I MERCATI FINANZIARI

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PARTE II
INSERTO A CURA DI
CONFCONSUMATORI
DELL’EMILIA ROMAGNA
QUALE
TUTELA PER I
CONSUMATORI
DI SERVIZI
FINANZIARI?
I MERCATI FINANZIARI
La struttura,
i prodotti, la disciplina
GLI ORGANISMI DI INVESTIMENTO
COLLETTIVO DEL RISPARMIO (OICR).
L’art. 1 del Testo Unico Finanziario (decreto legislativo n.
58/98 - abbreviato T.U.F.) fornisce la nozione di Organismo
di investimento collettivo del risparmio precisando
che gli organismi di investimento collettivo del
risparmio sono i fondi comuni di investimento e
le SICAV.
Un fondo comune di investimento è un patrimonio
autonomo, suddiviso in quote, di pertinenza di una
pluralità di partecipanti.
La SICAV, Società di Investimento a Capitale Variabile,
come indicato già nella denominazione è una società per
azioni a capitale variabile, con sede legale e direzione
generale in Italia, avente per oggetto l’investimento
collettivo del patrimonio mediante l’offerta di proprie
azioni.
Ma come funziona la gestione collettiva del
risparmio?
Diversamente dalla gestione individuale, la società di
gestione opera – quindi investe, disinveste, acquista
e vende strumenti finanziari – non nell’interesse del
singolo investitore ma nell’interesse collettivo dei
partecipanti.
Nel caso dei fondi comuni di investimento,
l’investitore acquisisce una quota di partecipazione
ad un patrimonio collettivo, al quale partecipano
anche altri investitori. Nel fondo il patrimonio
del singolo si confonde con quello degli
altri investitori e confluisce in un patrimonio unico.
Ciascun fondo rimane in ogni caso separato dal
patrimonio dell’intermediario gestore, dal patrimonio
degli altri investitori e da qualsiasi altro patrimoni gestito
dall’intermediario (art. 36 TUF).
Nella gestione collettiva, il partecipante aderisce a un
rapporto standardizzato, valido per tutti i partecipanti
al fondo senza possibilità di apportare elementi di
personalizzazione. Sostanzialmente, nei fondi non vi è
spazio per considerare esigenze individuali del singolo
investitore.
Oltre ai fondi comuni di investimento, la gestione
collettiva è riservata anche alle SICAV.
Le SICAV presentano tratti caratteristici che le
differenziano dai fondi comuni di investimento. Mentre
nel Fondo di investimento, l’investitore è titolare di una
quota del fondo amministrato dalla società di gestione,
nella SICAV l’investitore acquista la qualità di socio dal
momento che oggetto sociale della stessa è la gestione
del risparmio raccolto mediante l’emissione di sue azioni.
In questo modo l’investitore ha la possibilità di incidere
attraverso l’esercizio del diritto di voto sulle vicende
societarie e sulle politiche di investimento.
Dott.ssa Romina Nese
LE SOCIETA’ DI GESTIONE DEL RISPARMIO
(SGR).
La definizione di “società di gestione del risparmio”
è data dall’art. 1 del TUF il quale afferma che si tratta
di una società per azioni con sede legale e direzione
segue»
I
generale in Italia autorizzata a prestare il servizio di
gestione collettiva del risparmio. In particolare le SGR
sono abilitate alla costituzione dei fondi comuni
d’investimento, ma possono anche prestare servizi di
gestione individuale.
L’esercizio di tali attività è subordinato all’autorizzazione
della Banca d’Italia, sentita la Consob, ed è soggetto ad
alcune condizioni tra cui:
¾ La forma giuridica della società deve essere
quella della società per azioni (spa);
¾ La società deve avere sede nel territorio della
Repubblica Italiana;
¾ Deve operare secondo i principi di sana e
prudente gestione;
¾ I soci devono possedere determinati requisiti di
onorabilità e professionalità;
¾ Sono da rispettare determinati requisiti di
capitale.
Le SGR sono assoggettate alla normativa presente nel
TUF e operano sotto la stretta vigilanza della Consob,
a garantire il loro corretto operato è anche presente
la Banca Depositaria, presso la quale sono custoditi
i patrimoni dei fondi . Questi ultimi possono avere
differenti caratteristiche tecniche, ma tutti hanno in
comune la separatezza del proprio patrimonio da quello
della società. La gestione di tali fondi costituisce attività
economica fonte di ricavi, generati in prevalenza dalle
commissioni di gestione e di performance corrisposte dal
fondo e dalle commissioni per l’emissione e il rimborso
dei certificati rappresentativi delle quote. In seguito alle
tensioni finanziarie che hanno caratterizzato l’economia
mondiale nell’ultimo decennio, per le SGR, come per
molti altri organi, si è assistito ad un inasprimento della
normativa con particolare riferimento agli obblighi
informativi, questo al fine di migliorare la trasparenza
nei rapporti con gli investitori. In particolare deve essere
redatto un prospetto informativo nel quale devono
essere necessariamente indicati:
¾
Le categorie di strumenti finanziari, beni e altri
valori in cui il patrimonio è tipicamente investito;
¾
Le tipologie di operazioni che vengono
Le società sono inoltre tenute ad indicare un parametro
oggettivo di riferimento (benchmark) da confrontare
con il rendimento ottenuto dalla gestione, tale
parametro unito al prospetto informativo è utile agli
investitori per valutare le strategie seguite dalla società.
La normativa sulle SGR è armonizzata a livello europeo,
questo permette alle società con sede negli Stati membri
dell’UE di svolgere la loro attività in Italia, avvalendosi del
principio di mutuo riconoscimento.
Dott.ssa Ilaria Conson
Le S.I.C.A.V. ( Società di Investimento a
Capitale Variabile )
Ai sensi dell’Art. 1 del TUF le SICAV sono classificate
tra gli Organismi di Investimento Collettivo
del Risparmio, cioè tra le società aventi come unico
oggetto l’investimento collettivo del patrimonio raccolto
mediante l’offerta al pubblico di proprie azioni.
Una delle reali motivazioni che hanno portato alla loro
introduzione è da ricercarsi nella volontà del legislatore
di ampliare la gamma dei prodotti per la gestione del
risparmio.
Il tratto distintivo che connota le SICAV rispetto ai Fondi
Comuni di Investimento è rappresentato dal fatto che,
nelle prime, il risparmiatore-investitore ricopre la figura
di socio partecipante che, con il suo diritto di voto, può
incidere sulle strategie d’investimento della società.
Ne deriva che per le SICAV scompare la tipica distinzione
tra capitale sociale e patrimonio, rendendo così
necessaria la formulazione di regole speciali, in deroga
al diritto comune, mentre nei tradizionali Fondi Comuni
di Investimento l’investitore è titolare di una quota del
fondo stesso, che viene amministrato da una società di
gestione distinta.
Per quanto riguarda le attività che il soggetto può
svolgere, le SICAV incontrano varie limitazioni rispetto
alle società di gestione del risparmio, come ad esempio
la possibilità di prestare, unitamente al servizio di
gestione collettiva, anche il servizio di gestione
individuale che viene esclusa alle SICAV, essendo
consentita solo alle SGR ( società di gestione del
risparmio ).
Le SICAV inoltre possono costituirsi solo con
l’autorizzazione della Banca d’Italia sentita la Consob.
