9, CA 125, target ittero CEA, TPS, Ferritina, CA
19.9 bronco-polmonite cronica CEA, TPS, ascite CA125 ,versamento pleurico CA125,
endometriosi CA125, pancreatite CA19.9 e CA125, nefropatia cronica CEA e TPS.
Target ipertrofia prostatica PAP, PSA, NMP22, ritenzione urinaria PAP, PSA
Target malattie reumatiche CA19.9, diabete CA19.9
Per l'utilizzo clinico del dato è necessario:
1) conoscere l'esistenza di possibili cause non neoplastiche di incremento
2) nei casi dubbi confermare il risultato con un successivo prelievo.
PRINCIPALI NEOPLASIE
Carcinoma della prostata, Carcinoma del testicolo, Carcinoma della mammella,
Carcinoma dell’utero, Carcinoma dell’ ovaio, Carcinoma del colon-retto, Carcinoma del
58
fegato, Carcinoma del pancreas, Carcinoma della tiroide, Carcinoma della vescica,
Carcinoma della prostata.
Generalità
Il Carcinoma della prostata presenta un tasso grezzo di mortalità di 22/100.000 ed è la
seconda causa di morte per cancro nell'uomo.
Tuttavia, il Carcinoma della prostata è un rilevante problema sociale, sia per la sua alta
incidenza, sia perché mostra un tasso di incremento con l'età molto maggiore di quello di
tutte le altre neoplasie. Pertanto, considerato l'aumento dell'età media nei paesi
occidentali, ci si aspetta che il Carcinoma della prostata assuma un ruolo sempre più
rilevante.
Infine, il Carcinoma della prostata decorre a lungo asintomatico e frequentemente viene
diagnosticato quando avanzato.
La prognosi del Carcinoma della prostata è legata principalmente allo stadio con
probabilità di sopravvivenza che variano dal 90-95% negli stadi iniziali al 15-20% negli
stadi localmente avanzati.
Esami strumentali di base
-
Esplorazione rettale
-
Ecografia prostatica
-
Biopsia / Esame istologico di stadiazione o approfondimento
-
TAC (o RMN) addomino-pelvica
-
Rx
-
Scintigrafia ossea
Ruolo dei markers
Nel Carcinoma della prostata è disponibile un marker tumorale molto efficace dotato di
elevatissima specificità tissutale: il PSA.
Il marker, integrato con altri parametri clinici e strumentali, viene considerato un
elemento di primaria utilità in fase diagnostica, nella valutazione del trattamento del
tumore primario, nel monitoraggio dopo la terapia e nel monitoraggio della terapia per la
malattia avanzata.
ANTIGENE CARCINO-EMBRIONARIO
Rappresenta l'antigene oncofetale più noto e fu isolato la prima volta nel 1965 nel siero di
pazienti affetti da carcinoma del colon. Successivamente ulteriori indagini identificarono
59
tale antigene in numerosi tipi di carcinomi. Risulta l'esistenza di diversi determinanti
antigenici che provocano reazioni crociate con antigeni "CEA-simili".
Indicazioni
Carcinoma del colon-retto, Carcinoma della mammella, Carcinoma del polmone,
Carcinoma dello stomaco, Carcinoma del pancreas e delle vie biliari, Carcinoma della
tiroide, Carcinoma dell'ovaio, Carcinoma dell'utero.
Altre cause di incremento
Condizioni non patologiche quali Fumo e Alcool.
Condizioni patologiche non neoplastiche quali Patologia benigna del tratto gastroenterico,
del fegato, del polmone
Valori di riferimento < 5.0 ng/ml
ALFA-FETO PROTEINA
E'una glicoproteina simile all'albumina; si tratta di una proteina fetale. Viene secreta nel
fegato, nel tratto gastrointestinale e nella membrana vitellina fetale, per giungere
attraverso il flusso sanguigno nel liquido amniotico e per la placenta nel siero materno. Nel
corso della differenziazione, l'espressione del suo gene si reprime, ma in corso di neoplasia
l'AFP può essere nuovamente espressa.
Indicazioni
Carcinoma del fegato, Carcinoma dell'ovaio, Carcinoma del testicolo.
Altre cause di incremento
Condizioni non patologiche quali Gravidanza.
Condizioni patologiche non neoplastiche quali Epatopatia cronica
Valori di riferimento < 7 IU/ml
CA 19.9 ANTIGENE CARBOIDRATICO
Si tratta di un carboidrato dell'antigene di gruppo sanguigno Lewis (+); pertanto esso è
assente nei soggetti che appartengono al raro gruppo sanguigno Lewis (-) e che
rappresentano il 3-5 % della popolazione. L'epitopo è espresso in sequenza ripetuta sulla
60
superficie di glicolipidi e di glicoproteine muciniche ad alto peso molecolare (circa 3601.000 Kd), secrete da tumori.
Indicazioni
Carcinoma del pancreas, Carcinoma del colon-retto, Carcinoma gastrico, Carcinoma delle
vie biliari.
Altre cause di incremento
Condizioni patologiche non neoplastiche quali Ittero, Patologia benigna del tratto
gastroenterico, del pancreas, del fegato, della colecisti e del polmone, Nefropatia diabetica,
Malattie reumatiche.
Condizioni patologiche neoplastiche quali Carcinoma dell'ovaio (mucinoso), Carcinoma
dell'utero, Carcinoma della mammella.
