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OTTOBRE 19, 2016 BY IL BARATTOLO DELLE IDEE LEAVE A COMMENT
Kant: critica della ragion pratica
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LA CRITICA DELLA RAGION PRATICA
La ragion pratica consiste nella capacità di determinare la volontà e l’azione
morale senza l’ausilio della sensibilità. Lo scopo della “Critica della Ragion
Pratica” è quello di criticare la ragion pratica che pretende di restare sempre
legata
solo
all’esperienza.
-Mentre nella critica alla ragion pura, Kant centrava l’attenzione sul fatto che la
ragione in ambito teoretico errava perché si manteneva “pura”, ovvero
pretendeva di trarre da sé i contenuti della propria conoscenza, in ambito
morale la critica è alla ragion pratica (non pura pratica). Esattamente a parti
invertite in ambito pratico l’errore della ragione è infatti cercare di trarre
dall’esterno le ragioni della propria condotta morale: la ragione in ambito pratico
può trovare motivazioni morali solo dentro di sé, come libero prodotto della sua
volontà.
– La morale deve infatti essere universale, se la volontà si lasciasse
condizionare da un ché di esterno ad essa verrebbe influenzata da un ché di
contingente, temporale etc. etc. Il filosofo inaugura perciò un tipo di morale
autonoma, che non viene vale a dire vincolata da nulla se non dai dettati della
ragione stessa e critica perciò tutte le morali eteronome (es: quella dei dieci
comandamenti), che portano cioè contenuti determinati.
Fondamento dell’etica = c’è una legge morale con valore universale (tale
affermazione è immediatamente evidente: è un “fatto della ragione”)
La legge morale non sarà allora una regola che porterà dei precetti, perché la
ragione da sé non può darsi alcun contenuto, ma indicherà piuttosto la regola
attraverso la quale volta per volta è possibile ottenere precetti morali a partire
da
massime
d’azione.
La legge morale è universale, quindi non può essere ricavata dall’esperienza:
è “a priori”. (La ragione è sufficiente “da sola” – senza impulsi sensibili – a
muovere
la
volontà)
La legge morale è “razionale” nel senso che deve valere per l’uomo in quanto
essere ragionevole (non solo perché conosciuta dalla ragione)
La legge morale non è un’esigenza che l’uomo segue per necessità di natura;
quindi deve essere un “imperativo” un comando cui la ragione si sottopone
liberamente.
Una condotta può essere guidata da una massima d’azione (che abbia un
contenuto determinato), la quale una volta universalizzata può esprimere un
imperativo ipotetico o un imperativo categorico.
L’Imperativo ipotetico: subordina il comando dell’azione da compiere al
conseguimento di uno scopo (es.: “Se vuoi essere promosso devi studiare”).
Tali imperativi sono oggettivi solo per tutti coloro che si propongono quel fine;
da tali imperativi derivano l’edonismo e l’utilitarismo.
L’imperativo categorico: comanda l’azione in se stessa (es.: “Devi perché
devi”). La norma morale deve essere un imperativo categorico, cioè la tendenza
ad un fine deve essere comandata da una legge morale: “Es.: se vuoi avere
successo
devi
essere
determinato”.
La legge morale è un “imperativo categorico” (anzi, leggi morali sono “solo” gli
imperativi categorici), quindi il suo valore non dipende dal suo contenuto, ma
dalla sua “forma” di legge; la sua “forma” di legge è l’”universalità” (devi perché
devi).
L’imperativo
categorico
può
essere
formulato
così:
“Agisci in modo che la massima della tua azione (soggettiva) possa diventare
legge
universale
(oggettiva)”
– L’imperativo categorico è un fatto della ragione, esso non è né un intuizione
né tanto meno frutto di una deduzione, ma immediatamente presente alla
volontà come la condizione stessa della sua libertà (la volontà è tale solo
perché libera). Esso è la pura forma della legge il “tu devi” senza il contenuto
ed
è
perciò
una
pura
determinazione
della
ragione.
• ” Agisci in modo che tu possa volere che la massima delle tue azioni divenga
universale
“.
Quando cioè ti trovi a compiere una determinata azione scegli come regola
(massima), di chiederti sempre se quello che tu stai per fare possa essere
condiviso da tutti. Se per esempio hai intenzione di suicidarti domandati se
questo tuo comportamento fosse seguito da tutti gli uomini.
Il
secondo
imperativo
afferma:
• ” Agisci in modo da trattare l’uomo così in te come negli altri sempre anche
come
fine,
non
mai
solo
come
mezzo
“.
L’uomo non deve mai essere solo strumento di un’azione morale, il vero fine di
ogni atto buono è l’uomo. È importante nel citare questa frase ricordarsi l’
“anche” e il “solo”: Kant non era un illuso e sapeva bene che molte delle
relazioni interpersonali usano effettivamente l’uomo come mezzo (assegnare
un lavoro ad un’altra persona è a tutti gli effetti usarla come “mezzo” in quanto
questa viene assunta per fare qualcosa per noi). La frase va quindi interpretata
alla luce della limitazione che Kant pone: usiamo pure l’uomo come mezzo, ma
ricordandoci che è il fine di ogni atto buono e dandogli quindi la dignità che gli
spetta. In virtù di questo, è giusto pagare un muratore affinché ci costruisca la
casa ma è sbagliato mandare a morire un’altra persona per salvarci la pelle.
