PARTE II INSERTO A CURA DI CONFCONSUMATORI DELL’EMILIA ROMAGNA QUALE TUTELA PER I CONSUMATORI DI SERVIZI FINANZIARI? I MERCATI FINANZIARI La struttura, i prodotti, la disciplina GLI ORGANISMI DI INVESTIMENTO COLLETTIVO DEL RISPARMIO (OICR). L’art. 1 del Testo Unico Finanziario (decreto legislativo n. 58/98 - abbreviato T.U.F.) fornisce la nozione di Organismo di investimento collettivo del risparmio precisando che gli organismi di investimento collettivo del risparmio sono i fondi comuni di investimento e le SICAV. Un fondo comune di investimento è un patrimonio autonomo, suddiviso in quote, di pertinenza di una pluralità di partecipanti. La SICAV, Società di Investimento a Capitale Variabile, come indicato già nella denominazione è una società per azioni a capitale variabile, con sede legale e direzione generale in Italia, avente per oggetto l’investimento collettivo del patrimonio mediante l’offerta di proprie azioni. Ma come funziona la gestione collettiva del risparmio? Diversamente dalla gestione individuale, la società di gestione opera – quindi investe, disinveste, acquista e vende strumenti finanziari – non nell’interesse del singolo investitore ma nell’interesse collettivo dei partecipanti. Nel caso dei fondi comuni di investimento, l’investitore acquisisce una quota di partecipazione ad un patrimonio collettivo, al quale partecipano anche altri investitori. Nel fondo il patrimonio del singolo si confonde con quello degli altri investitori e confluisce in un patrimonio unico. Ciascun fondo rimane in ogni caso separato dal patrimonio dell’intermediario gestore, dal patrimonio degli altri investitori e da qualsiasi altro patrimoni gestito dall’intermediario (art. 36 TUF). Nella gestione collettiva, il partecipante aderisce a un rapporto standardizzato, valido per tutti i partecipanti al fondo senza possibilità di apportare elementi di personalizzazione. Sostanzialmente, nei fondi non vi è spazio per considerare esigenze individuali del singolo investitore. Oltre ai fondi comuni di investimento, la gestione collettiva è riservata anche alle SICAV. Le SICAV presentano tratti caratteristici che le differenziano dai fondi comuni di investimento. Mentre nel Fondo di investimento, l’investitore è titolare di una quota del fondo amministrato dalla società di gestione, nella SICAV l’investitore acquista la qualità di socio dal momento che oggetto sociale della stessa è la gestione del risparmio raccolto mediante l’emissione di sue azioni. In questo modo l’investitore ha la possibilità di incidere attraverso l’esercizio del diritto di voto sulle vicende societarie e sulle politiche di investimento. Dott.ssa Romina Nese LE SOCIETA’ DI GESTIONE DEL RISPARMIO (SGR). La definizione di “società di gestione del risparmio” è data dall’art. 1 del TUF il quale afferma che si tratta di una società per azioni con sede legale e direzione segue» I generale in Italia autorizzata a prestare il servizio di gestione collettiva del risparmio. In particolare le SGR sono abilitate alla costituzione dei fondi comuni d’investimento, ma possono anche prestare servizi di gestione individuale. L’esercizio di tali attività è subordinato all’autorizzazione della Banca d’Italia, sentita la Consob, ed è soggetto ad alcune condizioni tra cui: ¾ La forma giuridica della società deve essere quella della società per azioni (spa); ¾ La società deve avere sede nel territorio della Repubblica Italiana; ¾ Deve operare secondo i principi di sana e prudente gestione; ¾ I soci devono possedere determinati requisiti di onorabilità e professionalità; ¾ Sono da rispettare determinati requisiti di capitale. Le SGR sono assoggettate alla normativa presente nel TUF e operano sotto la stretta vigilanza della Consob, a garantire il loro corretto operato è anche presente la Banca Depositaria, presso la quale sono custoditi i patrimoni dei fondi . Questi ultimi possono avere differenti caratteristiche tecniche, ma tutti hanno in comune la separatezza del proprio patrimonio da quello della società. La gestione di tali fondi costituisce attività economica fonte di ricavi, generati in prevalenza dalle commissioni di gestione e di performance corrisposte dal fondo e dalle commissioni per l’emissione e il rimborso dei certificati rappresentativi delle quote. In seguito alle tensioni finanziarie che hanno caratterizzato l’economia mondiale nell’ultimo decennio, per le SGR, come per molti altri organi, si è assistito ad un inasprimento della normativa con particolare riferimento agli obblighi informativi, questo al fine di migliorare la trasparenza nei rapporti con gli investitori. In particolare deve essere redatto un prospetto informativo nel quale devono essere necessariamente indicati: ¾ Le categorie di strumenti finanziari, beni e altri valori in cui il patrimonio è tipicamente investito; ¾ Le tipologie di operazioni che vengono Le società sono inoltre tenute ad indicare un parametro oggettivo di riferimento (benchmark) da confrontare con il rendimento ottenuto dalla gestione, tale parametro unito al prospetto informativo è utile agli investitori per valutare le strategie seguite dalla società. La normativa sulle SGR è armonizzata a livello europeo, questo permette alle società con sede negli Stati membri dell’UE di svolgere la loro attività in Italia, avvalendosi del principio di mutuo riconoscimento. Dott.ssa Ilaria Conson Le S.I.C.A.V. ( Società di Investimento a Capitale Variabile ) Ai sensi dell’Art. 1 del TUF le SICAV sono classificate tra gli Organismi di Investimento Collettivo del Risparmio, cioè tra le società aventi come unico oggetto l’investimento collettivo del patrimonio raccolto mediante l’offerta al pubblico di proprie azioni. Una delle reali motivazioni che hanno portato alla loro introduzione è da ricercarsi nella volontà del legislatore di ampliare la gamma dei prodotti per la gestione del risparmio. Il tratto distintivo che connota le SICAV rispetto ai Fondi Comuni di Investimento è rappresentato dal fatto che, nelle prime, il risparmiatore-investitore ricopre la figura di socio partecipante che, con il suo diritto di voto, può incidere sulle strategie d’investimento della società. Ne deriva che per le SICAV scompare la tipica distinzione tra capitale sociale e patrimonio, rendendo così necessaria la formulazione di regole speciali, in deroga al diritto comune, mentre nei tradizionali Fondi Comuni di Investimento l’investitore è titolare di una quota del fondo stesso, che viene amministrato da una società di gestione distinta. Per quanto riguarda le attività che il soggetto può svolgere, le SICAV incontrano varie limitazioni rispetto alle società di gestione del risparmio, come ad esempio la possibilità di prestare, unitamente al servizio di gestione collettiva, anche il servizio di gestione individuale che viene esclusa alle SICAV, essendo consentita solo alle SGR ( società di gestione del risparmio ). Le SICAV inoltre possono costituirsi solo con l’autorizzazione