l`espropriazione di pubblica utilità

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“L’ESPROPRIAZIONE DI
PUBBLICA UTILITÀ”
PROF. GIOVANNI SABBATO
Università Telematica Pegaso
L’espropriazione di pubblica utilità
Indice
1
L’EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI PROPRIETÀ --------------------------------------------------------------- 3
2
L’EVOLUZIONE NORMATIVA DELL’ISTITUTO ESPROPRIATIVO ----------------------------------------- 5
3
ASPETTI GENERALI DEL TESTO UNICO DELL’ESPROPRIAZIONE: LE PRINCIPALI NOVITÀ --- 9
4
SEGUE: L’AMBITO OGGETTIVO -------------------------------------------------------------------------------------- 11
5
SEGUE: I SOGGETTI ------------------------------------------------------------------------------------------------------- 13
6
LA REITERAZIONE DEI VINCOLI PREORDINATI ALL’ESPROPRIO-------------------------------------- 17
7
I VINCOLI DI INEDIFICABILITÀ SCADUTI ( LE CD. ZONE BIANCHE) ----------------------------------- 23
8
LE FASI DEL PROCEDIMENTO ESPROPRIATIVO --------------------------------------------------------------- 26
9
L’APPROVAZIONE DEL PROGETTO E LA DICHIARAZIONE DI PUBBLICA UTILITÀ -------------- 28
10
IL DECRETO DI ESPROPRIAZIONE ---------------------------------------------------------------------------------- 34
11
L’ATTO DI CESSIONE VOLONTARIA -------------------------------------------------------------------------------- 40
12
L’ACQUISIZIONE SANANTE -------------------------------------------------------------------------------------------- 42
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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1 L’evoluzione del concetto di
proprietà
L’istituto dell’espropriazione, che, come noto, comporta l’acquisizione della proprietà di un
bene in mano pubblica, affonda le sue radici in una lenta successione di leggi e di norme, prima di
esaminare la quale pare opportuno chiarire che il concetto di espropriazione si ricollega al suo
antecedente logico, la proprietà.
Non vi è infatti la possibilità di configurare la prima se non quando taluno sia titolare della
seconda, si qualifichi cioè come proprietario nell’accezione civilistica. Il diritto di proprietà, che
costituisce il diritto soggettivo per eccellenza, espressione di una logica individualista che la
Costituzione ha provveduto a temperare, trova la sua collocazione naturale, in seno all’ordinamento
giuridico, nel codice civile, che tuttavia si guarda bene dal fornirne una precisa definizione.
L’art. 832 c.c., difatti, apre il titolo dedicato alla proprietà con la formulazione del
“contenuto del diritto”, vale a dire con la descrizione dell’esercizio dei poteri spettanti al
proprietario: “Il proprietario ha il diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo,
entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico”. Trattasi di una
norma che risente della forte evoluzione dell’ordinamento, tant’è che la corrispondente previsione
del codice civile abrogato discorreva di proprietà invece che di proprietario. Essa segna quindi il
passaggio da un angolo visuale oggettivo (la proprietà) ad uno soggettivo (il proprietario), che attui
il distacco da una concezione individualistica della proprietà per privilegiare il suo carattere sociale
attraverso la limitazione dei poteri del proprietario di fronte ad interessi di portata più generale, con
il superamento dell’affermazione di assolutezza del diritto di proprietà contenuta nel codice del
1865.
Ma il percorso evolutivo innescato dal legislatore del codice civile del 1942 si è compiuto
attraverso la carta costituzionale, il cui art. 42 afferma che “…la proprietà privata è riconosciuta e
garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento allo scopo di assicurare la
funzione sociale e di renderla accessibile a tutti. La proprietà privata può essere, nei casi preveduti
dalla legge, e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale”. Molto si è scritto su
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questa disposizione costituzionale, alla quale taluni in dottrina attribuiscono la forza di sovvertire i
principi informatori dell’ordinamento civilistico, tanto da sostenere che la proprietà privata è
funzione sociale, cioè sottende un piano di interessi che trascende quello riconducibile al
proprietario. Si tratta di un’affermazione importante che ha condotto a ritenere, ad esempio, che il
divieto degli atti emulativi costituisce un principio generale, in quanto tale suscettibile di
applicazione analogica, oltre i confini dei diritti reali (si pensi al concetto di emulazione del diritto
di credito).
Tutto questo ci consente di cogliere quali enormi passi abbia compiuto il progresso giuridico
nel transitare da una concezione solipsistica del diritto dominicale ad una invece sociale e pubblica
rispetto alla quale quindi l’individuo non si pone più come monade isolata, preoccupata di
preservare il proprio microcosmo dominato da un egoistico senso di appartenenza. In effetti la
proprietà risente di una irrisolta tensione tra interessi privati e pubblici, al centro della quale si pone
l’istituto espropriativo quale mezzo di risoluzione di questo conflitto, anche se con la prevalenza
dell’interesse pubblico, dato il maggior valore sociale di quest’ultimo rispetto al diritto di proprietà,
del quale la legge autorizza il sacrificio. Se è vero che viene abbandonata una sorta di dimensione
sacralizzante del diritto dominicale, questo non deve essere letto come l’implicito tributo che la
costituente ha inteso offrire a teorie filosofiche di stampo utopistico-socialista (Proudhom, Marx,
Engels) che prediligono una visione collettiva della proprietà, quanto piuttosto come il
commendevole tentativo di escogitare una mediazione tra le ragioni del singolo e quelle dello Stato,
al quale si attribuisce lo strumento autoritativo dell’espropriazione, ma nei limiti di legge e,
soprattutto, salvo indennizzo.
Se è vero che la proprietà non può essere assimilata al concetto di dominium, proprio del
diritto di epoca romana, il quale quindi non conosceva l’istituto dell’espropriazione in termini
formali, deve dirsi che questo non si affaccia sulla scena giuridica soltanto nel mondo
contemporaneo, essendo conosciuto già in quello dell’antica Grecia, in epoca feudale, nonché nella
Costituzione francese del 1791: sul tracciato del Montesquieu è annoverata, tra i diritti dell’uomo,
l’inviolabilità della proprietà, ma è anche ammessa la espropriazione per causa di pubblica utilità,
salvo indennizzo.
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2 L’evoluzione normativa dell’istituto
espropriativo
È a tutti noto che oggi è possibile rinvenire la normativa di riferimento in un compendio
normativo unitario, ovverosia nel testo unico dell’espropriazione (d.P.R. n. 327 dell’8 giugno
2001), in grado tendenzialmente di esaurire l’intera disciplina.
Nel passato invece si sono succedute una congerie di leggi e di norme che hanno interessato
l’istituto espropriativo, variamente definendone le competenze, il dipanarsi del procedimento, gli
effetti, ecc.
Con l’unificazione della penisola italiana sotto il controllo dei Savoia sorge l’esigenza di
stabilire le basi del nuovo Stato anche attraverso una disciplina organica dei rapporti tra potere
pubblico e cittadino. Per ottenere tale risultato viene emanata, sul fronte delle espropriazioni, le
legge 2359/1865, che rappresenta una delle leggi fondamentali nel campo della pubblica
Amministrazione. Vi è da notare che, proprio quell’anno viene alla luce il codice civile, diretta
derivazione del codice napoleonico del 1804 (il Code Civil des Français), il quale, traendo influenza
da una visione assolutistica del diritto di proprietà privata, non poteva consentire che essa subisse
limiti di generale applicazione. Questo spiega perché la legge n. 2359 consentiva di procedere ad
espropri ridotte, circostanziate e collegate alla necessità di realizzare “opere pubbliche”. Qui
incontriamo una importante differenza con l’art. 42 Costituzione che si svincola dalla necessità di
realizzazione della singola opera pubblica approdando ad una concezione per cui gli espropri sono
possibili “per motivi di interesse generale”, in grado quindi di comprendere, ad esempio, la gestione
razionale del territorio e lo sviluppo urbano.
Dal punto di vista del calcolo del quantum dell’indennità, la legge 2359/1865 prevede che
esso debba essere pari “al giusto prezzo che a giudizio dei periti avrebbe avuto l’immobile in una
libera contrattazione di compravendita”.
Ciò significa che l’intervento dello Stato sul territorio deve essere limitato ai casi in cui sia
effettivamente necessario, quando cioè, usando un termine caro alla scienza economica, si ha un
market failure (when the allocation of goods and services by a free market is not efficient). Questo
significa che il privato deve essere messo nelle stesse condizioni economiche che aveva prima
dell’esproprio.
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La successiva legge di ampio respiro è la n. 5188/1879, che ha modificato il concetto di
“urgenza”, trasformandola da assoluta a relativa, cioè dichiarata dalla stessa pubblica
Amministrazione, ove ravvisi che determinati lavori sono indifferibili. Questo ha spalancato le
porte all’affievolimento delle garanzie formali a vantaggio di quella sostanziale dell’indennità.
Peraltro si sono susseguiti una serie di interventi normativi in modo confuso e casuale, tanto che
intere categorie di opere sono dichiarate urgenti ed indifferibili.
Trascorrono soltanto sei anni e la legge fondamentale mostra le prime crepe anche per
quanto riguarda la garanzia sostanziale, cioè il valore dell’indennità. Si fa riferimento alla legge n.
2892/1885 sul risanamento del centro storico della città di Napoli, abbandonato al più assoluto
degrado in pericolose condizioni igienico-sanitarie. Tale legge si poneva non contro ma a favore dei
proprietari dei beni immobili siti nel centro storico napoletano, in quanto, a causa delle condizioni
degli immobili, il criterio del calcolo dell’indennizzo fondato sul valore venale avrebbe prodotto
risultati ben poco appetibili per i proprietari a causa dello scarso valore degli stessi per le loro
precarie condizioni igieniche.
Questo avrebbe determinato un impoverimento, se confrontato al reddito elevato che era
possibile trarre invece dalla locazione delle abitazioni per il notevole sovraffollamento di quelle
zone. Di qui la necessità di sovracompensare i proprietari tenendo presenti anche i fitti coacervati
dell’ultimo decennio, così derogando al principio del valore venale ma al fine di produrre un
risultato economico più favorevole ai proprietari.
Al di là del commendevole obiettivo perseguito dal legislatore nel caso di specie, la legge
sul risanamento della città di Napoli è divenuta tristemente famosa quale precedente storico che ha
condotto al mutamento concettuale della proprietà privata, non più tutelata quale diritto in sé e per
sé considerato bensì posta a confronto con esigenze capaci di modificare il rapporto tra la proprietà
privata e la Costituzione.
Insomma, il criterio di calcolo coniato dalla legge in esame è stato mutuato in altre
occasioni, contemplate dalla legislazione speciale precedente la legge urbanistica del 1942, come
nel TU 1165/1938 (edilizia economica e popolare). Il problema è che il criterio dei fitti coacervati
ha determinato una riduzione dell’indennità rispetto al valore venale (pari generalmente al 30 %).
In questo lunghissimo percorso che ha compiuto negli anni l’istituto espropriativo possiamo
dire che costituisce strumento di risoluzione dell’eterno conflitto tra Autorità e libertà e più
esattamente tra l’interesse privato del proprietario e quello pubblico che talora impone
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l’acquisizione del bene; la strada percorsa dalla Costituente è stata quella di sancire che il potere
espropriativo può essere esercitato solo nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo. Si tratta di
una scelta di campo, perché in talune momenti storici è prevalsa l’idea di attribuire allo Stato un
potere ablatorio generalizzato, secondo una concezione di Stato patrimoniale che attribuisce ai
singoli soltanto un diritto di godimento (dominio utile), precario e revocabile, un’idea che è
affiorata anche nella legge Sullo, poi naufragata.