Il capitale deve essere interamente versato e le azioni
interamente liberate al momento dell’emissione.
solitamente effettuate nell’investimento del patrimonio;
¾
Le caratteristiche in termini di rischiorendimento cui è tipicamente improntata la gestione.
II
Le condizioni per l’autorizzazione sono:
- Adozione della forma di spa;
- Sede legale e direzione nel territorio della
Repubblica;
- Possesso da parte dei partecipanti e
amministratori dei requisiti di onorabilità e
professionalità;
-
Il capitale deve essere non inferiore a quello
fissato da Banca d’Italia;
-
Previsione dell’oggetto esclusivo consistente
nell’investimento collettivo del patrimonio raccolto con
l’ offerta al pubblico di azioni SICAV nominative.
Le azioni della SICAV (il cui valore viene determinato secondo
le modalità previste dallo statuto) sono di regola liberate
immediatamente al momento della loro emissione e possono
essere, a scelta del sottoscrittore, nominative o al portatore;
non possono essere emesse obbligazioni, azioni di godimento
o di risparmio né possono essere detenute o acquistate azioni
proprie.
Se si tratta di azioni nominative, lo statuto può prevedere
limiti all’emissione di tali azioni e può disporre vincoli di
trasferibilità.
Se invece si tratta di azioni al portatore, le azioni,
indipendentemente dal numero, attribuiscono un solo
voto.
Ex art. 43 co. 7 TUF: le SICAV possono conferire deleghe
di gestione esclusivamente a società di gestione di
risparmio.
Ex art. 43 bis TUF: le SICAV possono costituirsi affidando
l’attività di gestione del proprio portafoglio ad una SGR o
ad una SGA (società di gestione armonizzata). In questo
caso la gestione dell’intero patrimonio è affidata ad un
altro soggetto SGR-SGA.
Regole particolari riguardano il funzionamento delle
assemblee delle SICAV, in quanto la natura azionaria
delle quote di partecipazione ad essa rappresenta un
elemento di distinzione rispetto ai fondi comuni di
investimento, che consente all’azionista di intervenire
nella formazione della volontà e delle decisioni sociali
tramite la sua partecipazione alle riunioni assembleari
e l’esercizio del diritto di voto. L’assemblea ordinaria e
quella straordinaria in seconda convocazione sono da
considerarsi validamente costituite indipendentemente
dalla parte di capitale sociale intervenuta. Tutto questo
con la naturale conseguenza della soppressione della
seconda convocazione per l’assemblea ordinaria.
È importante ricordare che la convocazione delle
assemblee deve avvenire oltre che tramite pubblicazione
su Gazzetta Ufficiale, come previsto per le società per
azioni, anche con la pubblicazione su specifici
I MERCATI
FINANZIARI
quotidiani indicati nello statuto. Tutto ciò
è richiesto dalla peculiarità dell’oggetto
sociale delle SICAV, che devono necessariamente
ampliare il regime pubblicitario tramite veicoli conoscitivi
più accettabili al pubblico.
Risulta inoltre esteso da 15 a 30 giorni il termine di
pubblicazione dell’avviso di convocazione, al fine di
consentire agli azionisti di scegliere con maggiore
ponderazione se partecipare alle assemblee oppure
rinunziarvi.
Dott.ssa Sabrina Curini
Che cos’è il Rating?
Il rating è un metodo utilizzato per classificare sia i
titoli obbligazionari che le imprese in base alla
loro rischiosità. In questo caso si parla di “rating
di merito creditizio” da non confondere con i
“rating etici” che invece misurano la qualità
della governance, della CSR, o in generale
della sostenibilità sociale ed ambientale di
un’emittente.
Il giudizio di merito viene definito fornendo
un voto in lettere, in base al quale il mercato
stabilisce un premio per il rischio da richiedere
all’azienda per accettare un determinato
investimento.
Si è soliti distinguere le seguenti classi di rating:
AAA - Elevata capacità di ripagare il debito
AA - Alta capacità di pagare il debito
A - Solida capacità di ripagare il debito, che potrebbe
essere influenzata da circostanze avverse
BBB - Adeguata capacità di rimborso, che però potrebbe
peggiorare
BB, B - Debito prevalentemente speculativo
CCC, CC - Debito altamente speculativo
D - Società insolvente (importante dire che un’impresa
insolvente con un’elevata probabilità resterà sempre in
tale posizione)
I rating sono periodicamente pubblicati da agenzie
specializzate, principalmente Standard & Poor’s, Moody’s
e Fitch.
Nel formulare i giudizi tali agenzie prendono in
considerazione la capitalizzazione, i rischi, le strategie e
il management dell’emittente esaminato.
In funzione della capacità di ripagare il debito, le
agenzie di rating classificano quindi le società in
investment grade (società con un livello
di affidabilità da eccellente a buono) e in
speculative grade (società che essendo
più vulnerabili ad incertezze e maggiore
esposizione a condizioni avverse
presentano un rischio di default da
medio ad elevato).
Alla classificazione per merito
di credito si aggiungono le
III
considerazioni relative alle variazioni delle dinamiche
societarie (che vengono sintetizzate nell’outlook
positivo, stabile o negativo). Tali valutazioni adombrano
la possibilità che in futuro, tipicamente nel successivo
biennio o triennio, l’agenzia decida di rivedere il giudizio
in senso migliorativo o peggiorativo, ma non costituiscono
in nessun modo una garanzia o un preannuncio che il
rating sarà cambiato.
La “ messa sotto osservazione” (creditwatch,positivo
o negativo) indica invece che sono intervenute novità
importanti riguardanti l’emittente ( per esempio la società
ha annunciato che la messa a punto di un’operazione
straordinaria potrebbe indebolirne il patrimonio) sulle
quali l’agenzia sta raccogliendo informazioni e in funzione
delle quali potrebbe modificare,entro sei mesi, il proprio
giudizio.
Si può facilmente intuire che le tre agenzie sopra citate
svolgono un ruolo strategico nei mercati internazionali
globalizzati: distribuiscono pagelle, danno voti sulla
solvibilità dei debiti sovrani, innalzano o declassano
nazioni intere applicando ad esse una vera e propria
“classificazione di qualità”.
Col rating le agenzie possono quindi produrre delle
vere e proprie “tempeste finanziarie” nei diversi mercati
nazionali, sempre più uniti dalla globalizzazione economica
delle borse e dei loro operatori.
Ed è successo proprio questo alcuni mesi fa, quando è
stata diffusa una vera e propria “graduatoria” dei paesi
dell’eurozona, classificati in base al grado di rischiosità
insito nei propri sistemi finanziari: la Grecia, declassata
solo a chiusura delle Borse e fanalino di coda di questa
classifica, risultava di poco staccata da altri tre paesi
sull’orlo della crisi (Portogallo, Italia e Irlanda) a loro
volta preceduti da Belgio e Spagna.
Vista la rilevante importanza del rating anche le imprese
dovranno prendere i provvedimenti idonei per migliorare
la propria affidabilità creditizia.
Rating che deve essere costantemente monitorato dal
momento che non si configura come un indice stazionario,
bensì in continua evoluzione.
Minore è il rischio legato ai finanziamenti richieste dalle
aziende e maggiori sono le somme che la banca potrà
destinare agli stessi.