Valori di riferimento < 33 U/ml
CA 15.3 ANTIGENE CARBOIDRATICO
Mucina epiteliale polimorfica (PEM, MUC1) ad alto peso molecolare (circa 300-450 Kd)
costituita da un core proteico incapsulato da glucidi. Il polimorfismo è associato alla
componente proteica, espressa in sequenze ripetute il cui numero può variare da 20 a 75
volte. L'eterogeneità di questa mucina trova riscontro anche nelle differenze di
glicosilazione tra individui, tra organi e tra cellule maligne o normali. Livelli elevati si
osservano nei tumori mammari, in relazione allo stadio; tuttavia come altri markers
mucinici il CA 15.3 non è specifico di un organo o di un tipo di neoplasia.
Indicazioni
Carcinoma della mammella
Altre cause di incremento
Condizioni patologiche non neoplastiche quali Patologie benigne del seno, Epatopatia
cronica, Infezioni urinarie, Pancreatite acuta, Malattie autoimmuni.
Condizioni patologiche neoplastiche quali Carcinoma dell'ovaio, Carcinoma colorettale e
Carcinoma del polmone.
Valori di riferimento < 51 U/ml
CA 125 ANTIGENE CARBOIDRATICO
61
E'un complesso glicoproteico mucinico ad elevato peso molecolare (200 10.000 Kd). Nel
core proteico dell'antigene sono presenti determinanti ripetitivi, i quali esprimono 3
diversi epitopi. Questi sono stati caratterizzati nel Workshop TD-1 (ISOBM'94) come:
Oc125, M11 ed un terzo epitopo non denominato. Livelli elevati sono correlati alla massa
tumorale nel Ca ovarico. L'antigene, tuttavia, non è specifico per l'ovaio e può essere
rilevato in altre neoplasie.
Indicazioni
Carcinoma dell'ovaio, Carcinoma dell'endometrio, Carcinoma della tuba.
Altre cause di incremento
Condizioni non patologiche quali Mestruazioni, Gravidanza.
Condizioni patologiche non neoplastiche quali Endometriosi, Pericarditi, Infiammazioni
pelviche, Pancreatite, Epatopatia cronica, Cirrosi ascitogena, Versamenti: pleurici,
peritoneali e pericarditi.
Condizioni patologiche neoplastiche quali Carcinoma del polmone, Carcinoma del
pancreas, Carcinoma dello stomaco, Carcinoma del colon-retto.
Valori di riferimento < 20 U/ml
TPS ANTIGENE POLIPEPTIDICO TISSUTALE SPECIFICO
Marcatore sierologico per il controllo dell'efficacia della terapia nei pazienti con tumore. Il
TPS infatti è un indice di attività del tumore e segnala precocemente cambiamenti clinici
quando la terapia risulterà non efficace. Per contro rispetto ad altri marcatori tumoreassociati, il TPS reagisce più rapidamente ed in un maggior numero di pazienti nei quali la
terapia è efficace.
Indicazioni
Monitoraggio del trattamento dei tumori della mammella, dell'ovaio, della cervice, della
prostata e gastrointestinali
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Altre cause di incremento
Condizioni patologiche non neoplastiche quali patologia benigna del tratto gastroenterico,
patologia benigna del fegato (acuta,cronica), patologia benigna del pancreas, patologia
benigna del rene, processi infiammatori recenti.
Valori di riferimento < 80 U/L (95°percentile)
hCG GONADOTROPINA CORIONICA UMANA
E' un ormone glicoproteico, di norma presente nel sangue e urine solo durante la
gravidanza. La molecola intatta di hCG (circa 37 Kd) è costituita da due differenti
subunità, alfa e beta, legate non covalentemente. Queste subunità si possono presentare
anche in forma libera, dissociate tra loro. La misura dell'hCG è di utilità nei tumori
testicolari di origine germinale, nei tumori trofoblastici e in alcuni coriocarcinomi. Studi
sull'eterogeneità dell'hCG nei pazienti con tumori maligni hanno dimostrato l'importanza
della misura dell'hCG totale (intatto + subunità beta).
Indicazioni
Tumori testicolari, Coriocarcinoma.
Altre cause di incremento
Condizioni non patologiche quali Abuso di marijuana.
Condizioni patologiche non neoplastiche quali Insufficenza testicolare primaria.
Valori di riferimento < 5 mlU/ml
(*) si ricorda l'importante ruolo dell'hCG nello studio delle gravidanze patologiche.
FREE BETA hCG SUBUNITÀ LIBERA DELLA CATENA BETA DELLA
GONADOTROPINA CORIONICA
A differenza della subunità alfa dell'hCG (identica alla subunità alfa di LH, FSH e TSH),
la subunità beta dell'hCG è specifica per l'hCG. La misura del Free Beta hCG è utile nella
diagnosi e monitoraggio di alcuni tumori testicolari e nelle patologie trofoblastiche
(coriocarcinoma): infatti, in questi pazienti, si osservano elevati rapporti di Free Beta hCG
rispetto all'hCG intatto. Aumentate concentrazioni di Free Beta hCG hanno importanti
implicazioni cliniche, ad esempio per ottimizzare la chemioterapia. Inoltre, in alcuni
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tumori si osserva una secrezione esclusiva di Free Beta hCG, in totale assenza di hCG
intatto.
Indicazioni
Tumori testicolari, Coriocarcinoma.
Altre cause di incremento
Condizioni non patologiche quali Abuso di marijuana.
Condizioni patologiche non neoplastiche quali Insufficenza testicolare primaria.
Valori di riferimento < 0.1 ng/ml
(*) si ricorda l'importante ruolo del Free Beta hCG nello studio delle gravidanze
patologiche
FERRITINA
Si tratta di una proteina di accumulo di ferro, precisamente di una proteina globulare
formata da 24 subunità di 2 tipi (H, L). Il suo peso molecolare varia da 460 a 550 Kd.