Il terzo imperativo categorico ricorda all’uomo che non basta limitarsi alla
propria sfera individuale nel compiere azioni morali ma che ciò che si fa possa
essere la prima pietra di un ” regno della moralità “, che ciò che tu hai fatto sia
da
esempio
e
diventi
legge
per
tutti
gli
altri:
” Agisci in modo che la tua volontà possa istituire una legislazione universale”
-La legge morale deve avere valore per se stessa; la volontà è autonoma, ossia
dà a sé la sua legge. Vi è quindi assoluta autonomia della volontà nel suo autodeterminarsi. Tutte le morali che si fondano sui “contenuti” compromettono
l’autonomia della volontà: “l’unico principio della moralità consiste nella
indipendenza da ogni materia della legge”. Non si deve agire per la felicità, ma
unicamente per il puro dovere (è il rovesciamento dell’etica eudaimonistica).
– Il “darsi” un dovere implica la “libertà”; la condizione perché sia possibile un
imperativo categorico è che la volontà sia libera.
I
POSTULATI:
IL BENE È CIÒ CHE È COMANDATO DALLA LEGGE MORALE.
Il fine dell’azione umana, determinata dalla legge morale. Ciò non implica che
l’uomo debba agire in vista del Sommo bene come fine dell’azione (egli deve
agire motivato dal puro dovere), ma che esso costituisce comunque il fine
dell’azione umana. Kant afferma che il sommo bene è l’unione di virtù e felicità
e critica perciò quei filosofi che hanno considerato solo l’uno o l’altro aspetto
(Stoici : virtù) epicureisti (felicità). Tuttavia in questo mondo virtù e felicità si
trovano spesso in opposizione, dato che la virtù e inizialmente un rinunciare ai
propri desideri e un lasciarsi condizionare solo dalla libera volontà. Per Kant
allora occorre platonicamente postulare l’esistenza di un regno dell’aldilà dove
questa congiunzione sarà possibile (riferimento chiaro a paradiso).
I postulati sono quelli dell’immortalità, della libertà, considerata in senso positivo
(come la causalità propria di un’essenza in quanto questa appartiene al mondo
intelligibile) e dell’esistenza di Dio. Il postulato è una verità non dimostrata e
tuttavia non necessari di dimostrazione. I Tre postulati devono esserci in quanto
sussiste nell’uomo come un fatto la legge morale. Se c’è la legge ci sono anche
i postulati. Essendo tuttavia l’ambito d’azione quello della ragion pratica e non
della ragion speculativa. Riusciamo solamente a dimostrare in quest’ambito la
necessità della loro esistenza, senza che nulla si possa dire su di essi (questo
sarebbe
un
compito
della
ragion
pura).
I
Postulato:
Il primo deriva dalla condizione, praticamente necessaria, di una durata in
proporzione della compiutezza dell’adempimento della legge morale. E’
condizione della legge morale La libertà è postulata dal carattere formale della
legge: prima conosciamo la legge morale, poi inferiamo da essa la libertà come
suo
fondamento.
•
Legge
morale
=
“ratio
cognoscendi”
della
libertà
• Libertà = “ratio essendi” della legge morale
II
postulato:
il secondo dal necessario presupposto dell’indipendenza dal mondo sensibile
e dalla facoltà di determinazione del proprio volere, secondo la legge di un
mondo intelligibile, cioè quella della libertà. La legge morale mi comanda di
essere virtuoso, quindi sono “degno” di essere felice; si postula quindi
l’esistenza di Dio che ha il compito di far corrispondere in un “altro” mondo
quella felicità che compete al merito (non realizzabile in “questo” mondo)
III postulato:
Il terzo dalla necessità della condizione per un tal mondo intelligibile, perché sia
il Sommo Bene, mediante il presupposto del Sommo Bene indipendente, cioè
dell’esistenza di Dio. è un processo continuo ed è richiesta, ma non è
accessibile in questo mondo, per avvicinarsi sempre più alla “perfetta
adeguatezza della volontà alla legge morale” (la santità è il raggiungimento di
tale perfetta adeguazione)
RAPPORTI FRA LA RAGION PURA E LA RAGION PRATICA:
«La ragion pratica ha dunque “riempito” quelle esigenze della ragion pura
dando loro “realtà morale”». Il “noumeno” è teoreticamente inconoscibile; può
quindi avere solo realtà pratica. Kant, a questo punto, ha dunque riconosciuto
due
facoltà:
• Intelletto – facoltà conoscitiva teoretica = dominio della ragion pura che non
può rappresentarci gli oggetti come sono in sé, ma solo come fenomeni;
• Ragione – facoltà pratica = può rappresentare gli oggetti come cosa in sé
(soprasensibili), ma non li può conoscere teoreticamente, può darli solo realtà
pratica.
Fra il mondo fenomenico della “Critica della Ragion Pura” (realtà come appare
allo spirito umano) e il mondo noumenico della “Critica della Ragion Pratica”
(apparteniamo al mondo delle cose in sé solo come soggetti morali) c’è un
“abisso
immenso”.
Con «sommo bene» Kant indica la coincidenza di virtù e felicità, quella
coincidenza di cui in questo mondo non si fa affatto esperienza. Affinché il
comando della ragione abbia senso bisogna dunque supporre una
rimunerazione in un’altra vita da parte di chi sia il sommo bene sussistente: Dio.
Ciò non significa affatto che la ragione pratica possa «dimostrare» l’esistenza
di Dio, mentre ciò è impossibile a quella speculativa (sarebbe un controsenso):
ma piuttosto che l’esistenza di Dio non la posso dimostrare (cioè conoscere
speculativamente) ma la debbo supporre (cioè ammettere praticamente).
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