della Banca d’Italia sentita la Consob. Il capitale deve essere interamente versato e le azioni interamente liberate al momento dell’emissione. solitamente effettuate nell’investimento del patrimonio; ¾ Le caratteristiche in termini di rischiorendimento cui è tipicamente improntata la gestione. II Le condizioni per l’autorizzazione sono: - Adozione della forma di spa; - Sede legale e direzione nel territorio della Repubblica; - Possesso da parte dei partecipanti e amministratori dei requisiti di onorabilità e professionalità; - Il capitale deve essere non inferiore a quello fissato da Banca d’Italia; - Previsione dell’oggetto esclusivo consistente nell’investimento collettivo del patrimonio raccolto con l’ offerta al pubblico di azioni SICAV nominative. Le azioni della SICAV (il cui valore viene determinato secondo le modalità previste dallo statuto) sono di regola liberate immediatamente al momento della loro emissione e possono essere, a scelta del sottoscrittore, nominative o al portatore; non possono essere emesse obbligazioni, azioni di godimento o di risparmio né possono essere detenute o acquistate azioni proprie. Se si tratta di azioni nominative, lo statuto può prevedere limiti all’emissione di tali azioni e può disporre vincoli di trasferibilità. Se invece si tratta di azioni al portatore, le azioni, indipendentemente dal numero, attribuiscono un solo voto. Ex art. 43 co. 7 TUF: le SICAV possono conferire deleghe di gestione esclusivamente a società di gestione di risparmio. Ex art. 43 bis TUF: le SICAV possono costituirsi affidando l’attività di gestione del proprio portafoglio ad una SGR o ad una SGA (società di gestione armonizzata). In questo caso la gestione dell’intero patrimonio è affidata ad un altro soggetto SGR-SGA. Regole particolari riguardano il funzionamento delle assemblee delle SICAV, in quanto la natura azionaria delle quote di partecipazione ad essa rappresenta un elemento di distinzione rispetto ai fondi comuni di investimento, che consente all’azionista di intervenire nella formazione della volontà e delle decisioni sociali tramite la sua partecipazione alle riunioni assembleari e l’esercizio del diritto di voto. L’assemblea ordinaria e quella straordinaria in seconda convocazione sono da considerarsi validamente costituite indipendentemente dalla parte di capitale sociale intervenuta. Tutto questo con la naturale conseguenza della soppressione della seconda convocazione per l’assemblea ordinaria. È importante ricordare che la convocazione delle assemblee deve avvenire oltre che tramite pubblicazione su Gazzetta Ufficiale, come previsto per le società per azioni, anche con la pubblicazione su specifici I MERCATI FINANZIARI quotidiani indicati nello statuto. Tutto ciò è richiesto dalla peculiarità dell’oggetto sociale delle SICAV, che devono necessariamente ampliare il regime pubblicitario tramite veicoli conoscitivi più accettabili al pubblico. Risulta inoltre esteso da 15 a 30 giorni il termine di pubblicazione dell’avviso di convocazione, al fine di consentire agli azionisti di scegliere con maggiore ponderazione se partecipare alle assemblee oppure rinunziarvi. Dott.ssa Sabrina Curini Che cos’è il Rating? Il rating è un metodo utilizzato per classificare sia i titoli obbligazionari che le imprese in base alla loro rischiosità. In questo caso si parla di “rating di merito creditizio” da non confondere con i “rating etici” che invece misurano la qualità della governance, della CSR, o in generale della sostenibilità sociale ed ambientale di un’emittente. Il giudizio di merito viene definito fornendo un voto in lettere, in base al quale il mercato stabilisce un premio per il rischio da richiedere all’azienda per accettare un determinato investimento. Si è soliti distinguere le seguenti classi di rating: AAA - Elevata capacità di ripagare il debito AA - Alta capacità di pagare il debito A - Solida capacità di ripagare il debito, che potrebbe essere influenzata da circostanze avverse BBB - Adeguata capacità di rimborso, che però potrebbe peggiorare BB, B - Debito prevalentemente speculativo CCC, CC - Debito altamente speculativo D - Società insolvente (importante dire che un’impresa insolvente con un’elevata probabilità resterà sempre in tale posizione) I rating sono periodicamente pubblicati da agenzie specializzate, principalmente Standard & Poor’s, Moody’s e Fitch. Nel formulare i giudizi tali agenzie prendono in considerazione la capitalizzazione, i rischi, le strategie e il management dell’emittente esaminato. In funzione della capacità di ripagare il debito, le agenzie di rating classificano quindi le società in investment grade (società con un livello di affidabilità da eccellente a buono) e in speculative grade (società che essendo più vulnerabili ad incertezze e maggiore esposizione a condizioni avverse presentano un rischio di default da medio ad elevato). Alla classificazione per merito di credito si aggiungono le III considerazioni relative alle variazioni delle dinamiche societarie (che vengono sintetizzate nell’outlook positivo, stabile o negativo). Tali valutazioni adombrano la possibilità che in futuro, tipicamente nel successivo biennio o triennio, l’agenzia decida di rivedere il giudizio in senso migliorativo o peggiorativo, ma non costituiscono in nessun modo una garanzia o un preannuncio che il rating sarà cambiato. La “ messa sotto osservazione” (creditwatch,positivo o negativo) indica invece che sono intervenute novità importanti riguardanti l’emittente ( per esempio la società ha annunciato che la messa a punto di un’operazione straordinaria potrebbe indebolirne il patrimonio) sulle quali l’agenzia sta raccogliendo informazioni e in funzione delle quali potrebbe modificare,entro sei mesi, il proprio giudizio. Si può facilmente intuire che le tre agenzie sopra citate svolgono un ruolo strategico nei mercati internazionali globalizzati: distribuiscono pagelle, danno voti sulla solvibilità dei debiti sovrani, innalzano o declassano nazioni intere applicando ad esse una vera e propria “classificazione di qualità”. Col rating le agenzie possono quindi produrre delle vere e proprie “tempeste finanziarie” nei diversi mercati nazionali, sempre più uniti dalla globalizzazione economica delle borse e dei loro operatori. Ed è successo proprio questo alcuni mesi fa, quando è stata diffusa una vera e propria “graduatoria” dei paesi dell’eurozona, classificati in base al grado di rischiosità insito nei propri sistemi finanziari: la Grecia, declassata solo a chiusura delle Borse e fanalino di coda di questa classifica, risultava di poco staccata da altri tre paesi sull’orlo della crisi (Portogallo, Italia e Irlanda) a loro volta preceduti da Belgio e Spagna. Vista la rilevante importanza del rating anche le imprese dovranno prendere i provvedimenti idonei per migliorare la propria affidabilità creditizia. Rating che deve essere costantemente monitorato dal momento che non si configura come un indice stazionario, bensì in continua evoluzione. Minore è il rischio legato ai finanziamenti richieste dalle aziende e maggiori sono le somme che la banca potrà destinare agli stessi. Il risultato sarà quindi quello di avvantaggiare le imprese che, da un punto di vista sia patrimoniale che economico, riusciranno meglio a presentarsi al mondo dei finanziatori; in particolare, migliore sarà la loro situazione e migliori saranno le condizioni che potranno spuntare. Dott.ssa Sara Andrei Argentina, PArmalat, Cirio e Giacomelli… Quale tutela per il “consumatore” di servizi finanziari? L’opinione giurisprudenziale. 