Il risultato sarà quindi quello di avvantaggiare le imprese
che, da un punto di vista sia patrimoniale che economico,
riusciranno meglio a presentarsi al mondo dei finanziatori;
in particolare, migliore sarà la loro situazione e migliori
saranno le condizioni che potranno spuntare.
Dott.ssa Sara Andrei
Argentina, PArmalat, Cirio e Giacomelli…
Quale tutela per il “consumatore” di
servizi finanziari?
L’opinione giurisprudenziale.
1.
Per i contratti
d’investimento ci vuole la forma
scritta a pena di nullità.
L’art. 23, comma 1, del Testo Unico Finanziario (cioè il d.lg.
n.58/98 - abbreviato solitamente con l’acronimo T.U.F.)
stabilisce che “i contratti relativi alla prestazione
dei servizi di investimento e accessori sono redatti
per iscritto ed un esemplare è consegnato ai clienti…
Nei casi di inosservanza della forma prescritta, il
contratto è nullo”.
Normalmente il rapporto di investimento si svolge con
la sottoscrizione del contratto quadro (o contratto
generale di negoziazione) e successivamente (ma
l’operazione può risultare di fatto contestuale) di uno più
ordini (contratto) d’acquisto dello specifico strumento
finanziario (vale a dire azioni, obbligazioni, quote di fondi
ecc.).
La forma richiesta dal legislatore per i contratti
di investimento è scritta perché “solo la forma
scritta è stata ritenuta idonea a garantire
l’adeguata informazione del risparmiatore, la
sua conoscenza, cioè, del complesso dei diritti e doveri
scaturenti dall’accordo negoziale” (vedi sentenza del
Tribunale di Brindisi del 29 novembre 2005).
2.
Il contratto quadro
deve possedere tutti i
requisiti fissati dall’art. 30 del
regolamento intermediari.
In particolare l’obbligo di forma scritta (ad
substantiam) riguarda il contratto quadro, vale a
dire quel contratto che dispone l’insieme delle
regole inerenti i rapporti futuri tra intermediario
ed investitore.
L’art. 30 del regolamento Consob intermediari del
’98 (il regolamento n. 11522/98), così come l’art. 36
del regolamento intermediari Consob in vigore (il
regolamento n. 16190/98) fissa una serie di elementi
che devono essere espressamente riportati
IV
i titoli acquistati dal cliente, da considerarsi
I MERCATI
FINANZIARI
quindi, raccolti senza un preventivo accordo
di negoziazione”.
Anche il Tribunale Napoli (ma la giurisprudenza è
abbondantissima), con sentenza del 30 dicembre 2010,
ha ribadito che “il contratto d’intermediazione
finanziaria, in quanto contratto di durata, deve
essere adeguato ai mutamenti della normativa
di settore intervenuti nel corso del tempo, risultando
altrimenti affetto dal vizio di nullità sopravvenuta”.
L’ovvia conseguenza è stata palesata dallo stesso Tribunale
meneghino quando ha stabilito che “le operazioni di
all’interno del contratto quadro a pena di nullità.
Ad esempio il contratto deve specificare i servizi forniti
al cliente e le loro caratteristiche; deve stabilire il
periodo di validità e le modalità di rinnovo del contratto,
nonché le modalità da adottare per le modificazioni del
contratto stesso; deve indicare le modalità attraverso
cui l’investitore può impartire ordini e istruzioni;
deve prevedere la frequenza, il tipo e i contenuti della
documentazione da fornire all’investitore a rendiconto
dell’attività svolta; deve indicare i costi dei servizi prestati
ecc.
Se il contratto quadro non rispetta i requisiti richiesti
dalla legge è nullo, con conseguente obbligo
di restituzione delle relative prestazioni
contrattuali.
Al riguardo il Tribunale di Tribunale Torino con
sentenza del 24 luglio 2008 ha confermato che
“per il c.d. contratto quadro è previsto non
soltanto un requisito di forma scritta
a pena di nullità, ma anche un contenuto
minimo - che deve, in quanto prescritto dalla
legge, avere la medesima forma - costituito
dall’indicazione della natura dei servizi forniti,
delle modalità di svolgimento del servizio,
dell’entità e dei criteri di calcolo della
remunerazione dell’intermediario”.In seguito
alla dichiarazione di nullità del contratto
quadro (nel caso specifico per mancanza di
forma scritta) la somma che la banca è tenuta a
restituire all’investitore corrisponde all’importo da
questi pagato per l’acquisto dei titoli (talvolta al
netto delle cedole nel frattempo percepite), maggiorato
degli interessi legali dalla domanda e dell’ulteriore danno
ex art. 1224 cod. civ (vedi la sentenza del Tribunale di
Rimini del 31 dicembre 2008).
negoziazione di strumenti finanziari poste in
essere senza la previa sottoscrizione del cd.
contratto quadro sono nulle per violazione
di norme a carattere imperativo e tale nullità
è insanabile ed è rilevabile in ogni momento della
causa” (vedi Tribunale Milano, sentenza del 29
marzo-7 aprile 2006, n. 4360).
3.
4.
Sono Nulli i contratti quando
stipulati prima del 1998 e non
rinnovati.
Se è nullo il contratto quadro
sono nulli anche gli ordini di
acquisto.
contratti quadro stipulati prima del luglio 1998 sono nulli se non
sono stati rinnovati. Si segnala in proposito una sentenza del
Tribunale di Milano del 5 aprile 2006 (la prima in materia),
che ha ritenuto privo della forma scritta il contratto quadro
stipulato prima del luglio 1998 (prima, quindi, dell’entrata in
vigore del T.U.F.), in quanto “all’epoca della sottoscrizione
il mercato creditizio non era ancora separato dal mercato
finanziario”. Pertanto, prosegue il Tribunale, “l’istituto di
credito, in ottemperanza alle nuove disposizioni normative e
per effettuare il servizio di negoziazione avrebbe dovuto fare
sottoscrivere un nuovo contratto … aggiornato
in base alla legislazione sopravvenuta”.
In particolare il Tribunale di Milano ha osservato che
“non essendosi verificata, nel caso di specie,
la rinnovazione del contratto di negoziazione
in essere con i requisiti e le variazioni
richiamate, il contratto doveva ritenersi nullo,
… con la conseguenza che questo non poteva riguardare
Se il contratto quadro non è stato
preventivamente stipulato per iscritto, o non
è stato rinnovato o non possiede i requisiti
richiesti dalla legge, sono nulli anche gli
ordini di acquisto conferiti dal cliente nel
corso del rapporto di investimento (vedi
ad es. la pronuncia del Tribunale di Rimini del 31
dicembre 2008; conforme Tribunale Napoli, 30
dicembre 2010), di modo che “la negoziazione
eseguita dall’intermediario finanziario
non produce alcun effetto nella sfera
giuridica del cliente e resta a carico
dell’intermediario-mandatario per
avere questi agito in assenza di
valide disposizioni del clientemandante” (v. Tribunale di
Bologna, sentenza del 02 marzo
2009).
segue»
V
5.
Anche l’ordine d’acquisto
deve essere stipulato per
iscritto.
