Troppi adolescenti in fuga dal mondo

TROPPI ADOLESCENTI IN FUGA DAL MONDO
Cresce il fenomeno “Hikikomori”
Cataldo Greco
Mammoni, asociali, ritirati, scontrosi nei rapporti familiari. I dati parlano di trentamila casi già
diagnosticati nel nostro Paese, ma potrebbero essere molto di più i giovani italiani che si sono chiusi
nella loro camera da letto per mesi, a volte per anni (affermano alcuni sociologi), lontani dal mondo
e dalla quotidianità. Sono gli Hikikomori, ragazzi in fuga dalla vita comune. Per decenni è stata
considerata una questione solo giapponese. E invece no, poiché questi nuovi adolescenti che
rifiutano l’esterno, isolandosi in una stanza che diventa il loro bunker protetto, adesso sono una
realtà anche in Europa e in Italia. Al 2007 risale l’identificazione dei primi autoreclusi nazionali. Da
allora il fenomeno ha continuato a crescere senza tregua e a dilagare con una escalation da paura.
«Non è sempre facile riconoscere i sintomi di un Hikikomori –
spiegano gli esperti - , che possono essere confusi con quelli di una
comune depressione, anche se si tratta di due forme di malessere molto
diverse. E il problema è spesso associato con il disturbo da dipendenza
da Internet (Iad)». Infatti, oltre all’avversione per la società e
l’evitamento scolastico, tra i sintomi ricorrenti c’è quello di rifugiarsi
nella rete. «Più che di depressione – prosegue la psicologa Scilla
Sfameni (nella foto) – si tratta di un sentimento di vergogna. Per questi
ragazzi, che sentono il desiderio di fermarsi a riposare, la finestra di una
chat diventa molto più sicura e controllabile di un bar o di ristoranti
affollati. Puoi decidere quando aprirla, quale immagine mostrare di te,
La psicologa
quando essere brillante o quale parte della tua intimità condividere con
Scilla Sfameni
gli altri. E la casa si trasforma in una dolce prigione, in cui il computer
è l’unica porta verso il mondo esterno. Pian piano, anche questo tipo di contatto tende a scemare,
fino al dialogo esclusivo con ragazzi con condividono la stessa situazione e poi i ritiro assoluto».
Ma quali sono i campanelli d’allarme per un genitore? «Per non intervenire quando il quadro è
ormai compromesso – è il monito della psicologa - è bene riconoscere i primi segnali e chiedere
aiuto. Spesso, infatti, le famiglie sottovalutano il problema, rinforzando involontariamente il ritiro.
Tra i sintomi da guardare c’è l’interruzione dei contatti con i coetanei, il rinunciare a un
appuntamento con gli amici per rimanere a casa, l’evitare gli eventi sociali, l’apatia, gli scatti d’ira,
l’inversione del ciclo sonno-veglia, l’abuso di Internet». Solitamente il problema può insorgere tra
la scuola media e i primi anni della superiore: posti di fronte alla comune sfida della crescita, alcuni
giovanissimi fanno crash e iniziano a evitare sempre di più il mondo esterno, fino a scegliere
l’autoreclusione, dove i contatti con il prossimo sono relegati solo all’universo virtuale dei social
network o dei videogiochi. Non è facile capire lo spartiacque tra gli Hakikomori e la depressione.
«Chi è depresso – dice la Sfameni – solitamente ha crisi di pianto, incapacità di relazione, si
lamenta continuamente, e nel suo disagio c’è senso di colpa. Negli Hikikomori, piuttosto, prevale il
sentimento di vergogna e nella reclusione si vive serenamente. Vi è come una sensazione di
fallimento per la distanza del mondo che si è immaginato.
IL FARO – Periodico del Centro Studi “ Pier Giorgio Frassati ” – Cariati (CS)
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Questi ragazzi vorrebbero essere nella società come gli altri, ma qualcosa dentro si spezza
improvvisamente, il meccanismo si inceppa e loro percepiscono soltanto confusione e necessità di
riposo. Non a caso, molti autori danno una lettura antropologica della
questione. Come direbbe Bauman: il ritiro potrebbe essere il
prendere respiro dagli occhi perennemente puntati e dai quali ci si
sente terribilmente giudicati».
Cosa si nasconde alla base di questa patologia? «Un forte
attaccamento alla madre – conclude Scilla Sfameni -, rapporti
complicati o assenti con il padre e l’avversione per le attività
sociali». Tra gli esperti non c’è un punto di vista condiviso rispetto al
fenomeno. Alcuni lo ritengono un quadro sindromico vero e proprio,
altri lo vedono come una conseguenza di altre problematiche
psichiatriche sottostanti. altri ancora rimandano più alla questione
sociale antropologica.
«Rimane il fatto che questi ragazzi con il loro silenzio urlano e
implorano soccorso – conclude la psicologa – e con la loro assenza si
affermano in un mondo che incita alla diversità, ma la esclude. Un
mondo dove, se non corrispondi alle aspettative, sei fatto fuori».
Primi studi
LA CAUSA DEL PROBLEMA? LE MAMME SOFFOCANTI
Tamaki Saito è stato il primo psicoterapeuta a studiare il disturbo di Hikikomori, evidenziando
anche alcune analogie tra i ragazzi giapponesi e i cosiddetti mammoni italiani. Una delle
caratteristiche degli Hikikomori è lo stretto rapporto con una madre iperprotettiva, spiega.
L’iperprotezione può rendere il figlio narcisista e fragile allo stesso tempo. Se la realtà non coincide
con la sua idea di perfezione, c’è il rischio del rifiuto e del ritiro.
Antonio Piotti, psicoterapeuta che da sempre studia il disagio adolescenziale è autore, insieme a
Roberto Spiniello e Davide Comazzi del libro “Il corpo in una stanza” (Franco Angeli), la prima
indagine organica sugli Hikikomo italiani.
L’origine
COME UN’EPIDEMIA. LA VOGLIA DI ISOLARSI
Hikikomori, vuole dire letteralmente stare in disparte, isolarsi, dalle parole hiku, tirare e komoru,
ritirarsi. È un termine giapponese usato per riferirsi a chi ha scelto di ritirarsi dalla vita sociale,
spesso cercando livelli estremi di isolamento e confinamento. Scelte causate da fattori personali e
sociali di varia natura. Tra questi, la particolarità del contesto familiare in Giappone, caratterizzata
dalla mancanza di una figura paterna e da un’eccessiva protettività materna, e la grande pressione
della società giapponese verso realizzazione e successo personale, cui l’individuo viene sottoposto
fin dall’adolescenza. Il termine Hikikomori di riferisce sia al fenomeno sociale, sia a coloro che
appartengono a questo gruppo. In Giappone si oscilla tra i 500mila e un milione di casi all’anno.
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Le terapie
PSICOLOGIA E FARMACI, MA SERVE ANCHE TEMPO
Una volta individuato il disturbo, il percorso terapeutico può durare da pochi mesi a diversi anni, e
consiste nel trattare la situazione del giovane come un problema mentale, e quindi provvedendo a
sedute di psicoterapia e assunzione di psicofarmaci. Oppure può essere affrontato come una
difficoltà di socializzazione, stabilendo un contatto con i soggetti colpiti e cercando di migliorarne
la capacità di interagire. Il fenomeno, già presente in Giappone dalla seconda metà degli anni
Ottanta, ha incominciato a diffondersi negli anni Duemila anche negli Stati Uniti e in tutta Europa.
L’Italia è tra le più colpite.
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