Documento del Dipartimento Funzione Pubblica

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LO STATO DELL’AMMINISTRAZIONE PUBBLICA
A VENTI ANNI DAL RAPPORTO GIANNINI
Documento del Dipartimento Funzione Pubblica
1
INDICE
I - DAL RAPPORTO GIANNINI
II - LE MODIFICAZIONI DI CONTESTO
9
13
III - IL RIORDINO DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE
1) LE RIFORME DEGLI ANNI ’90
17
2) LA SUSSIDIARIETÀ
20
3) LA SEMPLIFICAZIONE
21
4) IL CONFERIMENTO DI FUNZIONI E COMPITI A REGIONI ED ENTI LOCALI
24
5) LE PRIVATIZZAZIONI DELLE AZIENDE PUBBLICHE
25
6) L’ESTERNALIZZAZIONE DEI SERVIZI PUBBLICI
27
7) AUTORITÀ AMMINISTRATIVE INDIPENDENTI
29
8) LA RIFORMA DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E DEI MINISTERI
30
9) IL RIORDINO DEGLI ENTI PUBBLICI
31
10) L’IMPATTO AMMINISTRATIVO DELLE RIFORME
33
11) LA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA: ASPETTI ORGANIZZATIVI E GESTIONALI
35
IV - LA GESTIONE DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE
12) IL PRINCIPIO DI LEGALITÀ IN SENSO SOSTANZIALE
41
13) L’INTRODUZIONE DEI CRITERI DI ECONOMICITÀ, EFFICACIA ED EFFICIENZA
NELLE ORGANIZZAZIONI PUBBLICHE
43
14) PIANIFICAZIONE, PROGRAMMAZIONE E CONTROLLO; CONTROLLI INTERNI ED
ESTERNI
15) IN PARTICOLARE, I CONTROLLI GESTORI E LA MISURAZIONE DELL’ATTIVITÀ
46
52
16) IL NODO DELL’EFFICIENZA DEI SERVIZI PUBBLICI E DELLA QUALITÀ DELLE
PRESTAZIONI PUBBLICHE
55
V - LE INNOVAZIONI TECNOLOGICHE
17) L’INTRODUZIONE DELLE NUOVE TECNOLOGIE NELL’AMMINISTRAZIONE
PUBBLICA E LA LORO FUNZIONE STRATEGICA
59
18) LA REINGEGNERIZZAZIONE DEI PROCEDIMENTI
63
19) L’AUTORITÀ PER L’INFORMATICA NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
65
20) IL TELELAVORO, LA FIRMA DIGITALE, IL PROTOCOLLO E LA CARTA D’IDENTITÀ
ELETTRONICI
21) L’AMBIENTE E LA SICUREZZA IN AMBITO PUBBLICO
67
70
2
VI - LE RISORSE ECONOMICO FINANZIARIE
22) LA SCARSITÀ DELLE RISORSE, LA RIFORMA DEL WELFARE, IL SISTEMA DI
PROVVISTA, LA GESTIONE DEL PATRIMONIO
23) IL PATTO DI STABILITÀ INTERNO
73
77
24) LA PROGRAMMAZIONE CONCERTATA, I FONDI STRUTTUALI E IL PROJECT
FINANCING
78
25) IL MONITORAGGIO DELLA SPESA NELLE AREE DEPRESSE E PER IL PERSONALE
80
26) LE LEGGI DI SPESA
83
VII - LE RISORSE UMANE
27) LA PRIVATIZZAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO E LA FLESSIBILITÀ
GESTIONALE
85
28) I CONTRATTI COLLETTIVI, RAPPRESENTANZA E RAPPRESENTATIVITÀ
88
29) IL NUOVO ORDINAMENTO PROFESSIONALE E LE PROCEDURE CONCORSUALI
89
30) GLI ISTITUTI ECONOMICI
92
31) IL RUOLO UNICO E LA PROFESSIONALITÀ DEI DIRIGENTI DELLO STATO
93
32) LA DIFFICILE INTRODUZIONE DELLA RESPONSABILITÀ GESTIONALE
95
33) LA FORMAZIONE E IL RUOLO DELLE SCUOLE DI AMMINISTRAZIONE PUBBLICA
97
VIII - IL RAPPORTO AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE - CITTADINI
34) IL SISTEMA DI COMUNICAZIONE PUBBLICA COME STRUMENTO DI
CAMBIAMENTO
35) TRASPARENZA, ACCESSO E COMUNICAZIONE
103
105
36) LE STRUTTURE DI COMUNICAZIONE: UFFICI RELAZIONI CON IL PUBBLICO,
UFFICI STAMPA
105
37) GLI STRUMENTI DI SERVIZIO: SPORTELLI UNICI, RETI CIVICHE, INTERNET
107
38) L’OBIETTIVO DELLA CUSTOMER SATISFACTION
108
39) LA REGOLAMENTAZIONE DELLO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI
109
40) VERSO L’AMMINISTRAZIONE “CONDIVISA”
111
41) LE OBBLIGAZIONI E LE RESPONSABILITÀ DELLA P.A. NEI CONFRONTI DEI
CITTADINI (RISARCIMENTI ED INDENNIZZI)
112
42) IL LINGUAGGIO BUROCRATICO NELL’ATTIVITÀ AMMINISTRATIVA E LA
LEGGIBILITÀ E COMPRENSIBILITÀ DEGLI ATTI NORMATIVI ED AMMINSTRATIVI 113
IX - PER INIZIARE
115
3
I - Dal rapporto Giannini
1 - Il distacco tra poteri pubblici e cittadini veniva sintetizzato vent’anni or sono nel
Rapporto Giannini con una evocazione molto incisiva. Lo Stato – si legge – “non è un amico
sicuro e autorevole, ma una creatura, ambigua, irragionevole, lontana”. L’immagine di
estraneità dipendeva, in larga parte, dalle leggi, molte delle quali “non [erano] rispettose
della garanzia della libertà dei cittadini, tra cui prima la libertà di essere informati circa i
fatti dei poteri pubblici”. L’assenza di rapporti di comunicazione veniva individuata come
una delle ragioni della sfiducia nelle pubbliche amministrazioni. Da tali premesse una
conseguenza: la fiducia dei cittadini – si concludeva - “non si avrà finché non sia cancellata
[….] l’odierna figura dello Stato”.
Cancellare l’immagine negativa dei poteri pubblici era, dunque, la premessa
dell’instaurazione di un rapporto meno sbilanciato dalla parte dello Stato. Nel Rapporto non
veniva posto in modo esplicito il problema della comunicazione tra amministrazione e
cittadini. Ma certo ne emergeva l’esigenza. Veniva messa in luce la necessità di modificare
il nesso tra autorità e libertà attraverso riforme che intervenissero in maniera radicale su
modelli organizzativi, strutture, procedimenti. Il “nuovo volto” dello Stato, insomma,
avrebbe dovuto essere il risultato di una complessiva, profonda riforma del sistema
amministrativo. La diagnosi dei ritardi e delle inefficienze delle amministrazioni pubbliche
postulava, insomma, norme e strumenti in grado di colmare il distacco tra apparati pubblici e
collettività, anche al fine di superare la provocatoria, ma realistica, affermazione sul “potere
pubblico” il quale “viene sovente a presentarsi come un singolare malfattore legale, che
permette a sé ciò che invece reprime nel privato”.
2 - La necessità di un riordino organizzativo dello Stato rappresenta, quindi, una delle
indicazioni più significative del Rapporto, che sottolinea come “le amministrazioni d’ordine,
le amministrazioni di servizi e le amministrazioni di finanza convivono in regime di
giustapposizione. Ripensare la posizione delle amministrazioni dello Stato significa rendersi
conto che, per la dominanza assunta da quelle del secondo e del terzo tipo, lo Stato ha
accentuato il carattere, che prima aveva solo in parte, di azienda di attività terziaria …”.
Non a caso il Rapporto si sofferma in modo particolare sull’introduzione
nell’organizzazione pubblica di logiche aziendalistiche, di metodi di analisi disaggregata
della spesa, di procedure contrattuali più efficienti, di un ampio processo di semplificazione
delle norme di contabilità e di procedimenti di tipo privatistico. Il Rapporto si soffermava
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anche sulla necessità di rivisitazione dei raccordi Stato-regioni nel quadro di una lettura più
moderna della Costituzione che sottolineasse le implicazioni reciproche nelle attività di
programmazione e, in genere, nella cura degli interessi pubblici; di decentramento dello
Stato, inteso come un adeguamento degli uffici periferici secondo una logica che facesse del
Commissario di governo lo snodo di ogni attività statale nell’ambito regionale; di
ristrutturazione del potere centrale, con la riorganizzazione della Presidenza del Consiglio e
degli apparati centrali del governo e delle amministrazioni; di ristrutturazione del sistema
dei controlli, segnalando l’opportunità di maggiore attenzione ai controlli di efficacia e di
efficienza.
Si aggiungevano, poi, riflessioni rilevanti sulle aziende autonome, sugli enti parastatali,
sugli enti pubblici nazionali e sulla giustizia amministrativa.
L’estrema coerenza tra le diverse parti in cui è articolato il Rapporto Giannini
rappresentava una indicazione in sé sulla necessità che le riforme prefigurate fossero
introdotte con interventi legislativi unitari e non certo sporadici e settoriali, come al
contrario accaduto fino agli anni 90.
Negli ultimi anni, il processo di riforma è stato affrontato, volutamente e
consapevolmente, unitariamente ed ha riguardato molte delle questioni poste nel Rapporto.
Come, inoltre, rilevato, nel rapporto Giannini è dedicata un’attenzione particolare ai
controlli di efficienza, in una prospettiva che, specialmente se letta nel contesto complessivo
del rapporto, assume chiaramente il valore di una riflessione sugli strumenti più idonei e più
moderni per regolare e verificare le attività delle amministrazioni.
Fino a tempi recenti, quelle riflessioni hanno costituito un’indicazione preziosa sui limiti
del tradizionale controllo di legittimità e hanno evidenziato con grande lucidità la necessità
di individuare nuove forme di controllo capaci di assicurare l’efficienza e l’efficacia
dell’attività amministrativa, nonché nuove forme di regolazione dell’attività amministrativa.
3 - Nelle conclusioni del Rapporto si richiede una sollecita attivazione delle funzioni di
indirizzo e programmazione del Parlamento, indicando quali strumenti privilegiati per gli
interventi di riforma gli atti normativi governativi e gli atti organizzativi interni
dell’Amministrazione, ma allo stesso tempo espressamente prefigurando innovazioni
legislative sugli enti di interesse nazionale, sul riordino dei “Ministeri di azienda”, sulla
Corte dei Conti e, soprattutto, sulle norme “regolative dell’azione amministrativa”.
Con riferimento alla riforma della dirigenza e del pubblico impiego, inoltre, si sottolinea
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la necessità di una legge quadro, che consenta una certa concertazione con i sindacati,
attraverso accordi sindacali.
Il processo di riforma in corso ha in buona misura tenuto conto delle indicazioni del
Rapporto di venti anni fa, anche se ha utilizzato lo strumento legislativo in modo elettivo.
Probabilmente, il legislatore ha nutrito una profonda sfiducia sulla capacità dei governi di
attuare riforme sulla base di indirizzi generali, ed ha nel tempo cercato di ridurre, per quanto
possibile, gli ambiti di discrezionalità organizzativa delle amministrazioni, irrigidendo la
gestione stessa.
La diffusa utilizzazione, soprattutto negli ultimi anni, delle leggi delega e dei decreti
legislativi, con l’introduzione di norme di delegificazione, sembra, peraltro, aver provocato
una eccessiva produzione di atti normativi, sia pure di rango secondario.
Tanto diverso è oggi l’assetto delle organizzazioni e dei poteri pubblici, rispetto al tempo
del Rapporto, quanto uguale rimane la necessità di affrontare con determinazione le nuove
emergenze; ciò presuppone l’acquisizione di elementi conoscitivi sull’attuale stato delle
Amministrazioni, che con il presente rapporto introduttivo si vuole favorire.
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II – LE MODIFICAZIONI DI CONTESTO.
L’Amministrazione pubblica non può più consentirsi di non aver conto, sia per gli aspetti
organizzativi, sia, e soprattutto, per l’ambito e le modalità della sua azione, delle
modificazioni del sistema sociale e produttivo, dovendo divenire un fattore di sviluppo
nell’interesse della collettività, e non causa di diseconomie, al fine di perseguire i valori di
cui agli articoli 2 e 3 della Costituzione.
In tal senso devono essere lette le riflessioni che seguono, quale contributo iniziale atto a
segnalare la suddetta esigenza di “contestualizzazione” delle organizzazioni pubbliche.
1. Nel Rapporto Giannini non vi è una specifica attenzione al raccordo fra
Amministrazione italiana e sistema europeo.
I riferimenti, ampi e approfonditi, ad esperienze straniere (come quelli al Civil Service,
per quanto riguarda la formazione, e quelli riferiti all’esperienza inglese e francese, per
quanto riguarda l’organizzazione della Presidenza del Consiglio e del Governo) hanno una
funzione di comparazione fra diversi ordinamenti, ma non danno alcun rilievo alla comune
appartenenza all’Unione europea (allora Comunità europee).
La “questione amministrativa” è diventata obiettivamente una “questione europea”, nel
senso che è sempre più diffusa la convinzione che non sia ininfluente per un Paese
dell’Unione (né per l’Unione stessa) il modo in cui sono organizzate le amministrazioni
degli altri Paesi e il modo col quale esse operano.
Questa modificazione di contesto merita di essere sottolineata per diversi motivi.
L’Italia è stata in questi anni all’avanguardia nel sottolineare le esigenze di una sempre
più stretta integrazione fra le diverse amministrazioni europee. I Ministri della Funzione
pubblica italiani hanno più volte posto in questi anni il problema di sviluppare la prassi di
incontri fra i Ministri della Funzione pubblica dei quindici Paesi, per costruire nei fatti una
sorta di informale Consiglio europeo della Funzione pubblica.
L’esigenza di raccordi fra le diverse amministrazioni è oggi ammessa da tutti i Paesi
membri dell’Unione, ma resta aperta la discussione (assai interessante e importante) se la via
migliore per strutturare tale raccordo sia quella, preferita anche dai francesi, di individuare
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standard minimi di prestazioni che tutte le amministrazioni si impegnano a raggiungere
(quello che talvolta si definisce come Maastricht delle amministrazioni) o operare invece sul
terreno della concorrenza fra le diverse amministrazioni e sullo scambio delle esperienze
reciproche, nella convinzione che in questo modo le migliori pratiche si imporranno
automaticamente per effetto della concorrenza e dell’imitazione (sostanzialmente quello che
talvolta si vuole indicare come better administration o better practices).
La Funzione pubblica italiana, in tal senso, ha previsto come “normale” la possibilità che
funzionari italiani possano svolgere significative esperienze all’estero nell’ambito di scambi
con funzionari di altri Paesi, anche attraverso la Scuola Superiore della Pubblica
Amministrazione, con forme di collaborazione nella predisposizione di attività formative
insieme alle altre analoghe istituzioni degli altri Paesi dell’Unione.
L’importanza del processo di integrazione europea spinge a sviluppare un’azione di
modernizzazione dell’amministrazione italiana aperta alla ricerca di contatti e di rapporti
strategici con le amministrazioni degli altri Paesi.
2. Anche il sistema economico italiano si è negli ultimi venti anni profondamente
modificato. Dagli inizi degli anni '80 ha cominciato ad affrontare con sistematicità il
problema dello sviluppo economico e del controllo dell'inflazione, attraverso una intensa
politica di ristrutturazione industriale accompagnata da una sostenuta strategia di
investimenti in tecnologie avanzate che ha dato un importante impulso ai settori
dell'elettronica, dell'informatica e della chimica. Si è assistito così ad un periodo di crescita
sostenuta, con tassi paragonabili a quelli degli anni sessanta e resa possibile anche da una
costellazione di condizioni 'esterne' favorevoli tra cui soprattutto i bassi costi degli
approvvigionamenti energetici.
Malgrado i risultati ottenuti dall'economia italiana lungo tutti gli anni ottanta, la
recessione mondiale dei primi anni novanta si è fatta sentire anche in Italia. Sotto i governi
Amato e Ciampi è stato varato un rigoroso piano di stabilizzazione e di consolidamento
strutturale dell'economia, principalmente su obiettivi di controllo della dinamica del debito
pubblico, di bassa inflazione, di stabilizzazione verso il basso dei tassi di interesse e di
riduzione del deficit di bilancio.
Nel 1992 si è, dopo una lunga contrattazione con i sindacati, abolita la scala mobile,
sostituita da un sistema di concertazione basato su revisioni salariali periodiche vincolate dal
tasso di inflazione programmata. La concertazione ha prodotto in breve tempo sensibili
effetti macroeconomici in termini di stabilizzazione del livello dei prezzi: alla fine del 1993,
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anche a seguito della recessione economica, l'inflazione è tornata al 4,1%, riavvicinandosi
per la prima volta ai livelli della fine degli anni sessanta. Anche le misure di contenimento
della crescita del debito pubblico hanno prodotto risultati, con una conseguente discesa del
costo del debito che, unita ad una politica di razionalizzazione della struttura delle imposte e
della pressione fiscale, hanno contribuito ulteriormente alla stabilizzazione dell'economia.
Allo sforzo di ristrutturazione della grande impresa italiana si è accompagnata una
notevole crescita della piccola e media industria, favorita dal deprezzamento della lira e
dalle migliori condizioni di accesso al credito. La vivacità e la competitività della piccola e
media impresa ha, senza alcun dubbio, contribuito a contenere significativamente il
rallentamento della crescita economica prodotto dalla depressione dei primi anni novanta,
nonché a determinare saldi attivi della bilancia dei pagamenti. La ristrutturazione e la
razionalizzazione dell'economia è stata ulteriormente stimolata dalla definitiva integrazione
commerciale e monetaria all'interno della Comunità Europea: il rispetto dei parametri di
convergenza economica stabiliti dal trattato di Maastricht come precondizione necessaria
all'unificazione monetaria ha notevolmente favorito la contrattazione tra le parti sociali,
influenzando buona parte dei potenziali fattori di resistenza strumentale alla politica di
ristrutturazione economica.
La dinamica della disoccupazione ha cominciato ad assumere caratteristiche preoccupanti
all'inizio degli anni novanta per consolidarsi gradualmente su livelli sempre più elevati, con
un ulteriore inasprimento delle disuguaglianze territoriali. Preoccupante appare il fenomeno
della disoccupazione giovanile, soltanto parzialmente contrastato dalla diffusione del lavoro
interinale e dal ricorso a nuove forme di facilitazione occupazionale, quali i contratti di
formazione. Si assiste peraltro ad una sostenuta crescita dell'economia sommersa che in
alcune zone del sud raggiunge, secondo alcune stime, dimensioni quasi paragonabili a quelle
dell'economia ufficiale.
Un altro importante elemento di analisi è il significativo declino della natalità, che si
consolida progressivamente lungo tutti gli anni novanta con serie implicazioni in termini di
sostenibilità previdenziale e con i suoi effetti depressivi impliciti in termini di contrazione
della domanda interna di beni e servizi.
La nuova immigrazione trova una sua collocazione naturale nei mercati del lavoro
'marginali' caratterizzati da bassi salari e da una domanda di manodopera generica e non
qualificata, ma diviene anche in parte oggetto di interesse da parte della criminalità
organizzata o dei circuiti locali della micro-criminalità.
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Di grande rilievo anche la politica di privatizzazione che ha interessato larghi settori
dell'economia italiana, da quello bancario e assicurativo alle public utilities, resa possibile
anche da una sempre maggior propensione dei risparmiatori italiani (tradizionalmente
'conservatori' e orientati all'investimento immobiliare, al risparmio bancario e postale, ai
titoli del debito pubblico a breve scadenza) verso forme più sofisticate di diversificazione
dei portafogli, come la partecipazione azionaria e i fondi di investimento, con un
conseguente consolidamento del mercato azionario. Il sistema delle grandi holding di stato è
stato così soggetto ad una progressiva dismissione, che non esclude tuttavia una presenza
ancora massiccia del settore pubblico negli assetti proprietari e nella governance dei nuovi
soggetti economici conseguenti alla privatizzazione.
Peraltro, lo scenario degli ultimi anni è dominato dalla logica dei processi di
concentrazione economica indotti dalla globalizzazione dei mercati, soprattutto in alcuni
settori strategici quali l'informatica, le telecomunicazioni ed il settore bancario. Il
posizionamento strategico dell'economia italiana nei nuovi mercati è reso complicato dalla
trascurata attenzione allo sviluppo professionale e dalla discontinuità delle politiche di
potenziamento tecnologico e infrastrutturale, che danneggiano sensibilmente la competitività
dei sistemi produttivi locali. All’interno di un'ottica internazionale di decisioni di
investimento, sempre più focalizzate su una logica comprensoriale, anche le nuove frontiere
aperte dalla diffusione di Internet e dalle conseguenti potenzialità del commercio elettronico
trovano l'Italia in un consistente ritardo di pianificazione strategica, di posizionamento e di
sviluppo di una cultura d'impresa al passo con le nuove sfide economiche.
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III – IL RIORDINO DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE.
1.
LE RIFORME DEGLI ANNI ’90.
Gli anni '90 risultano caratterizzati dalla particolare attenzione riservata dal legislatore
all’Amministrazione pubblica, rinvenendosi numerosi interventi normativi diretti a
soddisfare l'esigenza di un radicale e profondo rinnovamento delle regole di azione, di
gestione e di organizzazione dei pubblici poteri.
La cronica inefficienza degli apparati pubblici, gli sprechi e la cattiva gestione delle
risorse, umane e materiali, aveva raggiunto dimensioni che rendevano indifferibili ed urgenti
interventi riformatori. D’altra parte, si era ampiamente rafforzata nei cittadini l'immagine di
una macchina amministrativa lenta, vischiosa ed eccessivamente burocratizzata, con
procedure oscure e dai tempi incerti e con netta spersonalizzazione dell'apparato.
L'amministrato non era in grado di conoscere lo stato del procedimento né di comprendere la
natura degli adempimenti e la ragione dei ritardi.
Occorreva, dunque, innescare una vera e propria "rivoluzione copernicana" che
assicurasse la trasparenza e la comprensibilità delle dinamiche dell'azione amministrativa,
rendendone certi e celeri i tempi, conoscibili i soggetti e gli atti, semplificati gli
adempimenti, efficienti gli apparati, e che, dunque, sintetizzasse la "nuova cultura" a cui
doveva essere ispirata l'amministrazione della cosa pubblica, l'azione e l'organizzazione dei
pubblici poteri, e i rapporti tra questi ed i cittadini.
La legislazione degli anni '90 ha posto le basi per lo sviluppo di tale "nuova cultura",
elevando anzitutto il conseguimento e l’ottimizzazione del risultato a principio e regola
dell'agire dei pubblici poteri.
L'amministrazione pubblica deve pervenire a decisioni di qualità, che esprimano
l'adeguatezza della scelta compiuta ai canoni fondamentali che orientano la relativa azione.
Tali canoni vanno ricercati non solo nella legalità, ma anche e soprattutto nella economicità,
nella efficienza ed efficacia, nonché nella speditezza e celerità, nella trasparenza e nella
semplificazione.
L’opera di riassetto e di semplificazione ha riguardato non solo l’attività della P.A, ma
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anche le fonti, l'organizzazione, il regime del rapporto di lavoro, la documentazione e la
comunicazione pubblica, con interventi normativi che hanno inciso, direttamente o
indirettamente, su tutti gli aspetti della macchina amministrativa.
In particolare, con la legge 7 agosto 1990, n. 241, vengono fissati i principi a cui deve
essere ispirata l'azione dei pubblici poteri. A tal fine, essa richiama, anzitutto, non solo
l'esigenza di legalità, ma anche i criteri di economicità, efficacia e pubblicità, insieme a
quelli di pubblicità, trasparenza e democraticità, in virtù dei quali le dinamiche dell’attività
amministrativa mirano tendenzialmente ad aprirsi agli interessati, assumendo i contorni della
“casa di vetro” di origine anglosassone.
A tal fine, si rendono visibili sia le dinamiche procedimentali e i sistemi di gestione
dell’istruttoria, mediante il diritto di partecipazione e le norme sul diritto di accesso agli atti
ed ai documenti amministrativi e sia le figure soggettive che operano per la P.A. e la
esprimono nei rapporti con il cittadino, assumendo la veste di responsabile del procedimento
amministrativo.
Si cerca, così, di assicurare la “certezza dei tempi” dell’azione amministrativa, attraverso
la previsione di termini di durata massima dei procedimenti, e si mira a realizzare una prima
importante opera di semplificazione procedimentale, snellendo il sistema di acquisizione
degli interessi pubblici in virtù del ricorso alla conferenza di servizi, ad un più agevole
sistema di acquisizione di saperi specialistici (pareri e valutazioni tecniche), ad una
consistente opera di liberalizzazione di attività private in precedenza assoggettate ad un
previo provvedimento autorizzatorio in funzione permissiva.
Per garantire la piena attuazione del modello delineato dalla legge 241/90 si sono imposti
numerosi interventi successivi, tra cui vanno ricordati quelli attuati con il d. leg.vo 3
febbraio 1993, n. 29, contenente norme di riorganizzazione delle pubbliche amministrazioni
dirette a perseguire migliori livelli di efficienza e a tenere sotto controllo la spesa del
personale.
Misure di semplificazione dei procedimenti amministrativi e di miglioramento
dell’efficienza della P.A. si rinvengono nel d.l. 12 maggio 1995, n. 163, convertito. con
modificazioni in legge 11 luglio 1995, n. 273, che ha introdotto, tra l’altro, regole di qualità
dei servizi pubblici, imponendo l’adozione di “carte dei servizi pubblici”.
Sempre negli anni ’90 si comincia ad attuare l’art. 5 della Costituzione con un complesso
intervento sull’ordinamento degli enti locali e sull’assetto dei poteri amministrativi.
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Sembra farsi strada l’idea che la crescente domanda di partecipazione alla vita
amministrativa da parte dei cittadini possa essa soddisfatta solo attraverso la
riorganizzazione delle amministrazioni
esponenziali dei loro interessi. In tal senso
sembrano dirette la legge 8 giugno 1990, n. 142, di riforma del sistema delle autonomie
locali, la legge 15 maggio 1997, n. 127 e la legge 3 agosto 1999, n. 265.
Ne è derivato un sistema in cui risulta, almeno sul piano giuridico, particolarmente
sviluppata l’autonomia dell’ente locale, ricomprendente non solo quello statutaria ed
organizzativa, ma anche quella normativa, amministrativa, impositiva e finanziaria; risultano
accentuati i momenti di partecipazione popolare, ridefiniti i ruoli del consiglio comunale,
delle Province, delle comunità montane, delle città metropolitane e lo status giuridico ed
economico degli amministratori locali.
Peraltro, il rapporto tra Stato ed enti territoriali risulta profondamente innovato dalla
legge 15 marzo 1997, n. 59, che ha delineato un ampio disegno di decentramento dei poteri,
con conferimento di funzioni e compiti amministrativi alle Regioni e agli enti locali ispirato
al principio di sussidiarietà. In particolare, è stato affermato il principio che “tutte” le
funzioni e i compiti amministrativi relativi alla cura degli interessi e alla promozione dello
sviluppo delle rispettive comunità, nonché tutte le funzioni e i compiti amministrativi
localizzabili nei rispettivi territori in atto esercitati da qualunque organo o amministrazione
dello Stato siano conferite alle Regioni e agli enti locali. Allo Stato residuerebbero
esclusivamente quelle funzioni e quei compiti riconducibili alle materie specificamente
individuate dalla stessa legge e corrispondenti, per lo più, ai settori statali tradizionali (affari
esteri, difesa, giustizia, e così via).
L’attuazione, riguardante il suddetto profilo, della L. n. 59 del 1997 è stata demandata
al d.leg.vo 31 marzo 1998, n. 112, e ad altri decreti legislativi di settore, con previsione di
trasferimento dei beni e delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative
necessarie, anche se in concreto il processo di conferimento non ha ancora prodotto effetti
significativi.
Gli anni ’90 si caratterizzano anche per la “fuga dall’ente pubblico”. Il sistema degli enti
pubblici è stato interessato da una consistente opera di privatizzazione, sviluppatasi
attraverso la trasformazione formale degli enti pubblici economici in società per azioni e la
dismissione del sistema delle partecipazioni statali, ancora in atto.
Alla privatizzazione si è accompagnato un ampio disegno di esternalizzazione dei servizi
pubblici locali, gestiti non più direttamente dall’ente pubblico e con le rigide procedure
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pubblicistiche. Essi sono stati portati all’esterno della organizzazione pubblica ed affidati a
società di capitali a prevalente o anche minoritaria partecipazione pubblica, che agiscono ed
operano con i più agevoli strumenti privatistici.
Il processo di privatizzazione, nel momento in cui ha comportato la rinuncia dello Stato al
precedente ruolo di gestore diretto o indiretto di imprese, ne ha accresciuto la sua capacità
regolativa, trasformandolo da “Stato-padrone” a “Stato-regolatore”. Occorreva, del resto,
garantire il cittadino dal rischio di abusi proprio nei settori dei servizi di pubblica utilità. Di
qui, la istituzione di una Autorità indipendente di regolazione di tali servizi realizzata con
legge 14 novembre 1995, n. 481.
In effetti, gli anni ’90 sono stati caratterizzati anche dalla nascita di ulteriori Autorità
amministrative indipendenti in settori in cui risultava particolarmente sentita l’esigenza di
tutelare il cittadino.
La razionalizzazione della organizzazione della P.A. si è realizzata anche attraverso
interventi incidenti sui profili interni e, quindi, sulla strutture e sul regime del rapporto di
lavoro.
Il decreto n. 29 del 1993, più volte successivamente modificato ed integrato, era nato e si
era sviluppato in vista di simili obiettivi, avendo cercato, come detto, di ridefinire il sistema
ed i criteri di organizzazione degli uffici pubblici secondo regole di efficienza, efficacia ed
economicità, di flessibilità, di imparzialità e trasparenza, valorizzando un modello
organizzativo orientato a fornire risultati adeguati.
La legge 59 del 1997 ha proseguito secondo questo indirizzo, demandando al Governo il
compito di razionalizzare l’ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri e dei
Ministeri, anche attraverso il loro riordino, soppressione e fusione; di rivedere e potenziare i
meccanismi di monitoraggio e di valutazione dei costi, dei rendimenti e dei risultati
dell’attività svolta dalla P.A.
In attuazione di tale delega, sono stati, di recente, adottati il d. leg.vo 30 luglio 1999, n.
300, con cui è stata riformata l’organizzazione del Governo e il d. leg.vo 30 luglio 1999, n.
303, di riforma della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Quest’ultima riforma, già richiesta nel Rapporto Giannini, mira a realizzare le condizioni
più idonee ad assicurare l’unità di indirizzo politico e amministrativo del Governo e il
potenziamento del ruolo di impulso, indirizzo e coordinamento del Presidente del Consiglio
dei Ministri.
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Regole per il riordino ed il potenziamento dei meccanismi di monitoraggio e valutazione
dei costi, dei rendimenti e dei risultati dell’attività delle P.A. sono state dettate, come sarà
specificato in seguito, con il d. leg.vo 30 luglio 1999, n. 286.
2.
LA SUSSIDIARIETA’
Tra i principi fondamentali ispiratori delle riforme un ruolo particolare è svolto da quello
di “sussidiarietà”.
Esso ha valenza, oltre che giuridica, anche sociale e politica, ed esprime una specifica
concezione del rapporto tra individuo, Stato e società.
Inteso in senso verticale, esso è operante nei rapporti tra enti territoriali ai vari livelli di
‘governo’, imponendo la delocalizzazione dei poteri ai soggetti pubblici maggiormente
vicini all’interesse di cui sono portatori.
Nei rapporti tra pubblico e privato (in senso orizzontale), la funzione sussidiaria opera
come deferimento all’autonomia privata dei compiti e delle funzioni per il cui esercizio non
sia strettamente necessario alcun intervento autoritativo.
La sussidiarietà diviene, così, limite posto all’intervento dei poteri centrali rispetto a
quelli periferici o territoriali, ma anche dei poteri pubblici in favore di quelli privati, che si
esprimono attraverso lo strumento della autonomia privata, anche contrattuale e d’impresa.
Evidente è il collegamento tra tale modo di intendere la sussidiarietà e le recenti tendenze
alla deregulation ed alla contestuale ri-regolamentazione che ha caratterizzato la legislazione
degli ultimi anni. Il progressivo affidamento all’autonomia privata di settore prima
interessati dall’intervento pubblico genera conseguenti necessità di nuova regolamentazione,
intesa anche e soprattutto come regolazione del sistema di mercato.
Il principio di sussidiarietà comporta, dunque, una riqualificazione delle funzioni sia dello
Stato, sia dell’autonomia privata - la quale si orienta a fini sociali, e negli stessi potrebbe
trovare ulteriori (o anche solo diversi) limiti al suo esplicarsi – sia del “modo di fare
impresa”, specialmente attraverso il mondo degli enti non commerciali e delle
organizzazioni non lucrative.
Se, infatti, i precetti costituzionali di solidarietà e uguaglianza, nonché di orientamento
sociale della iniziativa economica e della proprietà privata, non debbono necessariamente
essere realizzati mediante un intervento diretto dello Stato nella economia, ma possono
15
essere perseguiti attraverso lo svolgimento dei poteri privati, ancorché limitati e orientati
mediante “regolazione” da parte dei pubblici poteri, allora occorrerà chiedersi se
l’autonomia privata, da potere libero, non diventi in questo modo funzione, essendole
attribuito un compito, ovverosia quello di realizzare gli scopi “dismessi” dai pubblici poteri.
Se, ed in quanto “funzionalizzata”, essa sembra conformarsi con diverse delimitazioni di
carattere generale ed interno all’esercizio del diritto: non solo quelli previsti specificamente
dalle leggi che (ri)regolamentano determinati settori, bensì ulteriori, come quello della
solidarietà di cui il principio di sussidiarietà sembra espressione.
3.
LA SEMPLIFICAZIONE
1 - Il Rapporto descrive, come già rilevato, uno Stato che si occupa (male) di troppe cose;
che non sa quel che fa e come lo fa; con tanti procedimenti complicati, lunghi, sovrapposti
gli uni agli altri; uno Stato che il cittadino sente come ostile.
Questa diagnosi è ancora attuale. La burocrazia tende a sfuggire alle proprie
responsabilità, coprendosi con la legge. Quando la legislazione è oscura e contraddittoria è
l’Amministrazione che ne decide l’interpretazione, e quindi l’applicazione o meno.
La semplificazione delle regole si impone anche per altre ragioni.
Se l’Amministrazione deve essere al servizio del cittadino, non può prescindere
dall’efficienza: e senza semplificazione non ci può essere, evidentemente, efficienza.
L’amministrazione è la “Costituzione” del quotidiano. Il buon funzionamento del sistema
amministrativo è condizione necessaria per la tutela e la garanzia effettiva dei diritti dei
cittadini e, quindi, la democrazia passa anche dalla semplificazione.
Le complicazioni costano e, quindi, la semplificazione libera risorse per altri compiti.
Per semplificare le regole esistenti il Governo ha a disposizione i regolamenti delegati
di semplificazione e i testi unici, disciplinati, questi ultimi, dalla prima legge annuale di
semplificazione. La quale testimonia della necessità di una attenzione vigile e costante nel
tempo, perché non basta semplificare l’esistente: occorre anche prevedere meccanismi che
evitino inutili complicazioni nelle nuove regole.
Come ricorda il Rapporto, negli anni settanta è stato fatto (a rate) il trasferimento delle
funzioni amministrative dei ministeri alle regioni a statuto ordinario, ma non il riordino delle
funzioni e delle strutture statali. Il Governo è impegnato a farlo oggi in sede di attuazione
16
della legge n.59 del 1997 e del decreto n. 112.
Anche la riforma dei ministeri è adempimento recente e la semplificazione organizzativa
degli uffici statali, che doveva attuarsi in concomitanza con l’entrata in funzione delle
regioni ordinarie, può finalmente partire.
Come è noto, il Senato discusse il Rapporto approvando, il 10 luglio 1980, una direttiva
in cui si chiedeva una riconsiderazione della “complessa, macchinosa, e talvolta incoerente
disciplina del procedimento amministrativo”, secondo queste linee di fondo: 1)
delegificazione, affidando alla legge il compito di fissare principi e criteri, lasciando alle
fonti sub-primarie la disciplina completa; 2) semplificazione, eliminando nella misura
massima possibile l’obbligatorio concorso di pluralità di centri di pubblico potere.
Questi principi hanno avuto ampio seguito normativo, come già rilevato. In questo
settore, dunque, non c’è necessità di nuove regole del Parlamento. Oggi, pertanto, l’impegno
prioritario è quello di far diventare cultura ed impegno dell’Amministrazione (nonché dei
sindacati e delle Autonomie) un disegno concepito e realizzato fuori dall'Amministrazione.
Anche in tema di semplificazione documentale le regole ci sono e l’impegno, oggi, deve
essere quello di passare dalle parole ai fatti, accelerando il più possibile l’inserimento in rete
delle banche dati pubbliche per agevolare i necessari controlli, senza dei quali è troppo alto
il rischio di abusi nelle autocertificazioni.
L’impegno del Governo va nella direzione di una attenta e costante opera di monitoraggio
sull’applicazione della nuova normativa per allontanare sempre di più l’immagine dello
Stato come “creatura ambigua, irragionevole, lontana”.
