www.servizisocialionline.it
SEZIONE ARTICOLI DI SERVIZIO SOCIALE
Hikikomori. La terribile scelta di isolarsi
di Antonio Antonuccio*
L’uomo, se può, sceglie di stare con i propri simili, è un suo bisogno; è qualcosa che gli
consente di affrontare meglio la quotidianità, che lo fa star meglio e bene; è,
comunque, qualcosa di connaturato.
Per Georg Simmel, gli individui intrecciano sempre relazioni sociali, si trovano sempre
coinvolti gli uni con gli altri, anche e soprattutto quando sono in compresenza.
Secondo Max Weber, i fenomeni sociali ... come i costumi, le convenzioni, le regole, le
leggi e le istituzioni che caratterizzano i gruppi stessi, conferiscono a tali gruppi
un’identità collettiva.
Come ha scritto Emile Durkheim, ogni essere umano è coinvolto in rapporti con i propri
simili … i [cui] contenuti si impongono agli istinti dell’uomo …[e] … i fatti sociali sono le
maniere di agire e di pensare.
Ma, se è vero, come è vero, quanto appena riportato con il pensiero di tali mostri sacri
della sociologia, se l’istinto umano porta a stare insieme per un’identità collettiva
ricercata; se le nostre principali attività come la politica, la scuola e i posti di lavoro,
sono progettate per gli “estroversi”; se in un momento storico come quello attuale, in
cui è così difficile immettersi nel mondo del lavoro - per una persona introversa sarà
quasi impossibile superare un colloquio di lavoro, perché a parità di sapere, di
competenza e di esperienza, de plano, il posto sarà assegnato alla persona in grado di
relazionarsi in maniera più efficace -, perché qualcosa spinge qualcuno ad isolarsi?
E’ questo un fenomeno, in verità, che interessa i più giovani, in particolare gli
adolescenti della scuola.
Perché, in tal senso, i ragazzi che preferiscono stare per conto proprio o lavorare da
soli danno un’immagine di anormalità?
La società - in questa era ipertecnologica - è in continua evoluzione, cambiano le
relazioni tra i suoi membri. Questa trasformazione, allora, è forse da attribuire
all’utilizzo dei sistemi virtuali o, diversamente, è da ricondurre ai mutamenti
all’interno della cellula familiare?
Ritroviamo comportamenti problematici dei giovani, che appaiono come il surrogato di
qualcosa che ricercano per soddisfare un bisogno. Insorge, allora, uno stato di disagio
che li induce ad allentare i legami sociali. Le modalità relazionali di questi membri della
società risultano diverse, talvolta, persino contrapposte a quelle degli adulti - di
riferimento -, che perciò - allora - non li riconoscono, con il risultato della discrasia
generazionale.
E’ questo, certamente, un segnale d’allarme che pone l’attenzione su un’inevitabile
frattura nella stessa società. E’ chiaro che tanto produrrà fasce di soggetti della
comunità che sono composte, in questo caso, da giovani che, avendo difficoltà ad
inserirsi nel gruppo sociale di riferimento, poi nella società, troveranno come soluzione
l’isolamento, fino a divenire, nel tempo, invisibili.
Questa autoesclusione, allora, è qualcosa di più di una reazione adolescenziale che si
appalesa in una società che si affida sempre di più al virtuale.
La ricerca e la letteratura di settore hanno evidenziato che tali manifestazioni
relazionali, che possiamo - adesso - definire patologiche sono più facilmente
riconducibili a certe popolazioni, poiché determinate dalla loro tradizione e dalla loro
cultura, contaminate dalla notevole diffusione dei mezzi di comunicazione globale.
Tutto porterebbe a pensare che quanto appena affermato sia un problema di esclusivo
interesse del mondo cosiddetto “occidentale”, ma non è così, perché è l’ipertecnologico
Giappone che è la culla di questa patologia sociale e detiene il triste primato
epidemiologico.