1. Per i contratti d’investimento ci vuole la forma scritta a pena di nullità. L’art. 23, comma 1, del Testo Unico Finanziario (cioè il d.lg. n.58/98 - abbreviato solitamente con l’acronimo T.U.F.) stabilisce che “i contratti relativi alla prestazione dei servizi di investimento e accessori sono redatti per iscritto ed un esemplare è consegnato ai clienti… Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il contratto è nullo”. Normalmente il rapporto di investimento si svolge con la sottoscrizione del contratto quadro (o contratto generale di negoziazione) e successivamente (ma l’operazione può risultare di fatto contestuale) di uno più ordini (contratto) d’acquisto dello specifico strumento finanziario (vale a dire azioni, obbligazioni, quote di fondi ecc.). La forma richiesta dal legislatore per i contratti di investimento è scritta perché “solo la forma scritta è stata ritenuta idonea a garantire l’adeguata informazione del risparmiatore, la sua conoscenza, cioè, del complesso dei diritti e doveri scaturenti dall’accordo negoziale” (vedi sentenza del Tribunale di Brindisi del 29 novembre 2005). 2. Il contratto quadro deve possedere tutti i requisiti fissati dall’art. 30 del regolamento intermediari. In particolare l’obbligo di forma scritta (ad substantiam) riguarda il contratto quadro, vale a dire quel contratto che dispone l’insieme delle regole inerenti i rapporti futuri tra intermediario ed investitore. L’art. 30 del regolamento Consob intermediari del ’98 (il regolamento n. 11522/98), così come l’art. 36 del regolamento intermediari Consob in vigore (il regolamento n. 16190/98) fissa una serie di elementi che devono essere espressamente riportati IV i titoli acquistati dal cliente, da considerarsi I MERCATI FINANZIARI quindi, raccolti senza un preventivo accordo di negoziazione”. Anche il Tribunale Napoli (ma la giurisprudenza è abbondantissima), con sentenza del 30 dicembre 2010, ha ribadito che “il contratto d’intermediazione finanziaria, in quanto contratto di durata, deve essere adeguato ai mutamenti della normativa di settore intervenuti nel corso del tempo, risultando altrimenti affetto dal vizio di nullità sopravvenuta”. L’ovvia conseguenza è stata palesata dallo stesso Tribunale meneghino quando ha stabilito che “le operazioni di all’interno del contratto quadro a pena di nullità. Ad esempio il contratto deve specificare i servizi forniti al cliente e le loro caratteristiche; deve stabilire il periodo di validità e le modalità di rinnovo del contratto, nonché le modalità da adottare per le modificazioni del contratto stesso; deve indicare le modalità attraverso cui l’investitore può impartire ordini e istruzioni; deve prevedere la frequenza, il tipo e i contenuti della documentazione da fornire all’investitore a rendiconto dell’attività svolta; deve indicare i costi dei servizi prestati ecc. Se il contratto quadro non rispetta i requisiti richiesti dalla legge è nullo, con conseguente obbligo di restituzione delle relative prestazioni contrattuali. Al riguardo il Tribunale di Tribunale Torino con sentenza del 24 luglio 2008 ha confermato che “per il c.d. contratto quadro è previsto non soltanto un requisito di forma scritta a pena di nullità, ma anche un contenuto minimo - che deve, in quanto prescritto dalla legge, avere la medesima forma - costituito dall’indicazione della natura dei servizi forniti, delle modalità di svolgimento del servizio, dell’entità e dei criteri di calcolo della remunerazione dell’intermediario”.In seguito alla dichiarazione di nullità del contratto quadro (nel caso specifico per mancanza di forma scritta) la somma che la banca è tenuta a restituire all’investitore corrisponde all’importo da questi pagato per l’acquisto dei titoli (talvolta al netto delle cedole nel frattempo percepite), maggiorato degli interessi legali dalla domanda e dell’ulteriore danno ex art. 1224 cod. civ (vedi la sentenza del Tribunale di Rimini del 31 dicembre 2008). negoziazione di strumenti finanziari poste in essere senza la previa sottoscrizione del cd. contratto quadro sono nulle per violazione di norme a carattere imperativo e tale nullità è insanabile ed è rilevabile in ogni momento della causa” (vedi Tribunale Milano, sentenza del 29 marzo-7 aprile 2006, n. 4360). 3. 4. Sono Nulli i contratti quando stipulati prima del 1998 e non rinnovati. Se è nullo il contratto quadro sono nulli anche gli ordini di acquisto. contratti quadro stipulati prima del luglio 1998 sono nulli se non sono stati rinnovati. Si segnala in proposito una sentenza del Tribunale di Milano del 5 aprile 2006 (la prima in materia), che ha ritenuto privo della forma scritta il contratto quadro stipulato prima del luglio 1998 (prima, quindi, dell’entrata in vigore del T.U.F.), in quanto “all’epoca della sottoscrizione il mercato creditizio non era ancora separato dal mercato finanziario”. Pertanto, prosegue il Tribunale, “l’istituto di credito, in ottemperanza alle nuove disposizioni normative e per effettuare il servizio di negoziazione avrebbe dovuto fare sottoscrivere un nuovo contratto … aggiornato in base alla legislazione sopravvenuta”. In particolare il Tribunale di Milano ha osservato che “non essendosi verificata, nel caso di specie, la rinnovazione del contratto di negoziazione in essere con i requisiti e le variazioni richiamate, il contratto doveva ritenersi nullo, … con la conseguenza che questo non poteva riguardare Se il contratto quadro non è stato preventivamente stipulato per iscritto, o non è stato rinnovato o non possiede i requisiti richiesti dalla legge, sono nulli anche gli ordini di acquisto conferiti dal cliente nel corso del rapporto di investimento (vedi ad es. la pronuncia del Tribunale di Rimini del 31 dicembre 2008; conforme Tribunale Napoli, 30 dicembre 2010), di modo che “la negoziazione eseguita dall’intermediario finanziario non produce alcun effetto nella sfera giuridica del cliente e resta a carico dell’intermediario-mandatario per avere questi agito in assenza di valide disposizioni del clientemandante” (v. Tribunale di Bologna, sentenza del 02 marzo 2009). segue» V 5. Anche l’ordine d’acquisto deve essere stipulato per iscritto. L’obbligo della forma scritta per i singoli contratti d’acquisto è stato ribadito in modo inequivoco, pur se incidentale, dalla Corte di Cassazione con la sentenza 18 marzo 2003, n. 3956 e in particolare con la sentenza 29 settembre 2005, n. 19024, la quale afferma che nella disciplina vigente il requisito della forma riguarda non il solo contratto quadro, ma anche tutti i singoli contratti posti in essere tra l’intermediario ed il cliente per regolare le singole operazioni poste in essere. Conformi sono anche diverse pronunce dei giudici di merito. In questa direzione sì è espresso, ad esempio, il Tribunale di Torino, che ha dichiarato “nulli per violazione dell’art. 23 T.U.F. gli ordini di negoziazione di strumenti finanziari per i quali non sia stata adottata la forma scritta, essendo tale disposizione applicabile non solo al contratto quadro, bensì anche ai singoli ordini che sostanziano il contenuto di tale rapporto” (così si è espresso il Tribunale di Torino con sentenza del 25 maggio 2005). 