D’altra parte, non è attribuibile al legislatore la negativa circostanza della non attuazione
di gran parte delle norme sulla semplificazione. Le regole ci sono, ma non basta prevedere,
occorre provvedere. La semplificazione, come si usa dire, non è un evento, ma un processo:
l’evento delle regole si è realizzato, ora ci vuole la loro attuazione, accompagnata da una
capillare opera di comunicazione verso gli uffici che la devono prima proporre e poi attuare,
mettendo in conto che non ci si può attendere risultati significativi nel tempo breve, anche
perché non esiste un modello unico di semplificazione, dovendosi, di volta in volta, cercare
la soluzione adeguata ai tanti, diversi casi.
2 - La centralità, nel sistema complessivo dell'azione amministrativa, delle gare pubbliche
per l'affidamento di lavori, e così per l'acquisizione di beni e servizi è di tutta evidenza, ed
anche in tale ambito rimane determinante un’attenta opera di semplificazione, resa
17
significativamente più problematica in ragione dei delicati interessi sottesi.
E' sufficiente, al riguardo, considerare il rilievo dei flussi finanziari coinvolti nell'attività
contrattuale delle pubbliche amministrazioni e le ricadute di questo specifico comparto sul
versante dell'occupazione e, più in generale, sullo stessa crescita del sistema economico. Sul
piano più strettamente giuridico-normativo, il settore di azione amministrativa relativo alle
procedure di gara è verosimilmente quello al quale la normativa comunitaria ha prestato la
maggiore attenzione, nell'intento di assicurare a tutti gli interessati la possibilità di
parteciparvi in condizioni di parità con le imprese di nazionalità dello Stato in cui la gara è
bandita. Del resto, l'art. 130 F del Trattato Cee, introdotto dall'Atto unico europeo del 17
febbraio 1986, ha espressamente posto alla Comunità l'obiettivo di garantire alle imprese la
possibilità di "sfruttare appieno le potenzialità del mercato interno della Comunità grazie, in
particolare, all'apertura degli appalti pubblici nazionali". E' giusto allora rilevare come la
stessa legge quadro sui lavori pubblici n. 109 del 1994, al di là della specifica disciplina
nazionale di recepimento delle direttive comunitarie relative ai diversi comparti dei lavori,
dei servizi e delle forniture, attua essa stessa le norme essenziali del diritto comunitario, nel
medesimo tempo raccordandole con i valori costituzionali di imparzialità e buon andamento
dell'amministrazione e con la libertà di iniziativa economica. In definitiva, essa racchiude i
principi fondamentali del sistema, suscettibili della massima espansione in sede
interpretativa. In questo contesto la possibilità di intervento di semplificazione deve essere
riguardata alla luce delle regole generali dell'evidenza pubblica, per come appunto
disciplinate dalla richiamata normativa, atteso che l'iter che conduce alla scelta del privato
contraente con la pubblica amministrazione rimane tipico e funzionalizzato, e quindi
intrinsecamente estraneo al fisiologico procedimento di formazione del contratto di diritto
comune, caratterizzato dall'ampia autonomia dei soggetti che partecipano alle trattative. Di
contro, il rispetto di precise procedure di scelta, rivenienti dalle regole dell'evidenza
pubblica, è idoneo ad annullare o comunque a ridurre il rischio di parzialità.
Particolare rilievo assumono, allora, quelle previsioni normative che, senza contraddire
l'impianto ora delineato, risultano espressamente finalizzate a semplificare le procedure di
gara. Il riferimento è, innanzitutto, alla licitazione privata semplificata in tema di lavori
pubblici, di cui all'art. 23 della legge quadro sui lavori pubblici, che in ragione della soglia di
applicabilità prevista potrà risultare di particolare interesse, in particolare, per le
amministrazioni di medie e piccole dimensioni, ma anche all'introduzione nel nostro
ordinamento dell'istituto della cd. forcella, relativamente alle licitazioni private ed agli
appalti concorso in tema di pubbliche forniture. Una valenza semplificatoria più generale è
18
poi rivestita dalle disposizioni espressamente finalizzate all'adeguamento della funzionalità
della pubblica amministrazione, di cui all'art. 7 della già citata legge quadro sui lavori
pubblici. Ci si riferisce alla figura del responsabile del procedimento, individuato quale
unico soggetto cui imputare le complessive fasi che conducono infine all'attuazione degli
interventi pubblici ed al potenziamento dell'istituto della conferenza di servizi, quale
strumento di pronta e sollecita composizione dei più interessi pubblici coinvolti nella
realizzazione di un determinato intervento.
Non pare dubbio, però, che il sistema contrattuale e le stesse procedure di scelta del
contraente possano essere significativamente semplificate o addirittura deregolamentate
quando si è al di sotto della soglia di interesse comunitario. Un esempio in tal senso è
costituito dall’art. 3, comma 1 ter, del d. lgs. 502 del 1992, come novellato dal d. lgs. 229
del 1999, che affida alle norme di diritto privato la disciplina dei contratti di fornitura e
servizi, sotto soglia, delle aziende sanitarie.
4.
IL CONFERIMENTO DI FUNZIONI E COMPITI A REGIONI ED ENTI LOCALI
E’ giudizio unanimemente condiviso che l’Italia è ancora uno Stato sostanzialmente
accentrato, al di là delle sue grandi tradizioni municipali e della sua ripartizione in Regioni
prevista cinquant’anni fa nella Costituzione e realizzata su tutto il territorio nazionale da
quasi trent’anni.
Province e Comuni non hanno avuto e non hanno ancora adeguate risorse per curare
efficacemente gli interessi delle loro popolazioni e promuoverne lo sviluppo. La istituzione
delle Regioni, d’altra parte, non è stata accompagnata, nel 1970, dal riordino delle funzioni e
delle strutture statali.
Con le leggi 59 e 127 del 1997 si è, finalmente, messo in moto un meccanismo che dovrà
portare a un generale riordino delle funzioni pubbliche, verificando quali sopprimere, quali
affidare alla società civile, quali svolgere in periferia e quali al centro. Non si tratta dunque
del terzo trasferimento di funzioni amministrative verso regioni ed enti locali, ma di
un’operazione molto più ambiziosa e radicale, nuova tappa, come è stato detto, nel percorso
istituzionale italiano.
Il regionalismo garantista è ormai definitivamente tramontato, e già il Rapporto segnalava
che “il quadro è ormai quello di implicazioni reciproche, nelle attività di programmazione e
in genere di interessi pubblici”. Dopo vent’anni quel giudizio va confermato, con in più la
19
necessità di raccordare le politiche pubbliche, statali e regionali, con quelle portate avanti
dall’Unione Europea.
Di qui l’opportunità di una sede autorevole come quella della
Conferenza (Stato-Regioni; Stato-enti locali; unificata) che ha lo scopo di garantire la
partecipazione delle autonomie a tutti i procedimenti di loro interesse e che, almeno due
volte l’anno, si riunisce in apposita sessione c.d. comunitaria.
Terzo passo avanti già realizzato è quello del superamento del sistema binario: se ci sono
funzioni e compiti da svolgere a livello regionale, questi vengono “conferiti” alle regioni,
anche se sono fuori delle materie di competenza legislativa. Tra l’altro, le competenze
amministrative regionali estese alle materie di competenza legislativa statale sono un
rilevante fattore di cooperazione fra Stato e Regioni, come l’esperienza tedesca sta a
dimostrare.
Le regioni possono, sia pur limitatamente, intervenire nei processi decisionali comunitari
e possono dare diretta attuazione a regolamenti e direttive nelle materie di loro competenza.
Il conferimento è, peraltro, effettuato “nell’osservanza del principio di sussidiarietà”, ai
sensi dell’art. 1, co. 2, l. n. 59 del 1997, inteso come opzione per la massima possibile
vicinanza dell’amministrazione al cittadino, secondo modalità implicanti attribuzione di
“responsabilità pubbliche anche al fine di favorire l’assolvimento di funzioni e di compiti di
rilevanza sociale da parte delle famiglie, associazioni e comunità, alla autorità
territorialmente e funzionalmente più vicina ai cittadini interessati” (art. 4, co. 3, lett. a, l.
59); esso, dunque, impone una più ampia valorizzazione del ruolo di enti anche diversi da
quelli territoriali (può trattarsi di enti pubblici di tipo diverso, quali le Camere di Commercio
-enti locali ma non territoriali- o di enti anche privati, talora di interesse pubblico, ed anche
rappresentativi di interessi collettivi -ad es. sindacati, associazioni di protezione ambientale
o di consumatori).
In ogni caso, molta è ancora la strada da percorrere perché il riordino di tutte le funzioni
pubbliche è solo fissato, per ora, in una legge di delega ed anche la sua più corposa
attuazione (decreto n.112 del 1998) è, per così dire, nel limbo, giacché i conferimenti ivi
previsti non sono ancora operativi, in quanto attendono la determinazione delle risorse che li
devono accompagnare.
Inoltre, se le deleghe saranno attuate con l’ampio respiro che i principi e i criteri direttivi
del Parlamento sottendono, resta pur sempre l’interrogativo sulla concreta capacità di
Regioni, Province e Comuni di attendere efficacemente ai nuovi computi. Certamente, il
mero avvicinamento dei compiti e dei poteri non importa di per sé un miglioramento
20
dell’efficienza della pubblica amministrazione, se pure può favorirla; ma, come si legge nel
Rapporto, “la difficoltà del provvedere non è giustificazione del ritardare”.
5.
LE PRIVATIZZAZIONI DELLE AZIENDE PUBBLICHE
Nell’ordinamento post costituzionale l’intervento pubblico nell’economia si è sviluppato,
nel tempo, attraverso diverse forme sempre più modellate su esperienze del sistema
economico privato: si è passati dalle aziende pubbliche (statali e municipalizzate), agli enti
pubblici economici, alle società di capitali. Anche l’appartenenza all’UE ha favorito e
accelerato la liberalizzazione in Italia di importanti settori economico-produttivi e dei
servizi pubblici di maggior rilievo (elettricità, energia, chimica, assicurazioni, trasporto
aereo, meccanica avanzata, grande distribuzione commerciale, ristorazione, impiantistica
civile e industriale, telecomunicazioni, ferrovie, poste, autostrade).
L'Unione Europea non ha imposto, per la verità, anche la privatizzazione delle aziende
pubbliche ma solo l'armonizzazione del mercato. In Italia, alla liberalizzazione si è
accompagnata come scelta nazionale sull'esempio olandese una forte accelerazione del
processo di privatizzazione, che non ha riscontri nelle esperienze francese e tedesca.
Il termine privatizzazione in Italia ha, peraltro, almeno tre diversi significati che
rappresentano aspetti concettualmente autonomi dello stesso fenomeno: privatizzazione del
soggetto produttore o erogatore del servizio; privatizzazione della disciplina o deregulation;
privatizzazione degli atti e dei rapporti giuridici.
Con riferimento, in particolare, alla privatizzazione degli atti e dei rapporti giuridici,
l'amministrazione statale e degli enti territoriali, sono chiamati ad un particolare sforzo di
rinnovamento.
La tutela degli interessi pubblici nei confronti delle società a vario titolo erogatrici di
servizi di vitale importanza per la collettività non può più essere affidata all'esclusivo
esercizio di pubbliche potestà attraverso lo strumento autoritativo che, anzi, nel nuovo
quadro liberista può solo servire a definire misure procompetitive.
Attraverso l'attività provvedimentale non si possono imporre alle imprese tasse di
ingresso o obblighi positivi a favore dell'occupazione, degli investimenti, della ricerca e
dello sviluppo e in genere per le politiche sociali.
Né siffatte prestazioni possono essere stabilite dalle autorità indipendenti di settore che
21
devono svolgere un ruolo neutro (determinazione imparziale delle tariffe e individuazione
imparziale degli standard qualitativi).
Prerogative speciali a favore di alcuni soci o particolari articolazioni dell'assetto
proprietario (ad esempio golden share e nucleo stabile) hanno sinora dimostrato scarsa
efficacia anche per l'esigenza di non abusare di certi strumenti a fini protezionistici o
contrastanti con l'integrazione comunitaria.
Ma le Amministrazioni Pubbliche che si spogliano dell'impresa per privatizzarla
mantengono tuttavia il fine istituzionale di tutela del pubblico interesse.
Se quella tutela non è garantita da efficaci misure strutturali e non può esserlo dall'attività
autoritativa, non rimane che lo strumento negoziale: il contratto di programma, il contratto
di servizio, il contratto d'area, gli accordi di collaborazione e altre misure paritetiche che non
sono prive delle necessarie tutele (ed anche autotutele) offerte dal codice civile.
E' il ritorno del contratto che, di nuovo, assume importanza centrale nel sistema.
I ben noti schemi del contratto ad oggetto pubblico presuppongono l'esistenza di un
diritto dei privati che non si applica alle P.A. e per converso di un diritto privato delle
pubbliche amministrazioni, che si caratterizza per alcuni privilegia fisci di dubbia
compatibilità con i principi e di dubbia utilità per l'ente pubblico.
Con la riforma strutturale e di funzionamento della P.A. la responsabilità gestionale cade
in particolar modo sui dirigenti nel rispetto degli obiettivi prefissati dalle autorità politiche.
Nella formazione del dirigente (anche locale) deve essere ben coltivata la conoscenza degli
strumenti privatistici di tutela preventiva coercitiva e ripristinatoria.
Affinché questa evoluzione sia completa deve cambiare la cultura del dipendente
pubblico ma occorre anche una rivisitazione del concetto di interesse pubblico.
La supremazia dell'interesse connotato dal requisito della pubblicità è il fondamento del
potere autoritativo e ne giustifica l'esercizio che sacrifica l'interesse privato; ma nella
concezione tradizionale della nostra giuspubblicistica essa è alla base anche dell'attività
negoziale stretta tra determinazione a contrarre e approvazione del contratto (provvedimenti
discrezionali entrambi).
Per esplicarsi liberamente l'attività negoziale della P.A. deve avere a base lo schema
tipico del contratto tra privati: l'interesse pubblico e l'interesse dell'altro contraente devono
essere anche formalmente periordinati, chè solo questo rende paritetico lo strumento
adottato. Ciò peraltro non indebolisce, e (in una realtà diversa dalla nostra, non caratterizzata
22
dal patologico sospetto) rinforza la tutela dell'Amministrazione nei confronti delle grandi
compagnie e dei grandi complessi economici e industriali come nei gestori di servizi
tradizionalmente pubblici.
Le contraddittorie conseguenze dell'asimmetria negoziale che, in cambio di ormai
inconsistenti prerogative, impongono al contraente pubblico penalizzazioni ed obblighi, dei
quali è esente il privato, possono essere superate collocando su un piano di pari dignità gli
interessi contrapposti, pubblici e privati. Finora la pubblica amministrazione è stata
considerata contraente forte nei confronti del quale applicare norme di tutela del contraente
debole, come ad esempio l'art. 1341 cod. civ. sulle clausole vessatorie, l'art. 1370
sull'interpretazione contra stipulatorem e l'art. 1342 sulla prevalenza della clausola aggiunta.
Negli accordi associativi e nei contratti sinallagmatici l'interesse pubblico deve essere
considerato interesse di parte negoziale, meritevole della tutela che l'ordinamento offre in
via diretta ed immediata alle situazione giuridiche soggettive piene. Il passaggio dalla
potestà al diritto soggettivo è il percorso attraverso il quale nel prossimo futuro si giungerà
alla piena privatizzazione in un quadro armonico di sistema.
6.
L’ESTERNALIZZAZIONE DEI SERVIZI PUBBLICI
Se, come rilevato, è maturata nel Legislatore la consapevolezza della opportunità di
semplificazione dell’attività amministrativa, appare coerente che l’Amministrazione
pubblica si concentri sulle funzioni essenziali (quello che nelle imprese viene chiamato core
business), provvedendo ad esternalizzare l’erogazione di servizi non strategici, affidandola,
cioè, ad un soggetto esterno, pubblico o privato.
Il rischio insito nelle esternalizzazioni di ridurre il fenomeno ad una mera dismissione del
servizio, con aumento dei costi senza alcun beneficio qualitativo del servizio reso, può
essere affrontato solo con la consapevolezza della necessità di un’adeguata attività di
controllo dell’Amministrazione titolare, sviluppando una capacità di puntuale definizione
degli elementi contrattuali, che qualifichino i livelli quantitativi, qualitativi ed economici.
Anche nell’ambito delle suesposte considerazioni può, da un punto di vista più
strettamente tecnico-giuridico, rilevarsi come esigenze particolari e più complesse rispetto
alle privatizzazioni di enti economici che già operavano in regime di concorrenza, emergono
23
specialmente in relazione al processo di ‘dismissione’ dei servizi di pubblica utilità, spesso
gestiti dagli enti pubblici in regime di monopolio. Per l’appunto con riguardo a questi settori
(si pensi alle telecomunicazioni, alle Ferrovie dello Stato, all’ENEL) si è posto (e si pone) il
problema di adeguati “contrappesi” idonei ad evitare la trasformazione del monopolio
pubblico in monopolio privato, nonché una gestione che, in quanto diretta in un’ottica
esclusivamente privatistica, non consideri a sufficienza gli interessi collettivi, la continuità e
la qualità dei servizi, la loro diffusione sull’intero territorio nazionale, la libertà di accesso e
la parità di condizioni per gli utilizzatori.
Ciò che sembra necessario, ad accompagnamento del fenomeno dell’esternalizzazione, è
la messa a punto di nuove regole che consentano una adeguata tutela dei pubblici interessi,
soprattutto degli interessi “sociali”, in relazione a bisogni sia individuali che collettivi, con
possibilità di controllo giudiziale e “accesso alla giustizia” anche a favore di enti
esponenziali (l’ordinamento giuridico si arricchisce di nuovi interessi protetti e nuovi
soggetti sociali degli stessi portatori, entrambi di dimensione superindividuale). In questo
senso, la semplice privatizzazione, ovverosia la cessione a privati della proprietà delle
infrastrutture o cessione della gestione, è destinata a rivelarsi insufficiente se non
accompagnata da ‘liberalizzazione’ (mediante strumenti idonei a reintrodurre una situazione
di mercato concorrenziale), nonché dalla creazione di nuove regole per la tutela
dell’interesse generale.
La regolazione vale, infatti, a porre limiti all’autonomia ed a “orientarla socialmente”
verso interessi di ordine generale, e potrebbe influenzare lo stretto diritto societario,
consentendo nuovi vincoli statutari.
Dunque, le nuove S.p.A. che erogano servizi, nate dal settore pubblico, potrebbero forse
avere, in quest’ottica, la possibilità di decidere ed agire “in senso sociale”, senza incorrere
nei limiti che vincolano le società commerciali tradizionali.
7.
AUTORITÀ AMMINISTRATIVE INDIPENDENTI
La sopra descritta necessità di introdurre un modello di Amministrazione che regoli,
anziché solo provvedere, le attività, sembra una delle cause di proliferazione dell autorità
amministrative indipendenti, istituti mutuati, pur con varianti non secondarie, dal modello
delle indipendent regulatory agency, che hanno negli Stati Uniti una tradizione oramai
secolare.
24
Il principale tratto connotativo di tale modulo organizzatorio è rappresentato da una
forma di qualificata autonomia nei riguardi del Governo e dei soggetti imprenditoriali
operanti nei settori interessati.
In particolare, l’insolution (isolamento) dall’esecutivo si realizza principalmente
attraverso la previsione della inamovibilità dei componenti dell’organo indipendente ad
iniziativa di soggetti esterni, la durata del loro mandato, sfalsata rispetto ai tempi delle
cariche dei politici, le regole severe sulle incompatibilità e sui conflitti di interesse.
In realtà, non esiste una definizione puntuale di indipendent regulatory agency, ed anche
l'esame delle figure di autorità amministrative indipendenti positivamente riscontrabili nel
ordinamento italiano non consente di rinvenire connotati uniformi di un regime giuridico
che configuri con certezza il “tipo” di una nuova amministrazione. Tale dato trova piena
giustificazione nel fatto che ciascuna autorità viene modellata dal diritto positivo in ragione
delle peculiari caratteristiche del settore della vita economica cui l'autorità medesima
èpreposta e cioè per motivi di political expediency.
La diversità (o non omogeneità) dei connotati delle diverse strutture organizzative che si
riscontrano esaminando autorità amministrative indipendenti, come anche la stessa
allocazione di potestà amministrative a dette nuove entità, discende da un sostanziale
pragmatismo piuttosto che da un unitario disegno di organizzazione dell’amministrazione.
L’esigenza del ricorso alla creazione di autorità amministrative indipendenti risponde alla
fondamentale esigenza di neutralizzazione di particolari settori della vita economica in
ragione della tecnicità della materia ed in funzione di garanzia oltre che di efficienza.
Per loro natura, tali settori di attività necessitano di essere allocati al riparo di logiche “di
parte” in cui la ricerca del consenso immediato, propria della dinamica della politica delle
società avanzate, confligge con la diversa esigenza di conseguire, con “pazienza imparziale”,
soluzioni tecnicamente ottimali.
L’essenziale caratteristica per l’adozione di tale modulo organizzatorio è data, dunque,
essenzialmente dall’esigenza di esercitare funzioni di amministrazione (di regolazione e
controllo) in posizione di indifferenza rispetto agli interessi concreti, pubblici e privati, nei
quali quelle funzioni interferiscono.
Il fenomeno delle autorità, ed in particolare delle “autorità tecniche”, risponde
all'esigenza, quindi, di sottrarre, in modo tendenziale, determinati settori della vita
economica, o aspetti di essi, alle logiche contingenti della politica per affidarne la
25
regolazione ad organismi isolati dal potere esecutivo. Tale esigenza si rileva essenziale
segnatamente nei casi in cui si presentino aspetti dell’economia di mercato qualificabili
quali precondizione caratterizzante il suo corretto funzionamento; talché, tali elementi,
vengono ritenuti meritevoli di essere sottratti alle vicende della politica.
Naturalmente, la regolazione di settori della vita economica o aspetti di essi non equivale
a regolamentazione, quanto piuttosto a creare le condizioni di equilibrio, attraverso
l'esercizio di poteri connotati da discrezionalità tecnica, per consentire il corretto
funzionamento di settori dell'economia di mercato, o aspetti di essi, ed il libero e garantito
dispiegarsi di diritti costituzionalmente garantiti.
Peraltro, il rischio del puro tecnicismo, che potrebbe ridondare in egemonia tecnocratica,
è scongiurato sia da scelte di tipo istituzionale (nomina bipartisan dei membri del corpo
collegiale titolari dell’organo; periodo predeterminato di durata in carica; limitazione del
potere di rimozione ad opera del Governo) che di conformazione dei poteri attribuiti alle
Autorità.
L’eccessivo proliferare, tuttavia, delle Autorità amministrative indipendenti, ed il
progressivo ampliamento dei settori ed ambiti di riferimento, già pongono un serio problema
di riassetto della tipologia e sembrano essere un chiaro segnale di incoerenza del sistema
amministrativo pubblico nel suo insieme considerato: se il nuovo modello di
amministrazione pubblica privilegia l’attività di controllo e di regolazione (in senso
anglosassone) rispetto a quella procedimentale-provvedimentale, le Autorità indipendenti
dovrebbero “sostituire” ordinariamente enti e organi pubblici e non “sovrapporsi” ad essi.
8.
LA RIFORMA DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E DEI MINISTERI
La recentissima riforma della Presidenza del Consiglio e dei ministeri costituisce, insieme
al trasferimento di funzioni e compiti dallo Stato al sistema delle regioni e delle autonomie
locali, uno dei due grandi pilastri sui quali poggia il processo di modernizzazione
dell'amministrazione italiana oggi in atto.
Anche su questo piano, e specialmente per quanto riguarda la riforma della Presidenza
del Consiglio, il raccordo fra il rapporto di venti anni fa e le innovazioni introdotte oggi è
forte e visibile.
26
Le riflessioni dedicate alla possibile riforma della Presidenza del Consiglio nel Rapporto
Giannini sono, infatti, malgrado gli anni passati, assai simili alle riflessioni che si sono
sviluppate anche in questi anni nell'ambito dell'applicazione della l.n.59 del 1997.
E' del tutto evidente infatti che il modello inglese, da un lato, il modello francese,
dall'altro, sono stati oggi, come venti anni fa, i due grandi punti di riferimento intorno ai
quali si è sviluppata la ricerca di un nuovo sistema organizzativo e strutturale del governo
italiano.
Per contro, non si può non sottolineare che nel Rapporto Giannini l'attenzione era
pressoché tutta incentrata sulla riforma della Presidenza del Consiglio e dunque
sull'individuazione delle modalità strutturali e organizzative intorno alle quali costruire una
forte guida del governo.
Nel quadro attuale, invece, la riforma della Presidenza e quella dei ministeri sono attuate
in un unico contesto, nel quale il rafforzamento del ruolo del Presidente del Consiglio è
affidato non solo alle innovazioni introdotte nell'apparato amministrativo che lo supporta e a
una più puntuale indicazione dei suoi poteri di indirizzo, ma anche a un ripensamento
complessivo degli apparati ministeriali, tale da rendere strutturalmente più coeso il sistema
di governo, più chiaro il ruolo della responsabilità politica, più evidente la distribuzione
delle responsabilità e la catena delle decisioni nell'ambito della struttura complessiva
dell'esecutivo.
In qualche modo, si può dire che mentre nel Rapporto Giannini il tema della riforma del
governo assumeva soprattutto una valenza tipicamente costituzionale (anche se affrontata
sul terreno dell'innovazione legislativa ordinaria), nel quadro attuale la questione della
riforma e della modernizzazione del sistema di governo italiano è stata affrontata ad ogni
livello, badando non solo a ridefinire e rafforzare i raccordi fra Presidente del Consiglio,
Consiglio dei Ministri e ministri ma anche, e forse soprattutto, a ridefinire l'architettura
stessa degli apparati amministrativi.
Si è sviluppata in questi anni, come negli altri paesi europei, la consapevolezza che le
modalità di organizzazione e di funzionamento degli apparati governativi hanno una
immediata e diretta incidenza sulla forma di governo di un paese. Oggi più diffusa è la
consapevolezza del fatto che modalità di organizzazione e soprattutto modalità di
funzionamento degli apparati di governo di un Paese costituiscono un aspetto fondamentale
della sua stessa struttura costituzionale.
27
9.
IL RIORDINO DEGLI ENTI PUBBLICI
Diversamente da quanto rilevato a proposito della riforma dell’apparato centrale dello
Stato, gli interventi di riforma degli pubblici non economici non sembrano sistematici,
organici, unitari.
L’ente pubblico rappresenta ancor oggi una galassia complessa ed in parte inesplorata,
nella quale si sviluppano forme di vita multiformi, dotate di insospettabili capacità di
autoriproduzione
e sempre più resistenti ad interventi depurativi (anche questa è una
concausa del proliferare delle Autorità indipendenti?).
Ciò ha reso particolarmente complessa l’adozione di iniziative finalizzate ad un riordino
complessivo, risultando spesso adottate iniziative atomistiche, pur se ispirate a criteri ed
obiettivi comuni.
Viene ribadita la tendenza di una fuga dall’ente pubblico verso forme più snelle di
organizzazione e di azione, modulate, per lo più su schemi civilistici, per consentire di
ottenere positivi risultati di gestione in termini di economicità, efficienza ed efficacia.
Indicazioni sul riordino degli enti pubblici nazionali si rinvengono nella legge n. 59 del
1997, la quale pone, anzitutto, un vincolo di scopo, rappresentato dalla esigenza di
perseguire l’obiettivo di una complessiva riduzione dei costi amministrativi. A tal fine, si
prevede la fusione e la soppressione di enti con finalità omologhe o complementari, la
trasformazione in uffici dello Stato o di altra P.A. o in strutture di università; la
trasformazione in associazione o persona giuridica di diritto privato di quegli enti che non
svolgono funzioni o servizi di rilevante interesse pubblico, o la trasformazione di enti ad alto
indice di autonomia finanziaria in ente pubblico economico o società di diritto privato.
In tale contesto, assumono notevole significato il riordino degli enti e delle società di
promozione di attività produttive, di iniziative occupazionali e nuova imprenditorialità, e
attrazione degli investimenti, con particolare riferimento al Mezzogiorno e alle altre aree
depresse.
Casi di trasformazione di enti pubblici in fondazione si rinvengono soprattutto in quei
casi in cui, non risultando necessaria, per l’espletamento dei propri compiti, la personalità
giuridica di diritto pubblico, si ritiene che la veste giuridica privata possa consentire un
migliore e più razionale svolgimento delle proprie funzioni. Si pensi, ad esempio, alla
28
trasformazione in fondazione dell’ente autonomo “La Triennale di Milano”, disposta con
d.leg.vo 20 luglio 1999, n. 273.
Il riordino ha anche portato alla trasformazione di preesistenti enti e alla creazione di
nuovi. Ciò è accaduto, ad esempio, con il d.leg.vo 27 maggio 1999, n. 165, che ha soppresso
l’Aima e istituito l’Agea – Agenzia per le erogazioni in agricoltura – ente di diritto pubblico,
dotato di autonomia statutaria, organizzativa, amministrativa, finanziaria e contabile.
Anche gli enti ed organismi di ricerca scientifica rientrano nel progetto di riordino e
razionalizzazione delineato dalla legge n. 59, da sviluppare secondo linee di indirizzo
strategico e di coordinamento nazionale della politica della ricerca, nell’intento di assicurare
il massimo livello di flessibilità, di autonomia e di efficienza, nonché una più agevole stipula
di intese, accordi di programma e consorzi.
In particolare, il settore della ricerca scientifica è stato interessato da un progetto di
riordino, delineato nelle sue linee essenziali con d. leg.vo 5 giugno 1998, n. 204, che ha
coinvolto sia l’apparato centrale (Ministero dell’università e della ricerca scientifica e
tecnologica), sia i principali enti (Cnr, Enea e Asi).
In particolare, il Cnr è stato riordinato con d. leg.vo 30 gennaio 1999, n. 19. Esso ha
conferito al Cnr personalità giuridica di diritto pubblico, riconoscendo allo stesso un’ampia
autonomia ed un fondamentale ruolo strategico, avallato dalla attribuzione della funzione di
produzione e gestione diretta della ricerca avanzata, fondamentale e applicata.
L’Enea, ente pubblico strumentale, dotato di personalità giuridica, è stato riordinato con
d. leg.vo 30 gennaio 1999, n. 36. Tale decreto ha assegnato all’Enea il compito di operare
nel campo della ricerca e della innovazione per lo sviluppo sostenibile, con l’obiettivo di
promuovere l’occupazione, la competitività, lo sviluppo, e al salvaguardia ambientale.
Il riordino dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi) è stato realizzato dal d.leg.vo 30 gennaio
1999, n. 27, il quale ha provveduto ad una più puntuale definizione dei compiti
dell’Agenzia, con particolare riguardo alle funzioni di promozione e coordinamento della
ricerca aerospaziale, il riconoscimento di un’ampia autonomia negoziale per la fornitura a
terzi di tecnologie, servizi e assistenza tecnica, lo snellimento dell’organizzazione e del
sistema dei controlli.
In ultimo, ma non certo per minore importanza, pare utile segnalare l’avvio del processo
di riordino anche del Sistema sanitario nazionale, con la L. 30 novembre 1998, n. 419 e con
la prima attuazione data attraverso il d.leg.vo n. 229 del 19 giugno 1999. In tale contesto si
29
sono create le aziende sanitarie ed ospedaliere, con personalità di diritto pubblico ma con
autonomia imprenditoriale ed organizzazione disciplinata attraverso atti privati; per quanto
non sia del tutto chiara la natura di tali soggetti e tutte le implicazioni sul piano gestionale,
sembra che l’intenzione del legislatore delegato sia coerente con il processo di riforma
generale, anche se ulteriori interventi correttivi nel settore specifico sembrano sin d’ora
imporsi.
Certo è che allo stato il processo di riordino non pare abbia portato ad una riduzione dei
soggetti pubblici che esercitano poteri per realizzare fini strumentali e ausiliari a quelli
propri degli enti territoriali.
10. L’IMPATTO AMMINISTRATIVO DELLE RIFORME
Pur essendo l’ordinamento italiano in profonda, continua e non terminata trasformazione,
la verifica previa di compatibilità amministrativa delle innovazioni che si vogliono
introdurre, di regola, non è effettuata e ciò contribuisce a determinare un divario tra
modernità del sistema normativo e reale esperienza amministrativa.
Tale divario è stato evidenziato, nella Relazione sul Rendiconto Generale dello Stato per
l’esercizio finanziario 1998, dalla Sezioni Riunite della Corte dei Conti, le quali hanno
indicato, quale criterio guida per il raggiungimento dell’obiettivo di dare concreta attuazione
al processo di ammodernamento delle pubbliche amministrazioni, il parallelismo tra
razionalizzazione del bilancio e riforma amministrativa.
Peraltro, lo stesso regolamento della Camera dei Deputati prevede che, nel corso
dell’istruttoria di un testo di legge, le Commissioni in sede referente acquisiscano elementi
diretti anche alla definizione degli oneri derivanti per la amministrazione pubblica, i cittadini
e le imprese dalle innovazioni legislative, onerando specificamente il Governo in tal senso.
Per la definizione degli oneri derivanti, in ispecie, dalle innovazioni prodotte dai processi
di delegificazione e semplificazione delle procedure, la legge n.50 dell’8 marzo 1999 ha
introdotto “l’analisi dell’impatto della regolazione” (A I R). Accanto all’analisi di eventuali
ostacoli di tipo organizzativo (impatto amministrativo), attraverso l’AIR si realizzerà, alla
stregua di analoghe misure già affermatesi nell’Unione Europea ed in altri Paesi (Stati Uniti,
Gran Bretagna, Australia), la misurazione e valutazione economica degli effetti delle regole,
30
sia in termini di costi sopportati dai cittadini e dalle imprese, sia dalle stesse pubbliche
amministrazioni. La valutazione che avrà carattere preventivo in relazione agli schemi di
atti normativi e progetti di legge governativi, e di regolamenti ministeriali ed
interministeriali, dovrà essere effettuata anche con riguardo alle regole già vigenti.
In ogni caso, nonostante non vi siano, allo stato, ancora seri studi e risultanze ufficiali,
anche in riferimento all’utilizzo di strumenti previsionali quanto all’impatto amministrativo
ed alla misurazione e valutazione economica degli interventi di riforma, bisogna dare atto
che su alcuni fronti risultati significativi sono stati comunque conseguiti.
Si è registrato che, nel corso dell’anno 1998, per un verso, i provvedimenti della
Amministrazione pubblica statale e centrale, degli Enti pubblici nazionali e dei Commissari
di Governo, sono stati ridotti ad un numero complessivo di circa 12300 e sono stati emanati
ponendo in essere una rilevante semplificazione delle procedure, delle tecniche di
normazione e soprattutto del linguaggio amministrativo.
Per altro verso, i procedimenti già oggetto di semplificazione in seno alle elencate
amministrazioni, ammontano a trenta - di cui 18 per i Ministeri, 12 per gli Enti pubblici e i
Commissari di Governo- e consistono nell’adozione di misure di riordino e di snellimento
del lavoro di ufficio e di riduzione dei tempi interni.
Ma è soprattutto in materia di autocertificazione che sono stati rilevati i dati più
importanti; secondo i monitoraggi compiuti dal Dipartimento della Funzione Pubblica, su
sedici città campione, la richiesta di certificati ha avuto una riduzione media del 50%, con
punte di oltre l’80% nella città di Siena.
Attraverso la proiezione sull’intera popolazione nazionale di tali dati, è stata calcolata la
realizzazione di un risparmio annuale, sui costi diretti per i cittadini e le imprese, di circa
mille miliardi. Tali stime non hanno ancora tenuto in considerazione i costi indiretti riguardanti, ad esempio, gli effetti per imprese e professionisti, il traffico e l’inquinamento -,
né
i
costi
sostenuti
dalle
amministrazioni,
le
quali
attraverso
lo
strumento
dell’autocertificazione possono perseguire uno degli obiettivi della riforma, cioè quello di
spostare risorse umane e finanziarie da impieghi inutili a impieghi produttivi.
Nell’ambito del programma di semplificazione vanno, poi, menzionati i risultati realizzati
attraverso l’attuazione dello Sportello unico per le attività produttive; esso rappresenta la più
promettente, ma anche la più complessa tra le iniziative di semplificazione, essendo
destinata ad incidere direttamente sullo sviluppo economico locale, attraverso l’impulso ai
processi di localizzazione produttiva.
31
Da un’indagine condotta, nel mese di ottobre 1999, dal Formez, sullo stato di attuazione
dello Sportello, è emerso che, su 617 Comuni a più alta densità di forze produttive, il 25,6%
ha uno Sportello operativo o in sperimentazione, il 24,5% sta affrontando la fase di
realizzazione, il 36,3% è nella fase di studio ed analisi e solo il rimanente 13,6% non ha
ancora considerato di intraprendere l’iniziativa.
Il 23,5% delle amministrazioni intervistate ha denunciato di incontrare difficoltà
organizzative nella realizzazione dello Sportello, mentre la maggioranza di esse ha
manifestato l’esigenza di un tipo di assistenza formativa del personale.
In definitiva, ancora oggi le scelte di tipo politico generalmente (e salvo rare eccezioni)
non hanno in grande conto le analisi costi/benefici quando si tratta di intervenire
sull’organizzazione e sulle modalità di azione dell’Amministrazione pubblica; tale grave
lacuna non viene evidenziata neanche ex post, in mancanza di strumenti idonei, o di reale
volontà di verifica, a misurare gli effetti delle scelte compiute ed i benefici dell’attuazione
concreta.