Nella letteratura di settore del “Sol Levante” l’hanno battezzata Hikikomori. Il
termine è stato coniato dallo psichiatra Tamaki Saito, poi tradotto dallo stesso in
“social withdrawal” (ritiro sociale), anche se, nella sua patria, le prime insorgenze di
questa forma di ritiro sociale furono descritte nel 1978 da Y. Kasahara e chiamate
tajkyaku shinkeishou cioè reatreat neurosis, riferendosi a soggetti che abbandonano
la scuola o il lavoro per lunghi periodi e che non erano altrimenti diagnosticati come
depressi o schizofrenici.
La spiegazione dell’incidenza dell’hikikomori nel Giappone può essere ricondotto al
concetto di “amae” (dipendenza) che si riferisce a quegli aspetti sociali comuni di
questo popolo, alla dimensione psicologica privata della struttura familiare nipponica.
Il nucleo di tali congiunti è una famiglia cosiddetta “normale”, cioè normocostituita,
solitamente senza separazioni, divorzi o altre problematiche familiari. Nella cultura
del Sol Levante, ancora, nella prima infanzia la relazione tra madre e figlio è di
dipendenza, quasi simbiotica. Tale intenso rapporto - come conseguenza - si
trasformerà con la maturità del figlio in un sentimento di obbligo in tutte quelle che
saranno le sue relazioni sociali; questo a differenza della cultura occidentale, in cui vi
è la tendenza ad abituare il bambino all’autonomia, fin dai primi anni di vita. In tale
nucleo, quella del padre è, comunque, una presenza fondamentale data dall’importanza
e dall’autorevolezza dell’uomo che si colloca nei gradini più alti della scala sociale, con
pochi amici e dedito completamente al lavoro; la sua alta collocazione sociale, di
conseguenza anche quella della famiglia, gli viene garantita solo da una personalità
socialmente competitiva. E’ una figura, quella paterna, che il giovane figlio traduce in
timore di non essere all’altezza del genitore, di non essere adeguato per poter
raggiungere lo stesso prestigio del capofamiglia.
In tal contesto culturale, diventare uomo significa “essere uomo virile”, ossia un uomo
attento, forte, capace nel ruolo di provvedere economicamente alla propria famiglia. E’
così che sul figlio maschio (il primogenito, o il figlio unico) vengono proiettate e
riposte tutte le responsabilità e le aspettative sociali; ed è così che la percezione di
un’eventuale inadeguatezza porta il giovane all’isolamento, questo anche perché tali
concetti, appaiono collegati ad altre caratteristiche proprie del modus vivendi
dell’individuo del Sol Levante, quali il senso del dovere, la vergogna e la riservatezza.
Il fenomeno dell’hikikomori può essere considerato una forma di isolamento che si
traduce presto in una volontaria reclusione. Nei giovani giapponesi si evidenzia una
sorta di ribellione alla cultura tradizionale e all’intero apparato sociale; questi
adolescenti decidono di vivere reclusi nella loro casa, nella loro stanza, persino con le
finestre serrate, senza alcun “comune” rapporto con l’esterno, né con i familiari, né
con gli amici.
Ma, come insorge, quali sono i tratti epidemiologici di questa patologia sociale, come si
rappresenta nei sintomi.
L’ hikikomori è un male che si diagnostica in soggetti che hanno trascorso un periodo
di almeno sei mesi in una condizione di isolamento sociale, di ritiro dalle loro attività
scolastiche e/o lavorative, senza alcuna relazione al di fuori dei propri congiunti.
Secondo gli studi effettuati, la letteratura riporta dati che rimandano ad un periodo
medio di isolamento sociale di circa 39 mesi, ma con un range che può variare da pochi
mesi fino a parecchi anni.
Generalmente sono soggetti di età compresa tra 19 e 30 anni; essi sono maschi e
primogeniti nella maggioranza dei casi; la casistica riporta che solo il 10% di questi
giovani interessati è di sesso femminile, indicando - in questa evenienza - un periodo
di reclusione che è limitato. Tali dati, tuttavia, sono con un trend in crescita, sebbene
i casi dichiarati siano in un numero inferiore rispetto a quello che è la stima degli
addetti ai lavori; questo è dovuto al fatto che le famiglie sono reticenti alla denuncia,
ma - talvolta - alla poca conoscenza dello stesso fenomeno.