6. Se il contratto E’ concluso da promotori finanziari deve contenere la clausola di recesso a pena di nullità. Si tratta del contratto concluso fuori sede dal promotore finanziario della banca (è il caso ad esempio del promotore finanziario che va a casa del cliente). Ai sensi dell’art. 30 T.U.F. comma 7 “l’omessa indicazione della facoltà di recesso nei moduli o formulari comporta la nullità dei relativi contratti, che può essere fatta valere solo dal cliente”. Il Tribunale di Padova con sentenza del 20 maggio 2009 ha dichiarato nulli i contratti di investimento stipulati tramite promotori finanziari, fuori dalla sede della banca, in quanto sprovvisti della clausola che indicava espressamente la possibilità di recesso dei clienti, ritenendo che “la finalità di tutela del consumatore sottesa all’art. 30 del T.U.F. giustifica il VI diritto di ripensamento con la posizione meno garantita dell’investitore che venga contattato fuori sede dal promotore finanziario e, presumibilmente invogliato a sottoscrivere contratti nei quali riveste una posizione debole”. 7. Firma digitale per i contratti conclusi via internet. In materia di contratti conclusi via internet la Consob, con delibera n. 30396 del 21 aprile 2000, aveva precisato che “la conclusione del contratto potrà avvenire via internet solo ove sia effettivamente realizzabile la c.d. firma digitale in forza di quanto disposto dal d.p.r. 10 novembre 1997, n. 513, in attuazione dell’art. 15, comma 2, della legge 15 marzo 1997, n. 59.”. La firma digitale consiste in un particolare tipo di firma elettronica qualificata, basata su un sistema di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata, correlate tra loro, che consente al titolare tramite la chiave privata e al destinatario tramite la chiave pubblica, rispettivamente, di rendere verificare l’integrità di un documento informatico e la riferibilità del documento ad un determinato soggetto. In questo senso il Tribunale Ravenna con sentenza del 22 ottobre 2007 ha ritenuto che al contratto di investimento concluso tramite strumenti telematici deve essere apposta la firma digitale” (v. anche la sentenza del Tribunale di Bari 27 marzo 2006). L’inosservanza della prescrizione della forma scritta anche per i contratti di investimento conclusi via internet ne determina la nullità. 8. L’obbligo dell’istituTo di investimento di informarsi e di informare. A causa delle note lungaggini processuali, la quasi totalità delle pronunce in materia di obblighi informativi degli investitori si riferisce inevitabilmente alla normativa in vigore sino al novembre 2007, vale a dire al T.U.F. preriforma MIFID ed ai regolamenti Consob del 1998. Per altro verso deve considerarsi che molti dei rapporti in essere tra istituti di investimento ed investitori (tutti quelli iniziati prima del novembre 2007) sono tuttora regolati da quella normativa ed a queste pronunce, quindi, vale ancora la pena riferirsi per formarsi un’idea sull’andamento dell’opinione dei Tribunali in materia. 9. L’obbligo dell’istituto di investimento di informarsi. Sussiste in capo dell’istituto di investimento l’obbligo di informarsi sugli strumenti finanziari che offrono al cliente. Il fatto non deve stupire, perché non sempre gli intermediari hanno dimostrato piena contezza dei prodotti che proponevano agli investitori, sia che si trattasse di strumenti complessi, come i contratti derivati, sia che si trattasse di strumenti semplici, come azioni ed obbligazioni. L’art. 26 del regolamento Consob intermediari del ‘98 disponeva che “gli intermediari autorizzati, nell’interesse degli investitori e dell’integrità del patrimonio mobiliare” devono “acquisire una conoscenza degli strumenti finanziari, dei servizi nonché dei prodotti diversi dai servizi di investimento, propri o di terzi, da essi stessi offerti, adeguata al tipo di prestazione da fornire (principio del c.d. “Know your merchandise rule”). Si formava, pertanto, in capo all’istituto di credito l’obbligo specifico “di essere esso stesso adeguatamente informato prima di collocare il titolo sul mercato” (vedi la sentenza del Tribunale di Brindisi del 4 ottobre 2005), un “obbligo di conoscenza, che è più della semplice informazione sul prodotto da questi offerto”, che si estende “alla loro provenienza, alla situazione negli stessi nei mercati, alla loro destinazione tra il pubblico dei risparmiatori” (vedi la sentenza del Tribunale di Genova del 15 marzo 2005). 10. L’obbligo dell’istituto di investimento di informarE. L’articolo 21 del T.U.F. stabilisce che “i soggetti abilitati devono operare … in modo che i clienti siano sempre adeguatamente informati”. La trasmissione delle informazioni rappresenta solo l’ultima fase del procedimento più complesso di acquisizione e di elaborazione di dati predisposto dal legislatore affinché gli investitori siano “sempre” provvisti di tutte le informazioni “utili” ad operare scientemente sul mercato. La realizzazione di regole di dettaglio, però, non trova posto nel tenore TUF, cosicché l’effettiva attuazione è dovuta al regolamento intermediari Consob del ‘98. In particolare dell’articolo 28 comma 2 del regolamento, che richiede specificamente il rilascio di “informazioni adeguate sulla natura, I MERCATI FINANZIARI sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione o del servizio”. “L’informazione adeguata sulla natura, sui rischi e sulle implicazioni della specifica operazione o del servizio”, spiega il Tribunale di Monza”, assolve alla funzione di fare in modo che il cliente, a prescindere dal profilo di rischio conservativo o speculativo, sia in ogni caso adeguatamente informato dall’operatore circa le caratteristiche dei prodotti oggetto delle singole negoziazioni, in modo che l’ordine del cliente sia impartito con piena cognizione di causa” (vedi la sentenza del Tribunale Monza del 25 gennaio 2011). Gli intermediari finanziari sono poi tenuti ad astenersi dall’effettuare operazioni non adeguate per tipologia, oggetto, frequenza o dimensioni - con o per conto degli investitori - e devono tempestivamente informare l’investitore di tale circostanza e delle ragioni per