L’obbligo della forma scritta per i singoli contratti
d’acquisto è stato ribadito in modo inequivoco, pur
se incidentale, dalla Corte di Cassazione con la sentenza
18 marzo 2003, n. 3956 e in particolare con la sentenza
29 settembre 2005, n. 19024, la quale afferma che nella
disciplina vigente il requisito della forma riguarda non il
solo contratto quadro, ma anche tutti i singoli contratti
posti in essere tra l’intermediario ed il cliente per
regolare le singole operazioni poste in essere.
Conformi sono anche diverse pronunce dei giudici di
merito. In questa direzione sì è espresso, ad esempio, il
Tribunale di Torino, che ha dichiarato “nulli per violazione
dell’art. 23 T.U.F. gli ordini di negoziazione di strumenti
finanziari per i quali non sia stata adottata la
forma scritta, essendo tale disposizione applicabile
non solo al contratto quadro, bensì anche ai singoli ordini
che sostanziano il contenuto di tale rapporto” (così si
è espresso il Tribunale di Torino con sentenza del 25
maggio 2005).
6.
Se il contratto E’ concluso
da promotori finanziari deve
contenere la clausola di recesso a
pena di nullità.
Si tratta del contratto concluso fuori sede dal promotore
finanziario della banca (è il caso ad esempio del
promotore finanziario che va a casa del cliente). Ai sensi
dell’art. 30 T.U.F. comma 7 “l’omessa indicazione della
facoltà di recesso nei moduli o formulari comporta la
nullità dei relativi contratti, che può essere fatta valere
solo dal cliente”.
Il Tribunale di Padova con sentenza del 20 maggio 2009
ha dichiarato nulli i contratti di investimento
stipulati tramite promotori finanziari, fuori dalla sede
della banca, in quanto sprovvisti della clausola
che indicava espressamente la possibilità di
recesso dei clienti, ritenendo che “la finalità di tutela
del consumatore sottesa all’art. 30 del T.U.F. giustifica il
VI
diritto di ripensamento con la posizione meno garantita
dell’investitore che venga contattato fuori sede dal
promotore finanziario e, presumibilmente invogliato a
sottoscrivere contratti nei quali riveste una posizione
debole”.
7.
Firma digitale per i contratti
conclusi via internet.
In materia di contratti conclusi via internet la Consob,
con delibera n. 30396 del 21 aprile 2000, aveva
precisato che “la conclusione del contratto
potrà avvenire via internet solo ove sia
effettivamente realizzabile la c.d. firma
digitale in forza di quanto disposto dal d.p.r. 10
novembre 1997, n. 513, in attuazione dell’art. 15,
comma 2, della legge 15 marzo 1997, n. 59.”.
La firma digitale consiste in un particolare tipo di
firma elettronica qualificata, basata su un sistema
di chiavi crittografiche, una pubblica e una privata,
correlate tra loro, che consente al titolare tramite
la chiave privata e al destinatario tramite la chiave
pubblica, rispettivamente, di rendere verificare
l’integrità di un documento informatico e la riferibilità
del documento ad un determinato soggetto.
In questo senso il Tribunale Ravenna con sentenza
del 22 ottobre 2007 ha ritenuto che al contratto
di investimento concluso tramite strumenti
telematici deve essere apposta la firma
digitale” (v. anche la sentenza del Tribunale di Bari 27
marzo 2006).
L’inosservanza della prescrizione della forma
scritta anche per i contratti di investimento conclusi
via internet ne determina la nullità.
8.
L’obbligo dell’istituTo di
investimento di informarsi e di
informare.
A causa delle note lungaggini processuali, la quasi totalità
delle pronunce in materia di obblighi informativi degli
investitori si riferisce inevitabilmente alla normativa in
vigore sino al novembre 2007, vale a dire al T.U.F. preriforma MIFID ed ai regolamenti Consob del 1998.
Per altro verso deve considerarsi che molti dei rapporti
in essere tra istituti di investimento ed investitori (tutti
quelli iniziati prima del novembre 2007) sono tuttora
regolati da quella normativa ed a queste pronunce,
quindi, vale ancora la pena riferirsi per formarsi un’idea
sull’andamento dell’opinione dei Tribunali in materia.
9.
L’obbligo dell’istituto di
investimento di informarsi.
Sussiste in capo dell’istituto di investimento
l’obbligo di informarsi sugli strumenti finanziari che
offrono al cliente. Il fatto non deve stupire, perché non
sempre gli intermediari hanno dimostrato piena contezza
dei prodotti che proponevano agli investitori, sia che si
trattasse di strumenti complessi, come i contratti derivati,
sia che si trattasse di strumenti semplici, come azioni ed
obbligazioni.
L’art. 26 del regolamento Consob intermediari
del ‘98 disponeva che “gli intermediari autorizzati,
nell’interesse degli investitori e dell’integrità del
patrimonio mobiliare” devono “acquisire una
conoscenza degli strumenti finanziari, dei servizi
nonché dei prodotti diversi dai servizi di investimento,
propri o di terzi, da essi stessi offerti, adeguata al tipo
di prestazione da fornire (principio del c.d. “Know your
merchandise rule”).
Si formava, pertanto, in capo all’istituto di credito
l’obbligo specifico “di essere esso stesso adeguatamente
informato prima di collocare il titolo sul mercato” (vedi
la sentenza del Tribunale di Brindisi del 4 ottobre 2005),
un “obbligo di conoscenza, che è più della semplice
informazione sul prodotto da questi offerto”, che si
estende “alla loro provenienza, alla situazione negli stessi
nei mercati, alla loro destinazione tra il pubblico dei
risparmiatori” (vedi la sentenza del Tribunale di Genova
del 15 marzo 2005).
10. L’obbligo dell’istituto di
investimento di informarE.
L’articolo 21 del T.U.F. stabilisce che “i soggetti
abilitati devono operare … in modo che i clienti siano
sempre adeguatamente informati”.
La trasmissione delle informazioni rappresenta
solo l’ultima fase del procedimento più complesso di
acquisizione e di elaborazione di dati predisposto dal
legislatore affinché gli investitori siano “sempre” provvisti
di tutte le informazioni “utili” ad operare scientemente
sul mercato.
La realizzazione di regole di dettaglio, però,
non trova posto nel tenore TUF, cosicché l’effettiva
attuazione è dovuta al regolamento intermediari Consob
del ‘98. In particolare dell’articolo 28 comma 2 del
regolamento, che richiede specificamente il rilascio di
“informazioni adeguate sulla natura,
I MERCATI
FINANZIARI
sui rischi e sulle implicazioni della specifica
operazione o del servizio”.
“L’informazione adeguata sulla natura, sui
rischi e sulle implicazioni della specifica operazione o
del servizio”, spiega il Tribunale di Monza”, assolve alla
funzione di fare in modo che il cliente, a prescindere dal
profilo di rischio conservativo o speculativo, sia in ogni
caso adeguatamente informato dall’operatore
circa le caratteristiche dei prodotti oggetto delle singole
negoziazioni, in modo che l’ordine del cliente sia
impartito con piena cognizione di causa” (vedi
la sentenza del Tribunale Monza del 25 gennaio 2011).
Gli intermediari finanziari sono poi tenuti
ad astenersi dall’effettuare operazioni non
adeguate per tipologia, oggetto, frequenza
o dimensioni - con o per conto degli investitori - e
devono tempestivamente informare l’investitore di tale
circostanza e delle ragioni per cui non è opportuno
procedere alla sua esecuzione (cfr. art. 29 del regolamento
intermediari del ‘98).