Il dosaggio della Ferritina trova utilizzo clinico nei disordini del metabolismo del ferro e
come marker di alcune patologie neoplastiche.
Indicazioni
Leucemie acute, Carcinomi epatici, Linfomi di Hodgkin.
Altre cause di incremento
Condizioni non patologiche quali Emotrasfusione, Terapia marziale.
Condizioni patologiche non neoplastiche quali Epatopatia acuta e cronica, Processi
flogistici, Condizioni patologiche neoplastiche quali Carcinoma della mammella,
Carcinoma dell'esofago, Neoplasie del capo-collo.
Valori di riferimento maschi: 18 370 ng/ml; femmine: 9 120 ng/ml
BETA2 MICROGLOBULINA
Proteina a basso peso molecolare (11.8 Kd) appartenente alla famiglia degli antigeni HLA.
La struttura è simile a quella della regione CH3 delle immunoglobuline. Riveste un ruolo
importante per il riconoscimento linfocitario. La sua eliminazione avviene per via renale.
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Nei soggetti sani sia il livello catabolico che quello anabolico risultano stabili, così come sia
il livello sierico che quello urinario.
Indicazioni
Mieloma multiplo, Linfoma di Hodgkin.
Altre cause di incremento
Condizioni patologiche non neoplastiche quali Malattie infiammatorie croniche, Epatite
virale e Mononucleosi infettiva.
Valori di riferimento urine < 300 ng/ml ; siero <1.730 ng/ml
(*) si ricorda il ruolo della ß2 Microglobulina nello studio dell'AIDS
SIL-2R RECETTORE SOLUBILE PER L'INTERLEUCHINA 2
Il recettore dell'IL-2 è una proteina che media l'azione dell'IL-2. I linfociti T e B non
mostrano avere un significativo numero di questi recettori sulla membrana cellulare.
Tuttavia, quando in seguito a stimolazione i linfociti cominciano a dividersi, l'espressione
dell' IL-2R cambia in due modi: molte molecole di IL-2R vengono espresse sulla
membrana cellulare; inoltre, una forma di 10 Kd più piccola viene rilasciata nel torrente
circolatorio.
Indicazioni
Leucemie (marker d'elezione per leucemia a cellule capellute), Linfomi Melanomi
Altre cause di incremento
Condizioni patologiche non neoplastiche quali Malattie infettive (AIDS), Malattie
autoimmuni Valori di riferimento < 913 U/ml
TIREOGLOBULINA
Proteina di deposito degli ormoni tiroidei. Particolarmente utile nel monitoraggio dei
pazienti con carcinoma tiroideo che hanno subito un trattamento chirurgico o la terapia
con iodio radioattivo. L'eventuale persistenza di livelli elevati suggerisce la presenza di
residui tumorali o metastasi.
Indicazioni
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Carcinoma differenziato della tiroide
Altre cause di incremento
Condizioni non patologiche quali Agobiopsia tiroidea.
Condizioni patologiche non neoplastiche quali Tireotossicosi, Tiroiditi, Adenomi tiroidei.
Valori di riferimento < 5 ng/ml
CALCITONINA
La Calcitonina viene sintetizzata dalle cellule parafollicolari della tiroide, in forma di
precursore, quindi secreta come un peptide di 32 amminoacidi con emivita in circolo di 10
min. La Calcitonina è stimolata dall'ipercalcemia e da altre sostanze (gastrina,
catecolamine). Ha un'azione antagonista a quella del PTH. La Calcitonina nell'osso
favorisce il deposito di calcio e fosforo e inibisce gli osteoblasti, nel rene diminuisce il
riassorbimento, sull'intestino pare aumentare il flusso di calcio attraverso la parete in
entrambe le direzioni, con un effetto totale minimo.
Indicazioni
Neoplasie midollari della tiroide.
Altre cause di incremento
Condizioni patologiche non neoplastiche quali Iperparatiroidismo, Insufficienza renale,
Condizioni patologiche neoplastiche quali Leucemie, Patologie mieloproliferative,
Carcinoma polmonare.
Valori di riferimento < 10 pg/ml
(*) i maschi presentano valori più elevati delle femmine.
In età avanzata i livelli tendono ad aumentare.
NMP22
Si tratta di una proteina della matrice nucleare appartenente ai costituenti proteici del
fuso nucleare mitotico, riconosciuta da 2 anticorpi monoclonali identificati rispettivamente
dalle sigle 302.22 e 302.18. Il dosaggio è stato progettato per la identificazione dalle urine
della suddetta proteina con lo scopo di valutare l'esistenza di differenze significative di
concentrazione tra soggetti normali e quelli affetti da carcinoma superficiale della vescica.
Gli studi effettuati per sottoporre il dosaggio all'approvazione della Food and Drug
Administration (FDA), ente americano che valida le applicazioni per le quali è ammessa la
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commercializzazione, hanno dimostrato che estratti cellulari preparati da linee tumorali
(J82, J24 e RT4) mostrano valori di NMP22 da 25 a 50 volte superiori rispetto a quelli
misurabili in estratti di cellule uroteliali normali. Sulla base degli studi clinici l'FDA ha
validato l'uso del dosaggio per il monitoraggio dei pazienti sottoposti ad intervento di
resezione transuretrale (TURBT). L'utilità del test si evidenzia specialmente nei tumori di
basso grado dove l'esame citologico fornisce spesso risultati equivoci, con la conseguente
possibilità di personalizzare i protocolli di sorveglianza alle effettive esigenze del paziente.
Elevati livelli di NMP22 evidenziano, inoltre, il 100% dei pazienti con evoluzione
infiltrante della malattia.