cui non è opportuno procedere alla sua esecuzione (cfr. art. 29 del regolamento intermediari del ‘98). In altri termini “l’intermediario finanziario … nel caso di operazione giudicata non adeguata ha obblighi di diligenza ulteriori, cioè quelli: di avvisare il risparmiatore della natura non adeguata dell’operazione, di informarlo pienamente sulle possibili conseguenze dell’operazione sul suo patrimonio e di documentare, nella forma prescritta dal Regolamento, il consenso dato dal cliente nonostante l’avviso e l’informazione” (così il Tribunale Rovereto, sentenza del 18.01.2006 n. 31/06). Analoga la ratio del Tribunale di Bologna, del 18 dicembre 2006, n. 2820 che ha giudicato “del tutto inadempiente la convenuta rispetto all’ulteriore dovere di astenersi dal compiere investimenti non adeguati al profilo dell’investitore ed alla sua propensione al rischio”. Non si può, a tal fine, reputare sufficiente l’apposizione sui moduli prestampati di poche righe di avvertimento dal contenuto assolutamente generico, se non criptico, per i consumatori investitori non esperti. La formula standardizzata “è un’operazione non adeguata in relazione”, apposta sui moduli d’acquisto, “non può essere considerata, sicuramente, senza altre specifiche indicazioni, rispondere alla prescrizione di informare adeguatamente l’investitore degli specifici rischi suddetti secondo il disposto del comma 1 dell’art. 21 d.lgs. 58/98 e l’art. 28 comma 2 reg. Consob 11522/98, né si può ritenere che con quel generico avvertimento l’investitore sia stato messo al corrente delle ragioni per cui non fosse opportuno procedere” all’esecuzione di tale operazione secondo la prescrizione di cui all’art. 29, comma 3 della deliberazione Consob cit.” (Trib. Genova, 15 marzo 2005). segue» VII 11. GLI SWAP E GLI OBBLIGHI INFORMATIVI Anche se il cliente sottoscrive un contratto derivato (ad esempio uno swap), l’intermediario è tenuto a far stipulare per iscritto al cliente un contratto quadro predisposto ad hoc ed a fornire al cliente tutte le informazioni necessarie sulla rischiosità e sulla funzione del prodotto offerto, affinché il cliente possa effettuare un investimento consapevole. L’obbligo informativo sussiste anche nel caso in cui l’intermediario abbia fatto sottoscrivere al cliente una dichiarazione in cui questo lo esonera dal fornirgli le informazioni prescritte dalla legge (è la dichiarazione in cui l’investitore dichiara di essere operatore qualificato). In questo senso il Tribunale di Milano, con sentenza del 19 aprile 2011, ha stabilito che la sottoscrizione della dichiarazione di operatore qualificato prevista dall’art. 31 reg. Consob 11522/98, esclude l’applicazione degli articoli 27, 28 e 29 del regolamento, ma non può valere ad escludere anche l’obbligo dell’intermediario di fornire alle investitore tutte quelle informazioni necessarie ad effettuare un investimento consapevole ai sensi dell’art. 21 del T.U.F., principi aventi carattere imperativo e dettati non solo nell’interesse del singolo contraente ma anche nell’interesse generale all’integrità dei mercati finanziari. 12. IL CONFLITTO DI INTERESSI. Spesso si legge negli ordini d’acquisto di strumenti finanziari: l’operazione è stata eseguita in conflitto di interesse. Deve allora ricordarsi che l’articolo 21, lettera c) T.U.F. prevedeva che gli intermediari abilitati debbano “organizzarsi in modo tale possono effettuare operazioni con o per conto della propria clientela se hanno direttamente o indirettamente un interesse in conflitto, derivante anche da rapporti di gruppo, dalla prestazione congiunta di più servizi o da altri rapporti di affari propri o di società del gruppo, a meno che non abbiano preventivamente informato per iscritto l’investitore sulla natura e l’estensione del loro interesse nell’operazione e l’investitore non abbia consentito espressamente per iscritto all’effettuazione dell’operazione”. Sul punto si è del resto pronunciata la S.C. con sentenza del 31 marzo/29 settembre 2005 che si allega, affermando che “In materia di contratti di compravendita di valori mobiliari, la violazione da parte della società di intermediazione mobiliare del divieto di effettuare operazioni con o per conto del cliente nel caso in cui abbia, direttamente o indirettamente, un interesse conflittuale nell’operazione, a meno che non abbia comunicato per iscritto la natura ed estensione del suo interesse nell’operazione ed il cliente abbia preventivamente ed espressamente acconsentito per iscritto all’operazione (art. 6, comma 1 lett. g), applicabile nella specie ratione tenmporis), può dare luogo al suo annullamento ai sensi degli artt. 1394 o 1395 c.c.”. C’è conflitto, rileva il Tribunale di Ferrara se: “la banca ha eseguito operazioni in contropartita diretta (e quindi vendendo direttamente ai clienti i titoli di proprietà), senza un espresso e preventivo assenso del cliente ex art. 27 reg. Consob cit.”. Un’altra ipotesi di conflitto è stata rilevata dal Tribunale di Venezia 29 settembre 2005, nel caso in cui: “la banca ha ceduto all’investitore obbligazioni rientranti nel portafoglio titoli di un istituto facente parte del proprio gruppo, conflitto che consiste nel fatto che la banca ha trasferito al cliente il rischio del mancato rimborso dei bond dal gruppo di cui fa parte” (vedi Tribunale di Venezia, sentenza del 29 settembre 2005). 13. GLI SWAP ED IL CONFLITTO DI INTERESSE. da ridurre al minimo il rischio di conflitti di interesse e, in situazioni di conflitto, agire in modo da assicurare comunque ai clienti trasparenza ed equo trattamento”. Dal canto suo l’articolo 27 del regolamento Consob intermediari del ‘98 disponeva che “gli intermediari autorizzati non VIII Anche i contratti di swap possono realizzare un’ipotesi di conflitto di interesse. In proposito ancora il Tribunale di Milano, con sentenza del 19 aprile 2011 ha ritenuto che “i contratti di swap portano con sé un naturale stato di conflittualità tra intermediario e cliente, che discende dall’assommarsi, nel medesimo soggetto, delle qualità di offerente e di consulente; dalla centralità, in relazione al futuro andamento del rapporto, della disciplina stipulata tra le parti; dal fatto che si tratta di prodotti di secondo livello strutturabili in funzione delle specifiche esigenze delle controparti quanto a scadenza, tipologia del sottostante, liquidazione di profitti e perdite, ecc.; dall’evidente interesse dell’intermediario, controparte contrattuale portatore di un proprio interesse economico, a costruire o proporre un prodotto che possa risultare svantaggioso o inadatto al cliente, in quanto fabbricato o rinegoziato in termini geneticamente o successivamente alterati in sfavore della controparte. In tema di derivati over the counter, il conflitto di interessi tra intermediario e cliente può derivare anche dal fatto che il primo può avere in essere operazioni di segno uguale o contrario con altri soggetti e dalla necessità di piazzare prodotti sul mercato