Skip to primary navigation Skip to content Skip to footer IL BARATTOLO DELLE IDEE LA FILOSOFIA PER TUTTI header-right Main navigation o o o o o o Filosofia Gli spilli Filosofia Pre-socratica Filosofia antica Filosofia medievale Filosofia moderna Filosofia post hegeliana Appunti traduzioni Claudia Rademacher Arte In cucina Ai fornelli il lievito Il pane pizza Poesie Rime e congiuntivi A corpo libero Dall’amore All’amore Rabbia e colpa Ricomporsi Disegni A Francoforte Primi disegni Ritorno A colori I parte A colori II parte A colori III parte o o o o o Il bianco Il nero Maxi Ultimi lavori Il diario Relazione Riflessioni Vecchi post Social plus+ Forum plus Libri, Film, Opere D’Arte Relazioni Pensieri Presentati Login Chi sono OTTOBRE 19, 2016 BY IL BARATTOLO DELLE IDEE LEAVE A COMMENT Kant: critica della ragion pratica Tweet LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA La ragion pratica consiste nella capacità di determinare la volontà e l’azione morale senza l’ausilio della sensibilità. Lo scopo della “Critica della Ragion Pratica” è quello di criticare la ragion pratica che pretende di restare sempre legata solo all’esperienza. -Mentre nella critica alla ragion pura, Kant centrava l’attenzione sul fatto che la ragione in ambito teoretico errava perché si manteneva “pura”, ovvero pretendeva di trarre da sé i contenuti della propria conoscenza, in ambito morale la critica è alla ragion pratica (non pura pratica). Esattamente a parti invertite in ambito pratico l’errore della ragione è infatti cercare di trarre dall’esterno le ragioni della propria condotta morale: la ragione in ambito pratico può trovare motivazioni morali solo dentro di sé, come libero prodotto della sua volontà. – La morale deve infatti essere universale, se la volontà si lasciasse condizionare da un ché di esterno ad essa verrebbe influenzata da un ché di contingente, temporale etc. etc. Il filosofo inaugura perciò un tipo di morale autonoma, che non viene vale a dire vincolata da nulla se non dai dettati della ragione stessa e critica perciò tutte le morali eteronome (es: quella dei dieci comandamenti), che portano cioè contenuti determinati. Fondamento dell’etica = c’è una legge morale con valore universale (tale affermazione è immediatamente evidente: è un “fatto della ragione”) La legge morale non sarà allora una regola che porterà dei precetti, perché la ragione da sé non può darsi alcun contenuto, ma indicherà piuttosto la regola attraverso la quale volta per volta è possibile ottenere precetti morali a partire da massime d’azione. La legge morale è universale, quindi non può essere ricavata dall’esperienza: è “a priori”. (La ragione è sufficiente “da sola” – senza impulsi sensibili – a muovere la volontà) La legge morale è “razionale” nel senso che deve valere per l’uomo in quanto essere ragionevole (non solo perché conosciuta dalla ragione) La legge morale non è un’esigenza che l’uomo segue per necessità di natura; quindi deve essere un “imperativo” un comando cui la ragione si sottopone liberamente. Una condotta può essere guidata da una massima d’azione (che abbia un contenuto determinato), la quale una volta universalizzata può esprimere un imperativo ipotetico o un imperativo categorico. L’Imperativo ipotetico: subordina il comando dell’azione da compiere al conseguimento di uno scopo (es.: “Se vuoi essere promosso devi studiare”). Tali imperativi sono oggettivi solo per tutti coloro che si propongono quel fine; da tali imperativi derivano l’edonismo e l’utilitarismo. L’imperativo categorico: comanda l’azione in se stessa (es.: “Devi perché devi”). La norma morale deve essere un imperativo categorico, cioè la tendenza ad un fine deve essere comandata da una legge morale: “Es.: se vuoi avere successo devi essere determinato”. La legge morale è un “imperativo categorico” (anzi, leggi