Indicazioni
Monitoraggio dei pazienti con carcinoma superficiale della vescica sottoposti a TURBT
(approvato da FDA). Può essere utilizzato anche ad uso diagnostico in combinazione con
l'esame citologico di cui è il complemento ideale perché fornisce una sensibilità più elevata
che potenzia quella dell'esame citologico che, a sua volta, è in grado di fornire una
maggior specificità.
Altre cause di incremento
Condizioni non patologiche quali Catetere vescicole, Cistoscopia di recente esecuzione,
Condizioni patologiche non neoplastiche UTI/Cistite Ipertrofia prostatica benigna,
Prostatite Valori di riferimento < 10 U/ml
ANTIGENE POLIPEPTIDICO TISSUTALE (TPA)
Il primo dosaggio delle citocheratine circolanti fu eseguito nel 1957 da Bjorklund, che
descriveva un "principio antigenico comune di natura proteica", denominato antigene
polipeptidico tessutale, che era stato da lui isolato da un pool di tumori epiteliali di tipo
diverso. Nei liquidi biologici umani l'antigene è stato misurato quantitativamente prima
con metodi di emoagglutinazione e successivamente con dosaggi radioimmunologici. I due
metodi hanno dato risultati comparabili, ma il metodo RIA permette di dosare
concentrazioni assolute di antigene molto più basse, per cui risulta complessivamente più
sensibile. Il TPA è determinabile, oltre che nei liquidi biologici, anche negli estratti
tessutali dopo omogeneizzazione degli stessi e solubilizzazione in appositi tamponi. Lo
studio della localizzazione del TPA su sezioni istologiche è stato possibile mediante
tecniche
di
immunofluorescenza
e
di
immunoperossidasi,
che
permettono
la
visualizzazione diretta dell'antigene all'interno delle cellule tumorali. Negli anni '80 veniva
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approntato un metodo immunometrico di dosaggio del TPA che si basava su un anticorpo
policonale contro l'antigene polipeptidico. L'avvento degli anticorpi monoclonali ha
contribuito a far luce sulla natura della frazione immunologicamente attiva del TPA, che
si è rivelata essere una miscela di citocheratine (8, 18, 19), che sono le citocheratine più
largamente rappresentate nei tessuti epiteliali. Ciò ha portato ad una modifica del test
originario per il dosaggio del TPA , che introducendo come immunoreagente i rispettivi
anticorpi monoclonali contro le citocheratine 8,18 e 19, ha migliorato la specificità
diagnostica, riducendo il numero dei falsi positivi. I livelli sierici di TPA sono dipendenti
soprattutto dall'attività proliferativa della neoplasia piuttosto che dal volume del tumore.
Le osservazioni condotte su culture cellulari, permettono di concludere che il TPA debba
essere considerato un marcatore di proliferazione: con metodi immunocitochimici è stato
dimostrato, infatti, che la sintesi del TPA inizia nella prima parte della fase S del ciclo
cellulare e che la sua concentrazione intracellulare aumenta progressivamente durante
questa fase sintetica; al termine della fase S tutto il TPA si trova localizzato in prossimità
della membrana plasmatica e viene successivamente eliminato nell'ambiente extracellulare
immediatamente prima della divisione
cellulare. I valori sierici del TPA possono
aumentare anche in situazioni non neoplastiche, perché tutti i processi che determinano
lisi cellulare e liberazione di parti di citoscheletro, possono produrre innalzamenti del
marcatore. Situazioni infettive di natura batterica e virale, malattie autoimmuni, epatiti,
cirrosi, colestasi, infezioni croniche del tubo digerente, delle vie aeree e urinarie si
accompagnano con una certa frequenza ad un incremento dei livelli ematici del marcatore.
Poiché spesso alcune di queste situazioni possono essere presenti in un paziente in cui si
sospetti una patologia neoplastica, diviene essenziale tenerle in attenta considerazione
quando si valutino i risultati del TPA nel singolo soggetto. Questi dati sono poi
fondamentali nella determinazione del cut-off e dei livelli decisionali del marcatore; in
base alla nostra esperienza ed alla nostra casistica, la soglia è stata fissata in 95 U/ mL.
Valori sierici superiori al cut-off sono stati ottenuti nel 55% delle neoplasie del colon-retto,
nel 71% di quelle del pancreas, nel 58% del carcinoma della mammella e nel 45% dei
tumori dello stomaco. Nel 56% delle forme disseminate del carcinoma polmonare, nel
90% dei pazienti con carcinoma del fegato, nel 53% di quello della prostata, nell'80%
della vescica e nell'80% del carcinoma della tiroide (sia midollare che indifferenziato), è
stato possibile registrare valori sierici elevati di TPA. Comunque, il dosaggio del TPA
sierico si è dimostrato particolarmente utile in tutte quelle patologie per le quali non
esistono ancora oggi corrispondenti marcatori biologici sufficientemente specifici, né
marcatori con accettabili caratteristiche di sensibilità diagnostica. Le potenzialità
diagnostiche del TPA, ma comunque di tutti i marcatori tumorali, aumentano
sensibilmente se dosato in associazione ad altri marcatori; il loro uso combinato, permette
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di accrescerne la sensibilità diagnostica ed in alcuni casi anche la specificità. L'impiego del
dosaggio del TPA si è dimostrato particolarmente utile nel monito-raggio dei pazienti con
neoplasie e sottoposti a trattamento o nel follow-up dei pazienti trattati radicalmente.