11. LA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA: ASPETTI ORGANIZZATIVI E GESTIONALI
1. Il Rapporto Giannini interveniva a pochi anni dalla istituzione e dall'avvio effettivo
dell'attività dei Tribunali Amministrativi Regionali, in un contesto dunque di "domanda" di
giustizia amministrativa profondamente diverso dall'attuale, sia in termini quantitativi che
qualitativi. Pur senza ovviamente riferirsi al merito dei contenuti giurisdizionali di detta
evoluzione, peraltro fortemente sollecitata anche da interventi legislativi, non può tuttavia
non segnalarsi il progressivo e sempre più accentuato spostamento da un controllo
giurisdizionale estrinseco, legato al tradizionale modello della giurisdizione generale di
legittimità, ad un controllo intrinseco sull'effettivo conseguimento dei fini pubblici previsti:
con una formula riassuntiva, sintetica e però efficace, il fenomeno è descritto come il
passaggio progressivo dal giudizio sull'atto al giudizio sul rapporto giuridico sostanziale. E'
quindi in atto un mutamento della concezione tradizionale dello stesso processo
amministrativo, che si sviluppa in parallelo con l'evolversi dell'ordinamento in direzione
della emersione e della affermazione, accanto ad una Amministrazione autoritativa, di una
Amministrazione paritaria. L'effettività e la tempestività della tutela giurisdizionale,
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condizioni irrinunciabili affinché il "servizio" giustizia amministrativa sia al passo con la
complessiva trasformazione del sistema, vanno allora perseguiti avendo presente che il
giudizio amministrativo si va trasformando in un giudizio diretto a soddisfare l'interesse
sostanziale al conseguimento del bene della vita in contestazione. Ciò non può non
interagire con i profili organizzativi della giustizia amministrativa. Lo stesso affermarsi della
giurisdizione esclusiva quale regola tendenziale può, infatti, comportare il rischio di un
allungamento dei normali tempi del processo amministrativo, quale tradizionalmente
modellato sullo schema della giurisdizione generale di legittimità. Il sempre più vasto e
necessitato
ricorso
ad
uno
strumentario
tradizionalmente
estraneo
al
processo
amministrativo, al di là dei pur necessari accorgimenti processuali, può sortire un effetto di
allungamento di processi tradizionalmente imperniati sull'udienza unica di discussione. Vi è
l'esigenza, in altri termini, di assicurare che il giudice amministrativo possa operare con
efficacia almeno pari a quella prima assicurata dal giudice civile in un ambito nuovo. L'altro
fenomeno che appare rilevante, anche per le sue interazioni con i profili organizzativi della
giustizia amministrativa, è l'affermarsi dei cd. riti "speciali", sostanzialmente acceleratori del
processo, la cui condivisibile ratio è quella di assicurare, in delicati settori che coinvolgono
interessi pubblici di particolare rilevanza, la prontezza della risposta del giudice. Non vi è
chi non veda però come il moltiplicarsi di questi, al di là della questione della organicità del
sistema, pone problemi organizzativi e gestionali di non poco conto innanzitutto alle
strutture di supporto all'attività giurisdizionale. Non va da ultimo sottaciuto il rilievo che
rivestono i principi comunitari in materia di giustizia amministrativa, per quanto concerne il
profilo organizzativo di questa. Ai giudici amministrativi, infatti, l'Unione si affida quali
giudici con pienezza di garanzie di status per il controllo giurisdizionale dell'osservanza
delle norme comunitarie in materie di appalti nonché in tema di tutela della concorrenza e
del mercato.
2. All'interno della generale crisi del sistema giustiziale italiano, la giustizia
amministrativa conosce anch'essa una situazione di ingolfamento, sia pure con
caratteristiche proprie. Quanto la devoluzione al giudice del lavoro di larga parte delle
controversie in tema di pubblico impiego possa avere benefici effetti sulla detta situazione è
un dato allo stato non compiutamente verificabile, attesa tra l'altro la rilevanza dell'arretrato
in materia. Di contro, la devoluzione alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo
di controversie in settori di particolare rilevanza socio-economica (servizi pubblici,
urbanistica, edilizia, uso del territorio) rileva non tanto quale compensazione quantitativa
della "perdita" del pubblico impiego, bensì per l'attribuzione a questo giudice di nuovi e per
33
esso inusuali spazi di intervento (si pensi al risarcimento del danno) con quell'innegabile
effetto di trasformazione del processo amministrativo, di cui si è detto al punto 1.
Segnalava già il Rapporto Giannini, avendo a riferimento le statistiche relative all'anno
1978, come in soli cinque anni si fosse formato innanzi ai T.A.R. un arretrato di ricorsi
pendenti pari a 105.121 unità e come, nello stesso anno 1978, i medesimi giudici
amministrativi di primo grado avessero depositato 15.272 pronunce, di cui 1.607
interlocutorie. Delle pronunce dei T.A.R. poco meno di un quarto risultavano essere state
appellate al Consiglio di Stato. Infine, nello stesso anno 1978 erano stati depositati 35.956
nuovi ricorsi. Di qui il grido di allarme del Rapporto "rebus sic stantibus, in pochi anni la
giustizia amministrativa di primo grado sarà paralizzata". Pur senza restare paralizzata, la
giustizia amministrativa, in particolare quella di primo grado, è comunque sotto l'onda d'urto
di una domanda di giustizia che, per segnando negli ultimissimi anni lievi flessioni nella
proposizione dei ricorsi, assume dimensioni di assoluto rilievo. Nel 1998, infatti, sono stati
proposti ben 90.039 ricorsi innanzi ai T.A.R. con una pendenza alla fine dell'anno pari a
856.298 ricorsi (rispetto agli 818.924 ricorsi pendenti al 31 dicembre 1997). Auspicava il
Rapporto "Giannini" che sarebbe stato necessario triplicare la produttività globale dei
T.A.R.. Il che, in effetti, è avvenuto, se si considera che nell'anno 1998 sono stati decisi dai
giudici di primo grado ben 49.312 ricorsi (a fronte di 43.791 ricorsi decisi nell'anno
precedente), e pur tuttavia si registra un aumento dell'arretrato. Deve, peraltro, segnalarsi
come nello stesso anno 1998 i Tribunali amministrativi hanno inoltre emesso ben 55.953
ordinanze, di cui più di 47.000 in sede di esame di domanda di sospensiva. In realtà, il
costante aumento della "produttività" del personale di magistratura non può da solo arginare
il costante e più ingente aumento della pendenza. Il dato positivo segnato dal progressivo
miglioramento del rapporto tra ricorsi proposti e ricorsi decisi (nel 1997 attestato a: 1:2,11 in
primo grado e 1:1,05 in appello) rappresenta un trend che non può a lungo proseguire, attesa
la sostanziale invarianza della consistenza numerica del personale di magistratura. Ed infatti,
se la probabilità di durata di un giudizio risultava, nel 1978, pari a 1.347 giorni, essa nel
1997 era cresciuta a 4.274 giorni. E' fisiologico che un sistema progettato per la
presentazione di un numero di ricorsi intono a 10.000 l'anno non possa reggere, ad organico
invariato, ad un aumento di circa 10 volte. Vi è poi un problema di distribuzione sul
territorio della domanda di giustizia amministrativa, legato ai tassi di cd. litigiosità
amministrativa che caratterizzano le diverse realtà regionali del Paese. A parte la specificità
del T.A.R. del Lazio, che assomma in conseguenza della sua complessa competenza circa un
quinto del contenzioso esistente, può rilevarsi come siano in generale i Tribunali delle
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Regioni meridionali ad essere investiti da una più copiosa produzione di ricorsi. Ad organico
invariato, si tratta di ottimizzare le risorse umane disponibili in ragione dei fenomeni
rilevati. Pur persistendo, quindi, una variabilità nel carico dei ricorsi tra i diversi Tribunali,
sia pure non più nelle dimensioni che erano segnalate nel Rapporto Giannini grazie agli
aggiustamenti conseguenti alle modifiche delle piante organiche dei Tribunali intervenute
negli ultimi anni, possono immaginarsi, in presenza di particolari situazioni, misure di
"applicazione" di magistrati presso sedi diverse da quella di appartenenza per tempi
predefiniti ed opportunamente incentivate.
Anche il giudizio di appello segna un continuo aumento nella proposizione dei ricorsi ed
una più consistente espansione delle decisioni, con 8.107 appelli decisi nel 1998. E tuttavia
vi è comunque un problema di arretrato, pur ovviamente non nei termini che caratterizzano
il primo grado, pari ad una pendenza di 32.923 ricorsi al 31 dicembre 1998. Da ultimo è
opportuno segnalare che, sempre con riferimento all'anno 1998, risultano non appellati più
dei tre quarti delle decisioni di primo grado. Il che, unitamente al dato secondo cui gli
appelli sono respinti per il 49%, comporta che nel 90% circa dei casi le decisioni di primo
grado assumono valore definitivo. Ciò testimonia come il giudice amministrativo di primo
grado, al giro di boa del venticinquennale del suo avvio operativo, rappresenti la risposta
principale, e tuttavia ancora inadeguata, che il sistema di giustizia amministrativa offre alla
domanda che viene dalla collettività.
3. Il potenziamento dell'organico del personale di magistratura rappresenta, dunque, una
misura minima oramai indilazionabile, sulla cui necessità è ultimamente maturato un
concorde convincimento, oltre che nella classe politica, fra gli operatori del diritto e presso
la stessa opinione pubblica. Una disposizione in tal senso è recata dal disegno di legge
recante "disposizioni in materia di giustizia amministrativa", approvato dal Senato della
Repubblica ed attualmente all'esame della camera dei Deputati. Al 1 gennaio 1998
risultavano assegnati ai Tribunali amministrativi regionali appena 284 magistrati, in detto
numero ricompresi gli stessi Presidenti dei Tribunali nonché alcuni magistrati collocati fuori
ruolo. Alla medesima data risultavano assegnati alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di
Stato ed al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana 55 magistrati,
compresi i Presidenti di Sezione. L'inadeguatezza del personale di magistratura è, dunque,
un dato di fatto. E' sufficiente considerare che esso è pari a meno di un quinto rispetto a
quello operante in Germania, pur a fronte di un numero di ricorsi pressoché equivalente a
quello italiano. All'adeguamento dell'organico deve necessariamente accompagnarsi un
proporzionale rafforzamento delle strutture di supporto all'attività giurisdizionale, sia con
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riferimento al potenziamento delle risorse umane (personale di segreteria) che con
riferimento alle dotazioni materiali (supporti informatici, acquisto di beni e servizi,
adeguatezza delle sedi). Del resto, l'incremento dell'organico comporta automaticamente
l'istituzione di nuove Sezioni interne, quantomeno in alcuni Tribunali, che senza il
potenziamento dell'esistente personale di segreteria rischierebbero seriamente di non poter
funzionare. Una misura legislativa occorre, invece, per praticare un'ulteriore opzione di
potenziamento della presenza sul territorio del giudice amministrativo, rappresentata dalla
istituzione di nuove Sezioni staccate per quelle sedi che allo stato ne sono sprovviste. Misure
più semplicemente amministrative aspettano di essere poste in essere. Si pensi all'istituzione
presso gli uffici giudiziari degli Uffici del ruolo e del massimario, pur previsti dal
regolamento governativo, di cui al D.P.R. 25 novembre 1995 n. 580, tuttora non istituiti. Il
potenziamento dell'organico del personale amministrativo potrebbe dare corpo ad una
misura organizzativa, già da tempo prospettata da più parti, concernente l'istituzione di un
apposito ufficio di segreteria con il compito di coadiuvare il singolo magistrato
nell'istruttoria e nella ricerca, in modo che lo stesso possa pronunciare un numero maggiore
di decisioni. E', infine, nella discrezionalità del legislatore la scelta in ordine all'attivazione
di meccanismi particolari, idonei da una parte a smaltire l'enorme arretrato che grava sul
giudice amministrativo, ovvero idonei a conseguire un effetto di deflazione del ricorso alla
giustizia amministrativa.
4. E' evidente che l'idoneità effettiva di qualsivoglia misura organizzativa si individui per
la più efficace funzionalità del servizio giustizia richiede adeguati impegni finanziari alla
collettività. A tutt'oggi questo sostegno finanziario congruo ed adeguato non c'è. Nel 1998 le
spese di funzionamento del Consiglio di Stato e dei Tribunali amministrativi regionali
(comprese quelle relative al Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana)
hanno rappresentato solo l'0,02 per cento della spesa globale dello Stato ed il 2,37 per cento
della spesa globale per la giustizia. Inoltre, sulla spesa complessiva per la giustizia
amministrativa, riferita cioè sia a quella "ordinaria" (T.A.R. - Consiglio di Stato) che
"contabile", la percentuale riferita alla prima è risultata, sempre nel 1998, pari al 33,83 per
cento. In definitiva, la quota di risorse finanziarie destinata a siffatta delicata funzione risulta
particolarmente esigua, con serio rischio di pregiudizio della effettività della tutela in settori
così delicati, quali quelli che ineriscono all'esplicazione di pubblici poteri.
5. Un rilievo non secondario in ordine agli assetti organizzativi della giustizia
amministrativa è quello rivestito dall'attività del Consiglio di Presidenza della Giustizia
Amministrativa, organo di autogoverno dei magistrati amministrativi chiamato a realizzare
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nell'ordinamento della giustizia amministrativa le garanzie di indipendenza previste dalla
Costituzione. In effetti, è solo con la legge 27 aprile 1982 n. 186, ad otto anni dall'entrata in
funzione dei T.A.R., che è stato istituito un organo collegiale elettivo destinato a svolgere le
funzioni proprie di un organo di autogoverno. Di tale centralità del Consiglio di Presidenza
nella definizione degli assetti organizzativi complessivi della giurisdizione amministrativa è
testimonianza l'ampiezza di compiti ed attribuzioni allo stesso assegnati dall'art. 13 della
citata legge n. 186 del 1982. Tra questi, vanno ricordati, oltre quelli relativi alla sfera tipica
dell'Amministrazione del personale di magistratura, i poteri di iniziativa propositiva in
ordine all'adeguamento e ammodernamento delle strutture e dei servizi, quelli relativi alla
definizione dei criteri di massima per la ripartizione degli affari consultivi e dei ricorsi
giurisdizionali nonché le competenze in tema di piante organiche del personale di
magistratura (limitatamente ai T.A.R.) e la divisione in sezioni del Tribunali. E' necessario
che questo ruolo venga esplicato con pienezza, a superamento di quella oggettiva
"marginalità" che finora ha spesso contrassegnato l'attività del citato consesso nella
definizione degli assetti organizzativi e gestionali della giustizia amministrativa. L'organo di
autogoverno, infatti, più direttamente di altri conosce l'interna dinamica dell'espletamento
del "servizio" giustizia ed è in grado di apportare, per quanto di propria competenza, quegli
aggiustamenti sul piano dell'organizzazione del lavoro del personale di magistratura (carichi
di lavoro, criteri di assegnazione dei ricorsi, rotazione dei magistrati, composizione dei
collegi giudicanti, rotazione delle materie tra le Sezioni) idonei a ulteriormente accrescere la
"produttività" dei magistrati amministrativi.
6. Nella seduta del 10 luglio 1980 il Senato della Repubblica approvò, dopo un
approfondito esame del Rapporto Giannini un ordine del giorno con il quale impegnava il
Governo ad approvare una riforma del processo amministrativo "in vista dell'obiettivo di
apprestare mezzi processuali più adeguati alla fondamentale esigenza di assicurare la legalità
dell'azione amministrativa, l'effettivo rispetto della parità delle parti e delle situazioni
soggettive dei cittadini". Ebbene, oggi un disegno di legge in materia di giustizia
amministrativa, che pure non ha la pretesa di rappresentare un'esaustiva riforma del processo
amministrativo, alla quale anzi rimanda, è, come si è detto innanzi, all'esame del
Parlamento. Al di là del merito delle misure concernenti gli aggiustamenti processuali
ipotizzati (in tema di istruttoria nel processo amministrativo, di tutela cautelare, di
meccanismi acceleratori del processo e/o di concentrazione dello stesso), estranee in sé
considerate alla tematica relativa agli aspetti organizzativi della giustizia amministrativa, il
disegno di legge merita in questa sede di essere richiamato per alcune misure organizzative
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recate, segnatamente quella concernente l'aumento dell'organico del personale di
magistratura. Di qui, quindi, l'auspicio di un sollecito varo definitivo del testo. Rimane che
la necessaria opera di vasto ed incisivo "aggiustamento" dei profili organizzativi della
giustizia amministrativa, prescindendo dagli accorgimenti processuali, può e deve
concretarsi in misure organizzative molteplici e però organiche, che non si esauriscono
nell'aumento dell'organico del personale di magistratura. Questo, infatti, in difetto
dell'adozione di misure ulteriori che ne consentano l'effettiva e sollecita traduzione in
termini di incremento del numero dei ricorsi decisi ed abbreviazione del termine di attesa
della decisione, rischia in sé considerato di rappresentare una misura che appesantisce le
strutture amministrative di supporto all'attività istituzionale dei magistrati. Occorre poi
rinnovare l'indicazione, recata dal Rapporto Giannini, nel senso della necessità, attese le
vacanze allora registrate nell'organico dei magistrati amministrativi, di provvedere con
norme speciali a rendere appetibile la carriera dei magistrati, anche considerando che il
personale della magistratura amministrativa è selezionato con concorsi di cd. secondo
livello. Se a quella vacanza, che persiste tuttora, si dovesse sommare quella derivante dalla
mancata sollecita copertura dei posti derivanti dall'atteso aumento dell'organico,
risulterebbero minate le basi stesse della possibilità di conseguire l'obiettivo dell'effettività e
della tempestività della tutela giurisdizionale.
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IV – LA GESTIONE DELLE AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE
12. IL PRINCIPIO DI LEGALITA’ IN SENSO SOSTANZIALE
All’esigenza di ammodernare le regole di azione dell’Amministrazione pubblica,
evidenziata in modo chiaro dal Rapporto Giannini, sembra aver dato risposta la legge n. 241
del 1990, che ha posto le basi per un nuovo modello di azione amministrativa, ispirato a
regole di gestione democratica del potere pubblico e ad obiettivi di economicità, efficienza
ed efficacia.
L’impostazione tradizionale esaltava il momento autoritativo espresso dal provvedimento
amministrativo, concependo gli amministrati in termini di meri destinatari della funzione
esercitata. Era un sistema di “amministrazione per atti”, nel quale tutto il valore e la qualità
della scelta operata risultava commisurato al livello di corrispondenza formale con la
previsione normativa astratta. In tale contesto, dunque, il principio di legalità rappresentava
uno strumento di tutela formale per gli amministrati, atto a consentire la valutazione della
conformità tra legge e provvedimento. Interessava solo la legittimità formale del
provvedimento, indipendentemente dalla sua efficacia ed idoneità a gestire, nel migliore dei
modi, la situazione contemplata. Anzi, proprio la legittimità formale rappresentava
l’obiettivo principale a cui era orientato l’azione pubblica.
L’esigenza di sviluppare l’esercizio della funzione amministrativa in termini sostanziali
piuttosto che come produzione di una qualsiasi fattispecie provvedimentale, astrattamente e
formalmente conforme a legge, ha portato a ripensare le scelte passate. Il nuovo modello di
azione amministrativa sposta l’attenzione dal momento statico e formale, all’aspetto
dinamico dell’azione ed ai suoi risultati sostanziali. Non si tratta più di valutare solo la
conformità a legge di un provvedimento staticamente confezionato ed altrettanto
staticamente considerato. Bisogna considerare, invece, l’attività concretamente svolta, nella
dinamica del suo divenire e nel risultato che produce. Il valore dell’azione amministrativa,
infatti, si commisura al risultato sostanziale raggiunto. La decisione amministrativa deve
riuscire ad ottimizzare l’assetto degli interessi coinvolti nell’esercizio del potere pubblico. A
tal fine, essa deve corrispondere a parametri di tipo sostanziale, espressi dai principi di
economicità, efficienza ed efficacia, posti dall’art. 1 della L. n. 241.
Detti principi sono riaffermati nel decreto n. 29 del 1993, con riguardo all’obiettivo di
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accrescimento della efficienza, nonché ai principi di economicità, speditezza e rispondenza
al pubblico interesse dell’azione amministrativa. Con la previsione dei principi suddetti
viene imposto all’Amministrazione di realizzare il massimo risultato con il minimo mezzo.
Si è voluto espressamente impedire lo spreco di risorse introducendo criteri di derivazione
aziendalistica che orientano e guidano le decisioni amministrative. Tale obiettivo risulta
evidenziato anche nella L n. 59 del 1997, quando qualifica come interesse pubblico primario
la promozione dello sviluppo economico e la valorizzazione dei sistemi produttivi.
La decisione amministrativa , dunque, risulta non solo orientata alla osservanza del fine
di interesse pubblico indicato dalla legge (“vincolo nel fine”), ma anche a canoni di
adeguatezza che implicano che essa sia vincolato anche in relazione ai mezzi da impiegare
per ottenere quel risultato (“vincolo nel mezzo”).
Il principio di legalità assume, dunque, un significato sostanziale ben diverso da quello
formale di tipo tradizionale, traducendosi in un principio che recepisce al suo interno criteri
in base ai quali la decisione amministrativa venga a risultare non solo formalmente
legittima, ma anche sostanzialmente adeguata ai parametri di ottimizzazione del risultato,
che testimoniano la corretta ed adeguata distribuzione ed utilizzazione delle risorse
disponibili. In tale contesto, per “mezzi” si intendono non solo quelli di natura strettamente
economica, ma anche quelli di carattere procedurale. Di qui l’esigenza di intervenire con
misure organizzative, atte a semplificare, snellire e rendere più celere il procedimento.
A realizzare tali fini, concorrono tutti i principi procedimentali che ispirano l’azione dei
pubblici poteri. Così, il principio di pubblicità che si sviluppa e si completa nel principio di
trasparenza, assicura la visibilità dell’azione amministrativa, rendendone conoscibili le
figure soggettive, i contenuti e le modalità di esercizio onde consentire ai cittadini di
valutare i risultati conseguiti e provvedere a chiederne eventualmente la verifica giudiziaria.
Il principio di trasparenza è mezzo di attuazione della democrazia, “intesa quale regime
del potere visibile”; esso consente di trovare il giusto raccordo tra esigenze di garanzia e
quelle di efficacia.
Il principio di democraticità assicura la partecipazione dei cittadini alla gestione del
potere pubblico; questo non rappresenta più l’espressione di un fatto riservato
all’Amministrazione, ma il frutto della fattiva collaborazione dei cittadini interessati. La
partecipazione concorre alla elaborazione di alternative decisioni fondate sul consenso degli
interessati e, in particolare, su vere e proprie ipotesi di accordi tra P.A. e amministrativi.
Esso costituisce uno dei momenti chiave della trasparenza, realizzando la visibilità dei
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soggetti e la conoscibilità delle fasi procedimentali.
Il principio di doverosità dell’azione amministrativa, fondato sulla norma che impone
l’obbligo di concludere il procedimento mediante un provvedimento, esprime la necessità
della funzione in quanto strumento per realizzare, secondo criteri ottimali, gli obiettivi ed i
risultati avuti di mira in conformità alle finalità di interesse pubblico tracciate dalla legge.
Al principio di doverosità si accompagna e si collega quello di certezza del tempo
dell’azione amministrativa e quello di speditezza della stessa. Il dovere di concludere il
procedimento sarebbe, infatti, rimasto privo di effettività se ad esso non fosse stata
accompagnata la prescrizione di determinare il termine massimo di conclusione del
procedimento, fissando, in mancanza, a tal fine, il termine legale di 30 giorni. La rilevanza
del dovere di concludere il procedimento mediante l'adozione di un provvedimento espresso
entro termini certi ha trovato conferma nella recente evoluzione normativa, che ha previsto,
allo stato solo astrattamente, per i casi di mancato rispetto del termine del procedimento, di
mancata o ritardata adozione del provvedimento e, in genere, di ritardato o incompleto
assolvimento degli obblighi e delle prestazioni da parte delle P.A., la possibilità di
riconoscere forme di indennizzo automatico e forfettario a favore dei soggetti richiedenti il
provvedimento.
Esigenze di speditezza e di razionalizzazione, in quanto strumentali anche all'efficacia del
risultato adottato, hanno imposto la previsione della riduzione dei termini per la conclusione
del procedimento, la regolazione uniforme dei procedimenti dello stesso tipo che si svolgono
presso diverse Amministrazioni, la riduzione del numero dei procedimenti e l'accorpamento
dei procedimenti che si riferiscono alla medesima attività .
Di tutti detti principi e criteri d’azione si arricchisce il principio di legalità, che diviene,
anzi rimane, guida principale per l’esercizio dei poteri pubblici.
13. L’INTRODUZIONE DEI CRITERI DI ECONOMICITÀ, EFFICACIA ED EFFICIENZA
NELLE ORGANIZZAZIONI PUBBLICHE
Il Rapporto Giannini evidenziava, tra l’altro, che “è constatazione fattibile da ogni
comune persona che le tecniche delle amministrazioni pubbliche sono fortemente arretrate
rispetto a quelle dell’organizzazione privata” e che l’insufficiente focalizzazione di tali
tecniche “si riosserva nella scarsa conoscenza che le amministrazioni pubbliche hanno circa
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la propria produttività”. Il giudizio rimarcava la sostanziale indifferenza dell’ordinamento
alla utilizzazione delle risorse in quanto orientate a risultati correlati ad esigenze effettive
della collettività e dei singoli, nonché l’accettazione di un’amministrazione immobile più
attenta a processi di autoalimentazione che a verifica funzionale del proprio archetipo
strutturale.
A venti anni di distanza dai registrati fenomeni, peraltro, una lettura attenta ed in chiave
evolutiva della normativa succedutasi nel tempo consente di rilevare che, già a partire dalla
seconda metà degli anni ’70, il legislatore – sollecitato probabilmente da un lato da un
disavanzo crescente e sempre più insostenibile e dall’altro dall’esigenza di allocare le più
limitate risorse disponibili in funzione di individuati obiettivi conseguibili – aveva avvertito
che la normativa contabile esistente si palesava ormai insufficiente per una adeguata
conoscenza dei flussi finanziari, delle esigenze e dei limiti di spesa nonché dei correlati
fabbisogni, indispensabile per una corretta politica e gestione di bilancio.
Si avvertiva, ormai in misura abbastanza evidente, il cambio di rotta nell’analisi
dell’attività di spesa della pubblica amministrazione e della relativa rappresentazione
contabile: non più solo meri dati finanziari significativi del rispetto della legalità a tutela dei
limiti di spesa, bensì anche dati che consentissero la valutazione dell’attività svolta e da
svolgere, ai fini di una più adeguata distribuzione delle risorse disponibili, per la quale
l’analisi esclusiva di singoli atti non si palesava più sufficiente, rivelandosi necessaria la
verifica della complessiva attività gestoria.
Trovano ingresso nell’ordinamento, pertanto, a partire dalla L. 29 marzo 1983, n. 93, le
prime significative affermazioni normative sui controlli, sulla efficienza e sulla economicità
dell’azione amministrativa “anche mediante la valutazione dei risultati conseguiti” (art. 22).
Una più radicale modificazione del sistema contabile e dei controlli tradizionali si
afferma, peraltro, effettivamente soltanto alcuni anni più tardi, con le LL. n. 142 del 1990
sull’ordinamento delle autonomie locali, n. 241 del 1990 sul procedimento amministrativo,
con la legge delega n. 421 del 1992 ed i conseguenti decreti legislativi nn. 29, 39 e 40 del
1993 – rispettivamente relativi alla nuova disciplina del pubblico impiego, alla istituzione di
un’Autorità per l’informatica ed al controllo sugli atti delle Regioni ad autonomia ordinaria
– , con la L. n. 537 del 1993, relativa ad interventi correttivi di finanza pubblica, ed infine
con la L. n. 20 del 1994 in materia di controllo della Corte dei conti.
Con la menzionata normativa. infatti:
a) si canonizzano nell’attività di controllo i principi di efficienza, economicità ed
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efficacia, i quali nel più affinato e corretto “linguaggio” del legislatore non costituiscono più
termini sostanzialmente sinonimi bensì si riferiscono a concetti che esprimono
rispettivamente i rapporti tra input ed output e cioè tra mezzi utilizzati e risultati ottenuti, tra
risorse disponibili e fattori della produzione acquisiti, tra risultati ed obiettivi; peraltro, la
categoria concettuale impiegata in campo economico per fornire i giudizi di valore
fondamentali sull’azione amministrativa è quasi esclusivamente quella dell’efficienza,
tecnica ed economica, nel senso della minimizzazione dei costi dei processi produttivi dei
servizi pubblici, e allocativa, nel senso dell’impiego più adeguato delle risorse per finalità di
benessere collettivo; all’economicità possono essere ricollegati due aspetti dell’efficienza
economica, quali l’applicazione di prezzi per l’acquisto di beni e servizi in grado di erodere
il più possibile la rendita dei fornitori e la responsabilizzazione degli amministratori pubblici
tramite un sistema di prezzi e tariffe dei servizi prestati capace di conseguire ricavi adeguati
e tenere alto il livello di attenzione dell’utenza; l’efficacia, viceversa, può essere riferita alla
fase della prestazione del servizio che “trasforma” l’output prodotto in unità di benessere
sociale;
b) si separano i compiti di direzione politica da quelli di gestione;
c) si dispone la rilevazione dei risultati di gestione anche mediante contabilità economica;
d) si ridefiniscono i moduli di controllo introducendo comunque i controlli gestori,
esaltando così, accanto ai controlli preventivi di legittimità sugli atti, peraltro ridotti nella
tipologia, il controllo sull’attività come strumento per la verifica del rispetto dei principi
sopramenzionati.
L’evoluzione raggiunta consente, inoltre, di focalizzare che riforma del bilancio e riforma
dell’amministrazione non costituiscono variabili tra loro indipendenti in quanto “fanno
sistema” e che, pertanto, se non si prosegue contestualmente sul cammino già tracciato il
rischio è quello del fallimento delle riforme già avviate.
In effetti, all’interno dell’ampio processo di produzione legislativa che ha contribuito,
soprattutto nel corso degli anni ’90, a rendere operative le indicazioni generali per la riforma
dell’amministrazione pubblica, si possono isolare due specifici temi, tra loro strettamente
collegati, e che risultano funzionali alla modernizzazione della gestione delle
amministrazione pubbliche e quindi dell’intervento pubblico per finalità di benessere sociale
nel nostro paese:
la riforma del bilancio e della contabilità pubblica; il riordino e il
potenziamento dei meccanismi e degli strumenti di monitaraggio e valutazione dell’attività
della Pubblica Amministrazione.
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Sui due temi la legislazione si è sviluppata nell’arco di un decennio, pervenendo proprio
negli anni più recenti ai risultati più incisivi. Sul primo aspetto, il “nuovo” bilancio dello
Stato (ma anche degli enti pubblici territoriali) che dovrebbe emergere dall’attuazione della
riforma della Legge n. 94 del 1997 e del decreto legge 279 del 1997, da un lato, e dalla legge
n. 208 del 25 giugno 1999 di modifica della legge n. 468 del 1978, dall’altro, dovrebbe
avere tutti gli elementi di un documento contabile basato sulla definizione programmatica
delle politiche pubbliche e sulla identificazione dei centri di responsabilità amministrativa e
dei centri di costo. Sul secondo aspetto si ricorda, per ultimo, il d. leg.vo 30 luglio 1999, n.
286, che si propone di razionalizzare alcuni istituti di controllo introdotti dal decreto n. 29
del 1993. In questo provvedimento vengono distinte le funzioni di controllo di regolarità
amministrativa e contabile da quelle del controllo di gestione, nonché le funzioni di
valutazione della dirigenza da quelle di valutazione e controllo strategico. Inoltre, si
disciplinano le forme di acquisizione delle informazioni necessarie alla costruzione di
appropriati sistemi informativi per la definizione di “indicatori” e “parametri di riferimento”.
Peraltro, anche dal punto di vista dell’analisi economica si può stabilire un collegamento
tra riforma della P.A., da un lato, e riforma degli strumenti di bilancio e meccanismi di
monitoraggio e valutazione, dall’altro, come già rilevato sotto il profilo più strettamente
giuridico.
Alcuni criteri informatori di tali processi di riforma sembrano chiarire meglio tale
indubbio legame. Un primo criterio generale si riferisce alla realizzazione della
corrispondenza tra responsabilità di spesa e responsabilità di gestione e amministrazione nei
singoli comparti. In particolare, ciò rende necessaria la riorganizzazione degli uffici della
P.A. per centri di costo e di responsabilità con lo scopo di attuare efficaci forme di controllo
di gestione; più in generale occorre concepire ogni singola amministrazione come
un'industria per cui il decentramento territoriale degli uffici deve perseguire configurazioni
in grado di sfruttare le economie di scala e le economie di varietà. Funzionale a questo
disegno risulta anche la riclassificazione del bilancio pubblico che consenta la lettura
trasparente delle decisioni di allocazione delle risorse tra i diversi progetti di spesa e che
quindi renda più efficaci, secondo i principi del sistema budgetario autonomo, le decisioni di
razionalizzazione.
Un secondo criterio si riferisce al decentramento e all'autonomia dei centri di periferici di
spesa a cui attribuire anche una crescente responsabilità sulle entrate. Al processo di delega
delle competenze agli enti periferici deve fare riscontro un aumento della responsabilità sul
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versante delle entrate e la credibilità e rigidità dei vincoli di bilancio degli enti decentrati
posti ex-ante e conseguentemente il superamento del meccanismo dei ripiani a "pie’ di lista".
Un terzo criterio riguarda l'introduzione di elementi di concorrenza all'interno della P.A. e
tra soggetti pubblici e privati nell'erogazione dei servizi. Si tratta di uno dei capisaldi della
filosofia dei così detti "mercati interni" o quasi-mercati che hanno caratterizzato la riforma
di importanti settori di spesa, come la Sanità e l'Istruzione, in altri paesi industrializzati. Da
questo discende l’opportunità di procedere, laddove minori appaiono i benefici
dell'integrazione verticale, nella direzione di separare l'attività e la responsabilità delle
istituzioni titolari del finanziamento dei servizi dall'attività e la responsabilità delle
istituzioni deputate alla produzione degli stessi, conseguendo un arretramento dello Stato
dalla gestione dei servizi. In tal modo risulta più agevole lo sviluppo della competizione tra
gestori pubblici di servizi, in virtù della quale consentire all'ente finanziatore e anche
all'utente la scelta efficiente tra più alternative pubbliche e anche private.
Infine, un quarto criterio riguarda la revisione dei criteri di finanziamento del costo dei
servizi, nella direzione di ammettere che agli utenti-cittadini non sia più garantita la gratuità
assoluta e diffusa dei servizi. Il superamento della logica della gratuità diffusa dei servizi
pubblici pone i cittadini in condizione di percepire il costo di opportunità della quantità e
della qualità dei servizi offerti dalla P.A., in quanto ristabilisce un nesso tra pagamento dei
costi (attraverso le tariffe e le imposte) e fruizione dei servizi. A fronte di questo onere
specifico ed esplicito, agli utenti dovrebbero essere date occasioni per giudicare quanto
viene loro offerto e utilizzare, come detto, l’opzione di rivolgersi ad altri providers (exit),
oltre che di far sentire la propria voce.
14. PIANIFICAZIONE, PROGRAMMAZIONE E CONTROLLO; CONTROLLI INTERNI ED
ESTERNI.
I principi organizzativi sottesi alle riforme amministrativa e di bilancio dell’ultimo
decennio delineano, nell’individuazione di obiettivi, programmi e priorità e delle correlate
risorse finanziarie di bilancio, un processo circolare che può essere definito di
pianificazione, programmazione, gestione e controllo. Il sistema previsto dalla legislazione
di riforma si configura come un continuum tra il processo di formazione del bilancio e
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quello di elaborazione delle direttive generali per l’indirizzo politico-amministrativo
formulate dai titolari dell’indirizzo politico delle amministrazioni, in coerenza con le
previsioni contenute negli stati di previsione allegati alla legge di bilancio.
1 - La nuova disciplina del bilancio, configurata dalla legge 3 aprile 1997, n. 94, si fonda
su di una scelta parlamentare, definita nella legge di bilancio (c.d. “bilancio politico” o per
la decisione parlamentare). Essa identifica i “centri di responsabilità” della gestione e
dell’attività amministrativa cui sono assegnate le risorse finanziarie con una partizione per
“unità previsionali di base” e definisce le “politiche pubbliche” per “funzioni-obiettivo”, in
modo da individuare le “missioni” assegnate alle pubbliche amministrazioni e da consentire
la misurazione del prodotto delle attività amministrative, anche con riguardo ai servizi finali
resi ai cittadini.
All’interno della legge di bilancio approvata dal Parlamento, l’ulteriore disaggregazione
in capitoli è affidata al Governo (Ministero del tesoro - Ragioneria generale dello Stato) che,
con apposito atto di organizzazione (“bilancio amministrativo” o per la gestione), procede
alla ripartizione delle risorse finanziarie assegnate ai centri di responsabilità per unità
previsionali di base, individuando articolazioni operative della struttura di bilancio definita
dal Parlamento.