morali sono “solo” gli imperativi categorici), quindi il suo valore non dipende dal suo contenuto, ma dalla sua “forma” di legge; la sua “forma” di legge è l’”universalità” (devi perché devi). L’imperativo categorico può essere formulato così: “Agisci in modo che la massima della tua azione (soggettiva) possa diventare legge universale (oggettiva)” – L’imperativo categorico è un fatto della ragione, esso non è né un intuizione né tanto meno frutto di una deduzione, ma immediatamente presente alla volontà come la condizione stessa della sua libertà (la volontà è tale solo perché libera). Esso è la pura forma della legge il “tu devi” senza il contenuto ed è perciò una pura determinazione della ragione. • ” Agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni divenga universale “. Quando cioè ti trovi a compiere una determinata azione scegli come regola (massima), di chiederti sempre se quello che tu stai per fare possa essere condiviso da tutti. Se per esempio hai intenzione di suicidarti domandati se questo tuo comportamento fosse seguito da tutti gli uomini. Il secondo imperativo afferma: • ” Agisci in modo da trattare l’uomo così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo “. L’uomo non deve mai essere solo strumento di un’azione morale, il vero fine di ogni atto buono è l’uomo. È importante nel citare questa frase ricordarsi l’ “anche” e il “solo”: Kant non era un illuso e sapeva bene che molte delle relazioni interpersonali usano effettivamente l’uomo come mezzo (assegnare un lavoro ad un’altra persona è a tutti gli effetti usarla come “mezzo” in quanto questa viene assunta per fare qualcosa per noi). La frase va quindi interpretata alla luce della limitazione che Kant pone: usiamo pure l’uomo come mezzo, ma ricordandoci che è il fine di ogni atto buono e dandogli quindi la dignità che gli spetta. In virtù di questo, è giusto pagare un muratore affinché ci costruisca la casa ma è sbagliato mandare a morire un’altra persona per salvarci la pelle. Il terzo imperativo categorico ricorda all’uomo che non basta limitarsi alla propria sfera individuale nel compiere azioni morali ma che ciò che si fa possa essere la prima pietra di un ” regno della moralità “, che ciò che tu hai fatto sia da esempio e diventi legge per tutti gli altri: ” Agisci in modo che la tua volontà possa istituire una legislazione universale” -La legge morale deve avere valore per se stessa; la volontà è autonoma, ossia dà a sé la sua legge. Vi è quindi assoluta autonomia della volontà nel suo autodeterminarsi. Tutte le morali che si fondano sui “contenuti” compromettono l’autonomia della volontà: “l’unico principio della moralità consiste nella indipendenza da ogni materia della legge”. Non si deve agire per la felicità, ma unicamente per il puro dovere (è il rovesciamento dell’etica eudaimonistica). – Il “darsi” un dovere implica la “libertà”; la condizione perché sia possibile un imperativo categorico è che la volontà sia libera. I POSTULATI: IL BENE È CIÒ CHE È COMANDATO DALLA LEGGE MORALE. Il fine dell’azione umana, determinata dalla legge morale. Ciò non implica che l’uomo debba agire in vista del Sommo bene come fine dell’azione (egli deve agire motivato dal puro dovere), ma che esso costituisce comunque il fine dell’azione umana. Kant afferma che il sommo bene è l’unione di virtù e felicità e critica perciò quei filosofi che hanno considerato solo l’uno o l’altro aspetto (Stoici : virtù) epicureisti (felicità). Tuttavia in questo mondo virtù e felicità si trovano spesso in opposizione, dato che la virtù e inizialmente un rinunciare ai propri desideri e un lasciarsi condizionare solo dalla libera volontà. Per Kant allora occorre platonicamente postulare l’esistenza di un regno dell’aldilà dove questa congiunzione sarà possibile (riferimento chiaro a paradiso). I