Identità e differenza. Massimo Cacciari alle Vacances de l'Esprit di Chiara Teneggi, Paolo Ferrante L' identità, parola usata e abusata in politica e nelle scienze umane, è stata al centro di una rielaborazione filosofica di Massimo Cacciari, politico nonché filosofo italiano di indiscussa fama, che nel corso di cinque incontri è partito dal fondo delle cose per riguadagnare sotto una luce nuova la superficie del visibile. E qual è il fondo delle cose per i filosofi? L'ente, così come è stato pensato a partire dal pensiero greco e fino ai nostri giorni. Tutto nasce, quindi, dal modo di intendere l'ente e dalla necessità di considerare il principio di identità come fondamento del pensiero - ciò senza cui il procedere speculativo non potrebbe avere gli esiti noti alla tradizione filosofia occidentale. Ma che cosa significa "identità" nel senso logico che gli antichi hanno voluto attribuirgli? Massimo Cacciari scrive sulla lavagna una A, simbolo che sta ad indicare ogni "qualcosa". Secondo tale principio, questa A - dice - una volta determinata come entità, non potrà non essere se stessa. Tuttavia, A per essere tale, è subito altro rispetto ad «altre identità presunte» ed è proprio questa relazione con il diverso ad essere immanente alla identità stessa; ne segue che A, non appena diviene qualcosa, custodendo in se stessa l'alterità, si oltrepassa e contraddice. Il principio di identità, dunque, diventa una moneta a due facce, la prima si esprime con "A è A" ; l'altra con "A non è (solo) A. Veniamo introdotti subito all'interno di un paradosso che il filosofo invita ad accogliere e ad abitare in quanto para- doxa, che significa « andare oltre l'opinione », il vero compito della filosofia. Comunemente si pensa che A non possa essere che A. Infatti, come potrebbe qualcosa essere se stesso e, contemporaneamente, altro? Proprio tale "opinare" viene messo in dubbio da Massimo Cacciari, che mostra la nonovvietà del voler considerare fermo ed immobile il principio d'identità (ed anche il principio di non contraddizione, per il quale qualcosa non può essere l'opposto di sé al medesimo momento e sotto lo stesso riguardo). Infatti, per dire «A è A», occorre una operazione al termine della quale si prova che «A è A» perchè «non può essere altro da A». Si sviluppa allora un processo di mediazione tale per cui il principio di identità appare un prodotto che contraddice la immediatezza della identità di A. Hegel chiamava questa "l'inquietudine del qualcosa", dove l'ente tende a realizzare la propria identità nel movimento di un processo che sorge dalla compresenza iniziale di due opposti: «A è se stessa perché è altro da...». L'atmosfera diventa subito intensa, tale incipit colpisce l'attenzione di noi partecipanti che ci ritroviamo da subito a dover mettere in discussione gli assunti iniziali del pensiero. Ed è solo l'inizio perchè l'analisi a cui veniamo condotti, diviene ancora più sottile, sino a coinvolgere il significato di quello stesso « è ». Se la A fosse chiusa in se stessa e identica solo a se stessa, essa dovrebbe permanere in sé, senza instaurare alcun legame col mondo. Ma una A siffatta non sarebbe conoscibile. Non appena predico qualcosa di A (anche nel dire «A è A»), attraverso l'« è » si produce una duità, si aggiunge una determinazione che fa sì che l'A pronunciato per secondo non sia più lo stesso A pronunciato per primo. La predicazione non permette dunque di chiudersi nella sola identità e l'identità di A diviene possibile solo nella relazione, cosicché A diviene molti. A questo punto necessitiamo di disambiguare due termini "relazione-relativismo": la relazione ha un carattere aperto e richiede un sentimento di reciprocità (filia), di rispetto e di ascolto che è ben lontano dal relativismo della spinta nichilista. Volendo tenere fermo un ente, necessariamente esso ci sfugge non solo perché - come anche Cacciari ha affermato - siamo costretti a descrivere le caratteristiche di questo ente per dirne qualcosa; ma soprattutto perché, come detto sopra, dobbiamo semplicemente dire che è. Questa situazione para-dossale dona lo spunto che permette di sviluppare le lezioni successive e di delineare i contorni del discorso sulla differenza. Infatti, se ogni «qualcosa» necessita dell'altro per definirsi, la formazione di una identità può compiersi senza un sentimento di appartenenza all'altro e al diverso? Le obiezioni e le perplessità nascono numerose e, naturalmente, cercano di proteggere ciò che rassicura dall'altro, dallo straniero, dal diverso. Il professore accoglie ogni dubbio e lo potenzia sino a trasporre il nostro personale rapporto con l'alterità da una dimensione privata ad una pubblica: la distanza può essere un requisito essenziale non solo di una autentica vicinanza reciproca, ma anche il fondamento dell'idea di communitas, di civis e di polites? La polis, infatti, è tensione tra parti distinte che rimangono distanti ma in dia-logo e la legge (nomos) punisce colui che eccede il proprio ruolo. Pensiero e communitas partecipano così dello stesso sforzo: distinguere e garantire le parti per poi ricomporle insieme con una armonia più alta che, lungi dall'essere reductio ad unum, sa rispettare la distanza che intercorre tra i distinti. Filosofia finisce così per assumere il significato diXeno-sofia: sapere lo straniero che mi è prossimo, comprendendo che il più prossimo è il "me stesso". Se la distanza è qualcosa di essenziale per l'essere, ecco che la protezione dall'altro, la guerra, la divisione, appaiono dei tristi fraintendimenti, nonostante la storia e soprattutto l'attualità continuino a propugnarceli. Se l'identità è immanentemente altro, lo straniero siamo noi stessi; come possiamo averne paura? Occorre restare vigili su questo punto e anticipare una possibile obiezione: non si sta affermando che l'identità non esiste, che non vanno difesi i principi, i valori e così via. C'è l'identità, ma proprio voler affermare l'identità ci fa uscire da quel "mondo ideale" in cui vorremmo barricarci.