Il nuovo schema di bilancio (bilancio per la decisione parlamentare - bilancio per la
gestione) si pone, dunque, nella logica della prevista demarcazione tra l’attività politica di
indirizzo e quella amministrativa di gestione. Impostazione, peraltro, che venne ripresa in
occasione dell’elaborazione del progetto di legge di revisione della parte seconda della
Costituzione della Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, articolo 106,
comma 1, secondo il quale: “Le pubbliche amministrazioni operano nell’interesse dei
cittadini, secondo principi di imparzialità, ragionevolezza e trasparenza. Sono distinte dagli
organi di direzione politica, che ne determinano gli indirizzi e i programmi e ne verificano i
risultati”.
In tale logica, il “sacrificio” di analiticità della decisione parlamentare, così come definita
dalla citata legge di riforma del bilancio, è bilanciato, attraverso lo schema per funzioni, dal
rafforzamento, mediante appositi strumenti, quali le note preliminari della spesa (illustrative
degli stati di previsione in cui si articola il documento di bilancio) e le direttive generali per
l’azione amministrativa e per la gestione, delle fasi di scelta di allocazione delle risorse
finanziarie e di indirizzo politico e programmatico.
Se si attenua questo legame tra funzioni e centri di responsabilità, la minore analiticità
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della legge di bilancio, introdotta dalla riforma, rischia di provocare una minore
consapevolezza, da parte del Parlamento, delle scelte di politica pubblica sottese dal
documento di bilancio e di impoverire lo stesso “riscontro” affidato alla Corte dei conti, a
tutela dell’ordinamento e in vista del proprio ruolo ausiliario verso le Camere. Infatti, il ciclo
istituzionale, scandito dalla nuova struttura di bilancio, prende le mosse dalle scelte
parlamentari sulle politiche pubbliche contenute nella legge di bilancio e si conclude con il
riscontro della Corte che riferisce alle Camere sull’efficienza ed efficacia della gestione
finanziaria e dell’azione amministrativa.
2 - Per le amministrazioni dello Stato, essenziale strumento di raccordo tra il momento
politico e quello propriamente gestionale è costituito dalla direttiva generale del Ministro.
Il d. leg.vo 31 marzo 1998, n. 80, ha rafforzato il raccordo istituzionale tra le funzioni di
indirizzo politico-amministrativo e quelle propriamente gestionali, confermando che le
direttive generali di indirizzo politico costituiscono il fondamentale atto presupposto della
legittimità e del buon andamento dell’azione amministrativa dei soggetti pubblici.
Peraltro, la minore analiticità del bilancio dello Stato, introdotta dalla legge n. 94/1997
trova adeguato contrappeso nella maggiore significatività delle note preliminari allegate al
disegno di legge di bilancio, che, secondo l’art. 1, comma 4-quater, della l. n. 468 del 1978,
costituiscono l’adeguato supporto “parlato” ai dati contabili, in quanto illustrano il
dimensionamento delle risorse finanziarie stanziate, la loro correlazione con obiettivi,
priorità, piani e programmi da attuare nell’esercizio nonché gli indicatori di efficacia e di
efficienza che si intendono utilizzare per valutare i risultati della gestione. In tale contesto,
mentre le note preliminari offrono al Parlamento l’indispensabile strumento per una lettura
più consapevole e trasparente dei dati di bilancio, le direttive generali di indirizzo politico
non costituiscono altro che la esplicitazione degli obiettivi dell’azione amministrativa - già
contenuti nelle note preliminari - in chiave propriamente gestionale e sono destinate ai
soggetti responsabili per il raggiungimento dei risultati attesi.
Il sistema delineato dal legislatore configura, dunque, un continuum tra il processo di
formazione del bilancio, che vede impegnati i Ministri, che indicano, anche sulla base delle
proposte dei dirigenti responsabili della gestione, gli obiettivi e programmi di ciascun
dicastero, e il procedimento di elaborazione delle direttive generali per l’indirizzo politicoamministrativo, formulate dai Ministri, anch’esse sulla base delle proposte dei dirigenti
titolari della gestione amministrativa, in coerenza con le previsioni contenute negli stati di
previsione allegati alla legge di bilancio.
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3 - Nel sistema anzidetto, la gestione amministrativa non può prescindere, né può
svolgersi al di fuori della responsabilità politica del Governo.
Infatti, l’esigenza del raccordo tra le attribuzioni dei ministri e dei dirigenti, che si
manifesta attraverso l’elaborazione dell’apposita direttiva generale di indirizzo politicoamministrativo, non incide soltanto sul piano della trasparenza e del conseguimento del
“buon andamento” gestionale dell’amministrazione, bensì anche su quello istituzionale dei
rapporti tra Governo e Parlamento, così come disciplinati con la citata riforma del bilancio.
4 - L’esperienza sin qui maturata, anche sulla base dei referti resi dalla Corte dei conti,
mostra, però, una scarsa attenzione per l’anzidetto passaggio istituzionale, unitamente alla
non soddisfacente qualità dell’elaborazione delle note preliminari allegate al disegno di
legge del bilancio, in specie della “nota politica” (che dovrebbe contenere l’indicazione di
obiettivi e programma della gestione) - come rappresentato dalla Corte in occasione
dell’indagine conoscitiva sui documenti di bilancio 1998-2000 innanzi alle Commissioni
riunite di Senato e Camera in data 22 ottobre 1997 - indeboliscono l’efficacia delle riforme
del bilancio e della pubblica amministrazione.
5 - Dall’esposizione dei risultati svolti in esito all’indagine sugli adempimenti previsti
dagli articoli 3 e 14 del decreto legislativo n. 29 del 1993, da parte delle amministrazioni
dello Stato, emerge un sostanziale inadempimento delle norme citate , che disciplinano i
contenuti e le modalità di elaborazione delle direttive generali.
Sul versante delle note preliminari, nel 1999, su diciannove Ministeri hanno provveduto
ad elaborare la c.d. nota politica (e cioè quella parte della nota preliminare dedicata ad
illustrare obiettivi da conseguire nell’esercizio) tredici amministrazioni, in leggero
miglioramento rispetto al 1998, in cui le amministrazioni che hanno ottemperato sono state
soltanto dieci. I contenuti delle note preliminari permangono non soddisfacenti,
presentandosi, il più delle volte, quali meri adempimenti burocratici, piuttosto che il
consapevole segnale di una riappropriazione, da parte dei titolari dei dicasteri, delle funzioni
di indirizzo politico e di una adeguata pianificazione della gestione amministrativa.
6 - L’incertezza finora riscontrata nell’adempimento, da parte dei Ministri, del disegno di
riforma organizzativa voluto dal legislatore necessita un attento esercizio della funzione di
coordinamento intestata al Presidente del Consiglio dei Ministri, quale garante dell’indirizzo
politico del Governo, per sospingere l’azione dei Ministri, impedita, in alcuni casi, da
condizionamenti culturali. L’esercizio di tale funzione deve essere accompagnata
dall’individuazione di appropriate linee guida e criteri metodologici per la elaborazione delle
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direttive generali e del rafforzamento dello “staff” dei Ministri, dei servizi di controllo
interno, degli altri uffici posti a disposizione degli stessi, quali la rete degli uffici statistici
(coordinati dal SISTAN) e dei responsabili per l’informatica (che hanno nell’AIPA il
proprio punto forte di riferimento), in attesa della completa attivazione della rete unitaria
delle pubbliche amministrazioni.
7 - Il d.leg.vo n. 286 del 1999 ha inteso rendere esplicita la centralità dei documenti di
pianificazione dell’indirizzo politico - amministrativo, la cui elaborazione è affidata alle
note preliminari - allegate agli stati di previsione del documento di bilancio- ed alle direttive
generali dell’azione amministrativa.
Per rafforzare il processo circolare di pianificazione, programmazione , gestione e
controllo, il decreto n. 286 ha inteso riaffermare la missione del controllo interno - ai diversi
livelli di controllo strategico, di gestione in senso stretto, di regolarità amministrativa e
contabile e di valutazione del personale con incarico dirigenziale - che è quella di assicurare
il miglioramento continuo dell’azione amministrativa; non soltanto della gestione in senso
stretto, ma anche della pianificazione e programmazione della stessa azione amministrativa.
In tale dinamica, le funzioni di controllo interno devono essere esercitate in modo integrato.
Il decreto, i cui principi, con le più adeguate soluzioni organizzative, sono applicabili a
tutte le amministrazioni pubbliche, ripropone con maggiore analiticità il sistema dei controlli
interni, per mettere in chiaro che tali funzioni di controllo non sono tanto orientate a finalità
“di garanzia” quanto, prevalentemente a funzioni “di direzione”. E’ noto infatti che i servizi
di controllo interno, istituiti dalle amministrazioni pubbliche con grande difficoltà - a parte
qualche eccezione - continuano, di preferenza, ad essere orientati verso logiche di controllo
meramente formale.
Con riferimento al controllo di gestione, il legislatore ha voluto distinguere il controllo
strategico (assegnato ad una struttura di staff dell’autorità politica) dal controllo di gestione
in senso stretto (assegnato ad una struttura di line del titolare della gestione amministrativa).
Il controllo strategico è la sede organizzatoria in cui matura la dialettica politicagestione, sia per sollecitare rimodulazioni dell’attività gestionale in caso di rilevati
scostamenti, sia (e segnatamente) per ricalibrare gli indirizzi del vertice politico.
Nel sistema delineato dal disegno di riforma, peraltro, il processo valutativo dei dirigenti,
così come definito nei contratti che accedono agli incarichi dirigenziali, prevede la revoca
dell’incarico nei confronti dei dirigenti in caso di inosservanza delle direttive generali o di
rilevati risultati negativi dell’azione amministrativa e della gestione; talché è da ritenere
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funzionale al sistema delineato la completa e trasparente informativa dei dirigenti anche in
ordine agli esiti del controllo strategico.
Il controllo di gestione in senso proprio è, invece, volto alla misurazione dell’attività
amministrativa per garantire, attraverso l’impiego di appositi indicatori, il rispetto degli
attesi livelli di efficienza, economicità ed efficacia. Il compito del controllo di gestione, a
differenza di quello del controllo strategico, è quello di ottimizzare il rapporto costi-risultati.
La riforma amministrativa, incentrata sulla distinzione politica-amministrazione,
attraverso il predetto processo circolare di pianificazione, programmazione e controllo,
intende
restituire,
rispettivamente,
ai
ministri
e
alla
dirigenza
la
loro
piena
responsabilizzazione sia nel momento della definizione di credibili obiettivi di indirizzo
dell’azione amministrativa mediante le note preliminari e le direttive generali, sia in quello
del farsi della gestione per il conseguimento degli obiettivi stessi. Per questo, il legislatore
ha collocato i controlli all’interno delle amministrazioni, poiché intesi, non già quali
strumenti “repressivi” o “impeditivi”, bensì funzionali al “governo“ delle politiche e della
gestione.
Con riferimento ai controlli interni di regolarità amministrativa e contabile, in
considerazione dell’evoluzione degli assetti amministrativi, in cui va affermandosi il
principio della chiara imputazione delle responsabilità politiche e amministrative della
gestione, l’intervento del legislatore è volto a rimediare, con una ulteriore accentuazione, al
sostanziale permanere della situazione di “divorzio tra amministrazione e finanza”, che è poi
alla base di impostazioni culturali riottose ad una oramai inevitabile inversione di tendenza.
Sotto diverso profilo, la scelta del legislatore di dotare le amministrazioni pubbliche di
strutture di controllo interno di regolarità potrà comportare una ridefinizione dell’ambito dei
controlli esercitati dagli Uffici centrali di bilancio e delle ragionerie provinciali per evitare
duplicazioni di funzioni e inefficienze organizzative, a vantaggio di sinergie volte ad un
rafforzamento del processo di bilancio e del monitoraggio dei flussi finanziari.
8 - La funzione di controllo indipendente e neutrale affidata alla Corte dei conti si fonda
sull’integrazione tra controllo di legittimità e regolarità contabile e controllo dei risultati
della gestione (controllo sulla gestione), per realizzare al meglio la sinergia della tutela della
legittimità dei principali atti del Governo e delle pubbliche amministrazioni e del
conseguimento dell’efficienza, economicità ed efficacia della gestione delle amministrazioni
pubbliche.
Muovendo dalla verifica della legittimità e correttezza contabile delle gestioni, il
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controllo successivo sulla gestione ha ad oggetto la misurazione e la valutazione dei risultati
da condurre attraverso l’impiego di strumenti di economia dell’amministrazione, di scienza
dell’amministrazione, di analisi delle politiche pubbliche.
La nuova disciplina dei controlli interni delineata, rafforzando la rete interna alle
pubbliche amministrazioni, pone una premessa importante per una più salda costruzione del
controllo esterno sulla gestione affidato alla Corte dei conti, che acquista, nel nuovo
contesto, un rilievo ancora maggiore, a garanzia di una compiuta e indipendente
informazione e valutazione del Parlamento.
Il sistema delineato “controlli interni - controlli esterni” è incentrato su obiettive esigenze
di differenziazione di compiti e di attività valutative, anche se il raggiungimento di un più
definito punto di equilibrio e di coerente traduzione operativa non può ritenersi ancora
giunto ad un punto di completa maturazione, sia per la riforma della concezione dello Stato
in senso federalista ancora in atto, sia sul piano della convinzione culturale di chi governa e
di chi amministra.
La riforma delle pubbliche amministrazioni sospinge il controllo esterno della Corte dei
conti nel senso di un rafforzamento dei nuovi compiti in ausilio della regolarità-legalità e
dell’economicità, efficienza ed efficacia delle gestioni in funzione della tutela degli equilibri
economico-finanziari ed il cui esito è di referenza ausiliaria, in primo luogo, alle Assemblee
elettive (Parlamento e Consigli regionali). In tale direzione, la funzione referente della Corte
dei conti assume una più precisa connotazione, coessenziale ad un ruolo che si esprime in
una imparziale equidistanza rispetto ai diversi livelli di governo a salvaguardia degli
equilibri di finanza pubblica.
15. IN PARTICOLARE, I CONTROLLI GESTORI E LA MISURAZIONE DELL’ATTIVITÀ
Per governare la finanza pubblica – e, quindi, assumere anche le necessarie decisioni in
termini di allocazione delle risorse per il perseguimento degli interessi pubblici e per
l’erogazione dei servizi – occorre disporre di un patrimonio ricco di informazioni che
soltanto uno svolgimento corretto ed adeguato dei controlli sui fenomeni gestori può fornire.
La locuzione controlli gestori si riferisce ad una pluralità di moduli organizzatori che in
comune hanno soltanto l’oggetto del controllo: “la gestione” e/o la rappresentazione
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contabile, essendone diversi i titolari della funzione, le finalità, i destinatari. Vi sono
ricompresi, pertanto, i controlli interni e quelli esterni (nel sistema già rappresentato): tra i
primi quelli tradizionalmente intestati ai collegi dei revisori e quelli di gestione, mentre tra i
secondi le certificazioni di bilancio, la vigilanza, l’attività delle autorità indipendenti ed i
controlli sulla gestione.
Il controllo di gestione è, come in parte rilevato, un controllo interno, che si caratterizza
per il fatto di essere partecipe del procedimento volto al conseguimento degli obiettivi
prefissati, che è finalizzato a fornire utili elementi di conoscenza dell’andamento gestionale
per favorire i tempestivi aggiustamenti da parte dei titolari del potere decisionale.
E’ un controllo, quindi, che strutturalmente e funzionalmente si colloca in posizione di
osservatorio qualificato per trasmettere le informazioni necessarie al fine di ottimizzare
l’attività dell’ente. E’ un controllo che fotografa l’andamento dei fenomeni gestori ma che
non si traduce in giudizio, ne si sovrappone o condiziona le scelte di chi è investito di un
potere direzionale. E’ un controllo preventivo, concomitante e successivo dell’attività, in
funzione servente e valutativa del management per il conseguimento dei migliori risultati in
termini di efficienza, di economicità e di efficacia. Si sviluppa attraverso l’analisi ed il
monitoraggio di ogni singola fase dell’attività amministrativa e gestionale, favorendo il
miglioramento dei risultati ed assolvendo così, mutatis mutandis, a funzione analoga a
quella che in campo aziendale è svolta da chi si occupa del controllo di qualità del prodotto.
E’ il controllo-conoscenza che deve poter consentire l’eliminazione delle possibili cause che
determinano scostamenti rispetto ai dati previsionali.
Appare evidente che tale controllo – di volta in volta definito in ragione delle
caratteristiche evidenziate: controllo organizzativo, controllo conoscenza, controllo
collaborazione, controllo di efficienza, controllo di produttività, controllo sui risultati,
controllo impulso, controllo guida etc. – si appalesa indispensabile ai fini della verifica dei
criteri di efficacia, efficienza ed economicità, cui debbono essere informate anche le attività
degli organismi strumentali dell’ente locale, per la gestione dei servizi pubblici, dovendosi a
tal fine effettuare un costante monitoraggio sulla quantità e sulla qualità dei prodotti offerti,
sui loro costi unitari, sulla produttività dei fattori impiegati.
Diverso da quello di gestione è il controllo sulla gestione, il quale anzitutto è un controllo
esterno che si conclude con un giudizio a seguito di una valutazione sull’operato gestorio,
sui suoi risultati, sulle cause che lo hanno determinato e sulle regole alle quali si è ispirato.
E’ anch’esso verifica dell’efficiacia della gestione, della sua economicità e della sua
52
efficienza, ma non in quanto funzionale all’attività di direzione, bensì in quanto successivo e
rivolto alle gestioni future.
E’ un controllo che, con l’esclusione di ogni interferenza o coinvolgimento del
controllore interno, di cui possono essere utilizzati i risultati, è funzionale all’avvio di un
circolo virtuoso di rivisitazione all’indietro di regole e comportamenti – definito da alcuni
controllo circolare il quale dalla programmazione passa all’organizzazione, poi alla gestione,
quindi al controllo per tornare infine alla prima – che nel feed back istituzionale consenta ai
soggetti dall’ordinamento all’uopo previsti di ordinare adeguatamente le proprie scelte. E’
un controllo, quindi, che potrà utilizzare anche i risultati dei controlli direzionali interni ma
ciò al fine di verificare la funzionalità pubblica dell’attività svolta, anche al fine
dell’individuazione delle responsabilità.
Sia il controllo di gestione che quello sulla gestione, pur nelle diverse finalità perseguite,
non possono prescindere dalla misurazione dell’attività amministrativa anche se con le
difficoltà che essa comporta come già rilevato nel Rapporto Giannini.
Ed invero, una effettiva riqualificazione della spesa pubblica mirata alle esigenze della
collettività richiede un articolato sistema di produzione di informazioni che consentano una
scelta consapevole nell’allocazione delle risorse disponibili.
La verifica, in altri termini, dell’efficacia, dell’economicità e dell’efficienza dell’attività
svolta non può prescindere dalla utilizzazione di indicatori di gestione e, per i correlati
effetti economico-finanziari, da indici di bilancio.
Deve, comunque, rilevarsi che:
•
l’attività svolta dalla Pubblica amministrazione di rado è misurabile nello stesso
modo di quella praticata dai privati considerate le diverse finalità e condizioni operative;
pertanto, va evitata la suggestione, già emersa in occasione della mutuabilità nel pubblico
della certificazione del bilancio, di ritenere integralmente trasponibili istituti della scienza
aziendalistica;
•
la misurazione dell’attività amministrativa trova un suo “naturale” ostacolo
nell’asimmetria dell’informazione posseduta dall’amministrazione rispetto a quella fornita
al controllore; ed invero, normalmente, la struttura operativa della gestione tende ad
opporre un grado di resistenza più o meno elevato nel rendere disponibili i dati in proprio
possesso in ragione del fatto che i controlli interni, ed in particolare quelli esterni, si
traducono anche in valutazione o giudizio;
53
•
l’informazione è un business che ha un suo costo e deve, pertanto, essere mirata
individuando preventivamente la specifica utilità che ne può derivare. D’altra parte non
appare superfluo rammentare che l’eccesso di informazioni soffoca chi la deve fornire e
paralizza e confonde chi deve operare con il possibile rischio di una riorganizzazione
dell’amministrazione, al dichiarato scopo di ottenere una maggiore efficienza ed efficacia,
che si traduca nell’impianto di strutture sostanzialmente identiche nei risultati alle
precedenti;
•
la sollecitazione forte che emerge dalla normativa citata non è più solo quella di
improntare l’attività al rispetto delle c.d. tre “e” (efficienza, economicità ed efficacia), ma
anche e soprattutto, quella di individuare i passaggi logico-procedimentali dell’azione
attraverso quelle che possono essere definite le tre “c”: chi, cosa, come e, cioè, centri di
costo e di responsabilità, centralità di risultati e di obiettivi, conoscenza delle modalità di
gestione delle risorse.
Peraltro, il processo produttivo all’interno delle amministrazioni pubbliche è
generalmente di tipo multiprodotto, con forti complementarità di costo e relativa lontananza
della domanda collettiva, che non consente di incanalare adeguatamente i naturali effetti di
razionamento e selezione. La determinazione dello “...insieme dei prodotti e delle finalità
dell’azione amministrativa, con riferimento all’intera amministrazione o a singole unita
organizzative...”, come recita il punto d) dell’art. 4 del decreto n. 286 del 1999, può spesso
risultare un’impresa improba a cui non corrisponde un’adeguata utilità in termini di analisi
economica. Alla moltitudine di output non possono essere infatti correttamente imputati
input, se non con procedimenti altamente approssimati. Per cui la corretta individuazione
della funzione-obiettivo, e il suo successivo collegamento al centro di responsabilità,
risultano mere enunciazioni senza possibilità di incidere nella organizzazione produttiva
dell’ufficio.
Inoltre, quasi sempre non è possibile effettuare un adeguato processo di valorizzazione
che possa ricondurre i risultati dell’attività ad un unico indicatore di gestione omogeneo,
come possono essere il fatturato, o l’utile nelle aziende private. Tutto ciò ha implicazione
rilevanti nella scelta degli appropriati “indicatori specifici per misurare efficacia, efficienza
ed economicità”
In ogni caso tra i tanti, a fini di omogeneità, si richiamano i c.d. indicatori di scostamento
- in presenza di standard, di obiettivi predeterminati e di parametri prestabiliti -, gli
indicatori seriali - che nell’analisi e nella ponderazione per più esercizi di rapporti tra dati
54
omogenei di settori di attività possono evidenziare elementi sintomatici di andamenti gestori
-, gli indicatori eziologici - in quanto strumenti di indagine causale degli andamenti gestori
che tengano conto dei fattori interni o esterni dell’amministrazione e, comunque, capaci di
concorrere alla formazione dei risultati conseguiti -, gli indicatori di funzione comparata, al
fine di disporre di valutazioni comparative tra diverse amministrazioni di comuni funzioniobiettivo.
Pur con la indispensabile cautela nell’uso di tali tecniche di rilevazione, se ne deve
sottolineare, peraltro, l’enorme importanza in quanto compongono un sistema di produzione
di informazioni specifiche che consentono modificazioni di processi gestionali, di
comportamenti, dell’organizzazione e dell’allocazione delle risorse, il riesame della
programmazione, la valutazione della proficuità dell’azione svolta.
16. IL NODO DELL’EFFICIENZA DEI SERVIZI PUBBLICI E DELLA QUALITA’ E DELLE
PRESTAZIONI PUBBLICHE.
Un problema teorico, ma anche pratico, di grande rilievo che, in ogni caso, tende a
limitare l’applicazione di schemi ad incentivo ad alto potenziale (hard budget) nella P.A. è
costituito dal trade-off che la teoria ha chiaramente evidenziato tra contenimento dei costi e
qualità delle prestazioni
I servizi pubblici sono, nella maggior parte dei casi, degli experience goods, cioè beni per
i quali l'utenza percepisce la qualità solo dopo che ha avuto luogo la prestazione. Oltre che
osservabile soltanto dopo il consumo, la qualità nei servizi pubblici è anche non verificabile,
cioè non descrivibile ex-ante in un contratto e sottoponibile poi al giudizio di un organo
amministrativo o giudiziario che imponga eventuali sanzioni per inadempienza contrattuale.
Nel campo dell'economia privata un venditore trae l'incentivo a produrre beni ad alta
qualità da un meccanismo di reputazione e dal relativo desiderio di preservare i profitti
futuri. Se l'acquisto è ripetuto il compratore può punire il venditore per una qualità scadente
non comprando più da lui e, d'altra parte, un'alta qualità può essere un segnale per il
compratore della convenienza futura di successivi acquisti.
E' plausibile ritenere che tali incentivi non operino in modo altrettanto efficace nella P.A.
per il semplice motivo che non è facilmente esprimibile il valore monetario
55
dell'investimento in reputazione sottostante, per cui i dirigenti pubblici non investono
adeguatamente. Questa caratteristica dei servizi pubblici di beni experience, "con qualità non
verificabile e limitato effetto di reputazione", ha conseguenze rilevanti sugli incentivi del
meccanismo di finanziamento delle strutture decentrate della P.A.
Il trade-off qualità-efficienza, in cui sembra inevitabilmente cadere la P.A., può essere
ragionevolmente allentato estendendo i meccanismi di concorrenza interni al settore
pubblico che valorizzino il ruolo dell’effetto di reputazione, altrimenti soffocato. In via
subordinata e meno efficace si può fare affidamento sugli incentivi non monetari che
prevedono meccanismi (le carriere, il prestigio) collegati alla reputazione e all'immagine che
i funzionari pubblici che desiderano mantenere in vista di future promozioni, prospettive di
cambio di lavoro (nel pubblico come nel settore privato). In una certa misura il potenziale
incentivante il miglioramento qualitativo vale anche per gli schemi basati su queste
compensi non monetari, anche se è inferiore a quello della reputazione derivante dalla
concorrenza.
Nella tradizione amministrativa italiana è finora prevalsa l’idea di allentare il trade-off
non curandosi troppo del contenimento dei costi, con il risultato, nella migliore delle ipotesi,
di privilegiare la qualità della prestazione, ma a prezzo di un aumento non controllato della
spesa pubblica. Tuttavia, talvolta ad un aumento di questa non corrisponde neppure un
livello adeguato della qualità.
Peraltro, va osservato che la diffusa (e sostanzialmente fondata) insofferenza che si
manifesta alla fine degli anni Novanta verso il primato delle procedure, e delle relative
verifiche formali, non può concludersi semplicisticamente con l’archiviazione dei metodi, in
favore di un retorico primato dei risultati. I secondi, infatti, sono diretta funzione dei primi:
da metodi scadenti scaturiscono risultati scadenti, mentre da metodi qualificati provengono
risultati di qualità. La giusta eliminazione di tanti controlli (formali) ex ante non può tradursi
nel semplice potenziamento dei controlli (di merito) ex post: se questi ultimi sono, come
evidente, decisivi, è altrettanto decisivo che il controllo di qualità avvenga durante il
processo produttivo nel corso del quale prendono corpo la pratica amministrativa o il
servizio.
Ciò può avvenire applicando pienamente l’orientamento all’internalizzazione dei
controlli che ispira, come visto, le innovazioni legislative in materia. Per come la si intende
qui, la qualità è estranea a qualsiasi forma di controllo che si ponga come repressiva; al
contrario, essa presuppone la cooperazione con le istanze esterne preposte a ciò in
56
determinati casi (Ragioneria, Corte dei conti) e, in tutti gli altri casi, l’interiorizzazione degli
standard di qualità, dei metodi per conseguirli, delle tecniche di misurazione per valutarli.
D’altro canto, se la sede del controllo di qualità del prodotto (output) coinvolge l’interno
dell’amministrazione, il controllo di qualità del servizio in quanto prestazione che soddisfa
una domanda (outcome) non può non coinvolgere l’ambiente esterno.
In un ambiente-mercato non vi sono (idealmente) problemi di feed-back: la legge della
domanda e dell’offerta fornisce informazioni e criteri adeguati per valutare se la qualità
(così come la quantità, il prezzo etc.) di un bene o di un servizio sono adeguati alla
domanda: nel caso di un prodotto inadeguato il feedback è (sempre in principio) univoco, in
termini di prodotto invenduto e di aumento di quote di mercato da parte dei competitori.
Presentando caratteristiche che non sono tanto politiche da poter essere valutate con i
normali strumenti della partecipazione politica (voto), né tanto economiche da essere
soggette alla transazione venditore/acquirente, i servizi pubblici possono essere valutati, e la
loro qualità può essere misurata, chiedendolo ai diretti interessati, cioè ai cittadini. E’ così
che, muovendo da esperienze accumulate nell’ambito della produzione di beni e, soprattutto,
di servizi destinati alla vendita, oggi è possibile disporre di tecniche di customer satisfaction
(v. cap. VIII), che costituiscono una sorta di terza via tra la prospettiva privata e quella
pubblica. Oltre ad essere apertamente efficace, tale via è altresì significativa sul piano
politico: essa contribuisce infatti a restituire la parola al cliente, cioè al cittadino, che per
troppo tempo ne è stato privato.
57
V – LE INNOVAZIONI TECNOLOGICHE
17. L’INTRODUZIONE DELLE NUOVE TECNOLOGIE NELL’AMMINISTRAZIONE
PUBBLICA E LA LORO FUNZIONE STRATEGICA
Il ruolo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione come fattore di
miglioramento
dei
servizi
in
termini
generali,
è
particolarmente
significativo
nell'amministrazione pubblica, che tratta principalmente informazioni. Nell'amministrazione
pubblica le tecnologie dell'informazione e della telecomunicazione possono infatti
consentire di offrire oggi soluzioni con un rapporto risultati/costi fino a pochi anni fa
impensabile:
servizi di informazione al pubblico, modalità di erogazione dei servizi,
trattazione di pratiche che coinvolgono amministrazioni diverse, sportelli virtuali,ecc.
In via di superamento, i vincoli connessi alla limitata diffusione di strumenti e con
ragionevoli aspettative di una prossima completa disponibilità di infrastrutture di
comunicazione, il nodo che la Pubblica Amministrazione si trova davanti è soprattutto
quello delle componenti applicative e della loro integrazione con i processi organizzativi,
dell’utilizzo produttivo dei sistemi, dell’ottenimento di tangibili risultati in termini di
servizio reso e di economia di gestione.
L’evoluzione non sarà facile, perché ci vorrà del tempo per invertire una tendenza nel
settore dell’informatica pubblica - perdurata per decenni - alla sistematica committenza,
prevalentemente ad imprese esterne, private o pubbliche che fossero, non solo delle attività
specialistiche e ad alta tecnologia ma anche di attività di gestione e manutenzione e, cosa
ancor più grave, delle scelte progettuali e di crescita. Tale fenomeno, dovuto inizialmente
alle carenze strutturali e alla debolezza dei corpi tecnici dell’Amministrazione, si è spesso
consolidato nel tempo facendo venire meno all’Amministrazione l’approccio ad una cultura
intesa a valorizzare le progettazione, sia pure di massima, anche perché lo stesso
management amministrativo risentiva dell’assenza di un valido disegno programmatico e di
un monitoraggio costante, per la verifica dei risultati conseguiti.
In questa area si devono collocare gli sforzi diretti a riprendere la capacità di progettare e
monitorare con risorse dirette della Pubblica Amministrazione quei
possano
sistemi futuri che
gestire in maniera integrata e federata le risorse informative di base,
tendenzialmente comuni e condivise tra tutte le Amministrazioni e i principali processi
58
comuni.
Il problema non ha rilevanza soltanto nel nostro Paese, ma è un problema che abbraccia
tutti gli scenari transnazionali e in particolare quelli dell’Europa.
La valenza strategica dell’information technology è così evidenziata nello stesso Trattato
dell’ U.E. (art. 129 B), che individua, nello sviluppo delle reti transeuropee delle
telecomunicazioni, una delle precondizioni per la realizzazione del Mercato unico (art. 7 A)
e per il rafforzamento della coesione economica e sociale (art. 130 A).
E anche nel “Rapporto sull’Europa e la Società dell’Informazione globale” (Rapporto
Bangemann) e nel Libro bianco “Crescita, competitività e occupazione” si raccomandano come obiettivi primari - l’interconnessione delle reti e l’interoperabilità dei servizi e delle
applicazioni.
In termini generali, è evidente che questo ultimo ventennio ha registrato una straordinaria
evoluzione delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione.
Da una parte si è avuta una continua e progressiva diffusione di strumenti sempre più
semplici, meno costosi e differenziati, quali in primo luogo i personal computer, che hanno
portato ad una pervasività di queste tecnologie in tutti i settori ed in gran parte dei prodotti.
Dall’altra è proseguito il processo di convergenza tra informatica e comunicazioni, con il
collegamento e lo scambio informativo tra elaboratori e soggetti diversi, ormai diffuso a
livello globale con la rete Internet, che ha rivoluzionato modi e strumenti di comunicare.
Questi
mutamenti
hanno
modificato
radicalmente
il
ruolo
delle
tecnologie
dell’informazione e della comunicazione: esse si non si configurano più solo come strumenti
per rendere più efficienti attività definite e quasi immutabili (le procedure, i flussi di lavoro)
ma rappresentano prima di tutto delle opportunità, dei “fattori abilitanti” che rendono
possibili il cambiamento dei tradizionali modi di produrre, di distribuire, di organizzarsi, di
rapportarsi con clienti ed utenti.
Questa evoluzione è particolarmente rilevante per la Pubblica Amministrazione e per la
nostra in particolare: è noto infatti che uno dei punti deboli del funzionamento delle
istituzioni pubbliche è sempre stato quello di disporre di una scarsa qualità
dell’informazione, dovuta non tanto ad una ridotta opportunità di acquisire informazione (al
contrario), quanto, piuttosto, nell’incapacità di elaborarle e dunque di governare la
inadeguata disponibilità del bene-informazione, che spesso degenera in disinformazione, ed
è verosimilmente alla radice delle inefficienze e degli alti costi dei servizi pubblici.
59
Il fatto che l’evoluzione tecnologica interessi ora anche la Pubblica Amministrazione
italiana, che, specie negli ultimi anni e sia pure con ritardo rispetto ad altri paesi, ha mostrato
una notevole accentuazione di interesse, consapevolezza ed iniziative, non può essere visto
che positivamente.
In estrema sintesi lo stato delle diversi “componenti” dell’innovazione può essere
fotografato nel modo seguente.
Dotazioni strumentali: alla fine del 1998 i personal computer installati nelle sole
Amministrazioni centrali assommavano, secondo i dati forniti dai responsabili dei Sistemi
Informativi delle stesse Amministrazioni, a circa 160.000, quindi ben al di là della soglia del
50% del personale “informatizzabile”, sempre stimato dalla stessa fonte in 255.000 addetti.
Il dato si confermava positivo, anche se rapportato al totale dei dipendenti delle
amministrazioni: in questo caso si registrava una copertura di 0,37 posti di lavoro per
dipendente.
Il piano di informatizzazione elaborato dall’Autorità per l’Informatica prevede di
arrivare, alla fine dell’anno corrente, a due posti di lavoro informatizzati ogni tre dipendenti,
e tale obiettivo, che colloca il nostro paese a livello di eccellenza nel contesto europeo,
appare concretamente raggiungibile. La situazione non è peraltro omogenea: se per alcune
amministrazioni si è già raggiunta la piena disponibilità di stazioni di lavoro, altre sono più
lontane dall’obiettivo; ne consegue prima di tutto una necessità di riequilibrio, e,
naturalmente una contestuale analisi dell’utilizzo qualitativo effettivo delle apparecchiature
installate.
Infrastrutture: meno favorevole è la situazione della attivazione delle reti locali. A fine
1998, sempre per l’universo delle sole Amministrazioni centrali, risultavano collegati in
rete locale, con la possibilità quindi di scambiare e condividere informazioni all’interno
dell’amministrazione, circa 92.000 stazioni di lavoro. L’obiettivo, previsto per la fine del
2001, è quello di avere 195.000 stazioni di lavoro presenti collegate in rete. Anche per le reti
locali valgono le medesime considerazioni sulla disomogeneità svolte in precedenza.
Rete unitaria: nell’attuale fase di riordino delle unità periferiche della amministrazioni
dello Stato e di decentramento, di conferimento alle regioni e agli enti locali
(nell’osservanza del principio di sussidiarietà) di tutte le funzioni e i compiti amministrativi
localizzabili nei rispettivi territori, l’impostazione “federata” dei sistemi informativi
costituisce il presupposto per realizzare in concreto la scelta operativa del decentramento,
ossia portare le procedure e i dati vicino agli utenti, lasciando al centro le funzioni di
60
pianificazione strategica e di controllo della produzione dei servizi, al fine di garantire il
processi di feed-back di controllo della qualità dei dati.
Il presupposto tecnologico per un sistema di questo tipo, basato sui principi di autonomia
decisionale e gestionale, di cooperazione delle applicazioni e di condivisione dei dati è la
realizzazione di una rete unitaria della pubblica amministrazione, una “rete delle reti” per cui
ogni amministrazione mantiene la propria autonomia, ma la struttura tecnologica sulla quale
viaggiano le informazioni viene condivisa da tutte le amministrazioni.