Questo tipo di applicazione clinica rappresenta la più logica utilizzazione del dosaggio dei
marcatori tumorali. L'esecuzione di dosaggi seriati nel tempo ed il riscontro di variazioni
quantitative del marcatore può fornire indicazioni sulla presenza del tumore e sul suo
comportamento biologico. Tutti gli agenti che agiscono direttamente sulla neoplasia
(chemioterapia, radioterapia, immunoterapia, ormonoterapia), se in grado di arrestarne lo
sviluppo o di provocarne la remissione, determinano modificazioni quantitative del TPA,
che è correlato più con l'attività della neoplasia che non con la presenza della stessa. E'
stato dimostrato infatti, che esistono significative differenze tra i valori sierici di TPA nei
pazienti con neoplasia progressiva e quelli in pazienti con neoplasia sotto efficace controllo
terapeutico. Anche per questa caratteristica il TPA può essere assunto quale indice
prognostico delle neoplasie, essendo il marcatore indicativo della particolare attività
proliferativa del tumore. Alcuni marcatori citocheratinici, di cui sono disponibili kits
commerciali per la loro determinazione nel siero sono il TPS ed il più recente
CYFRA 21-1. POLIPEPTIDE SPECIFICO TISSUTALE (TPS)
Bjorklund, utilizzando un anticorpo monoclonale che riconosce l'epitopo M3 della
citocheratina 18, ha sviluppato un test per un "determinate specifico del TPA" il
cosiddetto TPS. Molti elementi fanno concludere che anche questo dosaggio sembra avere
come bersaglio antigenico le proteine del citoscheletro. Sta di fatto che il dosaggio del TPS
sembra essere ben correlabile con l'attività proliferativa cellulare. Diversi studi
dimostrano che la determinazione del TPS può essere utile nel valutare la risposta alla
terapia e può costituire un'indicazione prognostica interessante, specie nei tumori della
mammella, del tratto gastroenterico ed in quelli genitali. Essendo il test relativamente
recente, sono in corso studi di convalida su casistiche molto più ampie, dalle quali
potranno emergere ulteriori dati di conferma.
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MORBO CELIACO
La celiachia o sprue nostrana è definita come una condizione primitiva e permanente di
intolleranza ad una proteina del frumento LA GLIADINA ed alle corrispondenti proteine
PROLAMMINE di segale, orzo avena e triticale.
Negli individui geneticamente predisposti, queste proteine sono in grado di provocare
profonde
alterazioni
della
mucosa
intestinale,
conseguenti
ad
una
risposta
autoimmunitaria abnorme.
Tale malattia rappresenta il caso più eclatante di tossicità indotta da componenti normali
della dieta, introdotti e tollerati in migliaia di anni da miliardi di individui.
Il malassorbimento che ne deriva è curabile solo con la dieta di eliminazione (Dicke in
Olanda la studiò gli anni della guerra)
Anoressia
Diarrea
Steatorrea (perdita di grassi con le feci)
Sono i tre segni salienti della celiachia
EPIDEMIOLOGIA
La malattia è nota dall’antichità (Areteo di Cappadocia, I secolo D.C.)
La maggioranza degli intolleranti al glutine non ha segni classici.
Alcuni addirittura non hanno alcun sintomo (variabilità biologica).
Geneticamente è relativamente recente (8 mila anni di consumo del grano non sono molti
per una mutazione che colpisce uomini di tutti i continenti)
70
La spiga del primo grano era piccola (1 cm) e forse non conteneva glutine, ma durante i
millenni sono stati selezionati i grani con maggiori capacità di adesione (Glutine) per fare
focacce.
Oggi nei grani il 50% delle proteine è rappresentata da Glutine.
I discendenti delle tribù di cacciatori e pescatori, adattatisi solo tardi alla agricoltura ed
alla pastorizia, hanno mantenuto un patrimonio genetico non abituato alle grandi
modifiche alimentari e trovatisi subito di fronte a grani ad elevato contenuto in glutine
non sono riusciti a tollerarlo.
Sono le stesse popolazioni che non tollerano il lattosio dopo il periodo neonatale
(meccanismo di protezione dell’infanzia)
Perché gli intolleranti non si sono estinti ?
I soggetti affetti da celiachia, in presenza di glutine, attivano una risposta immunitaria
abnorme che si rivolge contro alcune proteine non fibrillari del collageno (Reticolina ed
Endomisio).
Il malassorbimento e la denutrizione associati alle infezioni frequenti ed alla diarrea acuta
rischiano di uccidere tutti i celiaci.
Non tutte le popolazioni coltivano Grano:
Mais, riso, tuberi, legumi sono la fonte principale in oltre 2/3 della terra.
Queste popolazioni hanno continuato a trasmettere quei geni che non riconoscevano il
glutine.
L’allattamento prolungato al seno (praticato fino ad una generazione fa) protegge contro
la precoce immissione di glutine e le diarree letali del neonato.
Oggi gli alimenti speciali per l’infanzia (spesso addirittura glutinati) sono la causa della
recrudescenza della patologia.
QUANTI SONO I CELIACI ?
FREQUENZA MASSIMA : 1 Caso ogni 250 nati in Svezia
FREQUENZA MINIMA : 1 caso ogni 6000 nati in Inghilterra
1 caso ogni 1000 nati in Italia (osservata) 1 ogni 300 (attesa)
Influenza dei fattori Genetici:
10% di rischio di malattia nei familiari di I° grado
Quasi concordanza nei gemelli monozigotici (75%)
Correlazione con antigeni del sistema di istocompatibilità HLA
I dati concordano con una eredità di tipo dominante multifattoriale
71
HLA
Sono tre serie di antigeni di classe I (HLA-A-B-C) e tre di classe II (HLA -DR-DQ-DP) e
controllano la risposta immunitaria contro antigeni estranei.