In
termini
del
tutto
generali,
possiamo
osservare
che
l’evoluzione
compiuta
dall’espropriazione ha determinato, in primo luogo, che mentre prima dell’entrata in vigore della
Costituzione il potere espropriativo era attribuito soltanto ad organi dello Stato, la cui disciplina è
quella della legge generale del 1865 n. 2359, oggi, con l’attuazione dell’ordinamento regionale,
titolari del potere di espropriazione sono anche le Regioni per le espropriazioni riguardanti le opere
di competenza propria o delegata, ai sensi dell’art. 106 del d.P.R. n. 616 del 1977. Tale norma ha
attribuito ai Comuni le funzioni amministrative concernenti le occupazioni temporanee e d’urgenza
ed i relativi atti preparatori, sempre per le opere di spettanza da eseguire.
Altra riflessione da fare riguarda il profilo funzionale dell’espropriazione, nel senso che esso
ha subito un mutamento.
In effetti, con l’intervento della legge n. 167 del 1962, degli artt. 35 e 51 della legge n. 865
del 1971, degli artt. 2 e 13 della legge n. 10 del 1977 e degli artt. 28, 45 e 56 della legge n. 457 del
1978, la pianificazione del territorio presenta nuovi aspetti evolutivi che hanno inciso sulla funzione
stessa dell’espropriazione, dovendo essa consentire la realizzazione dei piani per l’edilizia
residenziale pubblica, dei piani per gli insediamenti produttivi, dei programmi pluriennali di
attuazione degli strumenti urbanistici generali e dei piani di recupero del patrimonio edilizio
esistente.
L’espropriazione non è quindi più limitata all’acquisizione dell’area occorrente all’Ente
pubblico per realizzare un’opera pubblica, bensì è divenuta strumento efficace per ottenere che
un’area possa essere utilizzata anche da privati ma in conformità ad un piano pubblico.
Oggi tale istituto si presenta come strumento di trasferimento coattivo della proprietà, o altro
diritto reale, da un soggetto ad un altro, al fine di consentire al beneficiario di tale trasferimento di
conseguire finalità di pubblico interesse.
Il Comune quindi è investito di un
potere espropriativo che presenta l’aspetto della
generalizzazione per perseguire lo scopo della costituzione di una riserva patrimoniale da utilizzare
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per la realizzazione degli obiettivi di interesse generale programmati, sia mediante la concessione
del diritto di superficie, sia mediante la cessione in proprietà.
In detto mutamento funzionale rientra anche la previsione che tutte le aree così espropriate
vanno ad incrementare il patrimonio indisponibile del Comune, non solo perché l’ablazione dei beni
comporta l’appartenenza all’ente espropriante, ma tale carattere di indisponibilità rivestono in
quanto destinate ad una esigenza di interesse pubblico, con l’effetto della conservazione del regime
particolare caratterizzato dalla loro specifica destinazione. In quanto beni appartenenti al patrimonio
indisponibile possono essere affidati a privati attraverso lo strumento giuridico della concessione
amministrativa, che si sostanzia in una concessione – contratto. Il Comune può concede
l’utilizzazione dei beni ricompresi nel patrimonio indisponibile mediante la costituzione di diritti di
godimento a favore di terzi, cioè mediante la concessione del diritto di superficie sia a privati sia ad
enti pubblici.
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3 Aspetti generali del testo unico
dell’espropriazione: le principali
novità
Generalmente si afferma che si tratta di intervento del legislatore, senz’altro da salutare con
favore, di carattere compilativo, in quanto appaiono non tantissime le novità apportate alla
magmatica disciplina del procedimento espropriativo.
Di sicuro rilievo è la caratteristica generale del d.P.R. n. 327/2001 di dettare un
procedimento ablatorio unico per tutte le amministrazioni pubbliche e le opere di pubblica utilità,
riconducendo ad unità un quadro normativo in precedenza estremamente frammentario e
complesso.
In via preliminare, va anche evidenziato il risalto conferito dalla nuova normativa allo stretto
rapporto esistente tra programmazione urbanistica e procedimenti ablatori, nella misura in cui questi
ultimi appaiono funzionali ed inscindibilmente connessi alla prima.
La previsione, negli strumenti urbanistici generali, dei vincoli preordinati all’esproprio
rappresenta il primo fondamentale passo verso l’asservimento del bene all’interesse pubblico, con
sacrificio dei diritti su di esso preesistenti, pur con tutte le garanzie di trasparenza e partecipazione
previste dalla legge, nonché con limiti temporali di durata del vincolo predeterminati e superabili
solo a date condizioni.
Tale fase è seguita da quella squisitamente procedimentale in cui viene, tra l’altro,
determinata la indennità e che si conclude con la emanazione del decreto di esproprio con il quale
soltanto si verifica il passaggio della proprietà.
Le principali novità, in sintesi, sono:
-
il nuovo regime delle competenze espropriative, che ormai segue la regola
secondo la quale l’ente che realizza l’opera è anche titolare del potere
ablatorio. Tra le maggiori novità introdotte dal Tu del 2001 vi è, infatti, una
sorta di parallelismo tra titolarità del potere ablatorio e competenza alla
realizzazione dell’opera, con una conseguente diversificazione della titolarità
del primo che risponde anche ad esigenze di semplificazione, nella misura in
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cui il cittadino che subisce la espropriazione, ha oggi un unico soggetto con
cui dialogare per la intera durata del procedimento. Tale scelta legislativa ha
comportato, tra l’altro, la abolizione delle competenze espropriative del
Prefetto per le opere di competenza dello Stato (art. 6);
-
la soppressione della dichiarazione implicita d’urgenza ed indifferibilità dei
lavori, la quale rappresentava nel precedente sistema l’architrave sul quale
poggiava il forsennato ed automatico ricorso all’istituto dell’occupazione
d’urgenza, di guisa che l’occupazione d’urgenza deve essere preceduta da
idonea motivazione, salvo che non si tratti di categorie di opere per le quali la
legge la consenta comunque (art. 22 bis);
-
la possibilità di emettere il decreto di esproprio sulla base della semplice
determinazione dell’indennità provvisoria, senza pertanto necessariamente
provvedere al pagamento o al deposito preventivo (artt. 8 e 22);
-
la previsione che il decreto di esproprio si esegue mediante l’immissione in
possesso, con la conseguenza che sino a quel momento non si realizza il
trasferimento della proprietà (art. 23);
-
la possibilità di pronunciare provvedimenti di acquisizione definitiva delle
aree occupate o detenute senza titolo (art. 43, successivamente dichiarato
incostituzionale).
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4 Segue: l’ambito oggettivo
È delimitato dall’art. 1 che lo riferisce ai beni immobili e ai diritti relativi ad immobili,
necessari per la realizzazione di opere pubbliche o di pubblica utilità.
Oggetto di espropriazione, dunque, può essere il diritto di proprietà ma anche altri diritti
reali su beni di proprietà privata.
Il TU del 2001 autorizza a ritenere che la espropriazione possa investire anche diritti
personali di godimento (nascenti, per esempio, da contratti di locazione), benché tale ipotesi appaia
di improbabile verificazione.
Ex art. 4 del d.P.R n. 327/2001 possono essere oggetto di espropriazione anche beni
demaniali se il procedimento ablatorio sia preceduto dalla sdemanializzazione degli stessi da parte
della autorità che ne è titolare.
In assenza di tale pronuncia, l’espropriazione sarebbe illegittima benché conforme alle
disposizioni del piano.
La dottrina pacificamente ammette la assoggettabilità ad espropriazione anche per gli usi
civici se preceduti da sdemanializzazione. In mancanza del provvedimento formale di
sdemanializzazione non si può verificare la estinzione dell’uso civico
Sono definiti “usi civici” talune fattispecie di diritti reali, gravanti su terreni generalmente
adibiti a pascolo o utilizzo agricolo, appartenenti a determinate categorie di cittadini.
Per i beni indisponibili, invece, l’art. 4, c. 2, stabilisce che essi possano essere assoggettati
ad espropriazione se ciò è funzionale al perseguimento di un interesse pubblico superiore a quello
soddisfatto con la precedente destinazione.
Tale previsione normativa prefigura certamente un contraddittorio da realizzare con
l’amministrazione titolare del bene allo scopo di comparare i contrapposti interessi pubblici e
stabilire quale debba essere sacrificato in funzione dell’altro.
Infine, la norma detta anche speciali disposizioni per addivenire alla espropriazione di beni
appartenenti alla Santa Sede o ad altre Confessioni riconosciute.
In tale ipotesi è imprescindibile il previo accordo tra le parti affinché la espropriazione possa
legittimamente avere luogo.
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Il procedimento ablatorio è legittimo se preordinato alla realizzazione di una opera pubblica
o di pubblica utilità che rappresenta, dunque, lo scopo della espropriazione.
Sono opere pubbliche quelle appartenenti alla pubblica Amministrazione ed aventi natura
immobiliare, che siano eseguite da un soggetto di diritto pubblico e costituiscano, quindi, mezzo per
il soddisfacimento di un interesse pubblico.
La nozione di opera pubblica presuppone quindi tre aspetti:
la natura pubblica del soggetto che realizza l’opera ed alla quale l’opera appartiene;
l’effettiva e concreta destinazione dell’opera a funzioni o servizi pubblici e quindi al
soddisfacimento di un interesse pubblico (nesso teleologico);
la natura immobiliare dell’opera risultata dal lavoro umano.
L’opera di pubblica utilità ha necessità, invece, di un preventivo atto formale dichiarativo di
tale sua specificità.
Occorre premettere che non esiste una nozione precisa ed unitaria di opera di pubblica
utilità, avendo essa un perimetro molto ampio tanto da ricomprendere potenzialmente sia opere di
proprietà pubblica sia opere la cui proprietà sia riconducibile a privati
Essa, quando eseguita dal privato, rimane di proprietà privata, pur dovendosi considerare
opera di utilità pubblica o sociale, perché finalizzata a interessi privati e talvolta anche a scopo di
lucro, ma tuttavia atta a soddisfare anche un interesse pubblico, per cui il privato è legittimato alla
procedura di espropriazione per pubblica utilità.
Le opere di pubblica utilità appartengono solo a un privato, ma non si rinviene una
definizione generale e astratta delle stesse.
La distinzione tra le due categorie di opere ha perso di importanza dopo che il legislatore ha
unificato i procedimenti, mentre invece la legge acceleratrice n. 1/78 trovava applicazione solo per
le opere pubbliche.
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5 Segue: i soggetti
L’art. 3 del testo unico fornisce la definizione delle figure che possono animare la scena del
procedimento espropriativo, identificandoli nell’espropriato, nell’Autorità espropriante, nel
beneficiario dell’espropriazione e nel promotore dell’espropriazione.
Ora, è molto facile che gli ultimi tre soggetti elencati coincidano, da quando le nuove regole
prevedono che la funzione di autorità espropriante venga assunta da qualsiasi ente pubblico, che
realizzi l’opera (v. art. 6 T.U.).
Inoltre, ancorché tali termini siano usati indifferentemente dal legislatore, l’espropriato
potrebbe non identificarsi con l’effettivo proprietario.
Difatti, nelle prime fasi della procedura (imposizione del vincolo, comunicazione dell’avvio
del procedimento espropriativo, offerta dell’indennità), l’interlocutore dell’autorità espropriante è il
proprietario che risulti dai registri catastali, mentre occorre accertare chi sia l’effettivo titolare del
diritto oggetto di espropriazione soltanto quando sia giunto il momento del pagamento
dell’indennità.