In questa direzione si è sviluppato negli anni scorsi il progetto per la “Rete Unitaria delle
Pubbliche Amministrazioni”, ormai nota anche con la sigla “RUPA”, che mirava alla
costituzione
della
necessaria
infrastruttura
di
collegamento
dell’intera
pubblica
amministrazione centrale sia dal punto vista tecnologico che da quello delle modalità
tecniche e organizzative di cooperazione. Il progetto, orientato dai principi dell’autonomia
delle varie amministrazioni connesse, dell’unitarietà dell’interfaccia verso l’esterno e dalla
ricerca dell’adeguato livello di sicurezza, è ormai entrato in fase operativa. In questi mesi le
amministrazioni centrali e periferiche hanno cominciato a stipulare i contratti con i fornitori
designati dalle apposite gare e, a partire dai primi mesi del 2000, saranno quindi
concretamente utilizzabili sia i servizi di trasporto (connessione fisica tra amministrazioni),
sia i servizi di interoperabilità (i servizi di base, quali ad es. la posta elettronica, la possibilità
di inviare e ricevere archivi e file di ogni tipo, l’accesso ad Internet).
Il previsto passaggio all’utilizzo dei servizi della RUPA consentirà, se correttamente
attuato, di ridurre in maniera non indifferente l’impegno economico, a parità di servizio,
rispetto alle precedenti condizioni e potrà anche rappresentare l’occasione per un salto di
qualità verso l’utilizzo di servizi avanzati, dalla posta elettronica agli accessi a Internet, dalle
videoconferenze alla trasmissione di voce ed immagini ecc.
Nello stesso tempo è già nella prima fase di operatività la rete di cooperazione degli
Uffici di Gabinetto e dei responsabili dei Sistemi Informativi (Rete G-Net), finalizzata a
potenziare l’utilizzo delle informazioni a fini decisionali e di governo del Paese, che collega
le unità organizzative (Uffici di Gabinetto, Uffici Legislativi, Segreterie dei Ministri e dei
Sottosegretari) che costituiscono, nelle Amministrazioni, l’elemento di raccordo
organizzativo tra indirizzo politico e responsabilità direttive e operative.
Banche Dati e Applicazioni: la prospettiva del pieno accesso condiviso alle informazioni
e della cooperazione tra uffici diversi accentua la necessità che ogni Amministrazione metta
a disposizione in una prima fase Banche Dati
complete, affidabili, aggiornate e sviluppi
61
quindi un proprio sistema informatico accessibile in termini tecnologici, funzionali e di
qualità dell’informazione.
Alcune Amministrazioni hanno nel frattempo avviato processi di modifica dei propri
sistemi, tesi a superare i vincoli derivanti da architetture ormai obsolete ed inadeguate alle
nuove esigenze: è il caso dei maggiori enti previdenziali e di molti importanti sistemi
informativi dei Ministeri. La situazione generale è comunque assolutamente insoddisfacente:
i sistemi di elaborazione dati delle amministrazioni, a parte alcune eccezioni, soffrono di una
eccessiva frammentazione, con inevitabili ripercussioni in termini di economicità e qualità
del servizio e per molte amministrazioni la disponibilità di informazioni automatizzate è
ancora carente o troppo frammentata, tanto da rendere difficile l’utilizzo. Per molte basi di
dati permangono, poi, anche problemi di qualità, in termini di completezza
dell’informazione e di suo aggiornamento, situazione inevitabilmente aggravata nelle
situazioni in cui la stessa informazione è trattata separatamente da differenti soggetti, senza
la necessaria interconnessione.
Il costo dell’innovazione: secondo i dati dichiarati dai responsabili dei sistemi informativi
delle amministrazioni, la spesa per acquisizione di beni e servizi informatici, é stata nel
1998 di 2.841 mld., di cui 2.146 mld. relativi alle amministrazioni centrali dello Stato e 694
mld. relativi agli enti pubblici non economici nazionali. Questi impegni di spesa sono stati
indirizzati per circa il 40% alle attività di sviluppo e per il rimanente 60% verso attività di
gestione dei sistemi. L’impegno del 1998 risulta sostanzialmente stabile rispetto all’anno
precedente e registra, rispetto al 1996, un incremento di circa il 10%. Le modalità attraverso
le quali vengono acquisiti questi dati e la mancanza di alcune voci di spesa essenziali (quali
quella del Personale delle Amministrazioni addetto ai Sistemi Informativi o delle quote di
spese generali e di infrastrutture) non rendono completamente apprezzabili gli stessi: un
impegno particolare dovrà essere posto in questo senso per arrivare a disporre di dati
analitici relativamente ai costi, anche indiretti o sommersi, dei sistemi, che costituiscono
elemento imprescindibile per un’analisi del rapporto costi/benefici e per il conseguente
orientamento delle politiche di spesa e di incentivazione. Se non v’è dubbio, infatti, che una
crescita dell’investimento in questo settore possa portare a significativi risultati, è altrettanto
indubbio che la spesa debba essere attentamente finalizzata e costantemente monitorata.
18. LA REINGEGNERIZZAZIONE DEI PROCEDIMENTI
62
La centralità in questa fase delle componenti applicative e dell’utilizzo produttivo delle
nuove tecnologie, unitamente alla difficoltà di avviare progetti ed iniziative capaci di
sfruttarne al meglio le potenzialità, è speculare alla evidenza della necessità di dare concreta
attuazione alla ricca innovazione normativa prodotta in questi anni, che a sua volta presenta
difficoltà di dispiegarsi compiutamente nella operatività delle amministrazioni e nella
percezione dei cittadini e del paese.
Queste difficoltà pongono in evidenza le tematiche organizzative ed in particolare il tema
della “reingegnerizzazione dei procedimenti”, ossia di un intervento congiunto e coordinato
su flussi procedurali, responsabilità e personale coinvolto, tecnologie e strutture
organizzative deputate all’erogazione di prodotti/servizi.
La reingegnerizzazione dei processi si propone infatti di ridisegnare complessivamente
gli stessi, partendo dalla missione e dalle strategie ed agendo contestualmente su tutte le
componenti (flusso, organizzazione, personale, logistica, informazioni trattate). In questo
modo si tende garantire la congruenza tra i vari tipi di intervento, eliminando la possibilità di
automatizzare processi lavorativi male organizzati e superando la vecchia impostazione di
guardare a queste problematiche solo come valutazione dell’ “impatto organizzativo” di
soluzioni informatiche nate principalmente da opzioni tecnologiche.
Questo approccio consente, ad esempio, di dare immediata fattività ai decreti di
semplificazione dei procedimenti, che dovrebbero nascere, cosa che ancora non è, attraverso
una elaborazione congiunta dei vari aspetti che produca insieme le nuove regole ed i nuovi
strumenti attuativi. Questo approccio è indispensabile per l’effettiva attuazione dei
conferimenti di compiti e responsabilità verso gli enti locali che implica un ripensamento sia
delle attività operative collocate nel territorio, che vengono a collocarsi in un nuovo
contesto, sia dei nuovi processi necessari a dare concretezza e valore aggiunto ai compiti di
indirizzo, sostegno e monitoraggio che si collocano nelle amministrazioni centrali.
Spesso la progressiva attuazione dei conferimenti previsti dalle leggi di riforma e da
nuove politiche di settore impone un ripensamento sostanziale dei sistemi informativi di
supporto. Si tratta di passare da sistemi di amministrazione a sistemi condivisi, con una
molteplicità di attori, relativi a tematiche oggetto di politiche pubbliche. In questo quadro i
sistemi delle amministrazioni centrali si finalizzano prima di tutto al supporto alle decisioni
e al monitoraggio complessivo delle politiche mentre i sistemi delle amministrazioni locali
sono gli effettivi sistemi per la gestione ed il controllo operativo. Si tratta di una
trasformazione che è resa possibile dalla RUPA ma che necessita di una specifica
63
progettazione interdisciplinare, specifica dei vari contesti.
Tutto questo insieme di problematiche rimanda alla necessità di una profonda
interdisciplinarità nella fase di progettazione a ad una costante collaborazione in fase
attuativa che coinvolge i responsabili dei sistemi informativi insieme ai dirigenti
amministrativi.
Questo aspetto rappresenta oggi un problema in quanto la funzione di responsabile dei
sistemi informativi, anche in quelle amministrazioni nelle quali viene esercitata con risorse
professionali adeguate, non è generalmente integrata nei processi di decisione strategica
dell’amministrazione, perché alla risorsa informatica viene ancora assegnato un ruolo
prevalentemente strumentale. I responsabili dei sistemi informativi, anche quando
qualificati, interagiscono poco (salvo eccezioni) con i vertici delle amministrazioni, senza
riuscire ad incidere significativamente sulle scelte rilevanti, che richiederebbero una
valorizzazione strategica delle tecnologie dell’informazione. Questa situazione rappresenta,
di fatto, uno degli ostacoli più rilevanti al successo del processo di semplificazione
amministrativa in atto.
Un altro aspetto negativo riguarda la perdurante complessità e lunghezza delle procedure
di acquisizione, questione peraltro già all’attenzione all’interno dei provvedimenti di
semplificazione, particolarmente pesante in un settore caratterizzato da continua evoluzione
tecnologica.
Infine, è doveroso un cenno alle necessità di crescita di competenze nel settore. Da
quanto esposto ne deriva che il ruolo dell’informatica nella Pubblica Amministrazione sta
mutando, spostando l'attenzione sull'utente e sull'organizzazione, anche per la generale
tendenza ad utilizzare sia l'outsourcing, sia strumenti software avanzati disponibili sul
mercato. L’Amministrazione tende a diventare un utente dell'informatica e da soggetto
attivo nella produzione di soluzioni informatiche, si trasforma in un soggetto attivo nella
produzione di soluzioni organizzative basate sui sistemi informativi e sull'uso delle reti. Da
queste considerazioni discende la necessità di formare e aggiornare delle nuove figure
professionali, sia squisitamente tecniche, sia di tipo più manageriale.
Sarà compito di ogni amministrazione la scelta di utilizzare più o meno ampiamente il
ricorso al mercato per la gestione e lo sviluppo dei propri sistemi, scelta da basarsi su uno
specifico bilancio di costi e benefici: da questo deriverà l’ampiezza della formazione
informatica da acquisire per i propri dipendenti. Quello che ogni amministrazione deve
comunque prevedere riguarda da una parte la sensibilizzazione della dirigenza e la
64
formazione di un limitato ma adeguato nucleo di elevate competenze informatiche e
organizzative, capaci di gestire i complessi rapporti con gli utenti ed i fornitori, dall’altra la
diffusione di una formazione di base sui nuovi strumenti verso l’utenza amministrativa, che
dovrà necessariamente dare ricorso a modelli innovativi di “formazione in rete” e prevedere
un intreccio tra formazione, supporto e stimolo. E’ importante, cioè, che, accanto a specifici
programmi di formazione (ed alfabetizzazione informatica, ancora oggi più che necessaria),
emergano iniziative capaci di favorire e accompagnare il cambiamento organizzativo,
funzionale e tecnologico in atto, che assume in questi anni una particolare intensità, curando
adeguatamente il coinvolgimento delle persone che rappresentano la più profonda criticità
per il successo della trasformazione dell’Amministrazione pubblica italiana.
19. L’AUTORITÀ PER L’INFORMATICA NELLA PUBBLICA AMMINISTRAZIONE
L’esigenza
della
creazione
di
un’Autorità
per
l’Informatica
nella
Pubblica
Amministrazione, avvenuta contestualmente alla elaborazione del disegno di riforma del
1993, è segnale eloquente della piena consapevolezza che l’informatica non rappresenta
semplicemente una risorsa tecnologica; in realtà, essa implica logiche e approcci culturali
ontologicamente connaturati alla realizzabilità della modernizzazione delle pubbliche
amministrazioni.
Gli obiettivi di fondo cui l’Autorità è chiamata a contribuire sono quelli di introdurre
nella pubblica amministrazione la condivisione delle informazioni; la reingegnerizzazione
dei processi; la razionalizzazione degli investimenti informatici; il recupero di risorse
attraverso l’abbattimento dei costi operativi.
I compiti dell’AIPA - che opera presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri “con
autonomia tecnica e funzionale e con indipendenza di giudizio”- sono così espressamente
finalizzati al “miglioramento dei servizi, alla trasparenza dell’azione amministrativa, al
rafforzamento dei supporti conoscitivi, al contenimento dei costi”.
Il principale strumento volto a conseguire il controllo del comparto, inteso come
“governo”, è dato dalla redazione del c.d. piano triennale annualmente oggetto di
aggiornamento. Il piano triennale costituisce lo strumento di pianificazione strategica per il
coordinato sviluppo dei sistemi informatici pubblici: “miglioramento dei servizi; trasparenza
dell’azione amministrativa; potenziamento dei supporti conoscitivi per le decisioni
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pubbliche; contenimento dei costi dell’azione amministrativa” e dei connessi profili
organizzativi e finanziari.
Grazie ai propri poteri istruttori l’AIPA può,
secondo una propria discrezionale
valutazione di coerenza con le linee strategiche, disattendere le proposte avanzate dalle
amministrazioni - qualora inadeguate al perseguimento del disegno strategico generale – ed
eventualmente integrarle, per renderle coerenti con l’obiettivo del soddisfacimento dei
fondamentali bisogni informativi e determinando i contratti di grande rilievo.
In tale direzione, assume particolare rilevanza la c.d. funzione consultiva intestata
all’Autorità: non si tratta, appunto, di una mera attività di consulenza, bensì della più
compiuta occasione di cui l’Autorità per l’informatica dispone per “conformare” i
comportamenti delle amministrazioni pubbliche; beninteso, non già nel senso di imporre
particolari tecnologie ovvero di entrare nel merito delle politiche di cui sono e rimangono
titolari e responsabili i soggetti istituzionalmente titolari, ma di disegnare l’architettura più
funzionale per consentire le soluzioni tecnologiche più adeguate per la conduzione delle
informazioni e, dunque, per rendere possibile lo scambio e il coordinamento delle
conoscenze.
Un altro rilevante compito è quello per cui l’Autorità promuove “d’intesa e con la
partecipazione anche finanziaria delle amministrazioni interessate, progetti intersettoriali e
di infrastruttura informatica e telematica […] e sovrintende alla realizzazione dei medesimi
anche quando coinvolgano apparati amministrativi non statali, mediante procedimenti
fondati su intese da raggiungere tramite conferenze di servizi”.
Tale previsione risponde all’esigenza di trovare una soluzione alla frammentazione dei
sistemi informativi delle amministrazioni pubbliche risalente nel tempo. In tale contesto, il
compito, di sovrintendere alla realizzazione dei progetti, va inteso non già quale attività di
carattere gestionale, bensì quale garanzia della effettiva realizzazione di sistemi informativi
integrati.
E’ sempre in una logica di razionalizzazione complessiva degli interventi che l’Autorità
definisce indirizzi e direttive per la predisposizione dei piani di formazione personale in
materia di sistemi informativi automatizzati e per il reclutamento degli specialisti.
Inoltre, per una più compiuta realizzazione dell’obiettivo del coordinamento, il
Legislatore, ha individuato nell’AIPA il soggetto dotato della necessaria conoscenza
tecnologica e come tale istituzionalmente preposto al governo dell’interconnessione delle
reti informatiche alla rete unitaria delle pubbliche amministrazioni, anche per la circolazione
66
delle informazioni fra tutti i livelli di amministrazioni pubbliche.
Nello stesso ambito è attribuito ad AIPA il compito, centrale e di rilevante importanza nel
quadro dell’interconnessione e della effettiva interoperabilità dei sistemi, di dettare criteri
tecnici riguardanti la sicurezza dei sistemi. Senza sicurezza informativa infatti non può
esservi rilevanza giuridica dello scambio di dati tra amministrazioni, né piena validità degli
atti amministrativi emanati attraverso i sistemi informativi automatizzati.
Il disegno del Legislatore, secondo cui il titolare della gestione è anche il soggetto che è
chiamato a risponderne, rischia di essere disatteso nella sostanza principalmente a causa
della riforma della struttura del bilancio dello Stato, che non prevede la figura del
responsabile per i sistemi informativi quale “centro di responsabilità”, ed ha finito con il
determinare una frammentazione nella gestione delle spese informatiche, imputandole pro
quota ai diversi centri di responsabilità in cui si articolano le diverse amministrazioni statali.
Si perde, così, la visione unitaria e coordinata nella gestione delle risorse finanziarie
destinate all’informatica pubblica.
In base al quadro normativo ancora in evoluzione, pare coerente affermare che i soggetti
destinatari delle disposizioni previste dal decreto n. 39 del 1993 non sono soltanto le
amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo, e gli enti pubblici non
economici nazionali, ma, sia pure attraverso la mediazione della Conferenza Stato-regioni,
anche le regioni e gli enti locali. In tale direzione, si è espresso sia il DPEF 1999-2001 (par.
16.2) ed anche il più recente DPEF 2000-2003 (par. IV.4) per sospingere la riforma e
l’ammodernamento della pubblica amministrazione, e sia, più di recente, il Patto sociale per
lo sviluppo e l’occupazione, siglato tra il Governo e le parti sociali, in data 22 dicembre
1998, che individua nell’attuazione dei programmi di informatizzazione uno dei principali
obiettivi strategici per la realizzazione delle riforme della pubblica amministrazione, specie
quelle in materia di federalismo amministrativo.
Dalla sintetica e certo non esaustiva analisi di alcuni dei compiti principali dell’AIPA
appare evidente l’ampiezza dei compiti e la difficoltà di potere coniugare adeguatamente
qualità e quantità degli interventi con le esigenze temporali ed economiche dell’innovazione
della Pubblica Amministrazione.
Da ciò consegue la necessità di riservare una particolare attenzione alle modalità tecniche
e organizzative attraverso le quali l’Autorità svolge le proprie attività, da un lato per
garantire alla stessa tutte le necessarie risorse e infrastrutture per lo svolgimento dei compiti
assegnati dalla legge e dall’altro per assicurare che tali attività non finiscano per modificare
67
il ruolo stesso dell’Autorità sovrapponendosi o interferendo sulle attività proprie delle altre
Amministrazioni e in primo luogo del Dipartimento della Funzione Pubblica.
20. IL TELELAVORO, LA FIRMA DIGITALE, IL PROTOCOLLO E LA CARTA DI IDENTITÀ
ELETTRONICI
L’obiettivo di introdurre elementi di semplificazione nei rapporti tra Pubblica
Amministrazione e cittadini (v. cap. VIII) ha portato ad avviare lo studio e sviluppo di una
serie di progetti, quali quelli relativi all’introduzione del telelavoro, al sistema di gestione
dei flussi documentali della P.A. centrale (protocollo informatico) ed all’evoluzione e
diffusione del mandato informatico e in generale del sistema dei pagamenti. Per quanto
riguarda, invece, il tema dei servizi, le iniziative in corso riguardano il sistema per l’accesso
e l’interscambio anagrafico (SAIA), l’emissione della carta di identità elettronica, il sistema
di interscambio Catasto-Comuni e lo sportello di servizi integrati.
Oltre ai citati programmi sulle risorse comuni e i processi condivisi, gli interventi di
ridisegno e semplificazione dei procedimenti amministrativi, in particolare quelli che
coinvolgono più uffici o più Amministrazioni, rappresentano in questa fase l’iniziativa più
importante per l’ottenimento dei risultati attesi in termini di miglioramento dei servizi e di
maggiori economie.
Queste iniziative, che sono state sviluppate e sono in corso attraverso la partecipazione
congiunta e la responsabilità condivisa tra la Presidenza del Consiglio, il Dipartimento della
Funzione Pubblica, l’Autorità per l’Informatica nella Pubblica Amministrazione, alcune
amministrazioni centrali e locali, associazioni di categoria, richiedono una serie di iniziative
e approfondimenti particolarmente complessi, e interventi che coprono l’area normativa,
quella tecnologica, quella organizzativa, quella delle infrastrutture portanti, quella
dell’adeguamento delle risorse umane.
Particolare attenzione è stata dedicata dal Dipartimento della Funzione Pubblica al
Progetto del Telelavoro, la cui molteplicità di soluzioni e applicazioni, accomunate dalla
possibilità di potere svolgere attività a distanza dal posto fisico di lavoro attraverso
collegamenti telematici, possono consentire di dare risposte a una innumerevole serie di
esigenze, da quelle legate alla mobilità individuale a quelle che sorgono dalla mancanza di
infrastrutture di servizi a quelle ricollegabili alla economicità di un’organizzazione
“virtuale” del lavoro.
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ll telelavoro può essere concepito come un modo di lavorare nel luogo e nel momento
ideale per tutti i soggetti interessati: datori di lavoro, lavoratori, clienti, parti sociali,
famiglie, comunità o la società in senso più ampio; alcune sue tipologie possono essere
considerate specifiche ‘azioni positive’, cioè azioni volte a eliminare le disuguaglianze di
fatto che ostacolano la piena partecipazione di donne e di uomini nel lavoro, in particolare in
funzione di una flessibilità finalizzata a rendere compatibili le esigenze professionali e
quelle personali.
L’esempio del telelavoro, e della complessità degli adempimenti ad esso correlato, si può
applicare anche al caso del protocollo informatico cui l’intesa tra governo e parti sociali, il
"Patto per lo sviluppo e l'occupazione", fa esplicito riferimento come una delle principali
misure di informatizzazione della P.A. del prossimo periodo.
E' evidente come la rilevanza stessa attribuita all'informatizzazione di questi sistemi
implichi una concezione di sistema di protocollo non limitata alla mera attività di
certificazione della corrispondenza in entrata ed in uscita, ma che lo interpreti come chiave
per il miglioramento complessivo dei procedimenti amministrativi. Il protocollo "classico"
(sistema di certificazione e registrazione della corrispondenza) va visto pertanto in stretta
connessione con i sistemi di gestione dei procedimenti e dei flussi documentali (workflow),
di gestione documentale e archiviazione, di posta elettronica e supporto al lavoro di gruppo
ed, in genere, con tutte le soluzioni tese al superamento del tradizionale scambio di
informazioni cartacee.
La citata accezione ampia di "sistema di protocollo" implica quindi l'impossibilità di
ridurre la questione ad una introduzione di tecnologia che lasci invariati gli altri aspetti del
processo di gestione documentale. Al contrario l'introduzione dei nuovi strumenti
tecnologici, resa possibile dalle nuove norme, può portare ai risultati finali attesi solo se
coniugata ad un intervento organizzativo di pari profondità.
Poiché il risultato finale atteso è sempre il miglioramento dei processi primari, è evidente
che la progettazione del processo di gestione documentale e delle sue componenti dovrà
partire proprio dalle esigenze dei processi primari.
E' per questo insieme di motivi che l'introduzione delle nuove tecnologie dovrà essere
preceduta, come sopra sottolineato, da specifici studi di fattibilità non limitati alla sola
analisi della parte tecnologica, ma soprattutto incentrati sull’analisi dei processi, le relazioni
con l’organizzazione e l’impatto che le eventuali ristrutturazioni potranno avere sulle risorse
umane.
69
Altro caso emblematico può essere quello della firma digitale, basata sulla crittografia a
chiave pubblica, che è ormai riconosciuto come il principale strumento in grado, allo stato
attuale della tecnologia, di assicurare l’integrità e la provenienza dei documenti informatici,
e quindi di svolgere per questi la funzione che nei documenti tradizionali è assolta dalla
firma autografa. Secondo tale sistema, ormai da anni utilizzato nella tutela della sicurezza in
rete, l'utente dispone di due chiavi digitali; una chiave è resa pubblica e viene inviata
insieme alla certificazione, mentre l'altra è disponibile solamente al proprietario. Chiave
pubblica e chiave privata sono legate in modo tale che un messaggio cifrato con una chiave
pubblica può essere decifrato solo disponendo della corrispondente chiave privata.
La legislazione italiana, fra le prime al mondo ad introdurre i concetti di documento
informatico, firma digitale ed autorità di certificazione, si basa sulla legge n. 59 del 1997
(articolo 15, comma 2), sul regolamento recante criteri e modalità per la formazione,
l'archiviazione e la trasmissione di documenti con strumenti informatici e telematici, DPR
10 novembre 1997, n. 513, e sul decreto del Consiglio dei Ministri 8 febbraio 1999 sulle
regole tecniche per la formazione, la trasmissione, la conservazione, la duplicazione, la
riproduzione e la validazione, anche temporale, dei documenti informatici.
L'Italia si è così posta all'avanguardia essendo il primo paese ad avere attribuito piena
validità giuridica ai documenti elettronici: l'uso legale della firma digitale potrà consentire
grossi benefici, sia per il settore pubblico che per il settore privato, migliorando i processi
della Pubblica Amministrazione attraverso la razionalizzazione, semplificazione ed
accelerazione dei provvedimenti amministrativi, con un significativo impatto sullo scenario
sociale, economico e finanziario del Paese, sempre che il livello culturale in materia
informatica degli operatori non diventi un fattore impeditivo.
La carta di identità elettronica, infine, dovrebbe rappresentare uno strumento di grande
efficacia mirato alla razionalizzazione e semplificazione dell'azione amministrativa nella
misura in cui consentirà al cittadino di accedere ai servizi delle amministrazioni pubbliche,
locali e centrali, senza recarsi fisicamente presso le loro sedi: si potrà così accedere alla rete
della Pubblica Amministrazione Locale e Centrale per richiedere certificati, per ottenere
informazioni e allo stesso tempo per regolare i rapporti con essa. Tutto questo garantendo i
massimi livelli di sicurezza e di trasparenza per il cittadino. L’obiettivo è quello di
consentire, in un futuro non troppo lontano (non certo il 2019), anche il pagamento di tasse e
contravvenzioni direttamente dalla propria abitazione attraverso un apposito terminale
connesso al computer.
70
E’ prevista una fase di sperimentazione per valorizzare l’esperienza di quei comuni che
già utilizzano un documento elettronico per offrire servizi ai cittadini. Al termine della
sperimentazione il sistema entrerà nella fase di avvio a regime che dovrebbe concludersi
entro un quinquennio con la sostituzione di tutti i documenti di identità cartacei.
21. L’AMBIENTE E LA SICUREZZA IN AMBITO PUBBLICO
L’esigenza di porre l’attenzione sui temi dell’ambiente e della sicurezza si è manifestata
soltanto nei primi anni novanta ed, in particolare, la legislazione nazionale è intervenuta, a
partire dal d. leg.vo n. 626/1994, in attuazione di Direttive Comunitarie.
Ci si è resi conto che la sicurezza sui luoghi di lavoro è un obiettivo da raggiungere
attraverso una trasformazione culturale profonda di tutti i soggetti sociali, i quali devono
essere sensibilizzati e responsabilizzati verso la modifica dei comportamenti singoli e
collettivi.
L’Unione Europea ha emanato, come detto, una serie di direttive che individuano nella
risorsa uomo l’elemento cardine di tale trasformazione culturale.
Le singole normative statali di recepimento hanno previsto la partecipazione attiva di tutti
i soggetti coinvolti nei processi produttivi.
Il Dipartimento della Funzione Pubblica, nel 1997, ha promosso e stipulato due Accordi
di Programma tra enti ed istituti pubblici per sensibilizzare la amministrazione pubblica e
diffondere in essa la cultura della sicurezza.
Le Amministrazioni coinvolte operano attraverso il Gruppo Integrato di Coordinamento
(GIC), organo operativo costituito dai rappresentanti di ognuna di esse, nel rispetto delle
singole specifiche competenze in materia di sicurezza nei luoghi di lavoro.
L’impegno di tale gruppo ha già dato significativi risultati operativi con la realizzazione
di un programma di corsi di aggiornamento formativo per le figure che operano nel campo
della sicurezza sui luoghi di lavoro della Pubblica Amministrazione.
E’ stato altresì realizzato un CD-Rom per la formazione alla tutela della salute e della
sicurezza dei lavoratori addetti agli uffici pubblici.
Nell’ambito di un contesto assolutamente inerte rispetto ai problemi dell’ambiente e della
sicurezza, l’attuazione di tali iniziative ha finalmente permesso di pervenire ai primi, anche
se insufficienti, risultati concreti, realizzati attraverso la collaborazione e la condivisione di
71
risorse tra gli enti istituzionalmente preposti alla cura di tali attività.
Le
iniziative
realizzate
rappresentano,
comunque,
un
segnale
di
attenzione
sull’argomento e devono servire da modello guida per le amministrazioni periferiche e
locali, anch’esse tenute ad impegnarsi fattivamente per la tutela e la sicurezza dell’ambiente.
I risultati raggiunti, evidentemente insufficienti, rappresentano solo il primo passo verso
la realizzazione di un programma ambizioso, che, anche con l’ausilio delle moderne
tecnologie, dovrebbe consentire una corretta e completa attuazione della legislazione in
materia di sicurezza dell’ambiente, contestualmente all’evolversi della medesima, sempre
che le risorse finanziarie a disposizione lo consentano.
72
VI – LE RISORSE ECONOMICO FINANZIARIE
22. LA SCARSITA’ DELLE RISORSE, LA RIFORMA DEL WELFARE, IL SISTEMA DI
PROVVISTA, LA GESTIONE DEL PATRIMONIO
1 - Le politiche di bilancio tendenti a tenere sotto controllo la spesa pubblica e la
complessiva riforma del sistema fiscale, resi necessari, sia per uniformarsi ai parametri
imposti dall’Unione Europea, sia per stabilizzare il sistema economico italiano, pongono un
serio problema di “scarsità” di risorse messe a disposizione delle amministrazioni per
perseguire le proprie finalità istituzionali e, nel contempo, per ammodernare la propria
organizzazione, con le necessarie innovazioni tecnologiche.
Lo stesso processo di conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed agli enti locali
rischia di essere fortemente rallentato proprio da concreti problemi inerenti la definizione
delle risorse finanziarie, strumentali ed umane da trasferire agli enti locali in coerenza con il
conferimento di funzioni e compiti.
Tali evidenti emergenze non possono non avere effetti sia sul piano della riforma del
Welfare, sia sul piano del sistema di provvista delle risorse finanziarie, provenienti
dall’imposizione tributaria o dalla gestione dei beni pubblici.
In particolare, il quadro di riferimento per la politica economica e per la politica di
bilancio è posto dalle regole e dagli indirizzi dell'Unione Europea, quali i vincoli fissati
dall'art. 104 C del Trattato sull'Unione Europea, dal protocollo sui disavanzi eccessivi e dal
patto di stabilità e crescita europeo.
Queste regole integrano la Costituzione fiscale nel nostro ordinamento e introducono
obiettivi di tendenziale pareggio strutturale complessivo e di pareggio della parte corrente
(golden rule). Sulla base dei principi di coesione economica e sociale stabiliti dal Trattato e
sospinti da una visione unitaria dei problemi dello sviluppo economico nella loro
connessione con le tendenze della finanza pubblica, gli organi dell'Unione Europea hanno
riproposto i principi di un "patto europeo per l'occupazione".
Nella logica del patto di stabilità e crescita, che fissa misure di rafforzata sorveglianza in
73
ordine alla attuazione di procedure mirate sui disavanzi eccessivi, il contesto economico
stabile non è fine a se stesso, ma è funzionale al corretto funzionamento del mercato unico, a
maggiori investimenti, che favoriscano crescita ed occupazione.
Questa evoluzione degli indirizzi europei concorre a determinare ed a spiegare la portata
dei principi per una "nuova programmazione" definiti nei recenti documenti di
programmazione e finanziaria, fondata sul coordinamento della finanza pubblica, sulla
concertazione con le parti sociali e con le autonomie regionali e locali, sulla riforma del
Welfare, sulla determinazione del quadro istituzionale delle politiche di privatizzazione,
liberalizzazione e regolazione.
2 - Ovviamente, il dibattito sulla situazione e sulle prospettive dello "stato sociale"
interessa tutti i paesi industrializzati; i sistemi di welfare sono caratterizzati da una profonda
contraddizione tra l'architettura degli stessi (concepita e cresciuta in presenza i diversi
contesti economici, demografici e sociali) e le attuali condizioni strutturali delle economie e
delle società degli Stati industrializzati; è posta in discussione, nelle sedi degli organismi
economici internazionali (OCSE, FMI, Banca mondiale) la sostenibilità finanziaria futura
dei sistemi di protezione sociale.
Le azioni riformatrici impostate da numerosi paesi perseguono due obiettivi di fondo: il
contenimento della crescita della spesa entro un percorso di compatibilità, in termini di
stabilizzazione del rapporto con il PIL; la costruzione di sistemi di prestazioni che
garantiscano equità verticale, tra classi di reddito e orizzontale, tra categorie e generazioni.
La ricerca di nuovi equilibri dello Stato sociale investe alcuni punti strategici: il
riequilibrio del rapporto fra centralizzazione e decentramento dei poteri di gestione e
finanziari; il rapporto fra regolamentazione e liberalizzazione nella disciplina delle relazioni
fra soggetti erogatori e cittadini-utenti, i criteri di finanziamento; la regolamentazione dei
livelli uniformi delle prestazioni sociali; il ricorso a strumenti di concorso privato al
finanziamento della spesa sociale in forme privatistiche integrative delle provvidenze
pubbliche.
Il D.P.E.F. 1999-2001 indica, come linea-guida, la prosecuzione del percorso di riforma
dello Stato sociale avviato nel 1992 da perseguire, in particolare, attraverso la
razionalizzazione degli strumenti di sostegno al reddito per i lavoratori disoccupati o in
cerca di prima occupazione, la incentivazione delle forme di previdenza complementare, la
introduzione di innovazioni ulteriori nel servizio sanitario nazionale.
3 - In tale ambito, la ricerca di nuovi equilibri nel sistema di prelievo tributario appare del
74
tutto scontata, se solo si consideri che le prestazioni “sociali” sono prevalentemente da
erogarsi da parte di enti locali.
Non a caso, finalmente si prova ad attuare il principio di cui all’art. 5 della Costituzione,
riconoscendo ampia autonomia agli enti locali anche sotto il profilo dell’imposizione fiscale
(L. n. 265 del 1999).
Naturalmente, l’autonomia
finanziaria degli enti territoriali può essere intesa in
molteplici sensi e garantita in diversi modi. Quello più agevole e tradizionale è l’attribuzione
da parte dell’amministrazione centrale dello Stato di una quota parte delle entrate erariali,
con una ragionevole certezza quanto ai flussi finanziari, ma senza una effettiva
partecipazione delle autonomie locali. Tuttavia, si richiede che il sistema di provvista cambi,
soprattutto attraverso un più efficace collegamento tra il momento della imposizione fiscale
con quello della gestione della spesa.
Con l’istituzione dei cc.dd. tributi locali affidati alle “cure” degli enti locali territoriali
minori certamente si realizza la cosiddetta autonomia impositiva di tali enti, intendendo per
tale il potere dovere che essi hanno di realizzare la pretesa tributaria attraverso il
compimento di atti propri; meno certo rimane, invece, il riconoscimento pieno di una
autonomia tributaria, intesa come capacità dell’ente locale di porre in essere norme
giuridiche tributarie, anche se ad integrazione della legge istitutiva del singolo tributo,
almeno a Costituzione invariata.
Alla luce anche della nuova normativa, sembra che ancora non possa riconoscersi, come
detto, una effettiva autonomia tributaria agli enti locali territoriali minori, in considerazione
della sola e limitata possibilità di emanare norme regolatrici dei procedimenti di imposizione
dei singoli tributi. Del resto, la realizzazione di una adeguata autonomia finanziaria di tali
enti passa necessariamente attraverso un “decentramento” del sistema di imposizione, con il
conseguente accrescimento del ruolo delle autonomie locali, che, peraltro, consentirebbe
anche una maggiore consapevolezza da parte del contribuente circa l’effettiva utilizzazione
delle entrate fiscali ed un maggior controllo sull’efficacia della spesa pubblica.
La indicata tendenza dell’ordinamento tributario verso un maggior riconoscimento,
quantomeno, dell’autonomia impositiva degli enti locali al fine di rendere commutativa la
natura del prelievo e di rendere più efficace il procedimento d’imposizione, deve essere,
naturalmente,
assecondata
anche
attraverso
un’attenta
opera
di
assistenza
alla
riorganizzazione delle amministrazioni locali.
4 - Sotto altro profilo, non pare dubbio che occorra sviluppare la capacità dei soggetti
75
pubblici di utilizzare in modo più produttivo, per quanto possibile, i propri beni.
Si
auspica
una
gestione
“economica”
del
patrimonio
pubblico,
similmente
all'exploitation, di origine francese, tesa a garantire la conservazione del patrimonio ma
anche ad assicurare la redditività dei beni, come attitudine del bene ad assicurare un’entrata
o una utilità collegata ai bisogni della comunità.
Del resto, pare evidente la strumentalità dei relativi beni quanto al perseguimento degli
interessi pubblici affidati alle cure dell’Amministrazione pubblica.
In particolare, l’importanza economica dei beni immobili degli enti pubblici in generale,
e degli enti locali in particolare, è resa evidente dalle scelte legislative legate all’opera di
risanamento dei conti pubblici, nell’ambito della quale parte significativa è affidata alle
alienazioni del patrimonio disponibile degli enti locali, anche se ancora non sono state
emanate norme sulla gestione economica per i beni delle amministrazioni statali.
In definitiva, si è convinti della necessità di una gestione dei beni pubblici in modo
quanto più conforme ai canoni di economicità, efficienza, efficacia, pubblicità e trasparenza
che reggono in generale l’azione e l’organizzazione di ogni amministrazione pubblica,
nell’ambito della naturale limitatezza dei beni, che richiede una particolare attenzione ai
momenti dell’acquisizione, utilizzo, conservazione, tutela, valorizzazione, contabilizzazione,
alienazione, dovendosi rispettare un generale obbligo di diligenza, soprattutto a garanzia del
perseguimento dell’interesse pubblico.
Quanto detto sembra ancor più vero con riferimento al delicato settore dei beni culturali.