L'aplotipo HLA B8 è presente nel 80% dei celiaci contro il 7- 30 % generale
(HLA B8 è tanto più frequente quanto più recente è l'introduzione della coltivazione del
grano, con un massimo di 43% in Irlanda dove il grano è coltivato solo dal 1847).
HLADR3 e HLADR7 se ne riscontra almeno uno nel 95% dei celiaci, il HLADQ2 da solo
nel 90%
CORRELAZIONE TRA ADENOVIRUS 12 E CELIACHIA.
La gliadina è costituita da quattro classi di proteine (a, b, c, d) di cui la tossica sembra
essere la a, che presenta una sequenza omologa di 8 aa con l'adenovirus 12, i cui anticorpi
sono frequenti nel 31% dei celiaci (tre volte la frequenza attesa)
Una infezione precoce da A12 potrebbe scatenare la malattia.
La sequenza amminoacidica della a-gliadina che risulta tossica è la 31-49, riconosciuta dai
linfociti T HLADQ2 dei celiaci, assente nei cereali non tossici.
E'probabilmente una sequenza comune anche ad un antigene contro il quale vi è una
sensibilizzazione precoce in molti individui.
CLINICA DELLA MALATTIA
Deriva dalla atrofia dei villi intestinali con riduzione della superficie assorbente del tratto
digiunale.
Nel bambino (primi due anni): diarrea cronica con feci semiliquide voluminose
(malassorbimento dei grassi e minerali)
Ne conseguono: arresto della crescita, perdita di peso, ipotonia e ipotrofia,
addome globoso, pallore (ileo prossimale compromesso)
instabilità del carattere, irritabilità. Epilessia.
Nell'adulto:
bassa statura (5-20% di tutti i casi isolati di bassa statura)
Diarrea, meteorismo, astenia, nausea, crampi, anemia, dolori ossei,
turbe mestruali, stomatite aftosa, ipoplasia smalto dentale
Dermatite erpetiforme, Epilessia focale.
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In genere la gravità del quadro dipende dall'estensione del tratto intestinale lesionato:più
ampia è la superficie residua assorbente, meno gravi e più tardivi sono i sintomi (celiaci
latenti).
TESTS DI SCREENING E PROTOCOLLO DIAGNOSTICO:
1. grassi nelle feci (steatorrea, steatocrito)
2. assorbimento intestinale dello xilosio
3. variazioni di permeabilità intestinale (rapporto cellobioso/mannitolo)
4. dosaggio sierico degli anticorpi antigliadina (AGA test) più usato al mondo
5. dosaggio sierico degli anticorpi antiendomisio (EMA test)
6. anticorpi anticordone ombelicale (ACO test) non disponibile in kit
7. anticorpi antidigiuno (JAB test) non disponibile in kit
Sensibilità e specificità AGA
-IgG:positivi nel 92.3% dei soggetti celiaci e nel 21.2% con altre patologie intestinali
-IgA:positivi nel 88.4% "
"
"
10.3% "
"
"
"
più sensibile IgG,
più specifico IgA
TOSSICITA’ INDOTTA DA SOVRADOSAGGIO DI VITAMINE
Le vitamine sono molecole organiche necessarie nella dieta degli organismi.
Molte delle vitamine agiscono come importanti coenzimi:
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VITAMINA
COENZIMA
Tiamina (Vit B1)
Tiamina pirofosfato
Riboflavina ( Vit B2)
FAD e FMN
Nicotinato
NAD
Piridossina (Vit B6)
Piridossal fosfato
Pantotenato
CoA
Biotina
Biotina (carbossilasi)
Folato
DHF – THF
Cobalamina (Vit B12)
Coenzimi cabamidici
L’ingestione di vitamine può rappresentare la principale causa di avvelenamento in
bambini al di sotto dei cinque anni.
Anche gli adulti possono andare incontro ad un possibile sovradosaggio soprattutto da
quando è entrato nell’uso comune il concetto di “MEGA DOSE” nell’assunzione di questi
prodotti
INTOSSICAZIONI
Sono dovute a somministrazione accidentale piuttosto che intenzionale.
I sintomi da intossicazione si manifestano lentamente in un lasso di tempo abbastanza
lungo da essere riconosciuti abbastanza precocemente così da richiedere l’intervento del
medico prima che si rendano evidenti danni seri ed irreversibili.
Molte intossicazioni sono causate da terapie multivitaminiche.
SOVRADOSAGGIO
Per sovradosaggio si intende una assunzione giornaliera che superi di 10 volte quella
raccomandata RDA (Recommended Dail Intake).
Il 37% degli Americani fa uso di dosaggi superiori alla RDA.
Manifestazioni tossiche dovute ad ingestione massiccia di vitamine sono più comuni con le
vitamine liposolubili A e D.
Il sovradosaggio di vitamine idrosolubili B e C non risulta pericoloso in quanto l’eccesso
viene eliminato tramite i filtri renali.
Qualche eccezione può essere rappresentata dalla vitamina C che in alcuni individui può
indurre una severe tossicità renale.
74
DOSE GIORNALIERA RACCOMANDATA
L’RDA VITAMINICA è una quantità di sostanza che supera di 1.5 – 5 volte il fabbisogno
minimo giornaliero.