Per quanto attiene agli aspetti diagnostici sono stati stabiliti i seguenti criteri di
valutazione per la caratterizzazione:
il ritiro completo dalla società dura da più di sei mesi;
è persistente il rifiuto scolastico e/o lavorativo;
tra i soggetti con ritiro e/o perdita di interesse per la scuola o per il lavoro non
rientrano quelli che continuano a mantenere relazioni sociali;
prima dell’insorgenza dell’hikikomori non c’era stata diagnosi di schizofrenia,
ritardo mentale o altre patologie psichiatriche significative.
In relazione alle caratteristiche demografiche degli hikikomori vengono riportati i
seguenti fattori di rischio:
sesso: la prevalenza dell’hikikomori è di quattro volte superiore nei maschi
rispetto alle femmine; in queste ultime, come già anticipato, il periodo di
reclusione è piuttosto limitato;
fratria: la maggior parte sono primogeniti maschi. La primogenitura, come detto
in precedenza, per le caratteristiche socio-culturali del Giappone assume un
ruolo fondamentale per il nucleo familiare. E’ già stato riportato che spetta al
figlio maggiore sostenere e/o consolidare la reputazione della famiglia,
impegnandosi in successi sia nella carriera scolastica, sia in quella del lavoro;
età: l’esordio del disturbo si colloca in un’età compresa tra i 19 e i 30 anni; il
sintomo della prima manifestazione del disagio psico-relazionale appare nel 23%
dei casi già al primo anno delle scuole medie inferiori;
classe sociale: la rilevazione della ricerca ha dimostrato che il disturbo prevale
in quelle famiglie di ceto sociale medio-alto, dove entrambi i genitori sono, di
solito, laureati;
vittime di bullismo: i giovani che hanno subito fenomeni di forte prevaricazione
ad opera dei pari durante il periodo scolastico hanno una maggiore
predisposizione allo sviluppo dell’hikikomori.
Per la rappresentazione dei sintomi la rilevazione riporta che:
il ritiro sociale appare come sintomo principale. Il soggetto non abbandona la
sua stanza per mesi o anni, nei casi più gravi né per lavarsi, né per alimentarsi
chiedendo ai familiari che il cibo gli sia lasciato davanti alla porta della stanza;
il rifiuto scolastico, come il precedente, è una delle più frequenti
manifestazioni;
la percentuale di incidenza dell’antropofobia è di circa il 67%; è questo un
sintomo che si sviluppa secondariamente rispetto al ritiro sociale, ma
contribuisce - in maniera rilevante - per il peggioramento del quadro clinico. Se
si manifesta con un grado ancora lieve, il soggetto in casa non risponde al
telefono; quando è capace di uscire dall’abitazione, accusa la paura degli altri, la
difficoltà per l’utilizzo dei mezzi pubblici. Se, invece, l’antropofobia è di grado
elevato essa è associata ad altre manifestazioni come: auto-misofobia (paura di
sporcarsi), eritrofobia (paura di arrossire) ed ideazione ossessiva.
L’antropofobia scompare nell’evenienza di un ricovero ospedaliero;
il 20% ammette di avere comportamenti violenti, come colpire le pareti della
loro camera con i pugni o aggredire i propri familiari;
il ritmo sonno veglia è alterato/invertito (ritmo cicardiano invertito, ovvero
dormono il giorno, vivono di notte);
sono presenti umore depresso, pensieri ricorrenti di morte, propositi di
suicidio, sentimenti di autosvalutazione e colpa.
L’hikikomori - è facile intuirlo - non è soltanto un male della società giapponese, è un
grave problema per la comunità in Cina, Corea e a Taiwan; lo è anche per i popoli
occidentali.
Ma, qual è la rappresentazione nella nostra penisola?
I primi casi in Italia, risultati sporadici ed isolati, sono stati segnalati nel 2007;
ovviamente, da allora, i dati epidemiologici si sono sempre accresciuti con nuovi casi
diagnosticati, tuttavia – e per fortuna – con una diffusione più contenuta rispetto alla
realtà del Sol Levante. Ad oggi, non abbiamo dati precisi su quanti italiani abbiano
problemi di hikikomori, alcune fonti riportano un numero di circa 30.000 soggetti.
Anche da noi, purtroppo, l’incidenza è in aumento e il fenomeno potrebbe avere un
numero oscuro che potrebbe suscitare allarme.