Come noto, la valorizzazione dei beni culturali comprende ogni attività diretta a
migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali e ambientali ed ad
incrementarne la fruizione.
In particolare, le funzioni ed i compiti di valorizzazione comprendono le attività
concernenti il miglioramento della conservazione fisica dei beni e della loro sicurezza,
integrità e valore; il miglioramento dell’accesso ai beni e la diffusione della loro
conoscenza; l’organizzazione di studi, ricerche ed iniziative scientifiche; l’organizzazione di
mostre, eventi ed itinerari culturali.
Tenendo conto di tale ampio contesto, non pare possa essere sottaciuto, tra i numerosi
interventi di valorizzazione che si sono avuti nel corso degli ultimi venti anni, quello ultimo
di cui all’10 del d.leg.vo. 20 ottobre 1998, n. 368, che ha istituito il Ministero per i beni e le
attività culturali ed ha riconosciuto allo stesso il potere di stipulare accordi con
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amministrazioni pubbliche e con soggetti privati e di costruire o partecipare ad associazioni,
fondazioni o società. Al patrimonio di questi ultimi, il Ministero può conferire in uso anche
beni culturali, purché nell’atto costitutivo e nello statuto dell’ente, venga previsto che, in
caso di estinzione o di scioglimento, quel bene conferito debba ritornare nella disponibilità
del Ministero.
Tali importanti forme associative e di accordo si collocano accanto a quelle previste, in
via generale, dall’art. 43 legge 23 dicembre 1998 n. 449. Tale disposizione consente alle
amministrazioni di stipulare contratti di sponsorizzazione ed accordi di collaborazione con
soggetti privati ed associazioni, al fine di favorire l’innovazione dell’organizzazione
amministrativa e di realizzare una migliore qualità dei servizi pubblici prestati.
Nell’ambito degli interventi finalizzati ad attuare il processo di dismissione e di
valorizzazione del patrimonio immobiliare statale, si rinvengono anche talune disposizioni
che coinvolgono beni culturali, in quanto tali assoggettati ad un regime vincolistico.
In particolare, significativa appare la norma dell’art. 19 della legge 23 dicembre 1998, n.
448, recante misure per la finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo, che consente
al Ministro del Tesoro, di concerto con il Ministero delle Finanze e con il Ministero per i
Beni e le Attività Culturali, di conferire o vendere a s.p.a., anche appositamente costituite,
compendi o singoli beni immobili o diritti reali su di essi, anche se per legge o per
provvedimento amministrativo o per altro titolo posti nella disponibilità di oggetti diversi
dallo Stato.
Le società a cui sono conferiti beni che non possono essere alienati ne curano l’esercizio
e la valorizzazione e corrispondono un compenso annuo allo Stato per la loro utilizzazione.
Possono essere affidati in concessione o con contratto a privati o ad amministrazioni
pubbliche, che promuovono e si obbligano ad attuare il relativo progetto, l’adattamento la
ristrutturazione o la ricostruzione di beni immobili, non più utilizzati dall’amministrazione
statale o dagli enti locali per la loro più proficua utilizzazione da parte degli stessi soggetti e
con corresponsione, per il tempo del godimento dei beni, di un prezzo all’amministrazione
di appartenenza.
Strumenti, quelli descritti, che possono fare dei beni culturali una occasione di sviluppo
economico ed occupazionale compatibile con la tradizionale vocazione degli stessi.
23. IL PATTO DI STABILITÀ INTERNO
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Il processo di ampliamento dell'autonomia finanziaria degli enti territoriali, già
evidenziato come principio fondamentale della riforma amministrativa, rende più complessa
la gestione delle regole di Maastricht per il controllo dei disavanzi.
Permane complesso il raggiungimento dell’equilibrio tra il rispetto dell'autonomia
costituzionalmente garantita alle regioni e agli enti locali e il rigore dei vincoli del patto di
stabilità e crescita europeo.
La soluzione, nel breve periodo, è stata individuata nella costruzione di un "patto di
stabilità interno" fondato sul principio del coordinamento della finanza pubblica, posto
dall'art.119 della Costituzione, e finalizzato a dettare le regole in virtù delle quali le
autonomie regionali e locali concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica
concordati in sede di Unione Europea, impegnandosi a ridurre progressivamente il
finanziamento in disavanzo delle proprie spese e a ridurre il rapporto tra il proprio
ammontare di debito e il prodotto interno lordo.
Le modalità con cui il patto di stabilità interno opera nel 1999 sono fissate dall'art. 28
della legge collegata alla finanziaria 1999 (legge n. 448 del 1998) e precisate dalle circolari
del Ministro del tesoro n. 11 e n. 12 del 1999, che pone le regole per la determinazione del
saldo per ciascun ente, sia con riguardo all'esercizio in corso, sia con riferimento alle
previsioni 2000 e 2001 da assumere a base dei bilanci e determina le modalità per la
riduzione del rapporto debito/PIL.
Un assetto istituzionale più saldo, che renda compatibili i vincoli europei con le più vaste
responsabilità assegnate alle regioni, potrà derivare, come pure rilevato, nel quadro della
Costituzione vigente, dalla normativa delegata in materia di federalismo fiscale dettata
dall'art. 10 della legge 13 maggio 1999, n. 133. La soppressione dei trasferimenti statali alle
regioni ed agli enti locali, la cui finanza è alimentata solo da entrate proprie e dalla
compartecipazione al gettito di tributi erariali, rafforza la necessità di definire le regole del
coordinamento tra i diversi livelli di governo con riguardo al livello della spesa, dell'entrata
e dell'indebitamento.
L'importanza determinante della sanità all'interno della finanza regionale impone il
coordinamento delle norme delegate in materia di federalismo fiscale con quelle relative alla
riforma del Servizio sanitario nazionale poste dalla legge 30 novembre 1998, n. 419.
Ancora nell'ottica del coordinamento della finanza pubblica sono di importanza
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determinante i principi della delega relativi ai meccanismi di perequazione fra le regioni;
meccanismi correlati non solo alla capacità fiscale ma anche al principio della definizione,
in sede nazionale, di livelli essenziali dei servizi e delle prestazioni rese ai cittadini.
Il quadro istituzionale del federalismo fiscale, che viene delineandosi, suggerisce
l'opportunità di ampliare i contenuti del Documento di programmazione economica e
finanziaria e delle risoluzioni di approvazione del Parlamento, anche sulla base della
concertazione, prevista dal procedimento di bilancio, con la Conferenza unificata regioniautonomie. In questa sede spetta al Governo ed al Parlamento il compito di determinare gli
oneri del percorso di risanamento legato al patto di stabilità e crescita europeo da ripartire
fra amministrazioni centrali, regioni ed enti locali.
In questa direzione, il Parlamento, in occasione della discussione del disegno di legge
finanziaria per il 2000, ha impegnato il Governo ad aprire un tavolo di concertazione tra
Governo, regioni e autonomie locali per la ridefinizione e il consolidamento del patto di
stabilità interno. Attraverso la concertazione sarà possibile definire nuovi progressi sul
versante dell’autonomia finanziaria delle regioni e degli enti locali, secondo i principi del
federalismo fiscale di tipo cooperativo ed ottenere un decisivo concorso delle autonomie. Al
di là dei profili problematici in atto, una soluzione al conseguimento degli obiettivi del patto
di stabilità interno deve essere fondata su una coerente attuazione dei principi di
corresponsabilità finanziaria. Si tratta di assicurare, come rilevato, certezza alle risorse
finanziarie delle autonomie, di eliminare le aspettative di ripiani ex post, di assicurare la
congruità del trasferimento delle risorse necessarie all’espletamento delle funzioni conferite.
24. LA PROGRAMMAZIONE CONCERTATA, I FONDI STRUTTURALI E IL PROJECT
FINANCING
1 - La guida della politica economica e sociale, legata ai vincoli del patto di stabilità e
orientata verso gli obiettivi di coesione, occupazione e sviluppo (Consigli europei di Vienna
e di Colonia) ed agli indirizzi per il coordinamento delle politiche del lavoro (Consigli
europei di Lussemburgo e di Cardiff) è affidata, nel nuovo ciclo di programmazione, a
procedure di negoziazione-concertazione fra Governo, parti sociali, autonomie territoriali.
L’espressione di maggior rilievo della programmazione concertata è il " patto sociale per
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lo sviluppo e l'occupazione", stretto fra Governo e parti sociali e presentato al Parlamento il
23 dicembre 1998.
I contenuti del "patto sociale" si collegano all'Accordo per il lavoro concluso il 24
settembre 1996 ed al Protocollo sulla politica dei redditi e dell'occupazione del 3 luglio
1993. Si delinea la continuità della adozione del metodo di governo della "economia
concertata".
2 - Lo strumento più importante per le politiche di coesione e di riequilibrio territoriale è
la programmazione europea dei Fondi strutturali, affidata al Quadro comunitario di
sostegno.
In vista della preparazione del contributo italiano al processo ascendente per la
costruzione del nuovo Quadro per il 2000-2006, è stata avviata, sulla base della delibera
CIPE 22.12.1998, n. 140, una vasta procedura di concertazione con le autonomie territoriali.
Con successiva delibera CIPE 14 maggio 1999, n. 71, sono stati approvati, sulla base del
documento recante "Orientamenti per il programma di sviluppo del Mezzogiorno (PSM)
2000-2006", il sistema degli obiettivi e degli assi prioritari, i criteri e gli strumenti per la
programmazione operativa, le modalità di attuazione del partenariato, gli orientamenti in
merito alla predisposizione del quadro finanziario, il sistema di attuazione, di valutazione ex
ante, di verifica e di monitoraggio del PSM, le regole per una più efficiente ed efficace
attuazione della programmazione. Il processo programmatorio si è concluso con la delibera
CIPE 6 agosto 1999, n. 139, con la quale il CIPE ha approvato il quadro finanziario di
carattere programmatico per l’attuazione del PSM e definendo il riparto delle risorse tra i
Programmi operativi nazionali e regionali e fra assi prioritari di intervento. Il PSM è stato
inoltrato alla Commissione UE.
Le "politiche regionali" italiane sono orientate prioritariamente verso l'obiettivo dello
sviluppo del Mezzogiorno che resta, al di là del processo di diversificazione territoriale
interno, l'area territoriale dove più limitato è lo sfruttamento delle risorse e delle opportunità,
e dove maggiore è la distanza fra scenari positivi e negativi.
3 - Il più rilevante insieme di strumenti per le politiche di coesione e sviluppo è
identificabile nella "programmazione negoziata", la cui disciplina (che trae origine dalla
legislazione meridionalistica successiva alla fine dell'intervento straordinario sancita dalla
legge n. 488 del 1992) è dettata dall'art. 2 comma 203 della legge collegata alla finanziaria
1997, n. 662 del 1996, integrata, da ultimo, dagli articoli 4 e 5 della legge n. 144 del 1999.
All'interno di questa cornice opera, con finalità di promozione e con modalità fondate sulla
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partecipazione dell'imprenditoria privata, la Società sviluppo Italia, che unifica gli organismi
di intervento e promozione imprenditoriale nelle aree depresse.
Le politiche di coesione e sviluppo includono la programmazione degli interventi
infrastrutturali nelle aree depresse. Un nuovo rilievo è attribuito alla valutazione e al
monitoraggio degli investimenti pubblici affidato ad una rete di unità tecniche istituite
presso le amministrazioni pubbliche centrali, regionali e locali e raccordate con il Nucleo di
valutazione operante presso il Ministero del tesoro (art. 1 legge n. 144 del 1999) ed alla
utilizzazione della finanza di progetto volta a promuovere il concorso di capitali privati al
finanziamento delle infrastrutture, sia per ampliare le disponibilità di risorse finanziarie, sia
per utilizzare nuove forme concorrenziali come strumento di selezione delle opere. Per la
promozione del project financing è istituita, presso il CIPE, una "unità tecnica" per la
finanza di progetto (art. 7 della legge n. 144 del 1999).
Del resto, appare sempre più significativo il ricorso alla finanza privata quale sostegno
dell’attività e delle finalità delle amministrazioni pubbliche. In particolare nella
realizzazione di pubblici lavori, appaiono interessanti le innovazioni introdotte dalla legge
18 novembre 1998, n. 415, per quello che attiene, innanzitutto, alla materia delle
concessioni, strumento principe per il ricorso al capitale privato nella realizzazione di lavori.
Peraltro, può sottolinearsi, come il favore per il coinvolgimento di capitali privati nella
realizzazione e gestione di opere e servizi di rilevanza pubblica abbia indotto la
Commissione europea ad approvare, in data 24 febbraio 1999 una comunicazione in materia
di concessioni. La detta determinazione pur se priva della capacità di innovare
l’ordinamento giuridico, rappresenta un opportuno strumento interpretativo per una lettura
comunitaria dell’istituto che interessa. La Commissione, in particolare, attribuisce una
valenza generale alla definizione di concessione elaborata relativamente al settore delle
opere pubbliche, ritenendola applicabile, in assenza di diverse discipline specifiche, anche
ad altri settori, quali, ad esempio, quello dei pubblici servizi. Tanto, a condizioni che si
accerti la fedeltà delle procedure poste in essere ai principi enunciati dal Trattato di Roma
del 25 marzo 1957, individuabili nel divieto di discriminazioni, nella parità di trattamento,
nella trasparenza, nel mutuo riconoscimento e nella proporzionalità, nonché alla
regolamentazione dettata dalla direttiva 93/37/CEE, recepita nell’ordinamento italiano,
laddove venga in considerazione una concessione di lavori.
L’interpretazione resa dalla Commissione relativamente ai contratti di concessione, che
costituiscono lo strumento privilegiato per consentire il ricorso al finanziamento privato con
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riferimento alla realizzazione di infrastrutture nonché alla gestione di servizi, evidenzia
chiaramente il favore espresso in sede comunitaria per il fenomeno in oggetto, del quale ci si
preoccupa di garantire lo sviluppo, pur nei limiti dell’osservanza della legislazione europea.
25. IL MONITORAGGIO DELLA SPESA NELLE AREE DEPRESSE E PER IL PERSONALE
1 - Permangono limiti alla “leggibilità” del bilancio e delle tradizionali classificazioni,
che sono più evidenti nell’analisi degli interventi per le aree depresse.
Al passaggio dall’intervento straordinario nel Mezzogiorno a quello ordinario, assegnato
alle diverse Amministrazioni dello Stato, si è accompagnata l’istituzione di nuovi capitoli
negli stati di previsione della spesa, relativi ai diversi ministeri, interessati alla gestione delle
risorse destinate alle aree depresse del territorio nazionale (Presidenza del consiglio dei
Ministri, Ministeri del tesoro, bilancio e programmazione economica, lavori pubblici,
trasporti, politiche agricole, industria e commercio e artigianato, lavoro e previdenza sociale,
università e ricerca scientifica, ambiente, pubblica istruzione, beni e attività culturali).
La ricostruzione della spesa statale per le aree depresse, già operata dalla Corte dei conti
per gli esercizi 1995, 1996, 1997, richiede un più meditato approccio per l’analisi del
rendiconto 1998, che come è noto, risulta impostato su aggregazioni diverse (unità
previsionali di base, classificazione economica semplificata, nuova classificazione
funzionale).
Quanto ai flussi di cassa, la Corte dei conti ha sottolineato la insufficienza delle
informazioni apposte sui titoli di spesa emessi (mandati diretti), che ha reso finora poco
significative le analisi di approfondimento della distribuzione territoriale della spesa,
mancando, salvo eccezioni, nei titoli di pagamento ai beneficiari finali (individui, società o
enti), i necessari elementi informativi. A ciò potrà finalmente soccorrere l’introduzione, dal
1 gennaio 1999, del mandato informatico, di cui si è già detto.
2 - Il sistema di controllo sulla contrattazione collettiva, configurato dall’art. 51 del
decreto n. 29 del 1993, è ovviamente condizionato fortemente dai vincoli stringenti alla
finanza pubblica per il conseguimento degli obiettivi di riduzione dei disavanzi eccessivi e
del rapporto tra l’ammontare del debito e il Pil.
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Ad accentuare l’autonomia e la responsabilità in sede di contrattazione collettiva per il
personale dipendente da amministrazioni pubbliche è la previsione secondo la quale la
certificazione di compatibilità economica e finanziaria delle ipotesi accordo collettivo di
lavoro, affidata dal legislatore alla Corte dei conti, riguarda la sola contrattazione collettiva
nazionale; per la contrattazione integrativa, che si svolge sulle materie e nei limiti stabiliti
dai contratti collettivi nazionali, il controllo ex ante di compatibilità dei costi della
contrattazione collettiva integrativa con i vincoli di bilancio risultanti dagli strumenti di
programmazione annuale e pluriennale di ciascuna amministrazione è affidato ai collegi dei
revisori dei conti ovvero agli uffici chiamati a svolgere il controllo interno di regolarità
amministrativa e contabile. Il controllo esterno della Corte dei conti ha ad oggetto il
monitoraggio di verifica periodica degli andamenti della spesa per il personale delle
pubbliche amministrazioni.
Peraltro, il riparto delle disponibilità finanziarie alla contrattazione nazionale e integrativa
è destinato ad essere ricondotto nell’ambito della autonomia negoziale, con inversione di
tendenza rispetto a quanto finora avvenuto per i comparti (statali e non) coperti con il
bilancio dello Stato, in cui riparto delle risorse finanziarie tra i due livelli di contrattazione
veniva rimesso alla discrezionalità del legislatore (in tal senso il d.d.l. finanziaria per il
2000).
In tale contesto, è verosimile ipotizzare che sarà sempre più la contrattazione integrativa a
disporre di crescenti disponibilità finanziarie con una possibile progressiva differenziazione
delle retribuzioni tra personale dipendente da amministrazioni di comparti diversi ovvero
appartenente allo stesso comparto.
Per questi motivi, di fronte alla crescita delle autonomie regionali e degli enti locali in un
contesto di consolidamento dell’assetto del federalismo fiscale, occorrerà sempre più
potenziare, anche attraverso l’impiego di tecnologie informatiche e di metodologie, anche di
tipo statistico, il monitoraggio sul concreto andamento dei costi contrattuali, affinché gli
organi della rappresentanza siano costantemente informati sulla gestione delle risorse
collettive, e che inoltre vengano salvaguardati gli equilibri macroeconomici stabiliti in sede
di contrattazione nazionale, tenuto conto dell’obiettivo, fissato in sede sovranazionale, di
contenere i disavanzi eccessivi.
A seguito della c.d. “seconda privatizzazione”, il controllo della Corte dei conti sulla
compatibilità economico e finanziaria degli oneri contrattuali è stato collocato all’interno del
processo di formazione della volontà negoziale di parte pubblica. Essendo venuto meno
83
l’atto del Governo che stipulava i contratti e rientrando ora la sottoscrizione dei contratti
(nazionali) nelle prerogative dell’Aran, non v’è più il presupposto per il controllo di
legittimità della Corte dei conti sull’autorizzazione governativa a stipulare; sussiste invece
l’esigenza di valutare (in ciò consiste la certificazione della Corte dei conti) la compatibilità
economica e finanziaria degli oneri contrattuali impiegati dall’Aran nella negoziazione con i
parametri macroeconomici indicati nei documenti di programmazione economica del
Governo e con le risorse finanziarie di bilancio, così come determinate dalla legge
finanziaria.
Nella logica di ricondurre all’interno del processo negoziale, il controllo esterno della
Corte dei conti, che svolge un’attività di “certificazione valutativa” e in cui resta marginale
l’ipotesi della certificazione negativa con effetto impeditivo, ha, nella sostanza, il compito di
contribuire a migliorare la qualità della negoziazione, indicando le misure per una
contrattazione, da un canto ancorata ai vincoli finanza pubblica, per evitare esorbitanze di
spesa, dall’altro per contribuire ad un più efficiente impiego della risorsa lavoro.
Di fronte all’assetto decentrato della finanza pubblica e al progressivo prevalere del
livello di contrattazione integrativa, occorre accentuare il ruolo della responsabilità che è il
principale presupposto del conferimento e dell’esercizio dell’autonomia. Nell’attuale fase di
transizione, e nella consapevolezza del problematico momento di snodo che consiste nel
garantire l’autonomia della negoziazione e, al contempo, il rispetto degli equilibri di finanza
pubblica, il Legislatore ha previsto il ricorso a meccanismi per ricondurre possibili
esorbitanze di spesa al rispetto dei vincoli di finanza pubblica, attraverso l’indicazione di
tetti di spesa per l’intero periodo di validità contrattuale, prevedendo con apposite clausole
da inserire nei contratti la possibilità di prorogare l’efficacia temporale del contratto ovvero
di sospenderne l’esecuzione parziale o totale. Si tratta, in realtà dell’esigenza di introdurre
un principio di equilibrio interno del contratto collettivo, per cui le diverse componenti di
tale equilibrio formano oggetto, fra le parti del contratto, di valutazione complessiva, avuto
riguardo alle loro reciproche connessioni e per l’intera durata del contratto, anche in termini
di compatibilità con i programmi di spesa pubblica e di finanziamento dei costi contrattuali.
26. LE LEGGI DI SPESA
1 - Le norme contenute nella legge n. 468 del 1978 stabiliscono, in maniera tassativa, le
modalità con le quali devono essere reperite le coperture finanziarie delle leggi. Esse
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richiedono al Governo di esibire al Parlamento, per ciascun disegno di legge (compresi
quelli di conversione dei decreti legge) e per ciascun emendamento che comporti nuove o
maggiori spese o diminuzioni di entrate, una dettagliata “relazione tecnica” sulla
quantificazione degli oneri recati da ciascuna disposizione e sulle relative coperture.
La disposizione contenuta nell'articolo 13, comma 1, del decreto legislativo 7 agosto
1997, n. 279 prevede che il rendiconto generale dello Stato deve essere elaborato, ai fini
della valutazione delle politiche pubbliche di settore, sulla base della classificazione
incrociata per funzioni-obiettivo e per unità previsionali di base, suddivise per capitoli, in
modo da consentire la valutazione economica e finanziaria delle risultanze di entrata e di
spesa, anche in relazione agli scopi delle principali leggi di spesa.
A questo riguardo, va evidenziata la divaricazione di impostazione del conto del bilancio
(articolata per unità previsionali di base incrociate con i centri di responsabilità) rispetto al
conto consuntivo, impostato, come detto, per funzioni obiettivo e per unità previsionali di
base, anche per consentire la valutazione delle politiche pubbliche tenuto conto degli esiti
delle principali leggi di spesa. La costruzione di documenti contabili che danno evidenza
anche degli esiti, a consuntivo, delle principali leggi di spesa, permane assai problematica.
Anche gli esperimenti di monitoraggio posti in essere dalla Corte dei conti, pur con la
collaborazione della Ragioneria generale dello Stato, non risultano soddisfacenti e
comunque non idonei rispetto all’esigenza, voluta dal Legislatore, di restituire al Parlamento
la valutazione degli esiti delle principali politiche pubbliche di settore sottese alle leggi
approvate dal medesimo Parlamento.
2 - Rimane evidente l’utilità del monitoraggio sull'attuazione delle leggi di spesa, avendo
i suoi esiti una duplice funzione, conoscitiva e propositiva: conoscitiva sia del
conseguimento delle politiche pubbliche sottese dalla legge oggetto di rilevazione, sia del
reale impatto degli oneri di spesa, allo scopo di apprezzarne la qualità delle tecniche di
copertura finanziaria e nonché quelle di quantificazione degli oneri previsti; propositiva nei
confronti del Parlamento di eventuali rimedi da apprestare in sede di predisposizione delle
leggi spesa, tanto con riferimento alla tecnica di copertura degli oneri, quanto alla
quantificazione degli stessi, mettendo altresì in evidenza eventuali concause di ritardi o di
rallentamenti nel conseguimento degli obiettivi di legge, segnatamente da imputare a
procedimenti amministrativi di per sé complessi e defatiganti.
Peraltro, l'affinamento dell'analisi degli esiti, a consuntivo, dell'attuazione delle leggi di
spesa ha posto in evidenza rilevanti problemi di ricostruzione dei dati contabili e finanziari
85
relativi all'attuazione delle diverse leggi di spesa analizzate.
In primo luogo, in quanto il sistema informativo integrato Ragioneria generale dello Stato
- Corte dei conti è idoneo a consentire la rappresentazione dei flussi finanziari della spesa
soltanto per capitoli di bilancio, mentre invece il processo di formazione del documento di
bilancio per leggi di spesa ha una struttura più complessa, essendo articolato per le diverse
autorizzazioni di spesa che prendono titolo da una medesima legge di spesa.
In realtà, sono marginali i casi in cui a ciascuna autorizzazione di spesa, disposta da
apposita legge di spesa, corrisponda, in bilancio, la previsione di un capitolo di bilancio
dedicato in via esclusiva. Nella maggioranza dei casi si assiste a situazioni in cui capitoli di
bilancio risultano "alimentati" da diverse autorizzazioni di spesa, che possono trovare
collocazione o nella stesa legge ovvero in più leggi di spesa, come nel caso dei
rifinanziamenti.
Ne discende che, nell'ambito di un capitolo di bilancio, possono sussistere diversi piani di
formazione che prendono titolo da altrettante e distinte autorizzazioni di spesa.
In tali casi, l'osservazione degli andamenti finanziari relativi ad un capitolo non può
considerarsi pienamente significativa del grado di attuazione delle diverse autorizzazioni di
spesa che in esso sono inglobate, appunto perché il capitolo, ai fini della gestione, non può
ritenersi l'unità elementare di bilancio; esso, ai fini della trasparente lettura della gestione
finanziaria, necessiterebbe di una più puntuale disaggregazione dei dati contabili per
ricostruire, a consuntivo, gli andamenti finanziari relativi alle singole autorizzazioni di spesa
la cui provvista finanziaria viene allocata, nella fase della formazione del bilancio, in un
unico capitolo di bilancio. In altre parole, non vi è allo stato, "perfetta tenuta" tra le tecniche
di formazione del bilancio e quelle di gestione finanziaria delle stesse.
86
VII – LE RISORSE UMANE
27. LA PRIVATIZZAZIONE DEL RAPPORTO DI LAVORO E LA FLESSIBILITA’
GESTIONALE
Nel Rapporto Giannini la privatizzazione del rapporto di lavoro costituiva una delle
proposte forti, mirate a realizzare condizioni di quadro favorevoli ad una più efficiente
gestione del personale. Si trattava di compiere a ritroso un complesso percorso, definito di
“pubblicizzazione forzosa” dei rapporti di impiego, dovuto principalmente all’influenza
della giurisprudenza amministrativa e, successivamente, della Corte dei conti, che aveva
avuto come effetto di sottoporre a disciplina ingiustificatamente differenziata rapporti di
lavoro del tutto analoghi a quelli esistenti presso datori di lavoro privati.
Dopo un lungo percorso, la linea di privatizzazione dei rapporti di lavoro,
coraggiosamente tracciata in quel documento, ha trovato attuazione, con il d.leg.vo n. 29 del
1993. Anzi, ha ricevuto un ampliamento. Infatti, il legislatore ha ritenuto opportuno
coinvolgere nella privatizzazione anche figure, quelle della dirigenza, per le quali nel
predetto rapporto la privatizzazione non veniva prospettata, in ragione del fatto che esse
sono collegate all’esercizio di potestà pubbliche. Scelta altrettanto coraggiosa e del tutto
legittima, come testimonia l’autorevole avallo che essa ha ricevuto dalla Corte
costituzionale.
L’operazione privatizzazione è stata condotta dal legislatore attraverso successivi
interventi, resi indubbiamente necessari dalla complessità dell’universo normativo sul quale
si andava ad incidere, ma anche – si deve riconoscere - imposti dalla necessità di superare
una serie di resistenze che, trovando appiglio in formulazioni che potevano lasciare spazio
alle vecchie pratiche, tendevano ad incapsulare e riassorbire gli elementi di novità.
Il legislatore è stato quindi indotto a parlare sempre più chiaro, da ultimo impegnandosi
in una corposa riscrittura di molte parti della normativa, operazione giustamente denominata
come
“seconda
privatizzazione”.
Dopo
l’iniziale
identificazione
della
posizione
dell’amministrazione con quella del privato datore di lavoro nella sola gestione del rapporto
di lavoro, il legislatore, per favorire il radicamento della nuova impostazione, ha ritenuto di
dover ricondurre al regime privatistico anche il tessuto dell’organizzazione che si trova più a
diretto contatto con la concreta gestione del rapporto di lavoro. Ha quindi voluto assimilare
87
la posizione delle pubbliche amministrazioni a quella del privato datore di lavoro non solo
per gli aspetti riconducibili all’esercizio dei poteri di gestione del rapporto di lavoro, poteri
che sono tipici della struttura del contratto di lavoro, bensì anche per gli aspetti riconducibili
ai poteri di gestione degli assetti organizzativi (ad eccezione degli assetti dei c.d. rami alti
della organizzazione, i quali, in coerenza con il dettato costituzionale, sono stati mantenuti
nella sfera pubblicistica).
A questa operazione si è accompagnata un’altra parimenti importante: quella del
trasferimento della giurisdizione delle controversie di lavoro dal giudice amministrativo al
giudice ordinario, realizzata con un meccanismo che dovrebbe ridurre enormemente le
possibilità di interferenza da parte del primo. Si tratta di una devoluzione che non costituisce
soltanto una naturale conseguenza del mutato regime giuridico del rapporto, rappresentando
anche espressione dell’intenzione di agevolare l’assorbimento dei modelli privatistici da
parte delle pubbliche amministrazioni, perseguita con il tenere lontano un attore che – come
ricordava il Rapporto Giannini – era stato il principale artefice della configurazione
pubblicistica del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni e che,
pur dopo l’intervenuta privatizzazione, aveva mostrato difficoltà – ma eccezioni non erano
mancate - a cogliere il nuovo.
Si può dunque fondatamente osservare che il processo di armonizzazione delle regole tra
lavoro pubblico e lavoro privato, avviato già negli anni ’80, è quasi del tutto completato.
Peraltro, la chiusura della seconda tornata contrattuale segnerà anche la definitiva
eliminazione delle fonti pubblicistiche.
L’armonizzazione compiuta, tra l’altro, non riguarda solo le regole valide in costanza del
rapporto di lavoro del dipendente ma è stata estesa anche al periodo successivo, cioè al
sistema pensionistico. Salvo alcune regole residuali, destinate a scomparire in tempi brevi, al
dipendente pubblico si applica ormai il medesimo sistema previdenziale valido per il settore
privato. L’avvenuta eliminazione delle cosiddette pensioni baby da un lato, e l’estensione
della disciplina sul trattamento di fine rapporto e di quella sulla previdenza integrativa
dall’altro, sono effetti naturali della privatizzazione del rapporto d’impiego con le
Amministrazioni pubbliche.
Tuttavia, permangono condizioni che influenzano, più o meno rilevantemente, i modi con
cui si dà applicazione ad istituti che nel mondo delle imprese solitamente esprimono ben
altre potenzialità e opportunità.
Ciò che non appare superabile soltanto con interventi legislativi, sia pure incisivi, è la
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diversità culturale del settore pubblico, poco improntato all’esercizio di autonomia e quindi
ad un regime di responsabilità piena per gli andamenti economici ed i risultati della gestione.
Solo estendendo l’autonomia decisionale delle amministrazioni possono riprodursi
condizioni di contesto che spingano ad applicare istituti privatistici con le stessa efficacia
che è dato riscontrare nel settore privato, innescando circuiti virtuosi di riutilizzazione dei
risparmi di gestione anche in termini di compensi per maggiore produttività.
Il grado di incisività con cui finora sono stati applicati istituti normativi ed economici che
lasciano al datore di lavoro pubblico spazi gestionali non dissimili da quelli del datore di
lavoro privato sembra essere proporzionale al grado di autonomia che caratterizza
diversamente le amministrazioni dei vari comparti.
Questa constatazione vale sia con riguardo agli istituti economici, quale il salario di
produttività o legato ai risultati, applicati in modo più spinto proprio laddove la domanda
degli utenti è più pressante, sia con riguardo alle forme di lavoro flessibile, che rispondono
ad esigenze che non sono presenti solo nel settore privato.
Nel settore pubblico il ricorso al lavoro a tempo determinato non è affatto residuale,
specie in alcuni settori (es: scuola), tanto da determinare fenomeni vistosi di precariato. Se
l’analisi si sposta su altre forme di lavoro flessibile si nota una presenza, tutt’altro che
sporadica, di collaborazioni continuative, di affidamenti di servizi a cooperative, di forme di
volontariato, di utilizzo di disoccupati in lavori socialmente utili. Lo stesso lavoro a tempo
parziale ha abbandonato le percentuali pressoché vicine allo zero registrate per anni.
In ogni caso, pare evidente che la scelta legislativa di contrattualizzare il rapporto di
lavoro dei dipendenti di Amministrazioni pubbliche è sicuramente strumentale
all’introduzione di regole pattizie del rapporto di servizio, a loro volta funzionali alla più
flessibile gestione della risorsa umana attraverso strumenti ed atti di natura privatistica.
Rimane il nodo della effettiva utilizzazione dei potenziali strumenti di gestione del
personale da parte di un datore di lavoro che non ha cambiato la sua natura di soggetto
pubblico, con logiche di organizzazione del lavoro certamente non coerenti con la struttura
privata del rapporto.
Un significativo esempio può essere costituito dalla diffusa utilizzazione di istituti quali il
comando, il distacco, il fuori ruolo, che hanno sempre trovato grande spazio proprio nel
pubblico impiego e che si stanno lentamente ridimensionando solo a seguito della
introduzione di tecniche budgetarie, attraverso le quali si è fatto chiarezza sulla reale
89
imputazione degli oneri retributivi del personale utilizzato da amministrazione diversa da
quella di appartenenza.
I recenti correttivi apportati all’impianto originario della riforma del lavoro pubblico
hanno semplificato, peraltro, i passaggi di personale da un’amministrazione all’altra e
consentono una progressiva riduzione del numero dei dipendenti in servizio, in calo da
qualche anno in molti comparti, dai ministeri agli enti pubblici ed agli enti locali, con le
eccezioni, peraltro motivate, delle Forze di polizia.
D’altra parte, le piante organiche sono state sempre viste, nell’impianto tradizionale,
come dei contenitori che rappresentavano i fabbisogni ideali delle organizzazioni pubbliche,
da modificare solo in occasione di eventi particolari e con procedure molto complesse.
Questo sistema si è rivelato non funzionale rispetto alle esigenze di governo flessibile del
personale. Il controllo della spesa può ben essere perseguito attraverso strumenti che non
irrigidiscano la gestione, consentendo ai responsabili della gestione di dotarsi, con tutte le
garanzie necessarie anche sul piano della trasparenza, delle risorse umane coerenti con gli
obiettivi gestionali affidati.
Questo pare essere la ragione per la quale gli ultimi interventi correttivi di rango
legislativo sostituiscono al concetto di pianta organica quello di fabbisogno, introducendo
elementi di flessibilità quanto al sistema di definizione della risorsa umana.
L’ingresso, spesso timido, di criteri di funzionamento aziendalistici è destinato sempre
più a riflettersi sull’intera materia della gestione del personale, dagli incentivi, alla
valorizzazione mirata, al sistema sanzionatorio.
Il condizionale che accompagna l’affermazione dipende da un’oggettiva mancanza di
segnali univoci sull’evolversi di questi scenari che le norme di legge e i contratti
prefigurano. La fase che stiamo vivendo trova proprio su questi aspetti gli snodi più delicati.
28. CONTRATTI COLLETTIVI, RAPPRESENTANZA E RAPPRESENTATIVITÀ
Il sistema contrattuale collettivo, nazionale e decentrato integrativo, sembra riprodurre
l’analogo sistema privatistico, sebbene la procedura di formazione e di stipulazione dei
contratti sia significativamente differenziata e l’area di contrattazione sia relativamente più
ristretta nel settore pubblico. È sufficiente rilevare, quanto a tale ultimo rilievo, la
90
sostanziale, oltre che formale, inibizione di trattamenti individuali migliorativi rispetto alle
regole pattizie generali; la limitazione, o comunque la difficoltà, quanto all’introduzione di
regole attinenti agli avanzamenti professionali ed alla gestione dei percorsi di carriera; la
rigidità delle progressioni economiche; la sostanziale limitatezza degli istituti incentivanti; la
limitatezza delle materie o istituti lasciati alla contrattazione integrativa.
Nell’area della rappresentatività sindacale si sono, peraltro, avuti incisivi interventi, sia
sul versante della rappresentanza dei datori di lavoro, sia sul versante della rappresentanza
dei lavoratori.
Sul primo versante la linea seguita dal legislatore è stata quella dell’introduzione di
elementi idonei a sollecitare dinamiche organizzative coerenti con le logiche della
privatizzazione.
Pur se viene confermata la scelta originaria dell’attribuzione per legge del potere di
rappresentanza all’Aran, si comincia ad avvertire l’esigenza che questa rappresentanza
venga esercitata secondo logiche coerenti con quanto avviene nell’area privata, dove, in
termini generali, i datori di lavoro intendono la contrattazione come strumento del quale essi
possono servirsi per migliorare la gestione del personale. Infatti, il pericolo che si correva –
e che si continuerà a correre fino a che i tessuti organizzativi e culturali della privatizzazione
non si saranno imposti – era quello di una persistente attitudine dei responsabili della
gestione a considerare il contratto collettivo come una fonte normativa che viene calata
dall’alto e che si aggiunge alle norme di legge e di regolamento che essi debbono rispettare e
a non considerarlo, invece, come risorsa nelle proprie mani per realizzare una gestione
migliore. In altri termini, il pericolo è che il contratto collettivo continui ad essere percepito
come elemento di eteronomia invece che di autonomia.