Nulla esclude, tuttavia, che la procedura si concluda nei riguardi del proprietario catastale
quando questi non si sia premurato di avvisare l’amministrazione e nemmeno si sia attivato
l’effettivo proprietario. Premesso che l’effettivo proprietario, anche se non formalmente inciso dalla
procedura, può sempre contestare la determinazione dell’indennità facendo opposizione alla stima,
vi è da dire che l’Amministrazione ha l’obbligo di effettuare le visure catastali prima di avviare il
procedimento espropriativo, non potendosi avvalere di elenchi non recenti.
È bene rammentare che, in caso di espropriazione vengono contestualmente travolti tutti i
diritti relativi al bene oggetto di procedura ed appartenenti a terzi diversi dal proprietario. Infatti,
l’art. 34 del t.u. prevede che dopo la trascrizione del decreto di esproprio, tutti i diritti che potevano
essere fatti valere sul bene espropriato possono essere azionati esclusivamente sull’indennità che
quel bene ha sostituito. 1
1
Tar Toscana, I, sentenza 21.03.2013, n. 433, “Il procedimento ablatorio disciplinato dal d.P.R. n. 327 del 2001 può
colpire non solo il diritto di proprietà ma anche, in modo autonomo, un diritto reale minore. Pertanto anche nell'ipotesi
dell'imposizione di servitù le fasi del procedimento espropriativo, indicate nell'art. 8, d.P.R. n. 327 del 2001 e articolate
nell'apposizione del vincolo preordinato all'esproprio, nella dichiarazione di pubblica utilità dell'opera e nella
determinazione dell'indennità, devono essere rigorosamente rispettate”.
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Sul punto si segnalano i commi 2 e 3 dell’art. 3. laddove il primo prevede che “Tutti gli atti
della procedura espropriativa, ivi incluse le comunicazioni ed il decreto di esproprio, sono disposti
nei confronti del soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, salvo che l'autorità
espropriante non abbia tempestiva notizia dell'eventuale diverso proprietario effettivo. Nel caso in
cui abbia avuto notizia della pendenza della procedura espropriativa dopo la comunicazione
dell'indennità provvisoria al soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, il
proprietario effettivo può, nei trenta giorni successivi, concordare l'indennità ai sensi dell'articolo
45, comma 2”. Il comma 3, nell’attuale formulazione, prevede invece che “Colui che risulta
proprietario secondo i registri catastali e riceva la notificazione o comunicazione di atti del
procedimento
espropriativo,
ove
non
sia
più
proprietario
è
tenuto
di
comunicarlo
all'amministrazione procedente entro trenta giorni dalla prima notificazione, indicando altresì, ove
ne sia a conoscenza, il nuovo proprietario, o comunque fornendo copia degli atti in suo possesso
utili a ricostruire le vicende dell'immobile.”
Rimangono ovviamente fuori dal perimetro dell’espropriazione i vincoli conformativi del
diritto di proprietà fondiaria, i vincoli ambientali, di rispetto stradale, ecc.
Detti vincoli, tuttavia, se reiterati nel tempo possono produrre una espropriazione di valore
che può anche essere indennizzata.
La limitazione posta al diritto di proprietà sul bene non ha carattere espropriativo quando
riflette una caratteristica naturale del bene; viceversa, nelle ipotesi di limitazioni che incidono sulla
naturale esplicazione delle facoltà dominicali e sono riferiti a beni specificamente individuati, questi
assumono carattere espropriativo quando superano la normale tollerabilità ed impediscono la
fruizione del bene così come ritenuta legittima in un determinato momento storico.
Rientrano in tale fattispecie le limitazioni connesse alla imposizione di servitù coattive
dipendenti dalla realizzazione di un’opera pubblica ovvero quelle che comportano in genere, e per
la stessa causa, una perdita o diminuzione di facoltà preesistenti (art. 44 T.U.), purché vi sia il
concorso di tre condizioni: a) un’attività lecita della p.a. consistente nell’esecuzione di un’opera di
pubblica utilità; b) l’imposizione di una servitù o la produzione di un danno, di carattere
permanente, che si concreti nella perdita o diminuzione di un diritto; c) il nesso di causalità tra
l’esecuzione dell’opera pubblica e il danno.
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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L’espropriazione di pubblica utilità
È molto chiara la formula dell’art. 6, comma: “L'autorità competente alla realizzazione di
un'opera pubblica o di pubblica utilità è anche competente all'emanazione degli atti del
procedimento espropriativo che si renda necessario”. Tale disposizione, infatti, risponde
all’esigenza di semplificazione, nel senso di attribuire i poteri espropriativi direttamente al soggetto
pubblico titolare dell’intervento da realizzare.
Di rilevante interesse è anche l’ipotesi della delega, nel senso che “Se l'opera pubblica o di
pubblica utilità va realizzata da un concessionario o contraente generale, l'amministrazione titolare
del potere espropriativo può delegare, in tutto o in parte, l'esercizio dei propri poteri espropriativi,
determinando chiaramente l'àmbito della delega nella concessione o nell'atto di affidamento, i cui
estremi vanno specificati in ogni atto del procedimento espropriativo. A questo scopo i soggetti
privati cui sono attribuiti per legge o per delega poteri espropriativi, possono avvalersi di società
controllate. I soggetti privati possono altresì avvalersi di società di servizi ai fini delle attività
preparatorie”
Per quanto poi attiene al beneficiario dell’espropriazione, si rammenti che questo è il
soggetto, pubblico o privato, nel cui patrimonio entrano gli immobili espropriati, di guisa che è
anche il soggetto tenuto al pagamento delle indennità. Tale regola può subire eccezioni, come nel
caso di espropriazione di aree che devono essere direttamente intestate a soggetti terzi, diversi
dall’autorità espropriante, la quale tuttavia assume su di sé l’onere del pagamento delle indennità (si
pensi alla ricollocazione di opere pubbliche interferenti con quella da realizzare).
Il promotore dell’espropriazione è invece il soggetto, pubblico o privato, che chiede
l’espropriazione. Trattasi di un termine al quale il legislatore non assegna un significato univoco e
comunque, generalmente, coincide con l’autorità espropriante.
Ovviamente l’analisi della disciplina relativa ai soggetti della procedura espropriativa ci
conduce a discorrere delle nuove regole sulla competenza coniate dal testo unico, le quali
rappresentano l’architrave dell’intero impianto normativo; invero, il legislatore, nel perseguire un
obiettivo di semplificazione, ha stabilito che vi sia una coincidenza tra la titolarità dell’opera e
quella all’emanazione degli atti del procedimento espropriativo. Ciò non vale però per quegli enti
che, ancorché pubblici, realizzano interventi in regime di convenzione con un altro ente destinatario
della proprietà delle aree espropriate.
Di sicuro rilievo è la facoltà di delegare ai concessionari o ai contraenti generali l’esercizio
dei poteri espropriativi da parte degli enti concedenti. In passato invece la delega di funzioni non
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L’espropriazione di pubblica utilità
giungeva in alcun caso al trasferimento integrale dei compiti tipici dell’autorità espropriante, ivi
compreso il decreto di espropriazione, che in tal caso potrebbe essere emesso da un soggetto
privato.
Il T.U. prevede la creazione o individuazione, all’interno di ogni ente, dell’ufficio deputato
alla cura dei procedimenti espropriativi. Per gli enti locali troverà applicazione il testo unico n. 267
del 2000, in base al quale l’organizzazione degli uffici è disciplinata con regolamento da approvarsi
dal Consiglio comunale. A capo di ogni ufficio espropri dovrà essere posto un dirigente o, in
mancanza, il funzionario più elevato. Mentre il capo dell’ufficio avrà il compito di emettere ogni
atto conclusivo del procedimento, quelli di carattere preparatorio o infraprocedurale (notifiche,
inserzioni, rilievi topografici, ecc.) saranno di spettanza del responsabile del procedimento.
Si rammenti infine che se il progetto da realizzare non è conforme alle previsioni del piano
urbanistico comunale, o di questo siano scaduti i vincoli espropriativi, occorre che sia attivata una
procedura di variante, che tuttavia si completerà solo con l’approvazione della regione o della
provincia delegata. Deve ritenersi, anche ai fini della individuazione della disciplina applicabile
secondo i criteri stabiliti dal testo unico, che il decorso del tempo necessario per il perfezionamento
della procedura incida sulla produzione degli effetti della dichiarazione di pubblica utilità, che
quindi è già perfetta nei suoi elementi costitutivi.
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L’espropriazione di pubblica utilità
6 La reiterazione dei vincoli preordinati
all’esproprio
Un altro tema rivelatore del costante conflitto tra esigenze di tutela della proprietà e
perseguimento dei fini pubblici è quello relativo alla reiterazione dei vincoli preordinati
all’esproprio, regolati dall’art. 9 del T.U. n. 327/2001.
La norma prevede che i vincoli preordinati all’esproprio2 possano essere previsti dal piano
urbanistico generale o dalle sue varianti e diventano efficaci a seguito dell’atto di approvazione
dello strumento urbanistico.
La durata dei vincoli è fissata in cinque anni, entro i quali deve essere emanata la
dichiarazione di pubblica utilità, pena la decadenza del vincolo.
Dispone, ancora, la norma che, a seguito della scadenza del vincolo quest’ultimo può essere
motivatamente reiterato attraverso la approvazione di una variante di piano o di un nuovo strumento
urbanistico.
In caso di reiterazione, al proprietario è dovuta una indennità commisurata alla entità del
danno effettivamente subito.
L’obbligo di motivazione è, in questo caso, particolarmente pregnante e deve recare traccia
di una serie di aspetti puntualmente individuati dalla giurisprudenza, come il perdurare
dell’interesse pubblico, l’assenza di soluzione alternative alla reiterazione del vincolo sulla porzione
di territorio già interessata in passato, se la reiterazione del vincolo sia stata disposta per la prima
volta etc (Adunanza plenaria n. 7/2007).
La giurisprudenza ha anche evidenziato la importanza di una attenta istruttoria ed ha
particolarmente valorizzato l’aspetto della partecipazione dei soggetti interessati.
Punto focale di tale dibattito è la debenza o meno di una contropartita economica a
vantaggio del proprietario che si veda, di fatto, spogliato della disponibilità di un bene di cui solo
formalmente conservi la titolarità per effetto della reiterazione dei vincoli in questione.
2
Tali sono i vincoli che preludano ad uno svuotamento significativo del diritto di proprietà e differiscono dai vincoli di
destinazione che non hanno contenuto espropriativo, TAR Lombardia – Brescia, I, sentenza 20 marzo 2012, n. 449.
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L’espropriazione di pubblica utilità
In proposito occorre tracciare una netta linea di demarcazione tra esercizio del potere
ablatorio, inscindibilmente legato alla corresponsione di una indennità, ed esercizio del potere
conformativo della proprietà che non è riconducibile alla espropriazione e pertanto non è
indennizzato.
Ricadono in questa seconda categoria i vincoli paesaggistici che, pur apposti ad un bene
precisamente individuato ed indirizzati ad un destinatario ben specificato, non sono, per pacifica
giurisprudenza, indennizzabili.
Sul piano della giurisdizione, la Suprema Corte, con sentenza n. 11097 del 15 maggio 2006,
ha affermato che sarebbe irrazionale una riserva di giurisdizione ordinaria limitata alla fisiologia del
procedimento espropriativo, caratterizzata dalla corresponsione di un’indennità, e non
comprendente, invece, il suo possibile sviluppo patologico, relativo ad una vicenda di fatto
espropriativa, caratterizzata dall’apposizione di vincoli tali da rendere inutilizzabile, nella sostanza,
il bene posseduto dal suo titolare: tali controversie, quindi, rientrano nell’ampia previsione di
salvezza della giurisdizione di detto giudice di cui all’art. 34, comma 3, lett. b), del d. lgs. n. 80 del
1998 sulle domande aventi ad oggetto “indennità in conseguenza dell'adozione di atti di natura
espropriativa o ablativa”. Tale interpretazione trova, del resto, conferma nel disposto dell’art. 39 del
d.P.R. n. 327 del 2001, che attribuisce alla cognizione della Corte d’appello la controversia,
introdotta con opposizione alla stima effettuata dall’autorità, sulla determinazione dell’indennità per
reiterazione del vincolo sostanzialmente espropriativo.