In Italia, in verità, esiste un significativo interesse per tale patologia, ciò, in
particolare, nel territorio del sud; questa attenzione è dovuta al fatto che Tamaki
Saito ha evidenziato delle analogie tra la struttura familiare giapponese e la struttura
familiare matriarcale delle nostre regioni meridionali, caratterizzata - come nel
Giappone - da un legame simbiotico tra madre e figlio.
Quale potrà essere la giusta risposta per affrontare l’hikikomori?
Il dibattito nella comunità scientifica ha portato alla diatriba se l’uso di internet da
parte degli hikikomori sia la causa o l’effetto del male; i più sembra propendano sul
credere che i nostri giovani stanno male comunque, perché non sopportano più il
gravare del confronto con l’altro e le forti aspettative a cui sono sottoposti dalla
famiglia, ma anche dalla cultura competitiva della nostra società.
Certamente bisogna fare i conti con la realtà dei fatti, perché la “cattiva abitudine”
(questa espressione forse solo un eufemismo) di proporre a bambini, poi adolescenti,
continui stimoli virtuali, comporta che essi siano vittime di informazioni vuote, che
creano meccanismi mentali e personalità che sono completamente scevre di
esperienze, relazioni e di sapere. Gli stessi a contatto col mondo e durante la crescita,
quando si troveranno a confrontarsi con la necessità di affrontare gli impegni che la
vita gli opporrà davanti, potendo solo contare su quelle informazioni risultate vuote,
ecco che saranno completamente senza armi, e l’unica cosa che potranno fare è quella
di rifugiarsi nell’unica esperienza “astratta” a cui sono sempre stati “abituati”.
A questo punto, certamente, sarebbe utile una riflessione che induca ad un cambio di
rotta nel rapporto con i giovani, con i nostri figli.
Gli adulti, i genitori dovranno essere pronti a riformare i loro ruoli e guardare dentro
a sé stessi, superando atteggiamenti di superficialità, ma con coerenza e sincerità e
abbandonando i propri egoismi e quelle configurazioni mentali a cui sono stati anch’essi
assoggettati, più o meno inconsapevolmente, offrendo uno sfogo alle emozioni.
Certo, questo non è la panacea per sconfiggere questo grande male, ma potrebbe
risultare l’avvio - paradossalmente un’opportunità - per un percorso più virtuoso per
tutti gli attori in scena. Una rappresentazione per creare un momento migliore di
incontro tra le generazioni; in definitiva, un bonus per l’intera società.
*Assistente sociale - Criminologo, Docente Universitario a Contratto
Bibliografia
Aguglia E., Signorelli M.S., Pollicino C., Arcidiacono E., Petralia A., Il fenomeno dell’hikikomori:
cultural bound o quadro psicopatologico emergente?, Giornale italiano di psicopatologia, Pacini
editore, S.p.A., Pisa 2010.
Benedict R., Il crisantemo e la spada. Modelli di cultura giapponese , Edizioni Dedalo, Bari, 1993.
Carbonaro A., La Rosa M., Giappone controluce. Pratiche e culture a confronto , F. Angeli,
Milano, 1997.
Doi T., Saitou T., Amae e i giapponesi, Asashipress, Tokyo, 2003.
Jones M., “Shutting Themselves In”, in New York Times, 15 gennaio 2006,
http://www.nytimes.com
Mastropaolo L., Nuove patologie adolescenziali o nuove emergenze sociali?L’hikikomori e solo
giapponese? Terapia familiare, n° 97, F. Angeli, Milano, 2011.
Ricci C., Hikikomori: adolescenti in volontaria reclusione, F. Angeli, Milano, 2008.
Sakuta K., Haji no Bunka Saikou. Riconsiderazione sulla cultura della vergogna, Chicuma Shobo,
Tokio, 1967.
Salom P., “Tokio: boom di divorzi tra gli anziani”, in Il Corriere della Sera, 5 aprile 2007,
http://archiviostorico.corriere.it
Zielenziger M., Non voglio più vivere alla luce del sole: il disgusto per il mondo esterno di una
nuova generazione perduta, Elliot Edizioni, Roma, 2008.