anche solo per esigenze di riposizionamento o di propria copertura”. Infatti, la responsabilità oggettiva si giustifica solo in presenza di un nesso tra la condotta lesiva ed il rapporto che lega l’intermediario I MERCATI FINANZIARI 14. GLI INVESTIMENTI EFFETTUATI FUORI DAI MERCATI REGOLAMENTATI. Capita di leggere nei contratti di acquisto o nei fissati bollati (documenti informativi) inviati al domicilio dell’investitore, che l’operazione è stata eseguita fuori mercato, vale a dire fuori da mercati soggetti a quei requisiti di accesso e funzionamento che garantiscono maggiori tutele per gli investitori In altre parole, per il combinato disposto dell’art. 25 T.U.F. e dell’art. 8 del regolamento Consob mercati del ’98, era consentito all’intermediario di procedere fuori mercato (regolamentato) solo a seguito di preventiva e specifica autorizzazione del cliente e nel caso in cui ciò consenta di realizzare un prezzo più conveniente. Diversamente gli intermediari finanziari non possono eseguire o far eseguire alcuna operazione al di fuori dei mercati regolamentati ed il cliente ha diritto ad attuare il risarcimento del danno patito (vedi sul punto la sentenza del Tribunale Torino del 03 novembre 2010). Prof. Giuseppe G. Luciani [email protected] LA RESPONSABILITA’ DELL’INTERMEDIARIO PER IL FATTO ILLECITO DEL PROMOTORE La legge n. 1 del 1991 sulla “Disciplina dell’attività di intermediazione mobiliare e disposizioni sull’organizzazione dei mercati mobiliari” all’ art. 5, comma 4°, sanciva il principio della responsabilità solidale anche per i danni conseguenti a responsabilità accertata in sede penale. Tale precetto è stato ripreso pressoché integralmente dall’art. 23 del d.lgs. n. 45 del 1996 (c.d. decreto Eurosim) e, in una seconda fase, dall’ art. 31 del Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, le quali stabiliscono che il soggetto abilitato che conferisce l’incarico è responsabile in solido dei danni arrecati ai terzi dai promotori finanziari, anche se tali danni siano conseguenti a responsabilità accertata in sede penale”. al danneggiante. E’ quindi elemento necessario, ma soprattutto sufficiente, ai fini della dichiarazione di responsabilità del soggetto abilitato l’inerenza del danno all’incarico ricevuto. In proposito la giurisprudenza ritiene ormai concordemente che, affinché scatti il meccanismo della solidarietà, è sufficiente che tra l’esercizio dell’incarico e la consumazione dell’illecito intercorra un nesso di “occasionalità necessaria”. Non è quindi necessario che esista un rigoroso nesso di causa ed effetto, essendo sufficiente che il responsabile sia stato in grado di controllare le condizioni del rischio inerente al fatto illecito e sia quindi titolare degli interessi e dell’attività in occasione della quale si è verificato il fatto illecito. Il committente, il quale voglia esimersi dall’obbligo al risarcimento, dovrà provare l’insussistenza del rapporto di preposizione, o del nesso di occasionalità necessaria fra le incombenze affidate e la consumazione dell’illecito. La responsabilità dell’intermediario è una forma di responsabilità oggettiva: affinché la società sia responsabile è infatti sufficiente che il danno sia commesso dal promotore cui è stato conferito l’incarico dal soggetto abilitato. In altri termini, se la responsabilità solidale dell’intermediario rappresenta una efficace garanzia del risparmio, la delimitazione della stessa sulla base di criteri univoci diventa essenziale per evitare strumentalizzazioni della normativa a danno degli stessi operatori economici. Di particolare interesse, in questa prospettiva, appare il dibattito circa l’ammissibilità del concorso di colpa del cliente quale causa di esclusione o riduzione della responsabilità solidale dell’intermediario. Tale argomento, invero, rappresenta quello cui più frequentemente si rivolgono le società in sede di giudizio, al fine di esimersi o quanto meno di ridurre la propria partecipazione al risarcimento danno. Sicuramente non sussiste la responsabilità della Banca laddove sia provato il concorso doloso del cliente (fattispecie che integrerebbe IX gli estremi della truffa ai danni dell’intermediario) assai controversa è la questione relativa al concorso colposo. Il concorso di colpa ricorre solo nell’ipotesi in cui la colpa del consumatore sia fronteggiata da un atteggiamento colposo del promotore, e non quando questi abbia agito dolosamente. D’altra parte la disciplina dei mezzi di pagamento rappresenta un efficace strumento di tutela delle Società di intermediazione, in considerazione della responsabilità su di esse gravante per l’operato dei propri agenti. In questa linea l’analisi della casistica giurisprudenziale evidenzia la ricerca di un delicato equilibrio fra la tutela del consumatore e quella della Società di intermediazione. I limiti della responsabilità del preponente vanno quindi individuati in base a criteri oggettivi, che non possono che riferirsi all’inerenza dell’incarico con il danno cagionato. La solidarietà dell’intermediario verrebbe meno solo nelle ipotesi in cui fosse dimostrata l’insussistenza di tale vincolo strumentale, ovvero del nesso di “occasionalità necessaria” che deve intercorrere tra il danno e l’incarico ricevuto. Tra le diverse fattispecie sottoposte all’esame della giurisprudenza la più frequente è rappresentata dalla violazione della norma che prescrive che il pagamento del sottoscrittore deve essere effettuato con bonifico bancario o con assegno intrasferibile, intestati alla società di intermediazione ovvero intestati al sottoscrittore con girata piena dello stesso alla società, seguito dalla clausola di intrasferibilità. E’ quindi irregolare la consegna delle somme con mezzi di pagamento difformi da quelli indicati, ad esempio assegni liberi o contanti. Proprio in riferimento alla consegna di somme di denaro in contanti al promotore da parte del cliente , la recentissima una recentissima pronuncia della Corte di Cassazione ( sentenza n. 1741 del 25/01/2011) stabilisce che l’intermediario, sulla base del principio di responsabilità solidale, deve essere chiamato a risarcire il danno subito dal risparmiatore nelle ipotesi di comportamento illecito del promotore finanziario, integrante gli estremi del reato di appropriazione indebita prevista e punita ex art. 646 del Codice Penale. La Suprema Corte di Cassazione, inoltre, ha testualmente affermato che “ La circostanza che il cliente abbia consegnato al promotore finanziario somme di denaro con modalità difformi da quelle con cui quest’ultimo sarebbe stato legittimato a riceverle, non vale, in caso di indebita appropriazione di dette somme da parte del promotore, a interrompere il nesso di causalità esistente tra lo svolgimento dell’attività del promotore finanziario e la consumazione dell’illecito, e non preclude, pertanto, la possibilità di invocare la responsabilità solidale dell’intermediario preponente. Un tal fatto, in mancanza di altri