Il tema ha trovato una congrua sistemazione con la sentenza della Corte costituzionale 20
maggio 1999, n. 179, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 42
cost., il combinato disposto degli artt. 7, n. 2, 3 e 4, e 40, l. 17 agosto 1942, n. 1150 e dell’art. 2, l.
19 novembre 1968, n. 1187, nella parte in cui consente all’amministrazione di reiterare i vincoli
urbanistici scaduti, preordinati all’espropriazione o che comportino l’inedificabilità, senza la
previsione d’indennizzo.
Secondo il giudice costituzionale, in questi casi, si rende necessario un intervento legislativo
che dovrà precisare le modalità di attuazione del principio dell’indennizzabilità dei vincoli a
contenuto espropriativo, delimitando le utilità economiche suscettibili di ristoro patrimoniale nei
confronti della P.A., potendo scegliere tra misure risarcitorie, misure indennitarie e, in taluni casi,
misure alternative riparatorie anche in forma specifica, mediante offerta ed assegnazione di altre
aree idonee alle esigenze del soggetto che ha diritto ad un ristoro, ovvero mediante altri sistemi
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L’espropriazione di pubblica utilità
compensativi che non penalizzano i soggetti interessati dalle scelte urbanistiche che incidono su
beni determinati. Nel contempo, tale esigenza di un intervento legislativo sulla quantificazione e
sulle modalità di liquidazione dell’indennizzo non esclude che, in caso di persistente mancanza di
specifico intervento legislativo determinativo di criteri e parametri per la liquidazione delle
indennità, il giudice competente sulla richiesta di indennizzo, una volta accertato che i vincoli
imposti in materia urbanistica abbiano carattere espropriativo nei sensi suindicati, possa ricavare
dall’ordinamento le regole per la liquidazione di obbligazioni indennitarie, nella specie come
obbligazioni di ristoro del pregiudizio subito dalla rinnovazione o dal protrarsi del vincolo. Infatti,
l’indennizzo per i vincoli urbanistici, come alternativa non eludibile al termine di efficacia posto
dall’art. 2 l. 19 novembre 1968, n. 1187, è dovuto allorché la possibilità di reiterazione del vincolo
scaduto, riconosciuta all’amministrazione per giustificate ragioni di interesse pubblico, comporta
che si superi la durata fissata dal legislatore come limite alla sopportabilità del sacrificio da parte
del soggetto titolare del bene.
La citata sentenza della Corte costituzionale porta a compimento una evoluzione
interpretativa iniziatasi con la sentenza n. 5 del 1980, che aveva sancito il principio secondo il quale
lo ius aedificandi continua ad inerire al diritto di proprietà, con il conseguente obbligo di indennizzo
anche nel caso di espropriazioni di valore, e con la sentenza n. 82 del 1982, la quale aveva ammesso
la legittimità costituzionale delle disposizioni degli artt. 1, 2 e 5 della legge n. 1187 del 1968, sul
presupposto che il legislatore avesse la facoltà di scelta tra la previsione di un indennizzo e la
predeterminazione di un termine di durata dell’efficacia del vincolo: dalla regola della alternatività
tra la temporaneità e la indennizzabilità dei vincoli urbanistici di natura espropriativa deriva infatti
che l’indeterminatezza temporale comporti il diritto all’indennizzo. Per distinguere tra i vincoli
indennizzabili e non indennizzabili, ovvero tra vincoli urbanistici soggetti a decadenza e non
soggetti a decadenza, la Consulta fa riferimento al criterio del carattere particolare del vincolo.
La Consulta non ritiene indennizzabili i vincoli aventi carattere di generalità per tutti i
consociati e quindi apposti in modo obiettivo a carico di intere categorie di beni, e tra questi i
vincoli urbanistici di tipo conformativo, e i vincoli paesistici: tali vincoli, infatti, interessano la
generalità dei soggetti, con una sottoposizione indifferenziata di essi, anche per zone territoriali, ad
un particolare regime secondo le caratteristiche intrinseche del bene stesso. Nè si può porre un
problema di indennizzo se il vincolo, previsto in base alla legge, abbia riguardo ai modi di
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L’espropriazione di pubblica utilità
godimento dei beni in generale o di intere categorie di beni, ovvero quando la legge stessa regoli la
relazione che i beni abbiano rispetto ad altri beni o interessi pubblici preminenti.
Devono di conseguenza essere considerati come connaturali alla proprietà i limiti non
ablatori posti normalmente nei regolamenti edilizi o nella pianificazione e programmazione
urbanistica e relative norme tecniche, quali i limiti di altezza, di cubatura o di superficie coperta, le
distanze tra edifici, le zone di rispetto in relazione a talune opere pubbliche, i diversi indici generali
di fabbricabilità ovvero i limiti e i rapporti previsti per zone territoriali omogenee e simili. Invero,
la previsione di una determinata tipologia urbanistica non è un vincolo preordinato
all’espropriazione, né comportante l’inedificabilità assoluta, trattandosi di una prescrizione diretta a
regolare concretamente l’attività edilizia in quanto inerente alla potestà conformativa propria dello
strumento urbanistico generale, la cui validità è a tempo indeterminato come espressamente stabilito
dall’art. 11 l. n. 1150 del 1942. Inoltre, si collocano al di fuori dello schema ablatorio-espropriativo
i vincoli che importano una destinazione, anche di contenuto specifico, realizzabile ad iniziativa
privata o promiscua pubblico-privata, che non comportino necessariamente espropriazione o
interventi ad esclusiva iniziativa pubblica: ciò si verifica quando gli obiettivi di interesse generale,
di dotare il territorio di attrezzature e servizi, siano ritenuti realizzabili (e come tali specificatamente
compresi nelle previsioni pianificatorie) anche attraverso l’iniziativa economica privata, pur se
accompagnati da strumenti di convenzionamento.
Si fa riferimento, ad esempio, alla realizzazione di parcheggi, di impianti sportivi, di mercati
o di complessi per la distribuzione commerciale, di edifici per iniziative di cura e sanitarie, ovvero
alla utilizzazione quali zone artigianali o industriali o residenziali: in altre parole, tutti quegli
interventi relativi ad iniziative suscettibili di operare in libero regime di economia di mercato.
Anche il vincolo di inedificabilità di tipo paesistico, che rivela una qualità insita nel bene, sì che la
proprietà su di esso è da intendere limitata fin dall’origine, è da considerare vincolo conformativo,
non soggetto a decadenza, che incide, anzi, sul valore del bene in sede di determinazione
dell’indennizzo per un’eventuale espropriazione. Del pari non è indennizzabile la reiterazione del
vincolo per destinazione a parco pubblico, a verde pubblico ovvero a zona di pregio agricolo con
valenza di tutela ambientale, in considerazione del fatto che non tutti i vincoli di inedificabilità
assoluta hanno carattere espropriativo e che se anche si prevede la realizzazione di un parco
pubblico, il vincolo imposto assolve la funzione primaria di conformare la proprietà a tutela
dell’ambiente e solo in via indiretta quella di condurre ad una espropriazione.
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L’espropriazione di pubblica utilità
In altre parole, i vincoli indennizzabili devono essere:
- quelli preordinati all’espropriazione;
- ovvero quelli aventi carattere sostanzialmente espropriativo, nel senso di comportare come
effetto pratico uno svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà stessa,
mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati,
incidendo quindi sul godimento del bene tanto da renderlo inutilizzabile rispetto alla sua
destinazione naturale ovvero diminuendone in modo significativo il suo valore di scambio.
Occorre inoltre che essi:
- comportino l’inedificabilità assoluta, qualora non siano stati discrezionalmente delimitati
nel tempo dal legislatore dello Stato o delle Regioni;
- ove vi sia la previsione di una scadenza del vincolo, abbiano superato la durata che dal
legislatore sia stata determinata come limite, non irragionevole e non arbitrario, alla sopportabilità
del vincolo urbanistico da parte del singolo soggetto titolare del bene determinato colpito dal
vincolo, ove non intervenga l’espropriazione, ovvero non si inizi la procedura attuativa, preordinata
all’esproprio, attraverso l’approvazione di piani particolareggiati o di esecuzione, aventi a loro volta
termini massimi di attuazione fissati dalla legge;
- superino sotto un profilo quantitativo la normale tollerabilità secondo una concezione della
proprietà, che resta regolata dalla legge per i modi di godimento ed i limiti preordinati alla funzione
sociale.
L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con la sentenza n. 24 del 22 dicembre 1999, ha
affermato che deve ritenersi che l’amministrazione, nel reiterare i vincoli in esame, debba prevedere
il relativo indennizzo e che è, pertanto, illegittimo il provvedimento con il quale si reiterano i
vincoli a contenuto espropriativo nella parte in cui si omette la previsione dell’indennizzo. Quanto
al momento dell’insorgenza del diritto indennitario, lo stesso coincide con l’approvazione del piano
urbanistico contenente la previsione rinnovatoria del vincolo, come conferma l’art. 2 l. n.
1187/1968, laddove il termine iniziale dell’efficacia quinquennale dei vincoli urbanistici viene fatto
decorrere dal momento dell’approvazione del PRG..
In altri termini, dovendosi ammettere che il Comune possa integrare, in sede di
approvazione definitiva del piano, il progetto semplicemente adottato, anche con riguardo alla
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L’espropriazione di pubblica utilità
misura del relativo indennizzo concedibile, è giocoforza ritenere che l’omissione in questione non
sia un vizio di legittimità della delibera di adozione, ma al più una irregolarità rimediabile.
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L’espropriazione di pubblica utilità
7 I vincoli di inedificabilità scaduti ( le
cd. zone bianche)
Nell’ipotesi di previsione di vincoli preordinati all’esproprio, secondo la ormai unanime
giurisprudenza amministrativa, l’inutile decorso del termine trasforma l’area in “zona bianca”, con
conseguente operatività, fino alla nuova pianificazione, della disciplina dettata dall’art. 4, ult.
comma, l. n. 10 del 1977, che ammette esclusivamente interventi di risanamento e manutenzione.
In sostanza, la decadenza dei vincoli preordinati all’espropriazione per l’inutile decorso del
termine quinquennale entro il quale il procedimento ablatorio deve essere concluso, non ha l’effetto
di restituire all’area già vincolata l’originaria destinazione di zona, ma la trasforma, appunto, in
“zona bianca”, alla quale il Comune può imprimere, motivando, la destinazione di zona, che allo
stato ritiene più conforme al pubblico interesse.
In questo caso, infatti, il venir meno del vincolo non comporta anche la caducazione del
giudizio negativo contestualmente espresso dall’amministrazione comunale nei confronti
dell’originaria destinazione, ritenuta non più adeguata alle mutate esigenze di pubblica rilevanza.
Pertanto, è illegittimo il silenzio mantenuto dal Comune sulla diffida del privato rivolta a
provvedere alla definizione urbanistica dell’area divenuta “zona bianca”.
Tuttavia, la giurisprudenza amministrativa ha distinto, nello specifico, due ipotesi diverse.