Con la prospettiva di contrastare questo pericolo, l’assetto dell’Aran e le dinamiche
negoziali sono stati ridisegnati in termini più vicini a quelli delle organizzazioni
rappresentative dei datori di lavoro nell’area privata. Si cerca di promuovere una attitudine
negoziale nelle singole amministrazioni. Queste vengono spinte ad associarsi ed a
partecipare all’attività di formulazione di indirizzi all’Aran.
La stessa fisionomia dell’Aran subisce una significativa modificazione. L’agenzia, non
sembra più costituire un semplice organismo tecnico deputato a realizzare – traducendoli in
disposizioni di contratto - indirizzi centralisticamente impartiti dall’alto, dalla Presidenza del
consiglio, per tutti i comparti, bensì sembra atteggiarsi come soggetto che si pone al centro
di un sistema opportunamente articolato, come soggetto esposto ad un potere di indirizzo
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esercitato direttamente dalle pubbliche amministrazioni e svolgente, quindi, una forma di
servizio nei loro confronti. In altri termini, si realizzano innovazioni che dovrebbero
consentire all’Aran di operare sempre più nella logica dell’autonomia e di distaccarsi da
quella dell’eteronomia, che costituisce un residuo del passato. Ovviamente, anche questo
passaggio si realizzerà concretamente nella misura in cui riesca a svilupparsi il tessuto
organizzativo e culturale della privatizzazione.
Sul secondo versante le innovazioni sono state ancora più incisive: da un sistema fondato
sulla rappresentatività “presunta”, che utilizzava la tradizionale figura del “sindacato
maggiormente rappresentativo”, si è passati ad un sistema di rappresentatività “certificata”,
fondata su parametri numerici, che utilizza la semplice figura del “sindacato
rappresentativo”; si è prevista la costituzione di una nuova forma di rappresentanza dei
lavoratori a livello di unità produttiva, la rappresentanza sindacale unitaria; si è subordinata
la capacità negoziale dell’Aran alla sussistenza di un interlocutore che rappresenti una
determinata maggioranza dei dipendenti destinatari del contratto.
Tuttavia queste innovazioni, a differenza di quelle introdotte in altre materie, sembrano
essere state influenzate da fattori più esterni che interni al sistema dei rapporti collettivi nelle
pubbliche amministrazioni. Non a caso, la scelta effettuata potrebbe rappresentare un
modello esportabile nell’area delle organizzazioni private.
In altri termini, nell’area della rappresentanza e della rappresentatività la disciplina
dettata per le pubbliche amministrazioni non è tributaria alla disciplina del settore privato,
bensì tende a porsi, di fatto come modello per esso.
29. IL NUOVO ORDINAMENTO PROFESSIONALE E LE PRODEDURE CONCORSUALI.
1 - L’applicazione al settore pubblico di regole e modelli privatistici, o almeno mutuati
concettualmente da esso, non poteva trascurare l’ordinamento del personale. Questo è stato
sempre uno specchio fedele delle caratteristiche che il sistema pubblico di volta in volta
privilegiava, quasi sempre in controtendenza, o in grande ritardo, rispetto a quanto il mondo
delle imprese andava attuando.
All’epoca del Rapporto Giannini il dibattito sull’ordinamento professionale e sui punti di
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debolezza di tutte le soluzioni che nel tempo erano state introdotte, aveva dato luogo
all’ennesima riforma dell’ordinamento basato su qualifiche funzionali e profili professionali,
cioè ad un assetto definibile funzionale – retributivo.
Per la verità quella riforma riprese una tendenza che era presente anche nei settori
produttivi, testimoniata da una serie di contratti collettivi che moltiplicarono i profili
professionali, secondo una logica di parcellizzazione delle mansioni. La storia recente si è
incaricata di dimostrare l’inefficacia di quell’impostazione troppo schematica e fonte di
rigidità, e che fu ben presto abbandonata dalle imprese, passate a modelli opposti, basati
sull’arricchimento delle mansioni e sull’attività per processi.
La diversa velocità di adattamento che il settore pubblico ha sempre dimostrato ha portato
ad una evoluzione molto più lenta, con il risultato che la fase di reinquadramento del
personale, a seguito della legge del 1980 sulle qualifiche funzionali si è prolungata fino a
pochi anni fa.
Le amministrazioni hanno fatto fronte a questa assoluta divaricazione tra profili formali
ed esigenze sostanziali, che si vanno evolvendo a ritmi sempre crescenti, ricorrendo
all’affidamento di mansioni diverse e superiori a quelle “ascritte” a ciascun profilo.
Questo fenomeno si è trascinato per anni, favorito da altri, quali la lunghezza delle
procedure concorsuali, i blocchi, totali o parziali, delle assunzioni, le spinte alla mobilità
Nord – Sud dovute alla provenienza prevalentemente meridionale del personale. Si è
verificato inoltre, anche per effetto di automatismi incontrollabili,
un progressivo
svuotamento delle qualifiche più basse ed una conseguente compressione delle
professionalità collocate ai livelli più alti.
Questa premessa è utile per comprendere come l’attuale riforma degli ordinamenti
professionali è gravata dal peso di risolvere una serie di situazioni pregresse che in un
sistema ormai completamente contrattualizzato non possono più trascinarsi, ma vanno risolte
nel rispetto delle norme inderogabili di legge e degli impegni presi pattiziamente.
Il nuovo sistema di inquadramento, varato dai contratti collettivi attualmente in vigore, si
basa sulla suddivisione del personale in grandi aree professionali e all’interno di esse in
posizioni economiche che corrispondono non necessariamente a mansioni superiori ma che
consentono di differenziare i trattamenti retributivi in ragione della qualità della prestazione
e del diverso grado di responsabilità.
Si tratta di un operazione di cui sarebbe riduttivo trascurare la portata innovativa, e che
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risente palesemente delle più recenti esperienze del settore privato, dove il modello
dell’azienda cosiddetta “corta” sembra ormai prevalente.
Del resto, un esame delle diverse situazioni in essere permette di registrare nel settore
pubblico, anche prima della formalizzazione contrattuale del nuovo sistema, forme di
revisione profonda dei modelli organizzativi, nel tentativo di accelerare la capacità di
risposta alle crescenti esigenze dell’utenza mediante strutture più snelle, autonome e
orientate ai risultati complessivi più che al rispetto formale di una serie di procedimenti.
Non considerare questa evoluzione - episodica e disomogenea ma tuttavia presente,
specie laddove le spinte dell’utenza sono più forti - porterebbe ad uno scetticismo di fondo
sulla capacità di interpretare correttamente un modello la cui applicazione è lasciata alle
parti contraenti, pur nel rispetto dei reciproci ruoli e ambiti. D’altra parte le esperienze
pregresse, significative solo in alcuni comparti, si riflettono anche sulle scelte operate dalla
contrattazione collettiva. Non è un caso che il sistema delle macro aree professionali,
articolato in posizioni di sviluppo economico, si presenta in maniera più netta proprio nel
comparto degli enti locali e con qualche deroga in quello degli enti pubblici non economici,
mentre il comparto ministeri presenta un sistema ordinamentale in cui le posizioni di
sviluppo economico si incrociano con quelle di accesso anche dall’esterno, non risolvendo le
problematiche derivanti dalle garanzie costituzionali che circondano le forme di reperimento
di nuovo personale.
La vera sfida è ora quella di assicurare che i contingenti che andranno coperti dal
personale già in servizio siano fissati in modo equilibrato e corrispondente alle reali esigenze
dell’amministrazione e che i percorsi selettivi che i contratti collettivi nazionali di lavoro
prevedono siano un’occasione di riqualificazione e non una mera formalità.
Un segnale di ottimismo è dato dalla differenza sostanziale tra questa fase e quelle dei
decenni scorsi, in cui automatismi e slittamenti erano considerati una ineluttabile
conseguenza della complessità di meccanismi che venivano applicati secondo logiche di
rispetto formale delle regole più che secondo criteri di compatibilità finanziaria.
Oggi i contratti collettivi, nazionali o integrativi, devono operare le loro scelte tenendo
conto, come già rilevato (v. cap. VI), delle disponibilità finanziarie, per cui non sono
ammesse forme indiscriminate di slittamento. La possibilità per le parti contraenti di
utilizzare i risparmi di gestione rafforza la necessità di scelte coerenti con le reali esigenze e
potenzialità delle singole amministrazioni, anche se ciò vorrà dire dinamiche diverse da
un’amministrazione all’altra. Ciò, tuttavia, non sembra più essere un fattore negativo ed è la
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naturale conseguenza della contrattualizzazione del rapporto di lavoro, di cui solo di recente
sembra cogliersi il tasso di innovazione rispetto al preesistente quadro normativo.
2 – Diversamente, il connesso profilo problematico inerente le procedure concorsuali di
accesso all’impiego non sembra essere stato oggetto di innovazioni particolarmente
interessanti, se si eccettua il già rilevato tentativo di escludere da tale ambito i meccanismi
di progressione orizzontale o all’interno delle macro arre del nuoco ordinamento
professionale.
A ben vedere, infatti, le fasi della procedura già oggetto di descrizione critica nell’ambito
del Rapporto Giannini rimangono sostanzialmente immutate (al decreto di nomina si
sostituisce, ovviamente, il contratto per il personale privatizzato).
I tempi delle procedure rimangono lunghi, perché il meccanismo procedimentale (anche
quello del regolamento del 1994) è farraginoso, complesso e rigido. Le commissioni
esaminatrici continuano a non essere formate da “professionisti” delle procedure selettive,
ma da esperti “prestati” a tempo parziale. I requisiti di partecipazione (salvo quello relativo
all’età) sono standardizzati e spesso non corrispondenti alle professionalità occorrenti
nell’Amministrazione. I concorsi unici (pure suggeriti, nella sostanza, nel Rapporto
Giannini) non pare abbiano dato prova di particolare efficacia quanto agli esiti della
procedura e, comunque, risentono degli stessi difetti già rilevati in generale.
La flessibilizzazione delle regole procedimentali relative ai concorsi, di recente disposta
attraverso il riconoscimento di ampia autonomia da parte degli enti, non ha ancora prodotto
effetti benefici, soprattutto per le Amministrazioni statali, per le quali i concorsi previsti in
modo speciale da norme di legge finiscono con il comprimere quel margine di autonomia
pure ad esse riconosciuto.
Le stesse procedure selettive informatizzate, ormai particolarmente diffuse, con sistemi di
correzione automatizzati, non garantiscono la speditezza di acquisizione della risorsa, a
causa degli inconvenienti tecnici non rari, e non sempre sono funzionali quanto
all’individuazione dei candidati maggiormente idonei per certe attività di lavoro di livello
elevato.
In definitiva, l’adozione di sistemi procedurali molto vicino a quelli prefigurati nel
Rapporto Giannini non pare abbia dato i risultati sperati. Probabilmente, è necessario che il
processo di responsabilizzazione informi anche i processi di acquisizione delle risorse, nella
consapevolezza che il solo superamento di prove di conoscenza ed attitudine (anche
psicologica) senza un adeguata verificazione in attività di lavoro (periodo di prova), a
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seguito di adeguata formazione iniziale, non può garantire la qualità del prodotto della
procedura di scelta del “contraente”.
30. GLI ISTITUTI ECONOMICI
Un’analisi del percorso riformatore non può trascurare le dinamiche retributive.
Controllare se queste dinamiche abbiano risentito, e in che misura, del nuovo assetto
contrattuale è importante per valutare l’impatto della riforma, anche se le valutazioni non
possono essere ridotte solo ad un raffronto di tipo quantitativo.
La prima tornata contrattuale post riforma, quella del quadriennio 1994-97, è rimasta in
limiti di moderazione salariale. Nel settore pubblico sono state seguite logiche contrattuali
coerenti con quanto previsto dall’accordo del 23 luglio 1993 sul costo della vita, in linea con
gli incrementi dei settori privati.
La seconda tornata contrattuale ha incrementato, rispetto alla prima, le quote di salario
lasciate al secondo livello di contrattazione, aprendo spazi di cui non è dato ancora
conoscere le effettive dimensioni.
Tuttavia, da un punto di vista macroeconomico, è possibile affermare che prendendo a
riferimento i comparti contrattualizzati le massa retributiva è diminuita di quasi un punto,
dal ’93 al ’99, rispetto al PIL. Questo risultato in verità non è ascrivibile solo alla
moderazione salariale, poiché dipende anche dal numero complessivo dei dipendenti in
servizio.
I dati indicano che nel quadriennio 1994-97 il numero dei dipendenti che sono cessati dal
servizio è stato significativamente superiore a quello relativo ai nuovi rapporti di lavoro
costituiti. I dati più recenti confermano tale tendenza, con un quadro di non trascurabile
ricambio, e al contempo di diminuzione, dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
I due versanti, quello della politica retributiva e quello della politica occupazionale, sono
tra loro strettamente connessi. Solo tenendo sotto controllo la leva occupazionale è possibile
assicurare spazi alle dinamiche retributive, purché collegate ad effettivi recuperi di
produttività.
In definitiva, anche in considerazione della importanza del sistema retributivo quale
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elemento incentivante e motivazionale, la composizione del trattamento economico
dovrebbe propendere maggiormente verso i trattamenti accessori e le risorse destinate agli
incrementi retributivi dovrebbero in misura maggiore essere utilizzate per rendere più
significativi gli istituti economici differenzianti ed incentivanti, purché non vengano
utilizzati in modo distorto al solo fine di garantire una entrata aggiuntiva alla generalità dei
dipendenti.
31. IL RUOLO UNICO E LA PROFESSIONALITA’ DEI DIRIGENTI DELLO STATO
Momento particolarmente significativo del processo di privatizzazione è l’avvio del ruolo
unico della dirigenza delle amministrazioni dello Stato, anche ad ordinamento autonomo,
disciplinato dal DPR n. 150 del 1999 ed entrato in vigore il 10 giugno u.s.
Tale innovazione discende dall’attuazione della legge n. 59 del 1997, la quale prevede,
all’art. 11, comma 4, una delega al Governo per la disciplina di ulteriori disposizioni
integrative e correttive al decreto n. 29 del 1993.
L’ampia delega ricevuta ha trovato attuazione in una disciplina che estende alla dirigenza
generale i principi essenziali della privatizzazione del rapporto. Per compiere questa
operazione è stata adottata una normativa che non opera una unificazione indiscriminata tra
le preesistenti categorie dirigenziali ma anzi che ne esalta i differenti poteri e responsabilità.
Il decreto n. 29 citato, invero, suddivide la dirigenza dello Stato in due fasce e la colloca
nell’ambito di un ruolo unico.
La collocazione in due fasce della dirigenza pubblica in considerazione mira proprio a
garantire la diversa rilevanza delle funzioni da attribuire ai dirigenti e differenzia in maniera
più peculiare che in passato la diversità delle funzioni, in quanto si consente l’ingresso
definitivo di un dirigente di seconda fascia nella prima solo dopo che questi abbia svolto un
incarico di prima fascia per ben cinque anni.
Il principio della distinzione tra indirizzo politico e gestione comporta un diretto ed
intenso collegamento tra autorità politica e dirigenti di prima fascia, ai quali sono affidati gli
uffici di maggiore rilevanza, mentre gli altri dirigenti rispondono delle loro attività ai
dirigenti responsabili degli uffici sovraordinati.
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Nell’ambito delle rispettive fasce, i dirigenti sono collocati nel ruolo unico senza un
ordine che derivi dall’anzianità di servizio, rimanendo la professionalità acquisita l’elemento
determinante e differenziante tra essi. Le capacità professionali sono rilevate ed organizzate
in una apposita banca dati curriculare, che è il perno del funzionamento del ruolo unico,
tenuto conto della rilevanza in ordine alla collocazione del dirigente in un determinato posto
di funzione.
Il ruolo unico, quindi, costituisce lo strumento organizzativo per consentire una maggiore
mobilità, facilitata dall’affidamento di incarichi di durata determinata in relazione alle
attitudini, alle capacità professionali ed a criteri di rotazione nell’attribuzione degli incarichi.
Si prevede la costituzione di apposite sezioni nell’ambito di ciascuna fascia nelle quali
inserire i “dirigenti appartenenti a ruoli professionali o reclutati in ragione delle loro
specifiche professionalità tecniche”. Il regolamento, quindi, individua due specifici criteri
per la costituzione delle sezioni specializzate, a salvaguardia dei ruoli professionali già
esistenti e delle specifiche professionalità tecniche in ragione delle quali si è costituito il
rapporto di lavoro. A questi precisi criteri, poi, se ne aggiunge un altro, relativo alla
previsione di una specifica sezione nella quale inserire i dirigenti che svolgono funzioni
amministrative di tutela dei cittadini e degli italiani all’estero riconosciute dal diritto
internazionale.
La previsione e l’inserimento nelle apposite sezioni mira a salvaguardare la specifica
professionalità acquisita da taluni dirigenti, che implica la loro utilizzazione in attività più
specifiche o tecniche.
L’entrata in vigore delle nuove norme sulla dirigenza e sul ruolo unico ha evocato
l’introduzione nel nostro ordinamento dello “spoil system”, sia per la sostanziale instabilità
degli incarichi di vertice dirigenziale (segretari generali e capi dipartimento), sia a causa
della possibilità di revoca incondizionata consentita in sede di prima attuazione, a
prescindere dai profili di responsabilità connessi a negligenza o incapacità di raggiungere i
risultati.
Va evidenziato come, tuttavia, il nuovo sistema, pur abbandonando il sistema di
protezione fondato sulle norme di rango legislativo, si fonda su garanzie e tutele di ordine
contrattuale. Durante la validità del contratto individuale il dirigente può contare su una
posizione di tutela, poiché la revoca dell’incarico o il recesso dal rapporto non può
intervenire se non in casi circoscritti e predeterminati, astrattamente, dall’art. 21 del d.leg.vo
n. 29 del 1993 e, concretamente, dalle clausole contrattuali.
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Naturalmente, il sistema è solo avviato ed attende di essere valutato, quanto a reale
innovatività, sul piano della coerenza gestionale con le finalità che si vogliono perseguire
con la privatizzazione.
In effetti, la creazione di un “mercato” del dirigente pubblico presuppone
necessariamente la mobilità e, quindi, la temporaneità dell’incarico, ma richiede anche (e
forse soprattutto) che il sistema di contrattazione collettiva sia coerente con tale disegno e
consenta una reale capacità per le parti di determinare il contenuto complessivo del contratto
individuale, sia sul piano del trattamento economico, sia sul piano della disciplina delle
responsabilità connesse ai risultati da raggiungere.
In definitiva, anche indipendentemente dalla definizione di un modello astratto di
dirigente pubblico, la professionalità dello stesso dovrebbe divenire l’unico, o comunque il
più significativo, elemento di garanzia della stabilità del rapporto.
32.
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LA DIFFICILE INTRODUZIONE DELLA RESPONSABILITA’ GESTIONALE.
Come già accennato, la responsabilità dirigenziale di tipo manageriale investe il dirigente
per mancato o incompleto raggiungimento dei risultati programmati.
Il termine “responsabilità” riferito al dirigente viene, pervero, usato nella legislazione
vigente con due significati contrapposti.
Per un verso si fa riferimento alla responsabilità del dirigente intesa in senso attivo, come
potere, possibilità di gestire in maniera autonoma il proprio settore, potendo così conseguire
autonomamente i risultati che gli sono stati prefissati dagli organi di vertice; per l’altro
verso, alla responsabilità in senso passivo, poiché il dirigente, così come ha il potere di
operare in autonomia, è anche soggetto alla verifica dei risultati dello stesso conseguiti, dalla
quale possono discendere effetti positivi (conferma dell’incarico, affidamento di un’unità
dirigenziale di maggior rilievo, ecc.) ed effetti negativi (rimozione dall’incarico, ecc.).
In ogni caso, essa dovrebbe caratterizzarsi per il fatto di attenere non al comportamento in
sé del dirigente, bensì al risultato di tale comportamento: per un verso, trascende i limiti del
comportamento personale del soggetto; per altro verso, si avvicina alla responsabilità
politica, in quanto non implica un giudizio di colpevolezza, bensì un giudizio di accertata
inidoneità all’esercizio di una funzione, con conseguente venire meno del rapporto
fiduciario che connota la funzione dirigenziale. Questa tipologia di responsabilità, che non
dà luogo ad una sanzione in senso proprio, può comportare, quale conseguenza, la revoca
dall’incarico affidato per i risultati negativi dell’attività amministrativa e della gestione o per
il mancato raggiungimento degli obiettivi assegnati ovvero l’esclusione dal conferimento di
ulteriori incarichi di livello dirigenziale e nei casi più gravi, può dare luogo, da parte
dell’amministrazione, al recesso dal rapporto di lavoro ed alla rimozione del dirigente dalle
funzioni esercitate.
L’ambito della responsabilità manageriale configurata dal decreto n. 29 del 1993 è,
dunque, costituito dal riscontro di congruenza dei risultati in relazione agli obiettivi
assegnati per verificare se essi possano essere ritenuti ragionevolmente corrispondenti,
quantitativamente e qualitativamente, agli obiettivi fissati e dalla valutazione dei risultati
della gestione finanziaria, tecnica e amministrativa conseguiti dal dirigente, valutati anche
con riferimento al rapporto tra costi e rendimenti e alla correttezza ed economicità della
gestione delle risorse pubbliche affidategli.
La responsabilità manageriale è qualificata dal fatto che, a differenza di quanto prevedeva
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l’art. 19 del D.P.R. n. 748 del 1972, tanto gli obiettivi, quanto i programmi e priorità
dell’azione amministrativa, che costituiscono il parametro per acclarare la sussistenza di tale
forma di responsabilità, sono fissati - nella logica della distinzione (non separazione)
“politica/gestione” - a seguito di una sorta di “negoziazione” tra il Ministro (per le
amministrazioni statali) e gli organi di vertice dell’amministrazione. Ne discende che il
passaggio dal modulo organizzatorio dell’ordine a quello della direttiva - pienamente
funzionale con il disegno della distinzione tra compiti di indirizzo politico e di gestione costituisce il fondamento giustificativo della conseguente responsabilizzazione del dirigente.
Infatti, se risultava problematico configurare una responsabilità per il mancato
conseguimento di obiettivi “calati dall’alto”, con la riforma amministrativa il dirigente entra
a pieno titolo nel circuito di costruzione della direttiva generale e, dunque, nella fissazione
degli obiettivi priorità e programmi (v. cap. IV).
L’impianto della responsabilità manageriale è, dunque, in tutto coerente con il principio
di distinzione tra attività politica di indirizzo ed attività di gestione. Tuttavia, la scarsa
convinzione - che ha radici anche culturali - nell’attuazione del disegno di riforma,
segnatamente nella definizione di direttive generali per l’azione amministrativa che siano
veri strumenti di pianificazione strategica e non già meri adempimenti burocratici (come in
prevalenza finora avvenuto), ha finora vanificato l’attuazione del disegno di coniugare
“autonomia e responsabilità”.
Il defluire della concreta azione amministrativa non fornisce confortanti segnali di una
effettiva inversione di tendenza. Gli uffici di controllo interno trovano difficoltà ad essere
accettati dalle burocrazie come strumenti per un migliore realizzazione dei risultati
dell’azione amministrativa, le note preliminari agli stati di previsione al documento di
bilancio, che preludono e anticipano i contenuti delle direttive generali, permangono
inconsistenti, le direttive generali sono strumenti deboli e spesse volte evanescenti. La
conseguenza è che nel processo circolare che unisce pianificazione, programmazione,
gestione e controllo non è possibile dare effettiva attuazione alla responsabilità manageriale,
in quanto questa forma di responsabilità si inscrive e presuppone la effettiva e complessiva
applicazione della nuova disciplina. Il pericolo della persistente inattuazione del disegno di
riforma, che lega funzionalmente tutti i nuovi istituti, ivi inclusa la responsabilità
manageriale, è che tale forma di responsabilità, indispensabile per la modernizzazione
dell’Amministrazione, possa degradare in responsabilità disciplinare: significherebbe il
fallimento della riforma. D’altra parte, la diffusa percezione della responsabilità manageriale
quale sostanziale superfetazione della responsabilità disciplinare discende da un non ancora
101
avvenuto affrancamento da una cultura di deresposabilizzazione nella gestione
amministrativa.
Occorre, inoltre, segnalare il delicato problema dei rapporti tra la responsabilità
dirigenziale e quella amministrativa generale, consistente nella ipotizzabilità che il mancato
raggiungimento degli obiettivi prefissati e il conseguimento di risultati negativi possano
costituire danno erariale di per sé.
A
ben
vedere,
ciò
comporterebbe
un
effetto,
non
ragionevole,
di
“giurisdizionalizzazione” del controllo di gestione, nel senso cioè che ogni emergere da esso
di risultati negativi o di mancato conseguimento di obiettivi potrebbe divenire presupposto
sufficiente per un’azione di responsabilità.
33. LA FORMAZIONE E IL RUOLO DELLE SCUOLE DI AMMINISTRAZIONE PUBBLICA
Il Rapporto Giannini dedicava una parte della sua riflessione al tema della formazione
pubblica e al ruolo della Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione.
Riconosceva che non erano mancati sforzi, anche apprezzabili, particolarmente da parte
della S.S.P.A., per sviluppare una attività formativa dei dipendenti pubblici, ma sottolineava
che molto di più doveva essere fatto in futuro.
Quello stesso Rapporto, inoltre, richiamava già allora l'attenzione del Parlamento sul
ruolo strategico che la formazione ha nella riforma dell'amministrazione. La formazione
rimane una risorsa strategica e una necessità essenziale per le amministrazioni moderne,
soprattutto in occasione di innovazioni e modernizzazione.
Finora formazione voleva dire aggiornamento delle competenze, capacità di perfezionare
conoscenze e tecniche, che si presumevano possedute in partenza. Oggi il tema si sposta e
riguarda l’apprendimento di tecniche innovative, ancora poco conosciute o adottate. Si
tratta di dare vita ad una vera e propria riconversione delle professionalità, operazione
difficile e dall’esito dubbio, se soprattutto se non sia sostenuta da strategie coerenti, da
risorse sufficienti e dal coinvolgimento di soggetti qualificati e con modalità di erogazione
anch’esse innovative.
I dati più recenti mostrano un aumento delle risorse destinate alla formazione, anche se la
102
soglia dell’1 per cento della massa salariale, ritenuta livello minimo di sufficienza già da
alcuni anni, è ancora lontana dall’essere raggiunta, salvo rare eccezioni.
La questione di fondo, nel momento in cui l’attenzione si sposta su modelli privatistici, è
quella di mutuare comportamenti, metodiche e strumenti privatistici, senza però trascurare le
specificità del pubblico, trattandosi di adattare più che di trasporre acriticamente.
Un terreno interessante che sta iniziando a dare risultati pregevoli è quello dello scambio
di esperienze tra diverse realtà del paese. La diffusione dei casi di eccellenza è un punto
chiave, poiché permette di impostare su basi organiche l’integrazione delle risorse e la
messa in comune delle esperienze, fattori poco conosciuti nel mondo delle pubbliche
amministrazioni,
tradizionalmente
caratterizzato
da
incomunicabilità
e
scarsa
collaborazione.
Una spinta verso questa direzione può venire dal modello del partenariato, istituzionale e
sociale, che sta trovando interessanti applicazioni nella fase propositiva degli interventi
finanziati dall’Unione Europea per il prossimo sessennio. Il programma di sviluppo del
Mezzogiorno, cioè la proposta di utilizzo dei prossimi fondi strutturali,
riconosce
chiaramente che la pubblica amministrazione, sia centrale che locale, va aiutata a ricoprire a
tutti gli effetti un ruolo propulsivo per lo sviluppo, abbandonando la cultura
preminentemente burocratico formale, inadeguata ad assicurare ai cittadini e alle imprese
servizi in linea con gli standard dei Paesi europei.
La modernizzazione delle pubbliche amministrazioni è questione che, però, riguarda
l’intero territorio nazionale e pertanto sarebbe auspicabile che anche nelle aree del Centro
nord i programmi finanziati dall’Unione europea prendessero in considerazione
prioritariamente gli interventi per la riqualificazione del personale pubblico.
L’esperienza dimostra che il Paese ha sempre mostrato una diffusa incapacità di spendere
i fondi europei. La mancanza di capacità progettuale, di strumenti di valutazione e di
programmazione è stata superata solo in parte, grazie anche a programmi formativi specifici.
Sarebbe un grave errore ritenere che quanto finora è stato fatto sia sufficiente; la pubblica
amministrazione deve essere in grado di gestire nel migliore dei modi i fondi europei. E’
questa la sfida che amministrazioni centrali, regioni ed enti locali devono vincere nei
prossimi anni e su cui bisogna riporre il massimo impegno.
Si tratta di una sfida che in ogni caso fa affrontata anche al di là dell’occasione dei fondi
strutturali. Le risorse destinate alla formazione sono ancora insufficienti a svolgere azioni di
sistema con l’ampiezza e la celerità che il momento di transizione impongono; vi è necessità
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di uno sforzo straordinario, finanziario e qualitativo, senza il quale il processo di
modernizzazione rischia di restare episodico e disomogeneo.
Il contemporaneo riordino della SSPA e del Formez è un primo passo verso il
rafforzamento della formazione secondo logiche di sistema e tuttavia non centralistiche. Lo
dimostra la presenza delle Regioni e degli enti locali nel Formez, che crea le condizioni per
una collaborazione organica tra lo Stato e le Autonomie, secondo forme di coinvolgimento
che segnano un modello partecipativo che, sia pure episodicamente, inizia a farsi strada.
Sulla necessità di un impegno deciso sul versante della formazione (permanente) si è
concordato anche nel Protocollo sul lavoro pubblico del 12 marzo 1997 tra Governo e
Organizzazioni sindacali, nel corso della prima Conferenza nazionale sulla formazione nel
settore pubblico, nel febbraio 1998 ed infine nell’ambito del Patto sociale per lo sviluppo del
dicembre ‘98.
Questo sforzo non riguarda solo l’aspetto quantitativo, che pure assume importanza
decisiva per il sostegno alla modernizzazione delle amministrazioni, ma deve esprimersi
anche sotto l’aspetto dei contenuti.
L’attuale fase di rinnovamento, coincidente con l’attuazione di una riforma che investe
l’intera pubblica amministrazione sotto tutti i profili, da quello della dislocazione delle
funzioni e della connessa riorganizzazione a quello della flessibilità degli strumenti
gestionali, va, dunque, assistita e accompagnata da misure destinate in primis alla
valorizzazione delle risorse umane.
La nuova missione delle amministrazioni pubbliche, l’adozione di strumenti gestionali
nuovi, di modelli organizzativi più flessibili e adattabili alle specificità delle singole realtà,
richiedono professionalità nuove e nuove modalità di funzionamento delle strutture
amministrative. Questo cambiamento resterebbe rallentato o sarebbe solo parziale se nel
contempo il processo di cambiamento non fosse adeguatamente sostenuto con programmi di
largo respiro capaci di diffondere le esperienze migliori e di innestare nuove metodologie
lavorative finora sconosciute.
La priorità principale di un Piano straordinario, espressamente previsto tra gli impegni
sanciti dal patto sociale, è quindi quella di accompagnare i processi di riforma, favorendo
quel salto culturale che possa consentire il fattivo coinvolgimento del personale, vero
protagonista del cambiamento.
E’ bene ricordare che precedenti tentativi di riforma, peraltro mai organici, sono falliti
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anche per la scarsa attenzione al fattore umano che, se non coinvolto attivamente, è capace
di condizionarne negativamente gli esiti.
Il Piano che il Dipartimento della funzione pubblica intende avviare utilizzando tutte le
risorse che si riuscirà ad attrarre, a partire da quelle dei fondi strutturali, vuole riuscire ad
incidere sul fattore umano, creando una nuova consapevolezza nel personale pubblico,
fondata sulla conoscenza e sulla condivisione delle nuove missioni istituzionali e sulle
prospettive di partecipazione scaturenti dal nuovo ruolo delle strutture pubbliche, intese
come fattore di sviluppo.
Questo obiettivo ha ispirato la scelta dei temi proposti nel documento presentato alle parti
sociali; si tratta di una serie di punti distinti ma tra loro collegati, essendo tutti riconducibili
nell’alveo delle azioni da compiere per innestare e diffondere reali processi di innovazione
nelle nostre amministrazioni pubbliche.
Il principio base che si rinviene nel documento è quello che le
risorse aggiuntive
(necessarie per raggiungere l’obiettivo tendenziale dell’1 per cento della massa salariale),
non vanno destinate ad interventi tradizionali, ma devono invece essere canalizzate al
sostegno dell’attuazione delle riforme.
Il legame tra riforme e formazione diventa inscindibile se si considera anche la necessità
di assicurare, per quanto possibile, pur nel rispetto dei gradi di autonomia delle singole
amministrazioni, che i nuovi criteri e le nuove disposizioni siano recepite secondo standard
uniformi, evitando ritardi e differenti livelli di efficienza nel paese. La coesione
amministrativa diventa quindi un punto irrinunciabile che deve improntare i futuri
programmi formativi, i quali vanno perciò concepiti in modo da favorire il collegamento tra
enti e la trasmissione delle informazioni e delle esperienze.
Per i motivi esposti il Piano elenca una serie di misure ritenute al
momento
maggiormente meritevoli di attenzione e su cui riversare prioritariamente risorse. Risulterà
in questo modo accresciuta anche la capacità di indirizzare i programmi formativi delle
singole amministrazioni, impostati il più delle volte secondo logiche settoriali.
In ogni caso, nel corso degli ultimi tre anni, e particolarmente nell'ambito della riforma
dell'amministrazione realizzata in questa legislatura, si è proceduto a innovare, come
accennato, profondamente nel sistema delle scuole e delle strutture pubbliche di formazione.
Da un lato va innanzitutto ricordato che, in collegamento con la nuova Agenzia per i
Segretari comunali, si è provveduto a istituire una nuova Scuola per l'amministrazione
105
pubblica locale. E' questa una struttura, per ora ai primi passi, che certamente costituisce
un'iniziativa interessante per garantire professionalità e aggiornamento costante alla
categoria dei segretari comunali e per concorrere alla formazione dei quadri amministrativi
locali.
Di particolare rilievo è lo sforzo fatto dal Governo per riorganizzare due strutture che
oggi si configurano come elementi essenziali della politica di formazione del Governo e in
particolare della Presidenza del Consiglio e del Dipartimento della Funzione pubblica.
Il riferimento è evidentemente alla riforma del Formez e della Scuola Superiore della
Pubblica Amministrazione, che sono stati oggetto di due specifici decreti legislativi
approvati dal Governo nel luglio scorso.
La riforma del Formez dovrebbe consentire un utile collegamento fra i diversi livelli di
governo del sistema amministrativo italiano (tutti in qualche misura presenti nella struttura
associativa del Formez), ma anche e soprattutto costituire uno strumento agile e capace di
sviluppare un'attività ad ampio raggio al sostegno alle Amministrazioni nazionali e a quelle
territoriali, specialmente nei settori strategici nei quali il lavoro dell'amministrazione più
direttamente incide sullo stesso sviluppo economico e sociale delle specifiche aree
territoriali.
La Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione ha avuto una conferma delle sue
missioni tradizionali, quella della formazione iniziale della nuova dirigenza e quale della
formazione permanente dei dirigenti già in servizio. Alla Scuola Superiore sono state però
assegnate anche nuove missioni fra le quali di singolare importanza quella relativa alla
consulenza e all'assistenza delle Amministrazioni nell'attività formativa da esse stesse
promossa e, soprattutto, quella di formazione, su richiesta del Governo italiano e sulla base
delle indicazioni date dalla Funzione Pubblica, dei funzionari di altri Paesi. Compito che
naturalmente la Scuola Superiore dovrà assolvere facendo in modo di riconoscere alle altre
grandi istituzioni di formazione del Paese, a partire dall'Istituto Diplomatico, il ruolo e il
peso che esse hanno per la loro professionalità e per la loro specializzazione.
Del resto, non a caso alla Scuola Superiore della Pubblica Amministrazione è stato
assegnato oltre al compito di curare l’osservatorio permanente sulla formazione anche il
compito di promuovere e favorire il coordinamento rispetto alle altre Scuole Pubbliche
italiane di formazione, pure riformate, che da anni operano, come la Scuola Superiore
dell'Amministrazione dell'Interno e la Scuola Centrale Tributaria Ezio Vanoni.
In tale contesto di riforme, tuttavia, al riordino normativo dovrà seguire l’attività
106
concreta, nel quadro di un più ampio confronto con le strutture private di formazione.
107
VIII – IL RAPPORTO AMMINISTRAZIONI PUBBLICHE – CITTADINI
34. IL SISTEMA DI COMUNICAZIONE PUBBLICA COME STRUMENTO DI
CAMBIAMENTO
1 - Migliorare il rapporto con i cittadini attraverso adeguate azioni di comunicazione è
un’esigenza specifica dell’attuale evoluzione del sistema pubblico. La comunicazione è
funzionale ai processi di riforma delle amministrazioni pubbliche: senza di essa, infatti, non
si promuove effettivo accesso alle istituzioni e non si assicura l’efficacia dei provvedimenti
di modernizzazione. L’esigenza della comunicazione tra istituzioni e cittadini emerge sia in
relazione alle informazioni possedute e utilizzate dai poteri pubblici, sia in rapporto
all'obbligo di favorire la partecipazione dei cittadini (consentendo un reale accesso ai
documenti amministrativi e fornendo loro informazioni sui servizi di pubblica utilità).