In altri termini “l’intermediario finanziario
… nel caso di operazione giudicata non
adeguata ha obblighi di diligenza ulteriori, cioè quelli:
di avvisare il risparmiatore della natura non
adeguata dell’operazione, di informarlo
pienamente sulle possibili conseguenze
dell’operazione sul suo patrimonio e di
documentare, nella forma prescritta dal Regolamento,
il consenso dato dal cliente nonostante l’avviso e
l’informazione” (così il Tribunale Rovereto, sentenza del
18.01.2006 n. 31/06).
Analoga la ratio del Tribunale di Bologna, del
18 dicembre 2006, n. 2820 che ha giudicato “del tutto
inadempiente la convenuta rispetto all’ulteriore dovere
di astenersi dal compiere investimenti non adeguati al
profilo dell’investitore ed alla sua propensione al rischio”.
Non si può, a tal fine, reputare sufficiente
l’apposizione sui moduli prestampati di
poche righe di avvertimento dal contenuto
assolutamente generico, se non criptico, per i
consumatori investitori non esperti. La formula
standardizzata “è un’operazione non adeguata
in relazione”, apposta sui moduli d’acquisto,
“non può essere considerata, sicuramente,
senza altre specifiche indicazioni, rispondere
alla prescrizione di informare adeguatamente
l’investitore degli specifici rischi suddetti
secondo il disposto del comma 1 dell’art. 21
d.lgs. 58/98 e l’art. 28 comma 2 reg. Consob
11522/98, né si può ritenere che con quel
generico avvertimento l’investitore sia
stato messo al corrente delle ragioni per
cui non fosse opportuno procedere”
all’esecuzione di tale operazione
secondo la prescrizione di cui all’art. 29,
comma 3 della deliberazione Consob
cit.” (Trib. Genova, 15 marzo 2005).
segue»
VII
11.
GLI SWAP E GLI OBBLIGHI INFORMATIVI
Anche se il cliente sottoscrive un contratto
derivato (ad esempio uno swap), l’intermediario è
tenuto a far stipulare per iscritto al cliente un contratto
quadro predisposto ad hoc ed a fornire al cliente tutte le
informazioni necessarie sulla rischiosità e sulla funzione
del prodotto offerto, affinché il cliente possa effettuare
un investimento consapevole.
L’obbligo informativo sussiste anche nel caso in
cui l’intermediario abbia fatto sottoscrivere al cliente
una dichiarazione in cui questo lo esonera dal fornirgli le
informazioni prescritte dalla legge (è la dichiarazione in
cui l’investitore dichiara di essere operatore qualificato).
In questo senso il Tribunale di Milano, con sentenza
del 19 aprile 2011, ha stabilito che la sottoscrizione della
dichiarazione di operatore qualificato prevista
dall’art. 31 reg. Consob 11522/98, esclude l’applicazione
degli articoli 27, 28 e 29 del regolamento, ma non
può valere ad escludere anche l’obbligo
dell’intermediario di fornire alle investitore
tutte quelle informazioni necessarie ad
effettuare un investimento consapevole ai sensi
dell’art. 21 del T.U.F., principi aventi carattere imperativo
e dettati non solo nell’interesse del singolo contraente
ma anche nell’interesse generale all’integrità dei mercati
finanziari.
12. IL CONFLITTO DI INTERESSI.
Spesso si legge negli ordini d’acquisto di strumenti
finanziari: l’operazione è stata eseguita in conflitto di
interesse.
Deve allora ricordarsi che l’articolo 21,
lettera c) T.U.F. prevedeva che gli intermediari
abilitati debbano “organizzarsi in modo tale
possono effettuare operazioni con o per conto
della propria clientela se hanno direttamente o
indirettamente un interesse in conflitto, derivante
anche da rapporti di gruppo, dalla prestazione congiunta
di più servizi o da altri rapporti di affari propri o di
società del gruppo, a meno che non abbiano
preventivamente informato per iscritto
l’investitore sulla natura e l’estensione del
loro interesse nell’operazione e l’investitore non abbia
consentito espressamente per iscritto all’effettuazione
dell’operazione”.
Sul punto si è del resto pronunciata la S.C. con
sentenza del 31 marzo/29 settembre 2005
che si allega, affermando che “In materia di contratti
di compravendita di valori mobiliari, la violazione da
parte della società di intermediazione mobiliare del
divieto di effettuare operazioni con o per
conto del cliente nel caso in cui abbia, direttamente
o indirettamente, un interesse conflittuale
nell’operazione, a meno che non abbia comunicato
per iscritto la natura ed estensione del suo interesse
nell’operazione ed il cliente abbia preventivamente ed
espressamente acconsentito per iscritto all’operazione
(art. 6, comma 1 lett. g), applicabile nella specie ratione
tenmporis), può dare luogo al suo annullamento
ai sensi degli artt. 1394 o 1395 c.c.”.
C’è conflitto, rileva il Tribunale di Ferrara se: “la
banca ha eseguito operazioni in contropartita
diretta (e quindi vendendo direttamente ai
clienti i titoli di proprietà), senza un espresso
e preventivo assenso del cliente ex art. 27
reg. Consob cit.”.
Un’altra ipotesi di conflitto è stata rilevata dal
Tribunale di Venezia 29 settembre 2005, nel
caso in cui: “la banca ha ceduto all’investitore
obbligazioni rientranti nel portafoglio titoli di
un istituto facente parte del proprio gruppo,
conflitto che consiste nel fatto che la banca
ha trasferito al cliente il rischio del mancato
rimborso dei bond dal gruppo di cui fa parte”
(vedi Tribunale di Venezia, sentenza del 29
settembre 2005).
13. GLI SWAP ED IL CONFLITTO
DI INTERESSE.
da ridurre al minimo il rischio di conflitti di
interesse e, in situazioni di conflitto, agire in
modo da assicurare comunque ai clienti trasparenza ed
equo trattamento”.
Dal canto suo l’articolo
27
del
regolamento Consob intermediari del ‘98
disponeva che “gli intermediari autorizzati non
VIII
Anche i contratti di swap possono
realizzare un’ipotesi di conflitto di interesse.
In proposito ancora il Tribunale di Milano,
con sentenza del 19 aprile 2011 ha ritenuto che
“i contratti di swap portano con sé un naturale
stato di conflittualità tra intermediario e cliente,
che discende dall’assommarsi, nel medesimo soggetto,
delle qualità di offerente e di consulente; dalla centralità,
in relazione al futuro andamento del rapporto, della
disciplina stipulata tra le parti; dal fatto che si tratta di
prodotti di secondo livello strutturabili in funzione delle
specifiche esigenze delle controparti quanto a scadenza,
tipologia del sottostante, liquidazione di profitti e
perdite, ecc.; dall’evidente interesse dell’intermediario,
controparte contrattuale portatore di un proprio
interesse economico, a costruire o proporre un prodotto
che possa risultare svantaggioso o inadatto al
cliente, in quanto fabbricato o rinegoziato in termini
geneticamente o successivamente alterati in sfavore
della controparte. In tema di derivati over the counter,
il conflitto di interessi tra intermediario e cliente può
derivare anche dal fatto che il primo può avere in
essere operazioni di segno uguale o contrario con
altri soggetti e dalla necessità di piazzare prodotti sul
mercato anche solo per esigenze di riposizionamento
o di propria copertura”.