Infatti, gli effetti che si verificano alla scadenza del P.R.G. sono differenti a seconda che si
tratti di zone sottoposte a vincoli c.d. sostanziali, preordinati ad esproprio, in quanto l’area risulterà
alla scadenza priva di specifica destinazione, ovvero zone non sottoposte a vincoli, nel qual caso
invece rimane in essere la destinazione di piano.
È stato, quindi, ritenuto illegittimo un diniego di concessione edilizia opposto dal Comune in
ragione del fatto che l’area interessata fosse divenuta, per scadenza del vincolo, “zona bianca”,
ossia priva di disciplina urbanistica, poiché, nel caso di specie l’area era, comunque, ricompresa in
una zona non sfornita in assoluto di disciplina urbanistica.
In altre parole, il decorso del termine quinquennale di durata dei vincoli di inedificabilità
previsti dallo strumento urbanistico generale può rendere un’area assimilabile ad una c.d. zona
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L’espropriazione di pubblica utilità
bianca di cui all’art. 4 l. 28 gennaio 1977, n. 10, solo ove vi sia un piano regolatore generale privo
dei contenuti essenziali di cui all’art. 7 l. 17 agosto 1942, n. 1150.
Al contrario, laddove non esista lacuna nella normativa urbanistica, il venir meno del
vincolo comporta la riespansione del piano regolatore generale per la medesima zona (Consiglio di
Stato, Sez. V, n. 6071 del 9 ottobre 2003).
Da segnalare infine la pronuncia della Adunanza Plenaria, 24 maggio 2007, n. 7, che si è
espressa in tema di intensità degli oneri motivazionali facenti capo all’amministrazione che si
orienti nel senso della rinnovazione di un vincolo espropriativo.
Questi i passaggi principali della sentenza in discorso.
“Già con la decisione della Sez. IV n. 159 del 1994, il principio della necessità della
motivazione (poi espressamente disposto dall'art. 9, comma 4, del d.P.R. n. 327 del 2001) è stato
affermato dalla giurisprudenza quale temperamento dell'altro principio per il quale un atto di
pianificazione generale - tranne i casi di incidenza su posizioni consolidate da giudicati o da
convenzioni di lottizzazione - non ha bisogno di una motivazione ulteriore rispetto a quella che si
esprime con i criteri posti a sua base. In base a tale temperamento, poiché l'art. 2 della legge n. 1187
del 1968 aveva previsto la decadenza del vincolo preordinato all'esproprio per il decorso del
quinquennio in assenza della dichiarazione della pubblica utilità, si è ammesso che l'esercizio del
potere di reiterazione del vincolo possa essere esercitato solo sulla base di una idonea istruttoria e di
una adeguata motivazione che faccia escludere un contenuto vessatorio o comunque ingiusto dei
relativi atti, occorrendo l'effettiva cura di un pubblico interesse.
Infatti, "l'Amministrazione deve indicare la ragione che la induce a scegliere nuovamente
proprio l'area sulla quale la precedente scelta si era appuntata: la reiterazione del vincolo
espropriativo, sic et simpliciter, non è dunque consentita, dovendo l'Amministrazione evidenziare
l'attualità dell'interesse pubblico da soddisfare, in quanto si va ad incidere sulla sfera giuridica di un
proprietario che già per un quinquennio è stato titolare di un bene suscettibile di dichiarazione di
pubblica utilità e successivamente di esproprio" (Sez. IV, dec. n. 159 del 1994, cit., § 11).
Quanto alla adeguatezza della motivazione, l'Adunanza Plenaria ritiene che essa vada
valutata tenendo conto, tra le altre, delle seguenti circostanze:
a) se la reiterazione riguardi o meno una pluralità di aree, nell'ambito della adozione di una
variante generale o comunque riguardante una consistente parte del territorio comunale;
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L’espropriazione di pubblica utilità
b) se la reiterazione riguardi soltanto una parte delle aree già incise dai vincoli decaduti,
mentre per l'altra parte non è disposta la reiterazione, perché ulteriori terreni sono individuati
per il rispetto degli standard;
c) se la reiterazione sia stata disposta per la prima volta sull'area in questione.
Quanto al profilo sub a), vanno distinti i casi in cui la reiterazione del vincolo riguardi un'area ben
specificata (per realizzare una singola opera pubblica o per soddisfare i prescritti standard sui
servizi pubblici o sul verde pubblico), da quelli in cui la reiterazione riguardi una pluralità di aree
per una consistente parte del territorio comunale, a seguito della decadenza di uno strumento
urbanistico generale che abbia disposto una molteplicità di vincoli preordinati all'esproprio
(necessari per l'adeguamento degli standard, a seguito della realizzazione di ulteriori manufatti).
Infatti, quando sono reiterati 'in blocco' i vincoli decaduti già riguardanti una pluralità di
aree, la sussistenza di un attuale specifico interesse pubblico risulta dalla perdurante constatata
insufficienza delle aree destinate a standard (indispensabili per la vivibilità degli abitati), mentre
l'assenza di un intento vessatorio si evince dalla parità di trattamento che hanno tutti i destinatari dei
precedenti vincoli decaduti.
Quanto al profilo sub b), va rimarcato come una anomalia della funzione pubblica possa
essere ravvisata quando, dopo la decadenza 'in blocco' dei vincoli complessivamente previsti dallo
strumento urbanistico generale, l'Autorità ne reiteri solo alcuni, individuando altre aree per
soddisfare gli standard, in assenza di una adeguata istruttoria o motivazione.
Tali scelte, infatti, devono fondarsi su una motivazione da cui emergano le relative ragioni
di interesse pubblico, poiché avvantaggiano chi non è più coinvolto nelle determinazioni di
reperimento degli standard, a scapito di chi lo diventa, pur non essendo stato destinatario di un
precedente vincolo preordinato all'esproprio.
Quanto al profilo sub c), si deve tenere conto del fatto se il vincolo sia decaduto una o più
volte.
In linea di principio, può ritenersi giustificato il richiamo alle originarie valutazioni, quando
vi è una prima reiterazione, ma - quando il rinnovato vincolo sia a sua volta decaduto - l'Autorità
urbanistica deve procedere con una ponderata valutazione degli interessi coinvolti, esponendo le
ragioni - riguardanti il rispetto degli standard, le esigenze della spesa, specifici accadimenti
riguardanti le precedenti fasi procedimentali - che inducano ad escludere profili di eccesso di potere
e ad ammettere l'attuale sussistenza dell'interesse pubblico”.
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L’espropriazione di pubblica utilità
8 Le fasi del procedimento
espropriativo
Il testo unico n. 327/2001 contiene una chiara suddivisione del procedimento espropriativo
in più fasi, ciascuna delle quali si caratterizza per i soggetti coinvolti e per le garanzie di
partecipazione che nell’ambito della stessa devono essere assicurate.
La prima fase è quella di apposizione dei vincoli preordinati all’esproprio ed è strettamente
connessa al procedimento prodromico di pianificazione territoriale.
Segue la fase di emanazione della dichiarazione di pubblica utilità (artt. 12-19) che si risolve
in un autonomo subprocedimento in cui assume importanza centrale la partecipazione dei privati
destinatari a vario titolo dei provvedimenti finali.
La violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio del procedimento, posto in capo alla
PA, può costituire valido motivo di impugnazione dell’atto recante la dichiarazione di pubblica
utilità con conseguente travolgimento degli atti successivi, tra cui il decreto di esproprio.
In particolare, si impone alla PA un notevole sforzo di individuazione dei soggetti che
possono essere pregiudicati sul piano sostanziale.
Seguono la fase di determinazione della indennità ed adozione del decreto di esproprio che
conclude il procedimento realizzando l’effetto principale del trasferimento del diritto sul bene
dall’originario proprietario alla PA.
Il decreto di esproprio deve essere adottato entro il termine di scadenza della dichiarazione
di pubblica utilità ed indica quale sia la indennità determinata in via provvisoria, precisando se sia
stata accettata o meno dal soggetto espropriato.
L’art. 23, c. 1, d.P.R n.327/2001 elenca i contenuti essenziali del decreto
L’art. 23, lett. f, afferma che il passaggio del diritto di proprietà dall’originario titolare al
patrimonio della PA si verifica con il decreto di esproprio, benché sotto la condizione sospensiva
che lo stesso sia successivamente notificato ed eseguito.
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vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
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Proprio in quanto valido titulus adquirendi si prevede che il decreto sia anche trascritto per
la opponibilità ai terzi.
L’art. 25 T.U. precisa quali siano gli effetti della espropriazione per i terzi, prevedendo la
estinzione automatica di tutti i diritti, reali o personali, gravanti sul bene espropriato, salvo quelli
compatibili con le finalità della espropriazione.
Ai sensi dell’art. 34, poi, dopo la trascrizione del decreto di esproprio, tutti i diritti sui beni
appartenenti all’espropriato possono essere fatti valere sulla indennità che è omnicomprensiva: la
legge, infatti, espressamente esclude (art. 34, c. 4) che possano esistere indennità aggiuntive su cui
possano rifarsi i titolari di diritti reali o personali sui bene.
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L’espropriazione di pubblica utilità
9 L’approvazione del progetto e la
dichiarazione di pubblica utilità
Molto delicato è dunque il tema della partecipazione al procedimento espropriativo, che
difatti presenta una evoluzione nel tempo particolarmente significativa.
Occorre prendere le mosse dalla sentenza dell’Adunanza Plenaria n. 6 del 19.6.1986,
secondo cui al proprietario espropriando poteva non essere comunicato nulla prima
dell’approvazione del progetto e della pubblica utilità, atteso che le formalità garantistiche previste
dall’art. 10 della legge n. 865/71, pur non formalmente superate a seguito dell’introduzione della
legge n. 1 del 1978, potevano tuttavia essere assecondate nel corso del procedimento e prima della
sua conclusione, ma non dovevano necessariamente precedere la fase della dichiarazione di
pubblica utilità, né quella della procedura della dichiarazione d’urgenza.
Tale orientamento destò molte critiche, soprattutto con l’avvento dell’art. 7 della legge n.
241/90, evidenziandosi che le osservazioni ex post possono risultare tardive, cioè ad opere
irreversibilmente effettuate.
L’Adunanza Plenaria n. 14 del 1999 ha quindi ribaltato il precedente orientamento e ha
sancito definitivamente il principio secondo il quale al proprietario espropriando deve essere
comunicato l’avviso di avvio del procedimento in un momento anteriore rispetto all’approvazione
del progetto e alla connessa dichiarazione di pubblica utilità.
La giurisprudenza successiva si è divisa, sostenendo alcuni che le disposizioni dell’art. 10
della legge n. 865/71 fossero prevalenti, per la loro specialità, a quelle generali dell’art. 7 della
legge n. 241/90, pervenendo poi alla conclusione che la dichiarazione di pubblica utilità, connessa
per legge all’approvazione del progetto, costituisce un autonomo procedimento e non un sub
procedimento dell’espropriazione, con la conseguente necessità di dare preventiva comunicazione
all’interessato.
Il T.U. innanzitutto impone il deposito degli elaborati progettuali, anche quando, e non si
può ritenere diversamente, il promotore dell’espropriazione non sia un soggetto terzo ma si
identifichi nella stessa Autorità espropriante.
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L’art. 11 del T.U. garantisce al proprietario il diritto di accesso al procedimento sin dalla
fase della pianificazione territoriale e segnatamente sin dal momento di apposizione del vincolo
preordinato all’esproprio, generalmente riconducibile alla approvazione dello strumento urbanistico.
Il proprietario risultante dai registri catastali deve, inoltre, essere destinatario della
comunicazione di avvio del procedimento, con indicazione del luogo e delle modalità con cui il
piano o il progetto possono essere consultati.
La mancata comunicazione di avvio del procedimento rappresenta una grave violazione alla
quale consegue la illegittimità della intera procedura.
