Ilario Bertoletti, Massimo Cacciari. Filosofia come a-teismo, Edizioni ETS, Pisa 2008. Gli scritti filosofici di Cacciari inquietano e affascinano. Già nel 1976 – come Ilario Bertoletti subito ricorda – Franco Fortini, sul «Corriere della sera», metteva un po’ tutti sul chi vive: «E fin d’ora si preparino psicologi e storici delle idee: con teste come quella di Cacciari avranno molto lavoro e non facile». L’attualità e l’importanza dell’impresa tentata da Cacciari va ribadita. Ne dà testimonianza proprio questo lavoro di Bertoletti, che evidenzia l’originalità di Cacciari attraverso un’indagine ad alta tensione teoretica, documentata quanto a riferimenti storici, stimolante per quanto concerne la collocazione di Cacciari nel dibatto italiano sul rapporto filosofia-teologia. Ciò che inquieta e affascina non è tuttavia né la vastità dei riferimenti tematici e culturali, né l’ardua sottigliezza con cui Cacciari li rivisita. Importa il compito che egli di fatto mai dimentica: aprire una via nuova tra «teologia liberale» e «teologia dialettica», tra Schleiermacher e Barth, una via che consenta alla filosofia di non rinunciare in nulla al suo dovere di pensare Dio, autonomamente e a fondo, e che al tempo stesso conservi alla teologia il diritto di rivendicare l’unicità e l’irriducibilità della Rivelazione. La filosofia, infatti, in quanto essenzialmente «trascendentale» («ontologica», nel senso proposto da Heidegger nella conferenza Fenomenologia e teologia), non può non essere atea, ma il suo deve essere un «a-teismo» con l’alpha privativo costantemente tenuto in vista, ad indicare che il suo compito è di purificare il pensare non da Dio, tutt’altro, ma da ogni forma di «ontoteologia», da ogni idolo intellettuale. Si tratta di un compito pregiudiziale, di vitale importanza per la stessa filosofia. La teologia, d’altra parte, non può non essere «positiva» («ontica», ancora nel senso di Heidegger), deve cioè coltivare la gelosia per la singolarità della Rivelazione, e considerare non negoziabile il suo diritto di smarcarsi da ogni esercizio del pensare volto a far propri i contenuti rivelati: deve insomma costringere la filosofia a rapportarsi a questi in nessun altro modo se non sollevando «aporie». Sia la filosofia sia la teologia aspirano a trascendersi reciprocamente negli obiettivi e nei metodi. Cacciari non si erge a giudice della contesa: apre all’una e all’altra l’orizzonte onnicomprensivo dell’«Inizio». A partire da questo, diviene possibile e proponibile una filosofia della religione né riduzionista né fondamentalista, un filosofia a-tea per amore della trascendenza tanto del pensare quanto dell’unico vero Dio: «È come se nelle pagine di questo libro [Dell’Inizio] si delineassero in actu exercito i lineamenti di un nuovo paradigma di filosofia della religione in quanto a-teismo trascendentale – un modello che ridefinisce la stessa opposizione tra Orthodoxie (confessionalismo) e Liberalität, tra unicità e universalità della Rivelazione: da un lato in quanto forma possibile dell’Onnicompossibile, dell’Indifferenza, la rivelazione è unica nella sua storicità, dall’altro il “non” (l’im-possibile) che pure circonda quella rivelazione allude all’ulteriorità universale di altre possibili impensate rivelazioni (e non rivelazioni)» (p. 47). La ricerca di una nuova filosofia della religione, basata sulla figura dell’Inizio, è il filo rosso seguendo il quale Bertoletti ripercorre tutto il filosofare di Cacciari, sino a Della cosa ultima. L’Inizio è la «possibilità» che viene prima di tutto, una «In-differenza» tanto radicale da risultare accogliente nei confronti della sua stessa «impossibilità». Tale volutamente contraddittoria apertura al possibile è doverosa perché «escatologica»: mira a salvare l’irriducibile «singolarità» di ogni ente; è al servizio della «cosa». Come efficacemente Bertoletti puntualizza, è proprio la passione per quanto più da vicino ci tocca, e che siamo chiamati a toccare, ciò che spinge Cacciari a sondare l’Inizio alla ricerca di inaudite possibilità. Nessuna ragione, nessun «meglio», può decretare che una possibilità sia più degna di un’altra di diventare reale, più possibile di un’altra; è «come se la diaporetica in Cacciari trovasse nella contraddizione, nell’aporia, l’esito del suo itinerarium in rem» (p. 84). Il pensiero dell’Inizio intende liberare la possibilità dagli impedimenti sollevati sia, nell’antichità, dai Megarici, per i quali solo ciò che è necessario è veramente possibile, sia da Leibniz e Hegel nei tempi moderni. Mi pare allora che si possa dire che, se per Hegel la necessità è «la sintesi di possibilità e realtà», invece per Cacciari la possibilità esclude ogni necessità e può così concedere realtà anche al contraddittorio, all’impossibile. Come nota Bertoletti, anche Cacciari si serve della «dialettica», ma esclusivamente per impedire a questa di aspirare a qualcosa di superiore alla compossibilità dei contraddittori. La dialettica di Cacciari è questa «diaporetica», una rivisitazione e invenzione di contraddizioni: «Non è difficile intravedere dietro ai riferimenti a Platone, Plotino e Proclo, una “ripetizione” della dialettica hegeliana […], ove tuttavia la dialettica in quanto “pensare attraverso contraddizioni” non si risolve in sintesi superiori, ma sosta nella contraddizione che rivela celando la cosa