Infatti, la responsabilità oggettiva si giustifica
solo in presenza di un nesso tra la condotta
lesiva ed il rapporto che lega l’intermediario
I MERCATI
FINANZIARI
14. GLI INVESTIMENTI
EFFETTUATI FUORI DAI MERCATI
REGOLAMENTATI.
Capita di leggere nei contratti di acquisto o nei
fissati bollati (documenti informativi) inviati al domicilio
dell’investitore, che l’operazione è stata eseguita fuori
mercato, vale a dire fuori da mercati soggetti a quei
requisiti di accesso e funzionamento che garantiscono
maggiori tutele per gli investitori
In altre parole, per il combinato disposto dell’art.
25 T.U.F. e dell’art. 8 del regolamento Consob mercati
del ’98, era consentito all’intermediario di
procedere fuori mercato (regolamentato) solo a
seguito di preventiva e specifica autorizzazione del
cliente e nel caso in cui ciò consenta di realizzare un
prezzo più conveniente.
Diversamente gli intermediari finanziari non
possono eseguire o far eseguire alcuna operazione al di
fuori dei mercati regolamentati ed il cliente ha diritto ad
attuare il risarcimento del danno patito (vedi sul punto
la sentenza del Tribunale Torino del 03 novembre 2010).
Prof. Giuseppe G. Luciani
[email protected]
LA RESPONSABILITA’ DELL’INTERMEDIARIO
PER IL FATTO ILLECITO DEL PROMOTORE
La legge n. 1 del 1991 sulla “Disciplina dell’attività di
intermediazione mobiliare e disposizioni sull’organizzazione
dei mercati mobiliari” all’ art. 5, comma 4°, sanciva il
principio della responsabilità solidale anche per i danni
conseguenti a responsabilità accertata in sede penale.
Tale precetto è stato ripreso pressoché integralmente
dall’art. 23 del d.lgs. n. 45 del 1996 (c.d. decreto Eurosim)
e, in una seconda fase, dall’ art. 31 del Testo unico delle
disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, le
quali stabiliscono che il soggetto abilitato che conferisce
l’incarico è responsabile in solido dei danni arrecati ai
terzi dai promotori finanziari, anche se tali danni siano
conseguenti a responsabilità accertata in sede penale”.
al danneggiante.
E’ quindi elemento necessario, ma soprattutto sufficiente,
ai fini della dichiarazione di responsabilità del soggetto
abilitato l’inerenza del danno all’incarico ricevuto.
In proposito la giurisprudenza ritiene ormai concordemente
che, affinché scatti il meccanismo della solidarietà, è
sufficiente che tra l’esercizio dell’incarico e la consumazione
dell’illecito intercorra un nesso di “occasionalità
necessaria”.
Non è quindi necessario che esista un rigoroso nesso di
causa ed effetto, essendo sufficiente che il responsabile
sia stato in grado di controllare le condizioni del rischio
inerente al fatto illecito e sia quindi titolare degli interessi
e dell’attività in occasione della quale si è verificato il fatto
illecito.
Il committente, il quale voglia esimersi dall’obbligo al
risarcimento, dovrà provare l’insussistenza del rapporto di
preposizione, o del nesso di occasionalità necessaria fra le
incombenze affidate e la consumazione dell’illecito.
La responsabilità dell’intermediario è una forma di
responsabilità oggettiva: affinché la società sia responsabile
è infatti sufficiente che il danno sia commesso dal promotore
cui è stato conferito l’incarico dal soggetto abilitato.
In altri termini, se la responsabilità solidale dell’intermediario
rappresenta una efficace garanzia del risparmio, la
delimitazione della stessa sulla base di criteri univoci
diventa essenziale per evitare strumentalizzazioni della
normativa a danno degli stessi operatori economici.
Di particolare interesse, in questa prospettiva, appare
il dibattito circa l’ammissibilità del concorso di colpa
del cliente quale causa di esclusione o riduzione della
responsabilità solidale dell’intermediario.
Tale argomento, invero, rappresenta quello cui
più frequentemente si rivolgono le società in
sede di giudizio, al fine di esimersi o quanto
meno di ridurre la propria partecipazione al
risarcimento danno.
Sicuramente non sussiste la responsabilità
della Banca laddove sia provato
il concorso doloso del cliente
(fattispecie che integrerebbe
IX
gli estremi della truffa ai danni dell’intermediario) assai
controversa è la questione relativa al concorso colposo.
Il concorso di colpa ricorre solo nell’ipotesi in cui la colpa
del consumatore sia fronteggiata da un atteggiamento
colposo del promotore, e non quando questi abbia agito
dolosamente.
D’altra parte la disciplina dei mezzi di pagamento
rappresenta un efficace strumento di tutela delle Società di
intermediazione, in considerazione della responsabilità su
di esse gravante per l’operato dei propri agenti.
In questa linea l’analisi della casistica giurisprudenziale
evidenzia la ricerca di un delicato equilibrio fra la tutela
del consumatore e quella della Società di intermediazione.
I limiti della responsabilità del preponente vanno quindi
individuati in base a criteri oggettivi, che non possono che
riferirsi all’inerenza dell’incarico con il danno cagionato. La
solidarietà dell’intermediario verrebbe meno solo
nelle ipotesi in cui fosse dimostrata l’insussistenza di tale
vincolo strumentale, ovvero del nesso di “occasionalità
necessaria” che deve intercorrere tra il danno e l’incarico
ricevuto.
Tra le diverse fattispecie sottoposte all’esame della
giurisprudenza la più frequente è rappresentata dalla
violazione della norma che prescrive che il pagamento
del sottoscrittore deve essere effettuato con bonifico
bancario o con assegno intrasferibile, intestati alla società
di intermediazione ovvero intestati al sottoscrittore con
girata piena dello stesso alla società, seguito dalla clausola
di intrasferibilità.
E’ quindi irregolare la consegna delle somme con mezzi di
pagamento difformi da quelli indicati, ad esempio assegni
liberi o contanti.
Proprio in riferimento alla consegna di somme di
denaro in contanti al promotore da parte del cliente , la
recentissima una recentissima pronuncia della Corte di
Cassazione ( sentenza n. 1741 del 25/01/2011) stabilisce
che l’intermediario, sulla base del principio di responsabilità
solidale, deve essere chiamato a risarcire il danno subito
dal risparmiatore nelle ipotesi di comportamento illecito
del promotore finanziario, integrante gli estremi del reato
di appropriazione indebita prevista e punita ex art. 646 del
Codice Penale.
La Suprema Corte di Cassazione, inoltre, ha testualmente
affermato che “ La circostanza che il cliente abbia consegnato
al promotore finanziario somme di denaro con modalità
difformi da quelle con cui quest’ultimo sarebbe stato legittimato
a riceverle, non vale, in caso di indebita appropriazione di dette
somme da parte del promotore, a interrompere il nesso di
causalità esistente tra lo svolgimento dell’attività del promotore
finanziario e la consumazione dell’illecito, e non preclude,
pertanto, la possibilità di invocare la responsabilità solidale
dell’intermediario preponente. Un tal fatto, in mancanza
di altri elementi di giudizio, neppure può essere tout court
individuato quale concausa del danno subito dall’investitore, in
conseguenza dell’illecito consumato dal promotore, al fine di
ridurre 1’ammontare del risarcimento”.