Questo range provoca un margine di sicurezza sufficiente a provvedere virtualmente ai
fabbisogni di tutta la popolazione sana che non faccia uso di una dieta perfettamente
bilanciata o che abbia una attività fisica particolarmente stressante
VITAMINE LIPOSOLUBILI
VITAMINA A
detta anche RETINOLO
E’ un derivato del carotene
Influenza la formazione e la salute :
•
della pelle
•
delle mucose
•
delle ossa
•
dei denti
Ha effetti sulla VISTA e sulla RIPRODUZIONE
La carenza di vitamina A si manifesta con fenomeni di :
•
cecità notturna (emeralopia)
•
eccessiva secchezza della cute
•
scarsa secrezione delle mucose, che determina una predisposizione alle infezioni
batteriche ed un ridotto funzionamento delle ghiandole lacrimali (con danno per la
naturale umidità degli occhi)
DOVE SI TROVA LA VITAMINA A ?
carote
spinaci
pomodori
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latte
burro
uova
olio di fegato di merluzzo
VITAMINA D
Può essere prodotta autonomamente dall’organismo
E’ necessaria alla formazione e al mantenimento di ossa e denti, oltre che alla
ritenzione di calcio e fosforo nell’organismo
E’ PRESENTE NEL :
•
tuorlo d’uovo
•
fegato
•
tonno
•
viene prodotta anche dall’organismo per l’azione sulla pelle dei raggi UV del sole
Una carenza determina RACHITISMO
VITAMINA E
detta anche TOCOFEROLO
ha un ruolo nel corpo umano ancora non chiaro
protegge l’integrita’ dei globuli rossi
rallenta i processi di invecchiamento
E’ PRESENTE IN:
oli vegetali
germe di grano
verdure a foglia verde
76
Anche in dosi eccessive la vitamina E non è tossica
VITAMINA K
E’ indispensabile nelle reazioni di coagulazione del sangue
LE FONTI PIU’ ABBONDANTI DI VIT K SONO :
•
erba medica
•
fegato di pesce
•
olio di soia
•
tuorlo d’uovo
In un adulto sano un’alimentazione normale e la sintesi da parte dei batteri intestinali
sono in genere sufficienti a fornire all’organismo la vitamina K in quantità adeguata
Problemi a carico dell’apparato digerente possono limitare l’assimilazione di vitamina
K e causare lievi alterazioni della coagulazione
VITAMINA A
La tossicità è stata documentata per la prima volta dagli esploratori del Polo Artico
nel 1857, nutritisi con elevate quantità di fegato di orso .
Non si conosce ancora l'esatto meccanismo attraverso il quale la vit. A può risultare
tossica.
L'avvelenamento da vit. A è causato di solito da un suo elevato consumo il più delle
volte autoprescritto, a scopo profilattico
Può derivare da una incongrua somministrazione ai bambini da parte dei genitori.
Soggetti che fanno uso di questa vitamina o di sostanze analoghe tipo isotretinoina e
tretinoina per trattare malattie della pelle come ittiosi, acne, morbo di Darier (
malattia geneticamente trasmessa in cui la pelle diventa particolarmente piena di
croste) possono andare incontro più facilmente di altri ad ipervitaminosi.
Dosi elevate di vitamina A assunte durante la gravidanza sono teratogeniche, infatti
provocano varie malformazioni fetali.
77
Le malattie renali croniche danno origine ad uno stato di relativa ipervitaminosi A .
Questo avviene nei pazienti in emodialisi, dato che con questa procedura non si
rimuove la vitamina dal sangue.
MECCANISMO DI TOSSICITA'
•
La vitamina A esplica la sua tossicità sul SNC con un meccanismo non chiaro.
•
Una proteina legante il retinolo è coinvolta nel trasporto della vitamina ai tessuti
periferici.
•
Sintomi clinici di ipervitaminosi A si manifestano quando questa proteina si satura con
la vitamina in oggetto.
•
Le membrane cellulari sono così esposte alla vitamina libera che conduce alla
degradazione della struttura della membrana.
•
Questo meccanismo può essere responsabile dell'aumentata pressione del liquor
cefalorachidiano e di altre manifestazioni a livello del SNC causate dalla tossicità da
Vit. A.
•
L'esatta patogenesi del danno epatico indotto da vit. A, è ugualmente sconosciuta.
•
L'uso eccessivo di questo prodotto conduce a fibrosi e sclerosi delle vene centrali
epatiche, distruzione degli spazi sinusoidali con conseguente ipertensione portale ed
ascite.
•
La vitamina A viene normalmente immagazzinata negli epatociti quando vengono
consumate grosse quantità di questa sostanze le cellule di ITO ( lipociti) la captano e
si pensa che questa possa trasformare le cellule di ITO in fibroblasti che possono
produrre collagene ed evolvere così in patologia epatica cronica
•
La vit.A aumenta le concentrazioni seriche del paratormone
Sintomi tossici sono rappresentati da ipercalcemia, variazioni del
contenuto osseo e prematura chiusura dell'epifisi.
78
CARATTERISTICHE DELL'AVVELENAMENTO
I sintomi derivanti da intossicazione indotta da vit.A sono :
-
Gastrointestinali (nausea,vomito,anoressia,diarrea,gengiviti)
-
SNC (emicrania,nervosismo,stanchezza,idrocefalo,parestesie)
-
Epidermide (secchezza,desquamazione,alopecia)
-
Muscoli (mialgia,fascicolazioni,dolori muscolari ed ai giunti)
-
Ossa (iperostosi)
-
Altri (epatosplenomegalia,fibrosi,sanguinamento,teratogenesi)
•
La maggior parte dei sintomi espressi mimano quelli della malattia di base per la
quale si è iniziata la terapia vitaminica .
•
Sono sufficienti dosi giornaliere comprese tra le 300.000 e le 600.000 UI per alcuni
mesi a produrre sintomi
TRATTAMENTO
•
Immediata sospensione del prodotto
•
La maggior parte dei sintomi scompaiono nel giro di una settimana o due;
l'iperostosi può rimanere evidente anche per alcuni mesi dopo la
guarigione clinica.