Il legislatore si preoccupa di salvaguardare il previo contraddittorio stabilendo, al comma 4
dell’art. 16, che “Al proprietario dell'area ove è prevista la realizzazione dell'opera è inviato l'avviso
dell'avvio del procedimento e del deposito degli atti di cui al comma 1, con l'indicazione del
nominativo del responsabile del procedimento”. La norma non impone alcuna modalità specifica di
notificazione, per cui, non richiedendo la notifica nelle forme previste per gli atti processuali civili,
essa può essere effettuata anche a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento. Il proprietario
sarà colui che risulta dai registri catastali, come è detto nell’art. 3, comma 2, del T.U.: “Tutti gli atti
della procedura espropriativa, ivi incluse le comunicazioni ed il decreto di esproprio, sono disposti
nei confronti del soggetto che risulti proprietario secondo i registri catastali, salvo che l'autorità
espropriante non abbia tempestiva notizia dell'eventuale diverso proprietario effettivo”.
Il comma 3 aggiunge che “Colui che risulta proprietario secondo i registri catastali e riceva
la notificazione o comunicazione di atti del procedimento espropriativo, ove non sia più proprietario
è tenuto di comunicarlo all'amministrazione procedente entro trenta giorni dalla prima
notificazione, indicando altresì, ove ne sia a conoscenza, il nuovo proprietario, o comunque
fornendo copia degli atti in suo possesso utili a ricostruire le vicende dell'immobile”. Questa norma,
ancorché impositiva di un obbligo da espletare entro un termine perentorio, è sprovvista di
qualsivoglia sanzione.
E’ bene comunicare l’avviso di avvio procedimentale, in ogni caso, ai proprietari catastali al
fine di salvaguardare la legittimità della procedura. Del resto, in alcuni casi il proprietario catastale
non riceverà alcun avviso, ad es. quando risulti assente o irreperibile oppure i destinatari siano
superiori a cinquanta (“Allorché il numero dei destinatari sia superiore a 50, la comunicazione è
effettuata mediante pubblico avviso, da affiggere all'albo pretorio dei Comuni nel cui territorio
ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo, nonché su uno o più quotidiani a diffusione
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nazionale e locale e, ove istituito, sul sito informatico della Regione o Provincia autonoma nel cui
territorio ricadono gli immobili da assoggettare al vincolo. L'avviso deve precisare dove e con quali
modalità può essere consultato il piano o il progetto. Gli interessati possono formulare entro i
successivi trenta giorni osservazioni che vengono valutate dall'autorità espropriante ai fini delle
definitive determinazioni”). In tal caso la pubblicazione all’albo pretorio, pur in assenza di
indicazioni normative, deve avvenire per trenta giorni in modo da consentire all’interessato di
formulare le proprie osservazioni, alle quali l’Autorità espropriante deve rispondere motivando.
Nel caso in cui l’accoglimento delle osservazioni provochi pregiudizio ad un proprietario del tutto
nuovo o che non aveva formulato alcun rilievo, devono ripetersi nei suoi confronti le formalità di
comunicazione.
Si ritiene che si applichi l’art. 21 octies in caso di progetto conforme agli strumenti
urbanistici, laddove la scelta del tracciato sia stata adottata nel precedente atto di programmazione
urbanistica, così come nel caso di proroga di una dichiarazione di pubblica utilità. In tutti gli altri
casi sembra difficile escludere a priori ogni possibile utilità del contributo offerto dal privato se
avesse partecipato al procedimento.
Superata la fase delle osservazioni, si giunge all’approvazione del progetto definitivo.
E’ bene rammentare che nella delibera approvativa devono essere riportati gli estremi
dell’atto da cui è sorto il vincolo espropriativo, al fine di indurre l’amministrazione a controllare la
vigenza del vincolo espropriativo, verificando che non siano decorsi i cinque anni di validità dello
stesso (art. 9, comma 2). Tale disposizione, ovviamente, non troverà applicazione nel caso in cui il
progetto definitivo sia in contrasto con lo strumento urbanistico perché in tal caso sarà proprio
l’approvazione del progetto a comportare l’adozione della variante. Si ricordi, però che, a norma
dell’art. 12, comma 3, “Qualora non sia stato apposto il vincolo preordinato all'esproprio la
dichiarazione di pubblica utilità diventa efficace al momento di tale apposizione a norma degli
articoli 9 e 10”.
Ai sensi dell’art. 17, comma 2, del T.U. è necessario comunicare al proprietario dei beni da
espropriare l’avvenuta approvazione del progetto e da tale momento decorrono i termini per la sua
impugnativa.
L’approvazione del progetto definitivo comporta l’adozione della dichiarazione di pubblica
utilità. L’art. 12 individua gli atti valevoli quali dichiarazioni di pubblica utilità: “a) quando
l'autorità espropriante approva a tale fine il progetto definitivo dell'opera pubblica o di pubblica
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L’espropriazione di pubblica utilità
utilità, ovvero quando sono approvati il piano particolareggiato, il piano di lottizzazione, il piano di
recupero, il piano di ricostruzione, il piano delle aree da destinare a insediamenti produttivi, ovvero
quando è approvato il piano di zona; b) in ogni caso, quando in base alla normativa vigente equivale
a dichiarazione di pubblica utilità l'approvazione di uno strumento urbanistico, anche di settore o
attuativo, la definizione di una conferenza di servizi o il perfezionamento di un accordo di
programma, ovvero il rilascio di una concessione, di una autorizzazione o di un atto avente effetti
equivalenti”.
A questo riguardo dobbiamo registrare due importanti novità introdotte dal Testo Unico,
rispetto al sistema previgente:
1) la dichiarazione di indifferibilità ed urgenza dei lavori, al fine di attivare la procedura di
occupazione d’urgenza, non consegue più automaticamente alla dichiarazione di pubblica utilità;
2) non sono più necessari i termini di inizio e fine lavori ed espropriazioni, residuando solo
il termine entro il quale va emesso il decreto di espropriazione, in mancanza del quale vale peraltro
un generico termine di cinque anni. Invero, “L'obbligo di indicare nella delibera di approvazione del
progetto di opera pubblica i termini di inizio e ultimazione dei lavori e della procedura
espropriativa, già prescritto dall'art. 13 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, è stato abolito dall'art.
13, t.u. 8 giugno 2001 n. 327, il quale ha previsto, ma solo come facoltativa, l'indicazione del
termine entro il quale deve essere emanato il decreto di esproprio ed ha stabilito che, in mancanza di
detta previsione, si applica il termine massimo di cinque anni” (cfr. C. Stato, Sez. IV, sent. n. 1720
del 24-03-2010).
A questo riguardo il Consiglio di Stato (Sez. IV, Sent. n. 5539 del 06-11-2008) ha ritenuto
che “Non è applicabile il principio che condiziona l'efficacia dell'atto alla comunicazione
all'interessato all'ipotesi di decreto di esproprio, che è soggetto alla disciplina speciale del testo
unico espropriazioni (D.P.R. n. 327/2001) il quale, all'art. 13, richiede, in riferimento al decreto di
esproprio entro la scadenza del termine (per non configurare l'inefficacia della dichiarazione di
pubblica utilità), la sola emanazione o adozione e non anche la comunicazione”. In altra occasione
ha osservato, infatti, che “L'art. 21 bis L. n. 1034/1971, superando lo schema concettuale della
categoria degli atti recettizi, per i provvedimenti limitativi della sfera privata condiziona l'efficacia
alla comunicazione all'interessato. Tale considerazione, però, non può valere nel caso di decreto di
esproprio che, atto ablatorio per sua natura tra i più incisivi e limitativi rispetto alla sfera giuridica e
patrimoniale dei destinatari, è soggetto alla disciplina speciale del testo unico espropriazioni (di cui
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L’espropriazione di pubblica utilità
al D.P.R. n. 327/2001) il quale richiede, per il decreto di esproprio entro la scadenza del termine, la
sola emanazione o adozione, ma non anche la comunicazione” (Sez. IV, Sent. n. 5538 del 06-112008).
L’art. 13, comma 7, altresì prevede, per quanto attiene al periodo di efficacia della
dichiarazione di p.u., che “Restano in vigore le disposizioni che consentono l'esecuzione delle
previsioni dei piani territoriali o urbanistici, anche di settore o attuativi, entro termini maggiori di
quelli previsti nel comma 4”.
Anche la disciplina del T.U. conferma quindi la necessità di dare un termine entro cui
iniziare e concludere il procedimento espropriativo ed essa “risponde all'esigenza, risalente sin dal
1865 ed oggi insita negli artt. 13 e 46 del TU sulle espropriazioni di cui al d. lgs. n. 327 del 2001,
che l'interesse pubblico alla realizzazione dell'opera per soddisfare l'esigenza primaria ad essa
riconnessa, debba correlarsi e confrontarsi con quello privato a non vedersi inutilmente o
spropositatamente sacrificato da scelte irrazionali, demagogiche, megalomani, clientelari, o peggio,
contrastanti con i criteri e principi di correttezza, ragionevolezza, proporzionalità, attendibilità,
coerenza dell'azione amministrativa” (cfr. C. Stato, Sez. IV, sent. n. 632 del 27-01-2011). L’art. 46,
infatti, rubricato “retrocessione totale” prevede che “Se l'opera pubblica o di pubblica utilità non è
stata realizzata o cominciata entro il termine di dieci anni, decorrente dalla data in cui è stato
eseguito il decreto di esproprio, ovvero se risulta anche in epoca anteriore l'impossibilità della sua
esecuzione, l'espropriato può chiedere che sia accertata la decadenza della dichiarazione di pubblica
utilità e che siano disposti la restituzione del bene espropriato e il pagamento di una somma a titolo
di indennità”.
Bisogna però distinguere: se è vero che sulla natura perentoria e non ordinatoria del termine
quinquennale entro cui adottare l'atto conclusivo del procedimento ablativo, non pare sussistano
dubbi, in ossequio ad un più che ormai consolidato orientamento giurisprudenziale in base al quale
al termine finale va riconosciuto, a differenza del termine iniziale, natura perentoria e tanto con
riferimento anche al regime giuridico descritto sul punto dall'art.13 della legge n.2359 del 1865,
norma sostanzialmente riprodotta nell'omologo art.13 del D.P.R. n.327/2001 (C. Stato, Sez. IV,
sent. n. 4457 del 26-07-2011).
L’art. 12, comma 2, prevede che “Le varianti derivanti dalle prescrizioni della conferenza di
servizi, dell'accordo di programma o di altro atto di cui all'articolo 10, nonché le successive varianti
in corso d'opera, qualora queste ultime non comportino variazioni di tracciato al di fuori delle zone
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L’espropriazione di pubblica utilità
di rispetto previste ai sensi del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 753,
nonché ai sensi del decreto ministeriale 1° aprile 1968, sono approvate dall'autorità espropriante ai
fini della dichiarazione di pubblica utilità e non richiedono nuova apposizione del vincolo
preordinato all'esproprio”. La norma appare criticabile sia perché indebolisce il principio della
necessaria preesistenza del vincolo espropriativo, rispetto a qualsiasi procedura espropriativa, sia
perché equipara il vincolo espropriativo a quello che deriva dalla imposizione sull’area di una fascia
di rispetto.
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L’espropriazione di pubblica utilità
10 Il decreto di espropriazione
Ai sensi dell’art. 8 del T.U., per poter concludere la procedura espropriativa è necessario
aver svolto almeno i seguenti adempimenti:
- imporre un vincolo espropriativo valido ed efficace;
- redigere ed approvare un progetto definitivo;
- conseguire la dichiarazione di pubblica utilità;
- determinare una indennità di espropriazione, anche se a titolo provvisorio.