Tale tipologia di responsabilità trova il suo fondamento,
in primo luogo, nel fatto che l’operato del promotore è
uno degli strumenti dei quali l’intermediario si avvale
X
dell’organizzazione della propria impresa, traendone
benefici ai quali è ragionevole far corrispondere i rischi,
nonché nell’esigenza di offrire una garanzia ai destinatari
delle offerte fuori sede rivolte loro per il tramite del
promotore finanziario, la cui buona fede può essere
facilmente aggirata.
Avvocato Paola Boeti
LA FINANZA ETICA
La finanza etica è oggi un argomento di grande interesse
nel mondo bancario italiano e mondiale.
La Consob definisce la finanza etica come un processo di
investimento fondato su criteri di selezione dei titoli che
non si pongono, come fine esclusivo, la massimizzazione
dei rendimenti ma anche la salvaguardia di valori universali
quali l’equità sociale, la protezione dell’ambiente e della
salute, lo svolgimento dell’attività economica nel rispetto
di tutti gli stakeholders e, in generale, di tutti i cittadini.
La finanza etica riguarda, quindi, un modo di investire
sui mercati finanziari che non guarda solo al rendimento
ma analizza anche l’impatto sociale e ambientale delle
attività finanziate.
La sua nascita si fa risalire agli anni ’70 del secolo scorso,
quando a causa della guerra in Vietnam molti investitori
si chiesero se fosse opportuno continuare a investire il
proprio denaro in società collegate a eventi bellici.
Nacque nel 1971 il primo fondo etico, il Pax world fund,
che escludeva dal proprio raggio d’azione le società
collegate al settore degli armamenti.
Le prime esperienze di fondi etici arrivarono in Europa, e
precisamente nel Regno Unito, nel 1984 con la creazione
del Friends Provident Stewardship Fund.
In Italia, la finanza etica è arrivata dopo la metà degli
anni ’90 e in seguito alla diffusione dei cosiddetti fondi
solidali, i quali devolvevano parte dei guadagni conseguiti
o delle commissioni pagate dai sottoscrittori a favore di
progetti di solidarietà e beneficenza senza operare alcuna
selezione etica dei propri investimenti.
Nel 1997 venne collocato il primo fondo a selezione etica
degli investimenti, San Paolo azionario internazionale
etico, che per diversi anni fu uno dei fondi etici più grandi
di tutta Europa.
I fondi etici, si differenziano dai fondi comuni di
investimento perché investono il patrimonio gestito solo
in società senza scopo di lucro; che hanno un obiettivo
sociale; che si fondano sulla mutualità, sull’autogoverno
democratico e sulla trasparenza nell’utilizzo delle
risorse. I fondi etici, dunque, escludono gli investimenti
nel business delle armi, degli alcolici, del tabacco, della
pornografia.
Nel prendere in considerazione la possibilità di investire
in fondi etici è bene considerare le peculiarità in base alle
quali un prodotto si definisce etico, ossia le caratteristiche
che definiscono in che modo la strategia di gestione e il
processo d’investimento del fondo integrano gli elementi
di responsabilità sociale.
A tal proposito è intervenuto l’EUROSIF ( il forum dei
fondi europei sulla finanza socialmente responsabile)
dettando alcune linee guida sulla trasparenza a cui i singoli
fondi etici possono aderire. Le linee guida rappresentano
una regolamentazione su base volontaria, finalizzata a
fornire informazioni chiare e trasparenti per consentire
agli investitori una scelta consapevole. Trattandosi
di una regolamentazione volontaria e non essendo
fornita una definizione univoca del termine “etico” la
situazione appare abbastanza confusa. E’ possibile che
questi fondi investano in circuiti contrari al senso etico
comune. A tal fine sono stati istituiti alcuni organismi,
come Ethibel, che propone un marchio di qualità per
le aziende che ricercano capitali nei mercati finanziari
e che dimostrino un comportamento responsabile nei
confronti dell’ambiente e dei diritti umani.
In conclusione, lo sviluppo di prodotti finanziari etici
in Italia è ancora nello stadio iniziale; in molti casi si
tratta di fondi che prevedono accorgimenti particolari
nell’attribuzione dell’utile, ma che non prevedono regole
specifiche nella fase di scelta degli investimenti.
Dott.ssa Romina Nese
LA FINANZA ISLAMICA
Una delle caratteristiche peculiari della finanza islamica
è la sua forte dipendenza dai testi sacri e dalla loro
notevole influenza sul diritto. Il testo più importante
dell’Islam è il Corano, ovvero la parola di Dio dettata
al profeta Mohammed tramite l’arcangelo Gabriele.
Sebbene il libro sacro si esprima su moltissimi aspetti
della vita di ogni giorno, i suoi versi tendono ad essere
generici. Per questo motivo i giuristi hanno associato al
Corano un’altra fonte di diritto primario: la Sunnah. Essa
rappresenta la raccolta dei detti del profeta, delle sue
azioni e delle risposte date ai discepoli. Il Corano e la
Sunnah rappresentano le fonti primarie del diritto islamico
e insieme danno vita alla Shari’a che è la legge islamica di
riferimento. Ci sono casi in cui le fonti primarie non sono
perfettamente chiare e per questo i giuristi ricorrono
all’inferenza giuridica, ovvero un’interpretazione dei
testi sacri. Esistendo tale dimensione interpretativa si
sono create, all’interno del mondo islamico, una serie di
scuole che fanno uso di criteri interpretativi differenti.
Non tutti sanno che il profeta era un commerciante di
successo, per cui non c’è da stupirsi che il
I MERCATI
FINANZIARI
Corano regolamenti in modo dettagliato la
strutturazione delle transazioni commerciali
e finanziarie. La Shari’a, in definitiva, non si limita a
dettare i comportamenti che i fedeli devono assumere
nei rapporti privati tra uomo e Dio, ma stabilisce dei
principi per ogni settore della vita pubblica dei credenti.
I pilastri economici di riferimento dell’Islam sono cinque:
la Riba (proibizione dell’interesse), il Gharar (divieto
dell’incertezza), il Maysir (divieto di speculazione) ,
l’Haram (divieto di svolgere attività in settori proibiti
dal Corano) e la Zakat (purificazione della richezza). Il
termine arabo riba letteralmente significa “incremento”,
“eccesso”, “crescita”; la proibizione dell’interesse come
potenziale incrementatore del valore della moneta
risponde all’obbiettivo di conseguire condizioni di
equità e giustizia economico-sociale, prevenendo ogni
forma di sfruttamento. Storicamente tutte le religioni
monoteiste hanno condannato l’usura e l’interesse, in
particolare quella cristiana ed ebraica, infatti, nell’ottica
religiosa, il profitto e l’accumulo di ricchezza trovano
legittimazione soltanto con l’attività operosa dell’uomo.
Nelle realtà economiche musulmane il divieto delle
operazioni fruttifere di interesse è rimasto inalterato
da circa quattordici secoli. La proibizione esplicitata nel
Corano si riferisce ad un concetto, quello di riba, molto
più ampio rispetto a quello di usura; mentre quest’ultima
consiste nel far gravare sul prestito un tasso di interesse
“spropositato”, riba si riferisce al contratto di prestito
basato sull’applicazione di qualsiasi interessi.