postulati sono quelli dell’immortalità, della libertà, considerata in senso positivo (come la causalità propria di un’essenza in quanto questa appartiene al mondo intelligibile) e dell’esistenza di Dio. Il postulato è una verità non dimostrata e tuttavia non necessari di dimostrazione. I Tre postulati devono esserci in quanto sussiste nell’uomo come un fatto la legge morale. Se c’è la legge ci sono anche i postulati. Essendo tuttavia l’ambito d’azione quello della ragion pratica e non della ragion speculativa. Riusciamo solamente a dimostrare in quest’ambito la necessità della loro esistenza, senza che nulla si possa dire su di essi (questo sarebbe un compito della ragion pura). I Postulato: Il primo deriva dalla condizione, praticamente necessaria, di una durata in proporzione della compiutezza dell’adempimento della legge morale. E’ condizione della legge morale La libertà è postulata dal carattere formale della legge: prima conosciamo la legge morale, poi inferiamo da essa la libertà come suo fondamento. • Legge morale = “ratio cognoscendi” della libertà • Libertà = “ratio essendi” della legge morale II postulato: il secondo dal necessario presupposto dell’indipendenza dal mondo sensibile e dalla facoltà di determinazione del proprio volere, secondo la legge di un mondo intelligibile, cioè quella della libertà. La legge morale mi comanda di essere virtuoso, quindi sono “degno” di essere felice; si postula quindi l’esistenza di Dio che ha il compito di far corrispondere in un “altro” mondo quella felicità che compete al merito (non realizzabile in “questo” mondo) III postulato: Il terzo dalla necessità della condizione per un tal mondo intelligibile, perché sia il Sommo Bene, mediante il presupposto del Sommo Bene indipendente, cioè dell’esistenza di Dio. è un processo continuo ed è richiesta, ma non è accessibile in questo mondo, per avvicinarsi sempre più alla “perfetta adeguatezza della volontà alla legge morale” (la santità è il raggiungimento di tale perfetta adeguazione) RAPPORTI FRA LA RAGION PURA E LA RAGION PRATICA: «La ragion pratica ha dunque “riempito” quelle esigenze della ragion pura dando loro “realtà morale”». Il “noumeno” è teoreticamente inconoscibile; può quindi avere solo realtà pratica. Kant, a questo punto, ha dunque riconosciuto due facoltà: • Intelletto – facoltà conoscitiva teoretica = dominio della ragion pura che non può rappresentarci gli oggetti come sono in sé, ma solo come fenomeni; • Ragione – facoltà pratica = può rappresentare gli oggetti come cosa in sé (soprasensibili), ma non li può conoscere teoreticamente, può darli solo realtà pratica. Fra il mondo fenomenico della “Critica della Ragion Pura” (realtà come appare allo spirito umano) e il mondo noumenico della “Critica della Ragion Pratica” (apparteniamo al mondo delle cose in sé solo come soggetti morali) c’è un “abisso immenso”. Con «sommo bene» Kant indica la coincidenza di virtù e felicità, quella coincidenza di cui in questo mondo non si fa affatto esperienza. Affinché il comando della ragione abbia senso bisogna dunque supporre una rimunerazione in un’altra vita da parte di chi sia il sommo bene sussistente: Dio. Ciò non significa affatto che la ragione pratica possa «dimostrare» l’esistenza di Dio, mentre ciò è impossibile a quella speculativa (sarebbe un controsenso): ma piuttosto che l’esistenza di Dio non la posso dimostrare (cioè conoscere speculativamente) ma la debbo supporre (cioè ammettere praticamente). More from my site Etica e morale. Felicità o senso del dovere? Kant: critica della ragion pura Cartesio: riassunto. Scopritore del Cogito a cavallo di due epoche. Scegliere se stessi. Le origini del cambiamento Platone: riassunto. Col cuore rivolto a cielo Cogito ergo sum. Chi ha paura di Cartesio? 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