Rispetto allo schema procedimentale della l. 865/71 tra le condizioni per l’emissione del
decreto espropriativo non figura più quella di pagare l’indennità concordata ovvero di depositare
l’indennità concordata.
L’art. 22 del T.U. consente altresì l’emissione del decreto di esproprio subito dopo aver
determinato l’indennità provvisoria.
Se tutti gli adempimenti predetti sono stati svolti in modo legittimo e non è spirato il termine
di efficacia della dichiarazione di pubblica utilità sarà possibile pronunciare l’espropriazione ed
ottenere il trasferimento della proprietà del bene sul quale dovrà essere realizzato l’intervento di
pubblica utilità.
Il T.U. scolpisce una natura bifasica del decreto di espropriazione, in quanto l’effetto
traslativo presuppone non solo l’emissione del relativo decreto ma anche la sua esecuzione,
consistente nella materiale presa di possesso dell’immobile, che costituisce quindi una condizione
sospensiva di efficacia del decreto di esproprio.
Il decreto di esproprio deve contenere le informazioni elencate alle lettere “b”, “c”, “d”, “e”,
“ebis” di cui al comma 1 dell’art. 23 (quindi gli estremi del provvedimento dal quale è sorto il
vincolo preordinato all’esproprio e dell’atto approvativo del progetto, deve essere indicata
l’indennità provvisoria, ecc.).
Al decreto di esproprio deve essere data pubblicità mediante la pubblicazione di un estratto
nella Gazzetta ufficiale della Repubblica, se l’espropriante è lo Stato, o del Bollettino Ufficiale della
Regione, in tutti gli altri casi. Come tutti gli atti di trasferimento anche il decreto di esproprio deve
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L’espropriazione di pubblica utilità
essere trascritto nei registri immobiliari, registrato presso l’Ufficio del registro e volturato nei
registri catastali.
La registrazione del decreto di esproprio, al contrario di ciò che accade per gli atti pubblici
di cessione volontaria, può essere effettuata in qualsiasi ufficio del Registro, senza vincoli
territoriali.
I predetti adempimenti devono essere effettuati “senza indugio”, ma in tal modo il
legislatore usa una locuzione di non chiaro significato. Occorre infatti chiedersi se il decreto di
espropriazione debba essere trascritto subito dopo la sua emanazione ed indipendentemente dalla
sua esecuzione. Se si optasse per l’affermativa, la trascrizione avverrebbe con l’annotazione della
condizione sospensiva data dalla futura esecuzione del provvedimento. Ebbene, deve ritenersi che il
decreto di esproprio deve essere trascritto soltanto dopo la sua esecuzione, sia perché
l’Amministrazione non avrebbe la necessità di tutelarsi nelle more dell’esecuzione, atteso che il suo
acquisto è a titolo originario ed eventuali diritti di terzi sarebbero trasferiti sull’indennità, sia perché
è sempre possibile l’atto di cessione volontaria fino all’esecuzione del decreto di espropriazione.
Infatti, se si optasse per l’affermativa, si configurerebbe un’altra condizione sospensiva della
trascrizione, che l’ordinamento però non ha contemplato.
Per l’esecuzione del decreto di esproprio è necessario che questo debba essere
preventivamente notificato e il comma 1 dell’art. 23 prevede che la notifica deve avvenire nelle
forme degli atti processuali civili (servizio postale, messo del giudice di pace, messo comunale,
ufficiale giudiziario, ecc.). Al decreto deve essere allegato l’avviso contenente l’indicazione del
luogo, giorno, ora in ci è prevista l’immissione in possesso e l’avviso deve essere notificato almeno
sette giorni prima della data fissata per le operazioni. Tale previsione però non collima con quella
che prevede che la notifica del decreto di esproprio può avvenire contestualmente alla sua
esecuzione. Deve ritenersi, per superare la contraddittorietà tra le due disposizioni, che la necessità
di una dilazione si pone soltanto quando il proprietario effettivo non abbia avuto alcuna notizia
della procedura espropriativa a suo carico perché dissonante dal proprietario catastale.
Altro momento problematico è quello relativo alla individuazione del momento in cui si
produce l’effetto tipico del decreto di esproprio e cioè quello in cui ha luogo l’estinzione di tutti i
diritti reali o personali gravanti sul bene. Ebbene questo è condizionato alla sua esecuzione, di
talché sembra debba ritenersi che il decreto di esproprio prima della sua notificazione ed esecuzione
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L’espropriazione di pubblica utilità
sia un mero atto interno alla p.a. e pertanto non trascrivibile né ancora impugnabile. Ma questa è
un’opinione, ancorché autorevolmente sostenuta in dottrina.
Il comma 1 dell’art. 24 prevede che l’esecuzione del decreto di esproprio debba avvenire
entro due anni dalla sua emanazione; quest’ultima, a sua volta, deve avvenire entro il termine di
cinque anni dalla data in cui diviene efficace la dichiarazione di pubblica utilità. Pertanto,
l’esecuzione del decreto deve avvenire, al più tardi, entro i sette anni dalla dichiarazione di pubblica
utilità, a meno che non siano stati fissati termini più brevi all’atto dell’approvazione del progetto.
Scaduto tale termine, ovvero il termine biennale tra emanazione ed esecuzione del decreto, verrebbe
meno l’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità.
L’ultimo comma dell’art. 24 prevede però che “Decorso il termine previsto nel comma 1,
entro i successivi tre anni può essere emanato un ulteriore atto che comporta la dichiarazione di
pubblica utilità”. Per dare un senso alla norma occorre ritenere che la possibilità di riedizione del
potere sotteso all’emanazione della dichiarazione di pubblica utilità è sempre esistente, ma se viene
rispettato il termine del triennio di cui alla norma testé riprodotta tutta la procedura pregressa
verrebbe fatta salva.
Le operazioni di accertamento della consistenza del bene espropriato sono svolte in
contraddittorio con il proprietario e con gli eventuali possessori. In ogni caso, tuttavia, la mancata
partecipazione di costoro ovvero il rifiuto di sottoscrivere il verbale di consistenza non pregiudica
né interrompe in alcun modo lo svolgimento delle operazioni; difatti, potrà procedersi ugualmente a
sopralluogo alla presenza di due testimoni che non siano dipendenti del beneficiario
dell’espropriazione. Se è vero che il proprietario può far mettere a verbale le proprie dichiarazioni
assumono valore probatorio soltanto le dichiarazioni dell’incaricato e le risultanze del verbale di
consistenza. Nel verbale di consistenza devono essere descritti tutti gli elementi che possono
influenzare la determinazione dell’indennità.
Esaurite le formalità di redazione del verbale di consistenza, dovrà procedersi alla redazione
del verbale di immissione in possesso. Con tale atto, l’incaricato espropriante immette formalmente
il beneficiario della procedura nel possesso del bene espropriato. E’ buona norma far seguire
d’appresso alla occupazione formale anche quella materiale per evitare che, con il decorso del
tempo, anche per l’attività del proprietario, si alteri lo stato dei luoghi
Per vero, il comma 2 dell’art. 24 prevede che “Lo stato di consistenza del bene può essere
compilato anche successivamente alla redazione del verbale di immissione in possesso, senza
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L’espropriazione di pubblica utilità
ritardo e prima che sia mutato lo stato dei luoghi”. Il comma 4 altresì aggiunge che “Si intende
effettuata l'immissione in possesso anche quando, malgrado la redazione del relativo verbale, il
bene continua ad essere utilizzato, per qualsiasi ragione, da chi in precedenza ne aveva la
disponibilità”.
Le eventuali resistenze passive alla presa di possesso si possono superare con l’ausilio della
forza pubblica, la quale tuttavia deve intervenire al solo scopo di preservare l’ordine pubblico, ma
non può materialmente eseguire il provvedimento che autorizza l’occupazione espropriativa. Questo
perché non trova applicazione l’art. 823 c.c., già solo per il fatto che non si tratta di beni demaniali
ma di beni appartenenti al patrimonio indisponibile (e l’art. 823 riguarda solo gli enti territoriali).
Ovviamente, qualora l’atteggiamento del proprietario o del possessore fosse tale da ritardare
la presa di possesso o l’esecuzione dei lavori, costoro sarebbero comunque responsabili per le
conseguenze risarcitorie ascrivibili alla propria condotta, in quanto, pur non avendo l’obbligo di
cooperare perché si realizzi l’occupazione hanno l’obbligo di non vanificarla (C. Cass., sez. I, n.
11700 del 4.11.1991).
Gli effetti dell’espropriazione per i terzi sono descritti dall’art. 25 del T.U., laddove
prescrive che “L'espropriazione del diritto di proprietà comporta l'estinzione automatica di tutti gli
altri diritti, reali o personali, gravanti sul bene espropriato, salvo quelli compatibili con i fini cui
l'espropriazione è preordinata”. Abbiamo poi già rilevato la regola secondo cui “Dopo la
trascrizione del decreto di esproprio, tutti i diritti relativi al bene espropriato possono essere fatti
valere unicamente sull'indennità” (cfr. comma 3). Ciò deriva dalla vista natura dell’acquisto in
mano pubblica, che avviene a titolo originario. Una parte della giurisprudenza estende tale regola
anche alle acquisizioni conseguenti agli atti di cessione volontaria, ancorché questi abbiano natura
derivativa (C. Cass., Sez. I, 2.3.1999, n. 1730).
Si ricordi che le posizioni soggettive dei privati travolte dal decreto espropriativo sono sia
reali che personali, con la differenza che questi ultimi non incidono, di regola, sulle procedure di
riscossione e concorda mento delle indennità. Infatti, mentre un creditore ipotecario può opporsi al
pagamento diretto delle indennità concordate dal proprietario, altrettanto non potrebbe fare il
conduttore di un fondo rustico o il locatario di un immobile urbano. La più ampia tutela è riservata
all’enfiteuta, tant’è che è egli stesso chiamato a concordare e riscuotere le indennità. I titolari dei
diritti di natura personale hanno comunque titolo per proporre autonomamente un giudizio di
opposizione alla stima. In alcuni casi hanno addirittura una posizione indennitaria autonoma, come
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L’espropriazione di pubblica utilità
nel caso dei fittuari dei fondi agricoli aventi la qualifica di coltivatori diretti o degli imprenditori che
subiscono dall’espropriazione la sottrazione dei beni aziendali.
Un’ipotesi particolare è data dalla gestione di un’attività commerciale o artigianale da parte
del conduttore di un immobile espropriando. In tal caso, il fittuario avrà comunque diritto alla
percezione di un’indennità da determinarsi in ragione del valore di avviamento dell’attività
commerciale o artigianale. Sul punto è intervenuta la Corte Costituzionale (2 febbraio 1988, n.
126), che ha stabilito che il valore di avviamento può essere considerato una posta aggiuntiva
rispetto al valore espropriativo dell’immobile e che, pertanto, il conduttore ha facoltà di opporsi
autonomamente all’indennità quando l’Ente espropriante non ne abbia tenuto conto o lo abbia fatto
in modo ritenuto insufficiente.
Il trasferimento dei diritti dei terzi sulla indennità sostitutiva del bene espropriativo si
perfeziona con la trascrizione del decreto di esproprio o dell’atto di cessione volontaria. La
trascrizione, in tal caso, trattandosi di acquisto a titolo originario, ha solo una funzione di pubblicità
a favore dei terzi.
I terzi titolari di diritti reali o personali sul bene non ricevono comunicazione diretta
dell’ammontare dell’indennità, assumendone conoscenza ufficialmente soltanto attraverso la
pubblicazione di appositi avvisi nella Gazzetta Ufficiale o nel Bollettino regionale. Il terzo ha, di
regola, trenta giorni per promuovere opposizione giudiziale o non giudiziale.