Il divieto di riba comporta un diverso funzionamento
dell’attività bancaria, diverse strutture contrattuali sia
per i depositi che per i prestiti, l’assenza della tutela dei
depositanti (se non in specifiche condizioni) e un maggior
ruolo del private equity e del venture capital nell’attività
di finanziamento dell’industria. Con il termine gharar
generalmente si indica l’incertezza, il rischio, mentre
con il termine maysir la speculazione. La proibizione
del gharar si riferisce sia a condizioni di informazione
incompleta, ad esempio sul prezzo o sull’oggetto della
vendita, sia all’incertezza intrinseca nell’oggetto del
contratto, ad esempio eventi aleatori. Questo divieto
implica che ogni transazione o contratto affinché sia valido
deve essere libero da forme di incertezza, ma mentre
la proibizione della riba è assoluta, il gharar è vietato
solo se rilevante. Il maysir invece indica il tentativo
di scommettere sul risultato futuro di un evento.
Le scommesse sono espressamente vietate dalla
legge islamica, tuttavia esse possono essere più o
meno sostenute da un adeguata informazione
ed analisi; nel primo caso è conforme alla
Shari’a, nel secondo no. Entrambi i principi
islamici hanno una forte implicazione
economica, in particolare per quanto
riguarda il sistema assicurativo
e la negoziazione dei moderni
strumenti finanziari derivati. La
parola haram sta ad indicare
tutte quelle attività che
sono esplicitamente
segue»
XI
vietate dal Corano, tra le quali ricordiamo: la produzione
e la vendita di bevande alcoliche; l’allevamento, la
lavorazione e la vendita di carne di maiale; le armi; il
tabacco; i casinò; i night club; la pornografia e qualsiasi
altra attività che comporti riferimenti sessuali espliciti.
Il termine zakat, invece, letteralmente significa
“purificazione”ed essa rappresenta l’imposta
coranica per eccellenza. La legge islamica impone
ad ogni musulmano con capacità contributiva, di
pagare una tassa a titolo di assistenza pubblica. La
funzione principale della zakat è infatti quella di
ridistribuire la ricchezza a favore dei più poveri
e bisognosi, contribuendo al tempo stesso a
purificare il cuore degli uomini dall’egoismo. Non
si tratta di un contributo volontario, ma di un
obbligo religioso del cui adempimento il fedele è
responsabile direttamente nei confronti di Allah.
Generalmente l’imposta ha un aliquota che varia
dal 2,50% al 10% a seconda del bene di riferimento
e va a gravare sul patrimonio di ogni individuo,
sempre che questo superi il livello minimo di “base
imponibile”, che è circa il valore di 85 grammi
d’oro. I cespiti che va a colpire solitamente sono: l’oro,
l’argento, i beni commerciali e alcuni beni agricoli, mentre
ne sono esenti i macchinari e i beni durevoli, sebbene
ne rimanga soggetto il reddito da essi prodotto. Alcuni
Paesi Occidentali, tra cui gli Stati Uniti, accordano delle
apposite agevolazioni fiscali ai musulmani che versano
somme a titolo di zakat ad operatori individuati
esplicitamente dal fisco, tali agevolazioni il più delle volte
si riferiscono alla creazione di un credito d’imposta per
il valore versato. La finanza islamica sembra aver risposto
ad effettivi bisogni che la finanza occidentale non era in
grado, o non era interessata a soddisfare. Infatti le banche
occidentali presenti nei paesi arabi non avevano neppure
tentato di analizzare i bisogni delle popolazioni e delle
imprese locali, cosa invece che si stanno affrettando a fare
negli ultimi anni. Uno degli elementi che ha maggiormente
contribuito all’espansione della finanza islamica è
senza dubbio l’enorme massa di risorse finanziarie
(petroldollari) sprigionate dalle crisi petrolifere del 1973,
1979, 2003 e 2008. Se all’inizio la ricchezza accumulata
dai grandi paesi esportatori di greggio è stata investita
in strumenti tradizionali, provenienti principalmente dai
paesi occidentali, con il tempo la necessità di diversificare
i portafogli ha avvicinato il mondo islamico a strumenti
sempre più alternativi. In questo contesto la finanza
islamica ha rappresentato un importante risorsa per
soddisfare i bisogni dei ricchi sceicchi arabi. Un’ulteriore
spinta allo sviluppo dei prodotti islamici è stata data
anche dalla riduzione della fiducia del mondo arabo nei
confronti delle istituzioni finanziarie occidentali in seguito
agli eventi dell’11 settembre 2001 e la conseguente
lotta al terrorismo. Oggi, infatti, molti investitori arabi
preferiscono non detenere le loro ricchezze in paesi
quali gli Stati Uniti o il Regno Unito perché temono
eventuali embarghi o addirittura sequestri. Le banche
occidentali, come accennato prima, stanno ora cercando
di riconquistare la fiducia del mondo islamico, e lo
XII
fanno sviluppando prodotti e servizi
I MERCATI
FINANZIARI
interamente dedicati ad esso. A questo
scopo tutte le principali istituzioni
hanno aperto degli sportelli islamici o addirittura
creato delle vere e proprie unità che ottemperano alle
regole della Shari’a. Nata negli anni Settanta del secolo
scorso la finanza islamica ha trovato sempre maggior
consenso, dapprima nei paesi musulmani e poi in quelli
occidentali. Nell’ultimo quadriennio è cresciuta ad un
ritmo del 28,6% annuo ( rispetto al 6,6% degli asset
convenzionali) ed oggi conta tra gli 800 e i 1.000 miliardi
di dollari intermediati. Ad oggi le istituzioni finanziarie
totalmente islamiche sono oltre 350, di cui 26 in Europa
e nessuna in Italia, ma se si contano anche le banche
dotate di uno sportello islamico, allora superano le 600
unità. La Gran Bretagna, ad esempio, è già l’ottava piazza
finanziaria al mondo per gli investimenti Shari’a compliant,
con la presenza di una banca completamente islamica e
molte islamic window. La Francia, invece, nel dicembre
2010 ha cercato di accelerare la modifica della propria
normativa nazionale per consentire l’emissione dei Sukuk
(obbligazioni islamiche), seguita anche dalla Germania
che sta cercando di far spazio negli ordinamenti nazionali
per l’introduzione della finanza islamica. Iniziative simili
provengono anche dal Lussemburgo, dall’Irlanda, dalla
Spagna, dalla Svizzera e persino da Malta. Per quanto
riguarda l’Italia, questa dovrebbe essere un occasione
da non perdere ma purtroppo il ritardo normativo è
evidente.
Dott.sa Ilaria Conson
“Questo progetto e’ stato realizzato nell’ambito del programma generale di
intervento 2010 della Regione Emilia Romagna con l’utilizzo dei fondi del
Ministero dello sviluppo econimico”
COORDINATORE:
PROF. GIUSEPPE G. LUCIANI
[email protected]
Docente di Diritto dei Mercati Finanziari - Università di Parma
RESPONSABILE:
SECONDO MALAGUTI
Presidente Confconsumatori Emilia Romagna
INSERTO A
CURA DI
CONFCONSUMATORI
DELL’EMILIA
ROMAGNA
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