•
Se i sintomi non fossero prontamente riconosciuti , si andrebbe incontro ad un danno
epatico irreversibile, compresa la cirrosi.
VITAMINA D
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E’ la più tossica di tutte le vitamine anche perché maggiormente usata per il
trattamento di artrite, crampi muscolari e per una varietà di altri patologie reali o
immaginarie.
Occasionalmente, il prodotto viene assunto in eccesso per il trattamento di disordini
alimentari .
L'assunzione giornaliera di 300.000 – 400.000 UI in Europa durante e dopo la
seconda guerra mondiale è stata ritenuta essere responsabile della ipercalcemia
idiopatica infantile.
A quei tempi infatti si eccedeva nell'uso di vitamine.
Il disordine era caratterizzato clinicamente da ipercalcemia ed anormalità scheletriche
, fibrosi arteriosa, ritardo mentale irreversibile e morte prematura, di solito prima
della pubertà.
I sintomi scomparivano dopo la riduzione dell'apporto vitaminico (circa 1.500 U/die)
MECCANISMO DELLA TOSSICITA'
Tutti i problemi clinicamente significativi correlati alla tossicità da vit. D sono dovuti
alla sua capacità di elevare il calcio plasmatico.
La vit. D infatti, grazie alla sua conversione in 1,25 diidrossicolecalciferolo attraverso
una serie di passaggi, è in grado di produrre questo effetto agendo su siti differenti,
compreso l'epitelio intestinale dove promuove
l'assorbimento del calcio.
Ci si dovrebbe aspettare che la tossicità da vit. D sia più severa in individui privati
della tiroide, dato che la calcitonina , l'ormone che interviene nel controllo del calcio, è
prodotto dalle cellule parafollicolari di questa ghiandola .
La calcitonina normalmente esercita un effetto negativo sulle concentrazioni
plasmatiche del calcio. In uno stato di deficit di questo ormone si riduce il controllo
esercitato sul calcio che si eleva in modo incontrollato.
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CARATTERISTICHE DELL'AVVELENAMENTO
I sintomi che caratterizzano la tossicità da vit. D sono quasi tutti suggestivi di
ipercalcemia.
Il decesso interviene in seguito a tossicità acuta.
Gli effetti tossici da assunzione cronica si manifestano in seguito alla deposizione di
calcio nei tessuti molli, specialmente nei reni e nel cuore.
Sono reperti caratteristici la stenosi valvolare aortica (restringimento) e la
nefrocalcinosi con la calcificazione di altri tessuti molli .
La funzione renale può essere severamente ed irreversibilmente compromessa.
Il ritmo cardiaco può diventare anormale dopo deposizione prolungata di sali di calcio
entro le fibre miocardiache.
L'esame Rx del paziente intossicato con questa vitamina mostra calcificazioni
metastatiche e osteoporosi generalizzata delle ossa.
Un singolo episodio di ipercalcemia moderatamente severa può arrestare
completamente la crescita del bambino per sei mesi o più e i medici spesso affermano
che questo deficit in altezza non potrà mai essere corretto appieno.
Uno studio ha comparato il consumo di vitamina D in pazienti che hanno sofferto di
angina pectoris prima di un infarto miocardico.
Il risultato ha evidenziato che alte dosi di vit. D ( 12.000 U o più / die ) è
una causa precipitante l'infarto.
TRATTAMENTO
•
Sospendere immediatamente la vit. D
•
Somministrare corticosteroidi assicurando una buona idratazione del paziente.
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•
Se i sintomi persistono può essere somministrato un glucocorticoide come il
prednisone (20-40 mg o più per os al giorno) per ridurre l'assorbimento intestinale,
controllare l'ipercalcemia e prevenire il danno renale irreversibile e la calcificazione
ectopica.
VITAMINA K
Dal momento che questa vitamina non viene considerata un rimedio universale ci sono
pochi casi di intossicazione riportati in letteratura.
CARATTERISTICHE DELLA TOSSICITA'
La maggiore tossicità è dovuta ad analoghi sintetici idrosolubili come il menadione.
Questi derivati sono degli ossidanti e possono causare rottura della membrana
eritrocitaria con esiti in emolisi, ittero, e kernicterus (ittero nucleare).
Le alterazioni eritrocitarie si verificano maggiormente in persone deficitarie di G-6-PDH, e con dosi superiori a 10 mg.
La vit. K1 (fitonadione) in genere non conduce ad iperbilirubinemia e per questa
ragione è la forma preferita.
VITAMINA E
Gli effetti collaterali indesiderati da sovradosaggio di vit. E comprendono :
Mal di testa
Nausea
Stanchezza
Vertigini
Offuscamento della vista (forse dovuta al fatto che grosse dosi di vit. E antagonizzano
l'azione della vit. A)
Infiammazione della bocca
Irritazione delle labbra
Disturbi gastrointestinali
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Debolezza muscolare
Ipoglicemia
Tendenze emorragiche
Anormalità degenerative
Disordini emozionali.
Sono stati anche riportati disturbi dell'accrescimento, della funzione tiroidea, della
velocità di respirazione mitocondriale e della calcificazione ossea e un abbassamento dell'
ematocrito.
Gli adulti possono tollerare dosi fino a 1.000 UI al die senza sviluppare tossicità.
Si pensa che negli esseri umani e negli animali da esperimento la vit. E possa interferire
con il metabolismo della vit. K aumentando il tempo di protrombina.
L'abuso di vit. E negli animali da esperimento diminuisce la capacità di cicatrizzazione
delle ferite e negli uomini provoca sintomi gastroenterici e creatinuria.
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