elementi di giudizio, neppure può essere tout court individuato quale concausa del danno subito dall’investitore, in conseguenza dell’illecito consumato dal promotore, al fine di ridurre 1’ammontare del risarcimento”. Tale tipologia di responsabilità trova il suo fondamento, in primo luogo, nel fatto che l’operato del promotore è uno degli strumenti dei quali l’intermediario si avvale X dell’organizzazione della propria impresa, traendone benefici ai quali è ragionevole far corrispondere i rischi, nonché nell’esigenza di offrire una garanzia ai destinatari delle offerte fuori sede rivolte loro per il tramite del promotore finanziario, la cui buona fede può essere facilmente aggirata. Avvocato Paola Boeti LA FINANZA ETICA La finanza etica è oggi un argomento di grande interesse nel mondo bancario italiano e mondiale. La Consob definisce la finanza etica come un processo di investimento fondato su criteri di selezione dei titoli che non si pongono, come fine esclusivo, la massimizzazione dei rendimenti ma anche la salvaguardia di valori universali quali l’equità sociale, la protezione dell’ambiente e della salute, lo svolgimento dell’attività economica nel rispetto di tutti gli stakeholders e, in generale, di tutti i cittadini. La finanza etica riguarda, quindi, un modo di investire sui mercati finanziari che non guarda solo al rendimento ma analizza anche l’impatto sociale e ambientale delle attività finanziate. La sua nascita si fa risalire agli anni ’70 del secolo scorso, quando a causa della guerra in Vietnam molti investitori si chiesero se fosse opportuno continuare a investire il proprio denaro in società collegate a eventi bellici. Nacque nel 1971 il primo fondo etico, il Pax world fund, che escludeva dal proprio raggio d’azione le società collegate al settore degli armamenti. Le prime esperienze di fondi etici arrivarono in Europa, e precisamente nel Regno Unito, nel 1984 con la creazione del Friends Provident Stewardship Fund. In Italia, la finanza etica è arrivata dopo la metà degli anni ’90 e in seguito alla diffusione dei cosiddetti fondi solidali, i quali devolvevano parte dei guadagni conseguiti o delle commissioni pagate dai sottoscrittori a favore di progetti di solidarietà e beneficenza senza operare alcuna selezione etica dei propri investimenti. Nel 1997 venne collocato il primo fondo a selezione etica degli investimenti, San Paolo azionario internazionale etico, che per diversi anni fu uno dei fondi etici più grandi di tutta Europa. I fondi etici, si differenziano dai fondi comuni di investimento perché investono il patrimonio gestito solo in società senza scopo di lucro; che hanno un obiettivo sociale; che si fondano sulla mutualità, sull’autogoverno democratico e sulla trasparenza nell’utilizzo delle risorse. I fondi etici, dunque, escludono gli investimenti nel business delle armi, degli alcolici, del tabacco, della pornografia. Nel prendere in considerazione la possibilità di investire in fondi etici è bene considerare le peculiarità in base alle quali un prodotto si definisce etico, ossia le caratteristiche che definiscono in che modo la strategia di gestione e il processo d’investimento del fondo integrano gli elementi di responsabilità sociale. A tal proposito è intervenuto l’EUROSIF ( il forum dei fondi europei sulla finanza socialmente responsabile) dettando alcune linee guida sulla trasparenza a cui i singoli fondi etici possono aderire. Le linee guida rappresentano una regolamentazione su base volontaria, finalizzata a fornire informazioni chiare e trasparenti per consentire agli investitori una scelta consapevole. Trattandosi di una regolamentazione volontaria e non essendo fornita una definizione univoca del termine “etico” la situazione appare abbastanza confusa. E’ possibile che questi fondi investano in circuiti contrari al senso etico comune. A tal fine sono stati istituiti alcuni organismi, come Ethibel, che propone un marchio di qualità per le aziende che ricercano capitali nei mercati finanziari e che dimostrino un comportamento responsabile nei confronti dell’ambiente e dei diritti umani. In conclusione, lo sviluppo di prodotti finanziari etici in Italia è ancora nello stadio iniziale; in molti casi si tratta di fondi che prevedono accorgimenti particolari nell’attribuzione dell’utile, ma che non prevedono regole specifiche nella fase di scelta degli investimenti. Dott.ssa Romina Nese LA FINANZA ISLAMICA Una delle caratteristiche peculiari della finanza islamica è la sua forte dipendenza dai testi sacri e dalla loro notevole influenza sul diritto. Il testo più importante dell’Islam è il Corano, ovvero la parola di Dio dettata al profeta Mohammed tramite l’arcangelo Gabriele. Sebbene il libro sacro si esprima su moltissimi aspetti della vita di ogni giorno, i suoi versi tendono ad essere generici. Per questo motivo i giuristi hanno associato al Corano un’altra fonte di diritto primario: la Sunnah. Essa rappresenta la raccolta dei detti del profeta, delle sue azioni e delle risposte date ai discepoli. Il Corano e la Sunnah rappresentano le fonti primarie del diritto islamico e insieme danno vita alla Shari’a che è la legge islamica di riferimento. Ci sono casi in cui le fonti primarie non sono perfettamente chiare e per questo i giuristi ricorrono all’inferenza giuridica, ovvero un’interpretazione dei testi sacri. Esistendo tale dimensione interpretativa si sono create, all’interno del mondo islamico, una serie di scuole che fanno uso di criteri interpretativi differenti. Non tutti sanno che il profeta era un commerciante di successo, per cui non c’è da stupirsi che il I MERCATI FINANZIARI Corano regolamenti in modo dettagliato la strutturazione delle transazioni commerciali e finanziarie. La Shari’a, in definitiva, non si limita a dettare i comportamenti che i fedeli devono assumere nei rapporti privati tra uomo e Dio, ma stabilisce dei principi per ogni settore della vita pubblica dei credenti. I pilastri economici di riferimento dell’Islam sono cinque: la Riba (proibizione dell’interesse), il Gharar (divieto dell’incertezza), il Maysir (divieto di speculazione) , l’Haram (divieto di svolgere attività in settori proibiti dal Corano) e la Zakat (purificazione della richezza). Il termine arabo riba letteralmente significa “incremento”, “eccesso”, “crescita”; la proibizione dell’interesse come potenziale incrementatore del valore della moneta risponde all’obbiettivo di conseguire condizioni di equità e giustizia economico-sociale, prevenendo ogni forma di sfruttamento. Storicamente tutte le religioni monoteiste hanno condannato l’usura e l’interesse, in particolare quella cristiana ed ebraica, infatti, nell’ottica religiosa, il profitto e l’accumulo di ricchezza trovano legittimazione soltanto con l’attività operosa dell’uomo. Nelle realtà economiche musulmane il divieto delle operazioni fruttifere di interesse è rimasto inalterato da circa quattordici secoli. La proibizione esplicitata nel Corano