stessa» (p. 84). Questa diaporetica, pervicacemente resistente al dinamismo delle contraddizioni, è al servizio di ogni singolo ente, ed al tempo stesso di ciò che trascende ciascuno di essi; essa vuole che ogni cosa possa vivere la propria singolarità nell’aura della trascendenza dell’infinita alterità. Il fatto che in Della cosa ultima si incontrano «pagine intense sull’icona, la preghiera, il mistico, la profezia, il male, il paradiso dantesco» (p. 77) è la prova sperimentale che Cacciari fornisce dell’idoneità della diaporetica a rendere veramente compossibili immanenza e trascendenza, mondo e Dio, ragione e fede: «Per Cacciari, la Rivelazione giudaico-cristiana è religione della libertà, ma in un senso teologicamente inaspettato: libertà che, includendo la possibilità della propria negazione, diviene simbolo dell’abissale libertà dell’Inizio di essere e non essere» (p. 54). Nel «Ni-ente» dell’Inizio è conservata e resa disponibile tutta la positività che spetta a ogni singola cosa, prima e al di là di mediazioni, superamenti, commistioni. Ma quest’audace operazione comporta l’ingente debito filosofico di «uno slittamento di categorie modali carico di conseguenze metafisiche, essendo queste categorie non tanto modi della predicazione, quanto operatori ontologicoesistenziali, nei quali è in gioco il senso ultimo dell’esistenza» (p. 55). Massimo Cacciari è anche un importante pensatore e uomo politico, ed è ben consapevole di ciò che implica sul piano pratico-esistenziale l’ampliamento della possibilità da lui proposto: «Il non della morte può prevalere, nulla garantisce il contrario. E se questo accade in Dio, a maggior ragione può accadere nell’uomo: il male è la possibilità, sempre rinascente, che la mia libertà, in quanto dono, neghi l’altro. Il male quindi, lungi dall’essere un defectus, è reale possibilità nell’aperto dei compossibili» (p. 78). Si dovrà allora arguire che bene e male si equivalgono, non solo come possibilità ma anche sul piano esistenziale? Non vi dovrà più essere diversità di fini e di mezzi fra teologia politica e Realpolitik? Bertoletti non solleva queste domande ma, nella Conclusione, non può non rilevare che nelle opere maggiori di Cacciari, Dell’Inizio e Della cosa ultima, «non appaiono autonomamente e sufficientemente giustificate le categorie, la grammatica profonda» (p. 84). Egli in particolare richiama l’attenzione su un’aporia di capitale rilievo: Cacciari dovrebbe sottrarre l’Inizio, in quanto 2 Incondizionato, «alla normatività del principio di non contraddizione» (p. 86). Proprio a questo principio dovrebbe infatti affidare «l’analogia di proporzionalità», di derivazione aristotelica, istitutiva e costitutiva del rapporto ontologico che ogni singola cosa intrattiene con l’Inizio. Come, in definitiva, rendere compossibili l’irriducibile singolarità del molteplice e l’Indifferenziato? È «un’aporia da sciogliere o, quantomeno, sulla quale analiticamente sostare – altrimenti quella di Cacciari resta una deduzione empirica, non trascendentale, dell’Inizio come questione della filosofia» (p. 88). È l’aporia insita nello stesso «pensiero dell’Inizio», che per essere tale deve pur essere pensiero dell’Inizio, e non del non-Inizio. Secondo Bertoletti, proprio per salvare la filosofia, Cacciari non riesce a nascondere che la sua diaporetica è un’«irriflessa immagine parmenidea del principio di non contraddizione». Si dovrà allora forse rifiutare la ricerca di Cacciari volta a una filosofia della religione sganciata dalla distretta fra Liberalität e Orthodoxie? Niente affatto! Penso che proprio il concetto di possibilità da lui proposto possa essere salvato da ogni cattura da parte della necessità (e che cos’è la «diaporetica» se non questa strenua volontà di salvare la possibilità, a costo di «sostare» nelle contraddizioni?) riconoscendo originariamente alla possibilità un orizzonte che sia di diritto irraggiungibile da parte della necessità: questa resta circoscritta all’«essenza», la possibilità «tocca» l’«esistenza». Il possibile resta tale anche quando diventa reale: infatti è divenuto reale; lo è divenuto perché esso era e resta originariamente possibile; non sarebbe divenuto reale se fosse stato necessario che passasse dal poter essere all’essere. Il possibile sta in rapporto anche con l’Eterno, ma non a motivo di un fondamento che lo leghi ad esso secondo necessità, appunto perché questa non riguarda il divenire reale: «Il mutamento del divenire è la realtà, il passaggio accade tramite libertà. Nessun divenire è necessario; non prima che divenga, perché allora non potrebbe divenire; non dopo che è divenuto, perché allora non sarebbe divenuto. Ogni divenire accade tramite libertà. […]. Il particolare divenire storico diviene mediante una causa che agisce in modo relativamente libero, la quale a sua volta in definitiva si volge a una causa che agisce in modo assolutamente libero», (Kierkegaard, Briciole filosofiche, Intermezzo, §§ 1-2). L’essere entro cui viene ospitata incontraddittoriamente la possibilità di ogni «cosa» deve essere pensato non come esse, bensì come interesse, accentuando la preziosa scansione presente nel termine latino. Siamo fuori dalla semantizzazione parmenidea. Diviene allora possibile e incontraddittoria una filosofia della religione avente quale criterio «l’a-teismo trascendentale». Umberto Regina 3