Nelle società contemporanee le istituzioni pubbliche costituiscono il più esteso bacino di
informazioni. Il fenomeno ha molteplici ricadute: il possesso aggiornato di tali informazioni
permette ai poteri pubblici di assumere decisioni più mirate; nel contempo, per i cittadini, è
possibile accedere ad un gran numero di dati in possesso delle amministrazioni pubbliche.
Quanto all'esigenza di favorire - attraverso forme di comunicazione promosse e/o gestite
dai poteri pubblici - la partecipazione dei cittadini basta rilevare due aspetti. Il principio di
accesso ai documenti amministrativi scardina il fondamento della tradizionale segretezza
dell'azione amministrativa. La "trasparenza", come principio ispiratore della legge n. 241 del
1990, presuppone strumenti organizzatori per renderla operante. La molteplicità delle
attività svolte dalle amministrazioni pubbliche, ovvero da gestori di pubblici servizi, è tale
da rendere indispensabili forme di comunicazione mirate a chiarire ai cittadini: le modalità
di esercizio e di fruizione dei servizi.
Le trasformazioni nei rapporti tra Stato e cittadini hanno inciso in modo significativo
sulle caratteristiche della comunicazione pubblica. Da un modello basato sulla informazione
unidirezionale (di tipo “obbligatorio”) si è passati ad un processo bidirezionale. La
comunicazione da parte delle istituzioni pubbliche si qualifica, di conseguenza, in
comunicazione di servizio (come parte del servizio stesso) o di cittadinanza (se diretta al
coinvolgimento dei cittadini nella soluzione di un problema di interesse generale). La
108
comunicazione si presenta come uno indispensabile strumento di cambiamento
dell’amministrazione e, nel contempo, come un fattore centrale per rendere operanti i diritti
di “cittadinanza”. Strumento, in sintesi, per un nuovo “patto” tra Stato e cittadini
2 - Negli ultimi decenni la prefigurazione - contenuta nell’articolo 98 della Costituzione di un’amministrazione al servizio dei cittadini ha radicalmente modificato il ruolo della
comunicazione nel settore pubblico. La collettività chiede in modo sempre più pressante che
gli apparati pubblici sappiano fornire informazioni e riescano a facilitare il rapporto tra i
cittadini ed uffici pubblici. In breve, che sappiano comunicare. L’amministrazione, invece,
non sa comunicare: troppo spesso “dimentica” di farlo, altre volte lo fa male. Peraltro, le
non rare buone iniziative assunte dagli uffici pubblici non trovano adeguato spazio nei mezzi
di comunicazione di massa. Ciò tende a produrre una spirale perversa: a dispetto di
miglioramenti presenti in parti del sistema pubblico e nonostante gli sforzi degli addetti,
qualunque esempio di disfunzione dell’amministrazione finisce per riprodurre all’infinito lo
stereotipo dell’inefficienza burocratica.
Il miglioramento della qualità dei servizi, la semplificazione procedurale di un
adempimento, la rapidità di risposta ad una richiesta sono, ovviamente, gli elementi di
partenza. Altrettanto importante è informare in modo costante ed esauriente i cittadini sui
servizi resi dalle amministrazioni pubbliche. Migliorare la soglia della qualità è il
presupposto per una comunicazione efficace e convincente. Sia gli studiosi di
comunicazione, sia gli scienziati di organizzazione hanno “codificato” i nessi, spesso
particolarmente complessi, tra i due aspetti nel rapporto tra far bene e farlo sapere. Formula,
di per sé, soltanto definitoria, ma in grado di evocare l’intreccio dei problemi.
Molti passi avanti sono stati fatti – negli ultimi anni – nell’azione degli apparati
pubblici. I comportamenti effettivi di molte amministrazioni pubbliche (o di segmenti di
esse) sono cambiati. Di fronte a tale circostanza è indispensabile chiedersi come mai ciò si
sia tradotto in maniera soltanto marginale in miglioramento dell’immagine delle
amministrazioni pubbliche.
La persistenza di un forte scarto tra livelli medi di funzionalità degli apparati pubblici e
percezione collettiva finisce per perpetuare la tendenza alla generalizzazione nei giudizi da
parte degli utenti. Tendenza facilitata dal deficit di capacità di comunicazione da parte delle
amministrazioni pubbliche, dipendente da fattori molteplici: incertezza nelle politiche di
comunicazione, conseguenti difficoltà a definire strategie, problemi di caratura
professionale, poca attitudine a confezionare prodotti di comunicazione, scarsa cultura del
109
marketing, insufficiente distinzione tra comunicazione politica e comunicazione di servizio.
Occorre, quindi, individuare – in una fase di intensa trasformazione del sistema
amministrativo – gli strumenti e le strategie da adottare per migliorare il rapporto tra
cittadini e pubblici poteri. Al riguardo è opportuno tener conto di due elementi: le crescenti
aspettative dei cittadini e delle imprese (sia come singoli sia in forma organizzata); la
progressiva scomparsa del carattere “autoritativo” delle attività pubbliche e la conseguente
(seppur tendenziale) parificazione tra cittadini e pubblici poteri.
L’efficacia dell’attività di comunicazione è collegata alla funzionalità di apposite
strutture
e
del
loro
ottimale
posizionamento
all’interno
dell’organizzazione
dell’amministrazione; L’ampia autonomia dei singoli enti ed amministrazioni riguardo ai
modelli organizzativi scelti, permette di trovare la soluzione migliore e più adatta per ogni
esigenza di comunicazione istituzionale.
35. TRASPARENZA, ACCESSO E COMUNICAZIONE
Nelle più importanti leggi di riforma di questi anni esiste una precisa connessione tra
diritto di accesso (e correlato diritto all'informazione) e strumenti organizzatori dei pubblici
poteri (per rispondere all'obbligo di comunicare).
Il punto di partenza è l'articolo 22, comma 3, della l. n. 241 del 1990, nel quale è prevista
l'emanazione di "misure organizzative idonee a garantire l'applicazione" del diritto di
accesso regolato dal comma 1.
Il D.P.R. 27 giugno 1992, n. 352, ha provveduto ad individuare (all'art .6) il
"contenuto minimo delle misure organizzative" da adottare per assicurare il diritto di
accesso, stabilendo che "le singole amministrazioni valutano [....] l'opportunità di istituire un
Ufficio per le Relazioni con il pubblico". A pochi mesi dall'emanazione del sopraindicato
D.P.R. n. 352, l'istituzione degli Uffici per le Relazioni con il pubblico è stata resa
obbligatoria dall'art.12 del decreto n. 29 del 1993. Significativamente la norma collega la
costituzione di tali uffici con il fine di "garantire la piena attuazione della legge 7 agosto
1990 n.241".
E', quindi, indiscutibile che, nelle norme emanate tra il 1990 ed il 1993, vi sia una forte
110
connessione, che ha trovato interessanti specificazioni in successivi provvedimenti
dell'esecutivo. La direttiva del 27 gennaio 1994 sull'erogazione dei servizi pubblici, emanata
dal Presidente del Consiglio dei ministri, prescrive esplicitamente che i "soggetti erogatori"
di pubblico servizio istituiscano "appositi uffici destinati ai rapporti con il pubblico, presso i
quali siano disponibili tutte le informazioni utili agli utenti". Il successivo governo ha
emanato, a sua volta, l'11 ottobre 1994 una specifica direttiva sul funzionamento degli uffici
relazioni con il pubblico.
E’ attualmente in discussione in Parlamento una proposta di legge quadro sulla
comunicazione pubblica e istituzionale (Atti Camera riuniti nn. 1420 e 4427). In essa
vengono definiti in modo chiaro tanto le finalità della comunicazione pubblica, quanto le
strutture che devono occuparsene e le relative competenze. Al riguardo il testo prevede che
le attività di informazione si realizzano attraverso il portavoce e l’ufficio stampa e quelle di
comunicazione attraverso l’ufficio per le relazioni con il pubblico nonché con analoghe
strutture quali gli sportelli per il cittadino, gli sportelli unici della p.a., gli sportelli
polifunzionali e gli sportelli per le imprese.
36. LE STRUTTURE DI COMUNICAZIONE: UFFICI RELAZIONI CON IL PUBBLICO,
UFFICI STAMPA
Compito degli Uffici relazioni con il pubblico è quello di migliorare il dialogo con il
cittadino, fornendo informazioni sull’attività amministrativa e raccogliendo le valutazioni
sul gradimento dei servizi erogati. Si tratta di una funzione di comunicazione rivolta al
cittadino, considerato singolarmente o attraverso le sue associazioni. L’ufficio rappresenta
l’interfaccia dell’Amministrazione, con funzioni di accoglienza, orientamento, gestione dei
disservizi dal punto di vista comunicazionale.
Le attività degli Uffici relazioni con il pubblico, pur essendo rivolte al cittadino,
presuppongono un costante dialogo e scambio informativo tra i diversi segmenti
dell’amministrazione. Ciò implica che le attività di raccolta di informazione sui servizi e dei
procedimenti, la trasmissione delle segnalazioni e dei reclami, nonché l’insieme delle attività
istituzionali dell’Urp, avvengano in stretta integrazione con l’organizzazione complessiva
dell’ente. Soltanto un posizionamento dell’Urp come “nodo strategico” dell’organizzazione
e dei flussi di comunicazione interni/esterni consente di costruire un circuito virtuoso tra
111
cittadini e burocrazia, spingendo verso il rinnovamento e l’efficienza della macchina
amministrativa e il miglioramento delle prestazioni e dei servizi dell'ente. Tuttavia, ad oggi,
proprio sul versante del raccordo tra attività di front office e attività di back office, si
registrano le principali difficoltà di attuazione del disegno legislativo.
A dette strutture è affidato nell’Amministrazione pubblica il compito di raccordo che
nell’azienda privata si sviluppa tra il settore commerciale e il settore della produzione. Ma la
loro diffusione è ancora troppo limitata e disomogenea sul territorio nazionale. Alla limitata
diffusione degli uffici si aggiunge un aspetto particolarmente preoccupante (nonché
indicativo della mentalità con la quale il problema viene affrontato): ben il 40% delle
amministrazioni che aveva provveduto ad istituire l’ufficio di relazione con il pubblico non
ha adottato alcuna misura di pubblicizzazione dell’iniziativa.
Se gli uffici non riusciranno ad assumere un ruolo effettivo nel favorire il miglioramento
degli standard operativi delle pubbliche amministrazioni, si determineranno difficoltà per
tutto l’impianto delle norme tese a rendere trasparente l’attività dei pubblici servizi.
Nell’ottica di prevenire dette difficoltà, è stata intrapresa da parte del Dipartimento della
Funzione Pubblica, in collaborazione con la Regione Emilia Romagna, una azione di
sostegno agli Urp, attraverso un’agile struttura di servizio per gli operatori Urp che
rappresenta un tentativo dell’amministrazione centrale, in sinergia con l’amministrazione
locale, di migliorare qualità di processi e di prodotti di questi Uffici, agendo in un ottica di
rete, al contempo interpersonale e tecnologica, e favorendo la condivisione delle pratiche
pubbliche migliori.
Per altro verso, gli Uffici stampa svolgono attività di informazione diretta
prevalentemente ai media. Finora tali uffici sono stati utilizzati quasi esclusivamente per la
comunicazione istituzionale-politica. Ad essi, al contrario sono riservati (anche dall’attuale
progetto di legge-quadro) significativi spazi anche per la comunicazione di servizio.
La crescita professionale di quanti lavorano in strutture di comunicazione pubblica (Urp,
uffici stampa) e la selezione di quanti vi accederanno nel prossimo futuro è, con tutta
evidenza, un fattore decisivo. Si tratta di un problema di non facile soluzione che deve
contemperare due esigenze: riconoscere ruolo e competenza professionale di coloro che già
operano in strutture di comunicazione (si stima che siano tra i 15 ed i 20 mila), fornire
“certezze” sui requisiti professionali necessari a svolgere tali attività.
112
37. GLI STRUMENTI DI SERVIZIO: SPORTELLI UNICI, RETI CIVICHE, INTERNET.
La scelta di puntare sull’unificazione delle procedure necessarie ad impiantare, spostare,
ampliare un impianto produttivo è stato uno degli elementi più innovativi delle riforme di
questi anni. Non è senza significato che il mondo d’impresa abbia sentito come proprio il
problema, spingendo i decisori politici a soluzioni certamente impegnative. E’ stata una
scelta che potrà innescare un circuito virtuoso, fatto di iniziativa, creatività, emulazione,
sperimentazione. Elementi che si sono venuti ad innestare in un tessuto – quello dei comuni
– attraversato da una nuova legittimazione degli amministratori ed, insieme, da una marcata
responsabilizzazione delle burocrazie pubbliche locali.
Il d. leg.vo 31 marzo 1998, n. 112, affida ai comuni le funzioni amministrative relative
all’autorizzazione e alla localizzazione degli impianti produttivi, istituendo presso i comuni
stessi lo sportello unico per lo svolgimento di tali funzioni e semplificando la relativa
procedura amministrativa. In base a tale previsione normativa, in forma singola o associata è
prevista l’istituzione dello sportello unico per le imprese. Questo assicura un unico
responsabile del procedimento, al quale l’imprenditore potrà rivolgersi per richiedere tutte le
informazioni e le autorizzazioni necessarie alla attività che intende intraprendere. Sarà poi
carico di questa struttura dotata di un archivio informatizzato prendere contatti e dialogare
con le altre amministrazioni.
Oltre al dato quantitativo già esposto (v. cap. III), ciò che si dovrà verificare sarà la reale
capacità di questi “terminali” di offrire il servizio previsto dalla legge. Quindi, dal numero di
imprese che potranno servirsi dell’opportunità di concludere in tempi rapidi le procedure per
insediare (o spostare) un’attività produttiva.
Già operanti in via sperimentale in nove città sono, inoltre, gli sportelli polifunzionali,
nati parallelamente agli uffici per le relazioni con il pubblico (progetto finalizzato Funzione
pubblica anni 1994/96), con la funzione primaria di mettere in collegamento, in via
telematica, le amministrazioni pubbliche e con il conseguente obiettivo di evitare al cittadino
inutili peregrinazioni tra uffici pubblici.
Infine, cenno a parte meritano le reti civiche, che rappresentano nel contesto sociale
italiano sistemi informativi telematici locali di aree geograficamente delimitate (comune,
area metropolitana, provincia, comunità montana, ecc.), ai quali partecipano in modo attivo,
come produttori oltre che fruitori di informazioni, tutti i soggetti presenti nell'area stessa:
enti locali e altre istituzioni, sindacati, associazioni, imprese, cittadini. Le reti civiche
113
italiane, fenomeno al contempo di comunicazione istituzionale e di partecipazione civica dal
basso, da realtà limitate all’iniziativa spontanea e amatoriale di piccoli gruppi di quartiere,
sono state nel tempo integrate all’interno dell’offerta di servizi pubblici ai propri cittadini da
parte delle amministrazioni locali. Dai dati dell’ultimo Rapporto Rur-Censis-Assinform
1998 si evince che la diffusione delle reti civiche in Italia è un fenomeno in forte crescita,
intrecciandosi con l’estensione della quantità e della qualità della presenza della pubblica
amministrazione su Internet.
La rete può avere una utilità reale, se riesce ad essere una banca dati alla quale attingere
informazioni in tempo reale e uno sportello interattivo per i cittadini.
La rete può diventare il cuore della trasparenza. In questo senso, Internet è uno strumento
fondamentale per far conoscere all’esterno l’attività della Pubblica Amministrazione, ma
anche per far comunicare all’interno gli apparati. La presenza di Amministrazioni sulla rete,
con propri siti, può avere ripercussioni in termini di comunicazione esterna (permette
l’accesso reale alle informazioni) ed in termini di comunicazione interna (obbliga gli uffici a
fornire i documenti e a dare le informazioni).
38. L’OBIETTIVO DELLA CUSTOMER SATISFACTION
La customer satisfaction rappresenta la base del nuovo sistema di relazioni tra cittadino e
amministrazione, in relazione ai nuovi diritti di partecipazione. La migliore concretizzazione
dell’attenzione rivolta verso il cittadino considerato un cliente della pubblica
amministrazione è la “carta dei servizi”, una sorta di decalogo dei diritti e doveri che le
amministrazioni debbono rispettare nell’erogazione dei servizi di utilità generale.
Al 31 ottobre 1999 – secondo i dati del dipartimento della Funzione pubblica – erano
state emanate 7.150 carte dei servizi: la gran parte negli istituti scolastici (5.995). A notevole
distanza le strutture sanitarie (461), le aziende di erogazione dell’elettricità (200), quelle del
gas (456), e 38 quelle della mobilità; appena cinque, infine, le carte predisposte da istituti di
previdenza. Per quanto riguarda i servizi sanitari le regioni più attive sono state la
Lombardia (56), il Veneto (47), il Lazio (44), l’Emilia-Romagna (41), ma anche la
Campania (35). Per i servizi scolastici più solerti, oltre alla Lombardia (602), alcune regioni
meridionali: la Sicilia (625), la Puglia (574) e la Campania (550).
Ciò nonostante, la qualità delle prestazioni fornite dalla gran parte dei gestori non è
migliorata in modo sensibile.
114
I trasporti locali, ad esempio, continuano a rappresentare – in gran parte d’Italia – uno dei
problemi di maggiore sofferenza per i cittadini.
In generale, si ha la sensazione le finalità non siano state raggiunte, se non
marginalmente, quanto a capacità di incidenza sul livello dei servizi. Non mancano, in
sintesi, nodi critici nella costruzione di una attitudine customer-oriented delle
amministrazioni. Vi è una definizione ancora eccessivamente prudenziale degli standard dei
servizi ed un impiego tuttora embrionale di strumenti di customer satisfaction nelle
amministrazioni. Appena più evoluta e sistematizzata è l’esperienza nelle public utilities.
Tuttavia, la proliferazione delle carte dei servizi è, certamente, un segnale incoraggiante:
dimostra, se non altro, la vitalità e la “voglia di cambiare” che anima parte non indifferente
degli apparati pubblici e dei gestori di servizio pubblico. Le esperienze compiute sono, pur
nella loro diversità, assai importanti: lo strumento andrebbe rilanciato per meglio innestarlo
nell’azione di governo per la riforma dell’amministrazione. Per riuscire nell’impresa è
indispensabile che si rafforzi lo “spirito di servizio” tra gli addetti e che si mantenga forte la
“domanda sociale”.
In questo contesto si inseriscono le direttive previste dal D.lgs. 30 luglio 1999, n. 286, del
Presidente del Consiglio dei Ministri volte a definire standard e criteri di misurazione della
qualità, nonché condizioni di tutela e indennizzo degli utenti nel caso gli stessi siano
disattesi. E’ altresì previsto che i servizi pubblici vengano erogati con modalità che
includano la partecipazione, anche in forma associata, dei cittadini e il loro coinvolgimento
nelle procedure di valutazione e definizione degli standard. Relativamente all’attuazione di
queste misure, il coordinamento, il monitoraggio e il relativo supporto operativo sono
affidati ad apposita struttura della Presidenza del Consiglio.
Peraltro, è ormai riconosciuta ai cittadini, anche nelle forme associative, la partecipazione
alle inerenti procedure di valutazione e definizione degli standard qualitativi, che, fino
all’emanazione delle direttive di riferimento dal parte della Presidenza del Consiglio dei
Ministri ovvero all’attuazione delle carte dei servizi, rischia di rimanere lettera morta.
Tale diritto di partecipazione e, a fortiori, il diritto all’erogazione di servizi pubblici
essenziali secondo adeguati standard qualitativi sono assistiti dalle tutele previste dalla
recente legge 281/98, fra l’altro azionabili anche dalle associazioni di consumatori
riconosciute, al fine dell’ottenimento di provvedimenti inibitori o ripristinatori nei confronti
delle attività degli enti erogatori.
115
39. LA REGOLAMENTAZIONE DELLO SCIOPERO NEI SERVIZI PUBBLICI ESSENZIALI
L’azione dei poteri pubblici volto alla tutela dei diritti dei cittadini, in particolare nella
loro veste di “utenti”, trova, come sottolineato, nella regolazione dei servizi pubblici
essenziali una sua precipua esplicazione. La definizione di standard qualitativi delle
prestazioni e la emanazione di “carte” dei servizi sono gli elementi essenziali in base ai quali
si possono migliorare la performance. Tuttavia, non meno importante (e, soprattutto, non
meno sentito dalla collettività) è il problema della regolamentazione delle astensioni dal
lavoro nei servizi di pubblica utilità. Lo sciopero ha nelle democrazie lo scopo precipuo di
garantire il contraente più debole nel mercato del lavoro. Ragionevole, quindi, che esso sia
tutelato dalla Costituzione come diritto fondamentale da regolare, però, con legge. Sotto
questo profilo la legge 146 del 1990 è stato un passaggio innovativo verso la determinazione
di regole minime dirette a tutelare tutte le parti in causa. Al riguardo la legge 146, rompendo
un tabù risalente alla radici del patto costituzionale, ha introdotto criteri e regole di
comportamento nelle astensioni dal lavoro nei settori di diretto contatto con gli utenti.
L’idea di partenza era certamente giusta: individuare aree meritevoli di “tutela” (trasporti,
scuola, sanità,) ed istituire un garante – la Commissione di garanzia - chiamato a decidere
sulla correttezza dei comportamenti degli addetti ai settori indicati dalla legge. Nei fatti,
però, le regole delineate con la legge del 1990 – come ha dimostrato l’esperienza di quasi
un decennio – si sono dimostrate insufficienti in alcuni settori (in primo luogo i trasporti).
La scelta di demandare alle aziende l’erogazione delle eventuali sanzioni a carico di coloro
che contravvenivano alle norme ha privato la Commissione di garanzia di un efficace potere
di intervento. La Commissione, per anni, si è adoperata per appianare i conflitti, ma la sua
azione ha perso progressivamente incisività in diretta correlazione con l’impossibilità di
sanzionare
comportamenti
non
conformi
alla
legge.
Peraltro,
le
ipotesi
di
autoregolamentazione si sono dimostrate di scarsa efficacia. La precettazione - disposta, di
volta in volta, dal ministro o da un prefetto - si è dimostrata l’unico strumento utilizzabile (e,
di fatto, utilizzato) per rendere compatibili con l’interesse pubblico le agitazioni.
Una legge in grado di regolare meglio il settore sembra assolutamente indispensabile per
almeno tre ordini di motivi: salvaguardia delle regole della convivenza civile, tutela delle
parti “deboli”, necessità di non pregiudicare la competitività del paese. La funzionalità dei
servizi pubblici è, infatti, uno di quei fattori “collaterali” di un sistema che diventano sempre
più decisivi nella competizione economica tra Stati.
116
Il governo ha da tempo varato un disegno di legge, attualmente all’esame del Parlamento
ed in via di approvazione. I punti fondamentali sui quali deve basarsi la riforma della legge
146 sono chiari: ridefinizione ed estensione dell’accezione di servizio pubblico “essenziale”;
rafforzamento dei poteri della commissione di garanzia, possibilità di più ampio ricorso alle
ipotesi di conciliazione, apparato sanzionatorio adeguato, con connesse responsabilità per
chi deve comminare le sanzioni stesse.
Il ripensamento degli strumenti della legge 146 – mantenendone ferma la filosofia di
fondo – è l’unico modo per dare efficacia alle norme sulla conflittualità nei servizi pubblici a
tutela degli interessi degli utenti in equilibrato rapporto a quelli dei lavoratori del settore. Si
tratta di un obiettivo democratico che – nel rispetto dei diritti dei lavoratori – va perseguito
con coerenza. Di fatto, la possibilità di mantenere entro limiti accettabili i conflitti in tali
settori è condizione primaria della qualità dei servizi erogati. Il problema, quindi, non si
limita alla regolamentazione degli scioperi, ma è connesso strettamente al livello delle
prestazioni offerte.
40. VERSO L’AMMINISTRAZIONE “CONDIVISA”
Il grado di partecipazione riconosciuto ai cittadini, soprattutto alla vita dell’ente locale, è
tale da convenirsi sulla diversa qualità e finalità della stessa.
Dalla partecipazione, in chiave egoistica o collaborativi, all’esercizio della funzione
(partecipazione procedimentale), si è ormai passati alla partecipazione, in chiave codecisoria, alla determinazione della funzione, attraverso l’utilizzazione di strumenti di
democrazia diretta, resi obbligatorie dalle disposizioni, sugli statuti, del nuovo ordinamento
degli enti locali.
Le organizzazioni pubbliche non possono più connotarsi prevalentemente come
“autorità” o come soggetti che assistono (sempre e dovunque) i cittadini, ma devono essere
in grado di mettere in moto meccanismi di collaborazione. Soltanto così potranno assolvere
in modo soddisfacente alle esigenze (assai differenziate) espresse dai componenti della
collettività, con autorevolezza.
L’obiettivo di un’amministrazione “condivisa” ed allo stesso tempo autorevole, nella
117
quale i cittadini siano co-amministratori, è il vero punto di arrivo del mutamento in corso.
Tale prospettiva trova il suo fondamento nell’esigenza di adeguare il funzionamento delle
organizzazioni pubbliche ai principi democratici dell’ordinamento. Ciò implica una alta
capacità di collaborazione tra cittadini e organizzazioni che erogano servizi pubblici (siano
esse pubbliche amministrazioni o gestori di pubblico servizio). Un tale modello di rapporti
esige una comunicazione reale e costante, basata sulla reciproca fiducia, anziché sul
reciproco sospetto, che consenta a cittadini e funzionari pubblici di interagire per la
realizzazione di fini di utilità generale.
Si tratta, in altri termini, di passare dalla separazione/competizione a forme di
collaborazione fondate e sorrette da effettiva responsabilizzazione, tanto dei funzionari
quanto dei cittadini.
L’abbandono del modello autoritativo, del resto, si palesa, sotto altro profilo,
nell’ampliamento delle posizioni di interesse diffuso e nella crisi della posizione soggettiva
dell’interesse legittimo, quale situazione speculare all’esercizio del potere pubblico.
Al potere pubblico, quale connotato tipico delle Amministrazioni pubbliche, dovrebbe,
nel tempo, sostituirsi la “responsabilità pubblica”, quale ambito delimitante (e delimitato da)
l’interesse pubblico da perseguire nell’azione amministrativa.
41. LE OBBLIGAZIONI E LE RESPONSABILITÀ DELLA P.A. NEI CONFRONTI DEI
CITTADINI (RISARCIMENTI ED INDENNIZZI)
Particolarmente importante, anche se inusuale, appare il tema relativo agli strumenti di
gestione efficiente e di razionalizzazione delle ipotesi di responsabilità della Pubblica
Amministrazione (sia conseguente al perdurante ritardo di provvedere, anche in materia di
subforniture, sia derivanti da lesione diretta degli interessi legittimi).
Si pone, infatti, il problema della estensione o meno alla P.A. della disciplina delle subforniture e rileva altresì la non esenzione dei modelli contrattuali disegnati in provvedimenti
amministrativi dalla disciplina delle clausole abusive.
Quanto alla responsabilità extracontrattuale da lesione di interessi legittimi, pare
interessante la previsione dell’art. 17, co. 1, lett. f) della l. n. 59 del 1997, che fissa quale
criterio della delega al Governo di cui alla lettera c), del comma 1, dell’art.11 (“riordinare e
potenziare i meccanismi e gli strumenti di monitoraggio e di valutazione dei costi, dei
rendimenti e dei risultati dell’attività svolta dalle amministrazioni pubbliche”), fra gli altri,
118
la previsione, per i casi di mancato rispetto del termine del procedimento, di mancata o
ritardata adozione del provvedimento, di ritardato o incompleto assolvimento degli obblighi
e delle prestazioni da parte della pubblica amministrazione, di forme di indennizzo
automatico e forfetario a favore dei soggetti richiedenti il provvedimento; nonché la
contestuale individuazione delle modalità di pagamento e degli uffici che assolvono
all'obbligo di corrispondere l'indennizzo, assicurando la massima pubblicità e conoscenza da
parte del pubblico delle misure adottate e la massima celerità nella corresponsione
dell’indennizzo stesso.
La portata di tale previsione deve apprezzarsi alla luce della posizione recentemente
assunta dalla Suprema Corte a Sezioni Unite sul tema della risarcibilità degli interessi
legittimi (sentenza n. 500 del 1999) la cui lesione da parte di provvedimento illegittimo della
PA può essere devoluta innanzi all’a.g.o., esclusa “la necessaria pregiudizialità del giudizio
di annullamento”.
Si potrebbe in proposito ipotizzare, senza indugiare in valutazioni puramente
processualistiche, l’introduzione di un meccanismo indennitario, forfetario ed automatico,
per il caso di inosservanza dei termini procedimentali previsti per l’adozione dei
provvedimenti; ed, altresì, un meccanismo indennitario, anch’esso forfetario ed automatico,
per il caso di inadempimento ai termini di pagamento relativi alle obbligazioni della P.A.,
secondo meccanismi non difformi da quelli già recepiti dalla legge in materia di subforniture (art. 3, co. 3, della l. 192 del 98: obbligo di corrispondere “senza bisogno di
costituzione in mora, interessi corrispondenti al tasso ufficiale di sconto maggiorato” di un
cinque punti percentuali, eventualmente riducibili ad un solo punto percentuale).
42. IL LINGUAGGIO BUROCRATICO NELL’ATTIVITÀ AMMINISTRATIVA E
LA
LEGGIBILITÀ E COMPRENSIBILITÀ DEGLI ATTI NORMATIVI ED AMMINISTRATIVI.
Anche la semplificazione del linguaggio rientra tra le misure di modernizzazione delle
amministrazioni. A prima vista, rispetto ad altri processi di riforma che si sono attuati e che
si stanno attuando, potrà sembrare un aspetto secondario; ma non è così. L’attuazione del
principio di imparzialità nell’azione amministrativa è venuta a riassumersi, alla luce della
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mutata concezione dei rapporti amministrazione-cittadini, nell’affermazione di un più
generale e comprensivo principio di trasparenza, non solo della conduzione funzionale
della attività amministrativa, ma anche del modo in cui il risultato dell’azione viene
esternato e comunicato all’interessato. In effetti rendere più semplice e chiara la
comunicazione scritta (con i cittadini e con le altre amministrazioni) può produrre effetti non
trascurabili. Sul piano dei rapporti tra amministrazioni e cittadini, la semplificazione del
linguaggio favorisce la comunicazione e soprattutto dà maggiore certezza al diritto.
L’immagine spesso negativa che i cittadini hanno delle amministrazioni è certamente
influenzata anche dal suo linguaggio estraneo al “lessico” correntemente in uso e, forse,
anacronistico. L’uso di una lingua più chiara e vicina a quella usata dai cittadini potrà
ulteriormente ridurre le distanze tra questi e le amministrazioni.
Effetti positivi potranno prodursi anche all’interno delle stesse amministrazioni. Un
documento scritto male è spesso il risultato di una scadente organizzazione e di
procedimenti confusi.
Non trascurabili sono, infine, i risparmi che si possono ottenere. Una rivista giuridica
americana ha pubblicato uno studio sugli effetti economici dell’uso di un linguaggio chiaro e
semplice. Tra i numerosi casi riportati vi è quello del governo britannico che già nel 1982 ha
rivisto tutta la sua modulistica e ha ridisegnato ben 41.000 moduli, eliminandone 30.000; in
questo modo è stato stimato un risparmio annuo di circa 700 miliardi (di lire) ottenuto non
solo grazie alla minore produzione di carta, ma anche al minor numero di errori commessi
dai cittadini nella compilazione dei moduli e quindi al minor tempo impiegato dai funzionari
per l’istruttoria delle pratiche e per fornire ulteriori spiegazioni.
La chiarezza e la semplicità dei documenti amministrativi non sono solo un sintomo di
attenzione verso i cittadini, ma diventano elementi che possono incidere sulla loro
legittimità.
Naturalmente, semplificare non è facile. La tendenza ad utilizzare formule e stili di
linguaggio propri del gruppo di appartenenza si ritrova frequentemente in ogni campo di
attività specialistica, senza preoccuparsi di rendere accessibile e facilmente comprensibile
per tutti, o almeno per molti, quanto viene rappresentato. Però, mentre in molti settori del
sapere scientifico, specie negli ultimi anni, si assiste a un notevole sforzo di divulgazione, il
linguaggio giuridico è, forse, tra quelli che resiste maggiormente ai tentativi di
semplificazione.
In realtà, da una rilevazione effettuata nei primi anni dall’entrata in vigore della l. n. 241
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del 1990, è apparso subito evidente il limite del linguaggio utilizzato per la maggior parte
delle comunicazioni tra amministrazioni e cittadini ed, in particolare, per quelle scritte.
Le esperienze più o meno avanzate dei primi anni ’90, fatte da altre amministrazioni
pubbliche europee (Gran Bretagna, Germania, Francia, Spagna, Svezia) e le contestuali
iniziative ancora isolate, ma preziose, di alcune amministrazioni italiane (Università di
Roma e Venezia, Ministero delle Finanze) hanno, però, indicato la strada da percorrere: la
necessità di liberare lo stile comunicativo delle pubbliche amministrazioni e orientarlo
maggiormente verso il suo fine naturale di farsi comprendere da tutti.
Già a partire dal 1993, il Dipartimento della Funzione Pubblica si è fatto patrocinatore di
studi e programmi diretti a cominciare a diffondere alcune prime regole di comportamento
utili a migliorare le relazioni interne ed esterne alle pubbliche amministrazioni attraverso la
pubblicazione di un Codice di stile. Il Codice di stile ha rappresentato il primo passo di una
sfida lanciata contro gli “oscuri tecnicismi e formalismi” del linguaggio giuridicoamministrativo, sfida che prevedeva, successivamente, la realizzazione di un progetto
finalizzato alla redazione di un vero e proprio manuale del linguaggio amministrativo e la
messa a punto di percorsi formativi specifici per il personale delle pubbliche
amministrazioni.
Proprio questa è stata la missione del progetto finalizzato della Funzione Pubblica
“Semplificazione del linguaggio amministrativo”, con lo scopo di rendere più semplice e
chiaro, se non tutto il linguaggio giuridico, almeno quelle sue parti usate dalle
amministrazioni pubbliche.
Il Manuale di stile, raccolta di regole per aiutare le amministrazioni a comunicare meglio
con i cittadini, è uno dei prodotti del progetto ed è la naturale continuazione del Codice di
stile pubblicato nel 1993. Con esso vengono forniti consigli linguistici, giuridici e grafici per
il perseguimento di almeno tre obiettivi : abituare chi scrive a progettare il messaggio;
abituare chi scrive a pensare in primo luogo al destinatario finale del proprio lavoro;
avvicinare l’amministrazione ai cittadini. Il manuale non può naturalmente avere alcun
effetto cogente nei confronti delle amministrazioni e dei loro operatori, tuttavia le regole e
gli esempi forniti costituiscono un valido suggerimento che il buon senso di chi scrive saprà
valutare ed adattare al caso concreto.
La semplificazione del linguaggio amministrativo è largamente intesa come uno dei
tasselli dell’avanzato processo di riforma dei rapporti amministrazione-cittadino. Trattandosi
di un cambiamento della cultura dell’Amministrazione, si può ragionevolmente ritenere che
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sarà necessario attendere altro tempo e che dovranno essere ancora superati ostacoli e
resistenze.
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IX – PER INIZIARE
Le pagine che precedono certamente evidenziano come l’Amministrazione pubblica,
negli ultimi vent’anni, si sia significativamente trasformata, seguendo itinerari diversi, in
ragione delle stagioni politiche, ma tutti abbastanza coerenti con il disegno originario del
Rapporto Giannini.
In particolare, nell’ultima legislatura si è assistito ad una forte accelerazione del processo
di riforma, che naturalmente deve completarsi attraverso una costante opera di attuazione ad
ogni livello.
Il quadro tracciato dal presente rapporto introduttivo consente, comunque, di rilevare
come i diversi interventi di riforma dell’Amministrazione pubblica siano da considerarsi parte
di un processo unitario di trasformazione della stessa, un continuo divenire al fine
dell’adattamento ai mutati contesti politici, sociali, economici.
La più recente legislazione sembra, ormai, aver eliminato i fattori di rigidità normativa ed
organizzativa
che
rallentavano
detto
processo
di
adeguamento,
favorendo
la
modernizzazione delle strutture pubbliche e degli strumenti da esse utilizzati.
Tuttavia, il nuovo impianto normativo rischia di avere effetti reali limitati se non
accompagnato da un rinnovamento culturale che coinvolga la classe politica, la dirigenza,
tutti gli operatori interni alle amministrazioni, ma anche i cittadini e le imprese, nella
direzione dell’attuazione del principio di sussidiarietà, inteso anche in senso orizzontale.
Lo stesso conferimento di compiti e funzioni ai diversi livelli di governo locale
presuppone che l’attività di servizio demandata agli enti locali risponda ad indirizzi unitari
ed autorevoli fissati dal governo centrale, con conseguente necessità di stabilità politica.
Una sorta di “tregua normativa” sembrerebbe utile per metabolizzare il cambiamento in
atto.
È il momento di iniziare ad analizzare e risolvere i “quotidiani” problemi di attuazione
amministrativa che il processo di riforma evidenzia, nella consapevolezza che non si può
amministrare attraverso provvedimenti normativi. Il rapporto introduttivo vuole essere una
sollecitazione a tal fine diretta.
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