In effetti, si possono ipotizzare diversi casi, a seconda che l’indennità provvisoria sia stata o
meno accettata dal proprietario.
Nel primo ordine di ipotesi, può verificarsi il caso in cui il decreto di esproprio sia stato
emesso sulla base dell’indennità provvisoria divenuta definitiva in quanto accettata dal proprietario
e riscossa da questi, avverso la quale il terzo non ha formulato opposizioni di sorta. In questo caso
non potrà proporre opposizione nel termine dei trenta giorni dalla pubblicazione del decreto di
espropriazione. Se invece il terzo ha contestato l’ammontare dell’indennità provvisoria mediante
opposizione nel termine di trenta giorni dalla pubblicazione del decreto di esproprio, potrà fare
opposizione alla Corte d’Appello, entro trenta giorni dalla pubblicazione del decreto di
espropriazione.
Altro ordine di ipotesi è quello in cui l’indennità provvisoria non è stata accettata dal
proprietario; qui bisogna distinguere a seconda che, a seguito del rifiuto del proprietario, sia
intervenuta o meno la stima peritale o della commissione provinciale. Nel primo caso, il
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L’espropriazione di pubblica utilità
proprietario avrà trenta giorni per proporre il giudizio di opposizione avverso gli esiti della sima,
che saranno notificati solo a lui. Il terzo però potrebbe proporre opposizione giudiziale contro la
misura dell’indennità se il terzo accetta la somma stimata e quindi viene emessa autorizzazione al
pagamento diretto.
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L’espropriazione di pubblica utilità
11 L’atto di cessione volontaria
Il comma 1 dell’art. 45 prevede che “Fin da quando è dichiarata la pubblica utilità dell'opera
e fino alla data in cui è eseguito il decreto di esproprio, il proprietario ha il diritto di stipulare col
soggetto beneficiario dell'espropriazione l'atto di cessione del bene o della sua quota di proprietà”. Il
comma 2 individua i criteri in base ai quali stabilire il corrispettivo. Il legislatore aggiunge, con
formula stentorea, che “L'accordo di cessione produce gli effetti del decreto di esproprio e non li
perde se l'acquirente non corrisponde la somma entro il termine concordato”.
Tale atto rientra nella categoria degli accordi tra privato e pubblica Amministrazione, non
potendo essere assimilato ad una semplice compravendita per la sua natura pubblicistica. Ciò però
vale nei limiti in cui sia stato preceduto da una valida dichiarazione di p.u. ed i beni da trasferire
siano ricompresi nel piano particellare di esproprio. In caso contrario, infatti, sarebbe davvero una
normale compravendita e non troverebbe applicazione il regime pubblicistico che si connota sia per
le modalità di determinazione del corrispettivo (è vincolato alla misura dell’indennità di
espropriazione), sia per la possibile di avere indietro il bene (retrocessione) ove l’opera pubblica
non venga realizzata, sia infine per essere sottoposto ad un regime fiscale analogo a quello che si
applica per il decreto di espropriazione.
Secondo i più, dunque, la cessione volontaria integra un contratto di diritto pubblico
qualificabile come accordo sostitutivo di provvedimento amministrativo ex art. 11 l. 241/1990 che
si inserisce pienamente nell’ambito del procedimento di espropriazione ed in ciò differisce da una
normale compravendita di diritto privato.
Ulteriore conferma tale ricostruzione trova nella circostanza che il prezzo di cessione debba
rispecchiare i parametri stabiliti dalla legge per la quantificazione della indennità di espropriazione.
Il problema più rilevante è quello che attiene alla giurisdizione, dovendosi stabilire se esso
ed in qual misura sia da sottoporre alla cognizione del giudice amministrativo invece che di quello
ordinario, come sarebbe naturale in considerazione della natura pattizia dell’atto di trasferimento.
Si può senz’altro affermare che l’atto di cessione volontaria è molto più laborioso per
l’Amministrazione rispetto al decreto espropriativo e nel tempo ha perso smalto applicativo. Esso
deve avere necessariamente forma scritta (atto pubblico o scrittura privata autenticata). Poiché il
pagamento del corrispettivo dovrebbe avvenire contestualmente sarebbe il caso che già al momento
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della stipula si dia conto dell’avvenuta emissione del mandato di pagamento. L’atto di cessione
dovrà quindi essere trascritto, registrato e volturato.
Si rammenti che in tema trova applicazione anche quanto statuito dal comma 9 dell’art. 20
del T.U., laddove prevede che “Il beneficiario dell'esproprio ed il proprietario stipulano l'atto di
cessione del bene qualora sia stata condivisa la determinazione della indennità di espropriazione e
sia stata depositata la documentazione attestante la piena e libera proprietà del bene. Nel caso in cui
il proprietario percepisca la somma e si rifiuti di stipulare l'atto di cessione del bene, può essere
emesso senza altre formalità il decreto di esproprio, che dà atto di tali circostanze, e può esservi
l'immissione in possesso, salve le conseguenze risarcitorie dell'ingiustificato rifiuto di addivenire
alla stipula”. Questa norma è molto importante perché ci consente di comprendere che il verbale di
concordamento delle indennità, nel quale il privato dichiari la propria disponibilità alla cessione
volontaria, non avrà alcun valore di vero e proprio contratto preliminare.
Del resto, il problema non si pone sul versante dell’amministrazione, avendo la cessione
volontaria una blanda efficacia acceleratoria, peraltro compensata da indennità aggiuntive; per
giunta, l’amministrazione può sempre adottare il decreto di espropriazione e quindi autotutelarsi in
questo modo senza la necessità di rivolgersi ad un giudice.
Dal lato del privato, ove cioè sia l’Amministrazione inadempiente, si deve escludere che il
giudice ordinario possa costringere l’Ente alla stipula di un atto di cessione volontaria. Il rimedio ha
natura risarcitoria e consiste nella condanna al pagamento della differenza indennitaria dovuta in
caso cessione bonaria (v. art. 53 T.U.). Occorre ricordare che l’art. 37, comma 2, prevede che la
maggiorazione indennitaria spetti comunque qualora l’atto di cessione non si perfezioni per fatto
non imputabile al proprietario e che “Dopo aver corrisposto l'importo concordato, l'autorità
espropriante, in alternativa alla cessione volontaria, può procedere, anche su richiesta del promotore
dell'espropriazione, alla emissione e all'esecuzione del decreto di esproprio” (cfr. comma 11, art.
20).
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12 L’acquisizione sanante
L’art. 42 del Testo Unico Espropriazione, che disciplinava l’acquisizione del bene da parte
della p.A. consentendo a questa di sanare la mancanza del decreto espropriativo attraverso un atto
ad hoc è stato come è noto cancellato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 293/2010 . Al
fine di colmare tale vuoto normativo è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale del 6.7.2011 n. 155 il
Decreto Legge 6 luglio 2011, n. 98 "Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria", che
all'art. 34 introduce il nuovo articolo 42-bis del D.P.R. 327/2001 che disciplina l'utilizzazione senza
titolo di un bene per scopi di interesse pubblico. L’art. 34 testualmente recita: Modifiche al testo
unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità
di cui al D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327. Al D.P.R. 8 giugno 2001, n. 327, dopo l'art. 42, è stato
inserito il seguente 42-bis. (Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico), a
tenore del quale“Valutati gli interessi in conflitto, l'autorità che utilizza un bene immobile per scopi
di interesse pubblico, modificato in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o
dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso sia acquisito, non retroattivamente, al suo
patrimonio indisponibile e che al proprietario sia corrisposto un indennizzo per il pregiudizio
patrimoniale e non patrimoniale, quest'ultimo forfetariamente liquidato nella misura del dieci per
cento del valore venale del bene. Il provvedimento di acquisizione può essere adottato anche
quando sia stato annullato l'atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all'esproprio, l'atto che abbia
dichiarato la pubblica utilità di un'opera o il decreto di esproprio. Il provvedimento di acquisizione
può essere adottato anche durante la pendenza di un giudizio per l'annullamento degli atti di cui al
primo periodo del presente comma, se l'amministrazione che ha adottato l'atto impugnato lo ritira.
In tali casi, le somme eventualmente già erogate al proprietario a titolo di indennizzo, maggiorate
dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai sensi del presente articolo. Salvi i casi in cui
la legge disponga altrimenti, l'indennizzo per il pregiudizio patrimoniale di cui al comma 1 è
determinato in misura corrispondente al valore venale del bene utilizzato per scopi di pubblica
utilità e, se l'occupazione riguarda un terreno edificabile, sulla base delle disposizioni dell'art. 37,
commi 3, 4, 5, 6 e 7. Per il periodo di occupazione senza titolo è computato a titolo risarcitorio, se
dagli atti del procedimento non risulta la prova di una diversa entità del danno, l'interesse del cinque
per cento annuo sul valore determinato ai sensi del presente comma.
Il provvedimento di
acquisizione, recante l'indicazione delle circostanze che hanno condotto alla indebita utilizzazione
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L’espropriazione di pubblica utilità
dell'area e se possibile la data dalla quale essa ha avuto inizio, è specificamente motivato in
riferimento alle attuali ed eccezionali ragioni di interesse pubblico che ne giustificano l'emanazione,
valutate comparativamente con i contrapposti interessi privati ed evidenziando l'assenza di
ragionevoli alternative alla sua adozione; nell'atto è liquidato l'indennizzo di cui al comma 1 e ne è
disposto il pagamento entro il termine di trenta giorni. L'atto è notificato al proprietario e comporta
il passaggio del diritto di proprietà sotto condizione sospensiva del pagamento delle somme dovute
ai sensi del comma 1, ovvero del loro deposito effettuato ai sensi dell'art. 20, comma 14; è soggetto
a trascrizione presso la conservatoria dei registri immobiliari a cura dell'amministrazione
procedente ed è trasmesso in copia all'ufficio istituito ai sensi dell'art. 14, comma 2. Se le
disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 4 sono applicate quando un terreno sia stato utilizzato per finalità
di edilizia residenziale pubblica, agevolata o convenzionata, ovvero quando si tratta di terreno
destinato a essere attribuito per finalità di interesse pubblico in uso speciale a soggetti privati, il
provvedimento è di competenza dell'autorità che ha occupato il terreno e la liquidazione forfetaria
dell'indennizzo per il pregiudizio non patrimoniale è pari al venti per cento del valore venale del
bene. Le disposizioni di cui al presente articolo si applicano, in quanto compatibili, anche quando è
imposta una servitù e il bene continua a essere utilizzato dal proprietario o dal titolare di un altro
diritto reale; in tal caso l'autorità amministrativa, con oneri a carico dei soggetti beneficiari, può
procedere all'eventuale acquisizione del diritto di servitù al patrimonio dei soggetti,privati o
pubblici, titolari di concessioni, autorizzazioni o licenze o che svolgono servizi di interesse pubblico
nei settori dei trasporti, telecomunicazioni, acqua o energia. L'autorità che emana il provvedimento
di acquisizione di cui al presente articolo né dà comunicazione, entro trenta giorni, alla Corte dei
conti mediante trasmissione di copia integrale. Le disposizioni del presente articolo trovano altresì
applicazione ai fatti anteriori alla sua entrata in vigore ed anche se vi è già stato un provvedimento
di acquisizione successivamente ritirato o annullato, ma deve essere comunque rinnovata la
valutazione di attualità e prevalenza dell'interesse pubblico a disporre l'acquisizione; in tal caso, le
somme già erogate al proprietario, maggiorate dell'interesse legale, sono detratte da quelle dovute ai
sensi del presente articolo”.
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