si riferisce ad un concetto, quello di riba, molto più ampio rispetto a quello di usura; mentre quest’ultima consiste nel far gravare sul prestito un tasso di interesse “spropositato”, riba si riferisce al contratto di prestito basato sull’applicazione di qualsiasi interessi. Il divieto di riba comporta un diverso funzionamento dell’attività bancaria, diverse strutture contrattuali sia per i depositi che per i prestiti, l’assenza della tutela dei depositanti (se non in specifiche condizioni) e un maggior ruolo del private equity e del venture capital nell’attività di finanziamento dell’industria. Con il termine gharar generalmente si indica l’incertezza, il rischio, mentre con il termine maysir la speculazione. La proibizione del gharar si riferisce sia a condizioni di informazione incompleta, ad esempio sul prezzo o sull’oggetto della vendita, sia all’incertezza intrinseca nell’oggetto del contratto, ad esempio eventi aleatori. Questo divieto implica che ogni transazione o contratto affinché sia valido deve essere libero da forme di incertezza, ma mentre la proibizione della riba è assoluta, il gharar è vietato solo se rilevante. Il maysir invece indica il tentativo di scommettere sul risultato futuro di un evento. Le scommesse sono espressamente vietate dalla legge islamica, tuttavia esse possono essere più o meno sostenute da un adeguata informazione ed analisi; nel primo caso è conforme alla Shari’a, nel secondo no. Entrambi i principi islamici hanno una forte implicazione economica, in particolare per quanto riguarda il sistema assicurativo e la negoziazione dei moderni strumenti finanziari derivati. La parola haram sta ad indicare tutte quelle attività che sono esplicitamente segue» XI vietate dal Corano, tra le quali ricordiamo: la produzione e la vendita di bevande alcoliche; l’allevamento, la lavorazione e la vendita di carne di maiale; le armi; il tabacco; i casinò; i night club; la pornografia e qualsiasi altra attività che comporti riferimenti sessuali espliciti. Il termine zakat, invece, letteralmente significa “purificazione”ed essa rappresenta l’imposta coranica per eccellenza. La legge islamica impone ad ogni musulmano con capacità contributiva, di pagare una tassa a titolo di assistenza pubblica. La funzione principale della zakat è infatti quella di ridistribuire la ricchezza a favore dei più poveri e bisognosi, contribuendo al tempo stesso a purificare il cuore degli uomini dall’egoismo. Non si tratta di un contributo volontario, ma di un obbligo religioso del cui adempimento il fedele è responsabile direttamente nei confronti di Allah. Generalmente l’imposta ha un aliquota che varia dal 2,50% al 10% a seconda del bene di riferimento e va a gravare sul patrimonio di ogni individuo, sempre che questo superi il livello minimo di “base imponibile”, che è circa il valore di 85 grammi d’oro. I cespiti che va a colpire solitamente sono: l’oro, l’argento, i beni commerciali e alcuni beni agricoli, mentre ne sono esenti i macchinari e i beni durevoli, sebbene ne rimanga soggetto il reddito da essi prodotto. Alcuni Paesi Occidentali, tra cui gli Stati Uniti, accordano delle apposite agevolazioni fiscali ai musulmani che versano somme a titolo di zakat ad operatori individuati esplicitamente dal fisco, tali agevolazioni il più delle volte si riferiscono alla creazione di un credito d’imposta per il valore versato. La finanza islamica sembra aver risposto ad effettivi bisogni che la finanza occidentale non era in grado, o non era interessata a soddisfare. Infatti le banche occidentali presenti nei paesi arabi non avevano neppure tentato di analizzare i bisogni delle popolazioni e delle imprese locali, cosa invece che si stanno affrettando a fare negli ultimi anni. Uno degli elementi che ha maggiormente contribuito all’espansione della finanza islamica è senza dubbio l’enorme massa di risorse finanziarie (petroldollari) sprigionate dalle crisi petrolifere del 1973, 1979, 2003 e 2008. Se all’inizio la ricchezza accumulata dai grandi paesi esportatori di greggio è stata investita in strumenti tradizionali, provenienti principalmente dai paesi occidentali, con il tempo la necessità di diversificare i portafogli ha avvicinato il mondo islamico a strumenti sempre più alternativi. In questo contesto la finanza islamica ha rappresentato un importante risorsa per soddisfare i bisogni dei ricchi sceicchi arabi. Un’ulteriore spinta allo sviluppo dei prodotti islamici è stata data anche dalla riduzione della fiducia del mondo arabo nei confronti delle istituzioni finanziarie occidentali in seguito agli eventi dell’11 settembre 2001 e la conseguente lotta al terrorismo. Oggi, infatti, molti investitori arabi preferiscono non detenere le loro ricchezze in paesi quali gli Stati Uniti o il Regno Unito perché temono eventuali embarghi o addirittura sequestri. Le banche occidentali, come accennato prima, stanno ora cercando di riconquistare la fiducia del mondo islamico, e lo XII fanno sviluppando prodotti e servizi I MERCATI FINANZIARI interamente dedicati ad esso. A questo scopo tutte le principali istituzioni hanno aperto degli sportelli islamici o addirittura creato delle vere e proprie unità che ottemperano alle regole della Shari’a. Nata negli anni Settanta del secolo scorso la finanza islamica ha trovato sempre maggior consenso, dapprima nei paesi musulmani e poi in quelli occidentali. Nell’ultimo quadriennio è cresciuta ad un ritmo del 28,6% annuo ( rispetto al 6,6% degli asset convenzionali) ed oggi conta tra gli 800 e i 1.000 miliardi di dollari intermediati. Ad oggi le istituzioni finanziarie totalmente islamiche sono oltre 350, di cui 26 in Europa e nessuna in Italia, ma se si contano anche le banche dotate di uno sportello islamico, allora superano le 600 unità. La Gran Bretagna, ad esempio, è già l’ottava piazza finanziaria al mondo per gli investimenti Shari’a compliant, con la presenza di una banca completamente islamica e molte islamic window. La Francia, invece, nel dicembre 2010 ha cercato di accelerare la modifica della propria normativa nazionale per consentire l’emissione dei Sukuk (obbligazioni islamiche), seguita anche dalla Germania che sta cercando di far spazio negli ordinamenti nazionali per l’introduzione della finanza islamica. Iniziative simili provengono anche dal Lussemburgo, dall’Irlanda, dalla Spagna, dalla Svizzera e persino da Malta. Per quanto riguarda l’Italia, questa dovrebbe essere un occasione da non perdere ma purtroppo il ritardo normativo è evidente. Dott.sa Ilaria Conson “Questo progetto e’ stato realizzato nell’ambito del programma generale di intervento 2010 della Regione Emilia Romagna con l’utilizzo dei fondi del Ministero dello sviluppo econimico” COORDINATORE: PROF. GIUSEPPE G. LUCIANI [email protected] Docente di Diritto dei Mercati Finanziari - Università di Parma RESPONSABILE: SECONDO MALAGUTI Presidente Confconsumatori Emilia Romagna INSERTO A CURA DI CONFCONSUMATORI DELL’EMILIA ROMAGNA