nel labirinto definizioni e classificazioni, approcci metodologici

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1. PRIMA UNITÀ
NEL LABIRINTO
DEFINIZIONI E CLASSIFICAZIONI, APPROCCI METODOLOGICI
Il Problema della Definizione e Classificazione
HANDICAP
SVANTAGGIO
Verso una definizione dei concetti di:
DISADATTAMENTO
DIFFICOLTA’ DI
APPRENDIMENTO
DISTURBI DI
APPRENDIMENTO
PREMESSA
Il ragazzo «con problemi»
Handicap, disabilità, disturbi dell’apprendimento, svantaggio socio-culturale, disadattamento, non
sono problemi nuovi, ma suscitano un interesse ed una attenzione particolari proprio oggi, molto
più che un tempo, non solo perché compito istituzionale della scuola, e delle altre agenzie educative
e riabilitative, è quello di affrontarli con procedimenti e metodologie pedagogicamente,
psicologicamente, scientificamente corrette, ma anche perché i fenomeni sembrano in via di
diffusione.
Il “portfolio” del ragazzo «con problemi» si apre con due questioni di fondo.
La prima è costituita dal rapporto tra condizioni di normalità e condizioni di anormalità, comunque
essa venga a presentarsi, sia dal punto di vista intellettivo, sia dal punto di vista sociale o affettivo.
È sempre difficile stabilire la soglia tra l'una o l'altra manifestazione, ma è necessario farlo per poter
prevedere gli adattamenti operativi più opportuni, per una personalizzazione degli apprendimenti
contestualizzata alla realtà di ogni singolo caso, e la predisposizione degli interventi riabilitativi e
rieducativi più adeguati.
La seconda si riferisce ai criteri sui quali la diagnosi di “anormalità” viene condotta.
Alcune scuole di pensiero, sostengono che il soggetto «diverso» è tale perché viene giudicato
facendo ricorso a criteri di efficientismo sociale e produttivo, originati da quella ideologia
tecnologica, progressista e consumista che oggi condiziona pesantemente la vita di tutti, inquinando
gli stessi rapporti interpersonali e privati. Chiunque però abbia una pur minima esperienza di
insegnamento sa che, accanto a ragazzi attenti, motivati, capaci di impegno continuato, collaborativi
sono presenti ragazzi disattenti, che si distraggono con facilità, che si impegnano pochissimo, che
manifestano comportamenti imprevisti, talvolta molto aggressivi (fenomeno in crescita in tutti gli
ordini di scuola), che incontrano difficoltà accentuate di apprendimento, di linguaggio, di
ragionamento, di numerazione, o che, addirittura, rifiutano le regole di vita civile e di rispetto
reciproco e tutto questo difficilmente può venir attribuito semplicisticamente ad un'ottica
interpretativa efficientistica della società.
Un altro grosso problema, da non sottovalutare, è che non sempre il bambino o ragazzo “con
problemi” viene tempestivamente individuato e certificato secondo chiari parametri di disabilità e
handicap che permetterebbero un intervento mirato, tanto più valido quanto più precoce.
Di fronte al ragazzo «con problemi» l'atteggiamento serio non può riferirsi semplicemente ad una
diagnostica generale o a generalizzazioni aprioristiche di alcune difficoltà, ma deve invece accertare
le situazioni caso per caso, evitando formulari interpretativi rigidi, o ricette metodologico-didattiche
miracolistiche.
L'impegno osservativo e di analisi iniziale delle manifestazioni complessive del soggetto, in ogni
situazione di vita, non solo quella scolastica, sarà seguito da interventi a breve e a lungo termine,
utilizzando nel miglior modo possibile le conoscenze psico-pedagogiche e riabilitative che oggi
abbiamo a disposizione, per rilevare l'insieme dei problemi che il soggetto pone, definirli nella loro
natura, individuarne, per quanto è possibile, le cause, e poi procedere verso una attività
programmatoria che prenda in esame tutti gli aspetti della personalità e del comportamento del
soggetto in osservazione.
Le diversità
Premesso che, la filosofia di fondo su cui si impernia questo lavoro, è che la “diversità” è una
risorsa e che una scuola senza allievi diversi non è una scuola “normale”, si assume anche il
principio secondo cui se un ragazzo “diverso”, ammesso ad una scuola, non produce alcun
cambiamento nel contesto generale (organizzazione, programmazione, clima, relazioni, tempi,
spazi….) ed individuale (atteggiamenti, comportamenti, modi di pensare ed agire…), si potrà
parlare solo di assimilazione. Si potrà parlare di integrazione nel momento in cui si avranno
cambiamenti oggettivi da entrambe le parti (handicappato/ svantaggiato e scuola) con conseguenti
adattamenti reciproci.
Occorre ricordare, poiché su questo si gioca la professionalità del docente di sostegno, che
condizioni di handicap e svantaggio socio-culturale non sono la stessa cosa.
Mentre l'handicap è da considerare una disabilità di natura fisica o psichica o intellettiva,
clinicamente accertabile, lo svantaggio è da considerare una condizione più propriamente legata a
carenze familiari ed affettive, a situazioni di disagio economico e sociale, a deficienze culturali e
linguistiche dovute a scarsità di stimolazioni intellettuali in situazioni deprivate.
Come vedremo in dettaglio più avanti, l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) riferisce
l'handicap a cause organiche, fisiologiche o neurologiche e, da questo punto di vista, l'handicappato
è anche uno svantaggiato, mentre lo «svantaggiato» non è di per sé un handicappato.
È utile però distinguere anche tra svantaggio socio-culturale e disadattamento, tenendo conto che
per disadattamento si intende comunemente l'incapacità di un determinato soggetto di far proprie le
norme di un gruppo sociale, quale esso sia: gruppo-classe, gruppo giovanile o gruppo familiare.
In altre parole lo svantaggiato socio-culturale può essere un adattato nel gruppo coetaneo e un
disadattato in classe.
D’altra parte, se è di aiuto precisare distinzioni e differenze tra questi tre aspetti della «diversità»,
bisogna anche ricordare che spesso la fenomenologia di ognuno di essi si intreccia, dando origine,
in tal modo, a quadri molto complessi.
Le condizioni di handicap, ad esempio, sono spesso aggravate da situazioni ambientali e familiari di
emarginazione o di vero e proprio abbandono.
Esiste un’ampia letteratura su casi di deprivati affettivi che si comportano come soggetti affetti da
handicap organici; così come bambini gravemente carenti sul piano affettivo possono presentare gli
stessi comportamenti anomali di soggetti cerebrolesi. Questi soggetti però, sottoposti ad esame
elettroencefalografico, non hanno rivelato lesioni di sorta. Sono, in verità, casi particolari, che
tuttavia sono illuminanti per la nostra tematica.
Accade inoltre, talvolta, che condizioni di handicap motorio, percettivo o sensoriale affrontate in
modo inadeguato, in classe, portino a forme più o meno “importanti” di disadattamento scolastico;
analogamente, che forme di disadattamento familiare influiscano sul profitto scolastico del
soggetto, anche se egli proviene da una famiglia socialmente elevata.
A questo proposito è utile riportare, in modo assai conciso e schematico, un primo tentativo di fare
chiarezza sul problema della terminologia adeguata e condivisa, offerto da R.Vianello (1999), che
suggerisce di distinguere le diversità in quattro grandi categorie:
1. DIFFICOLTA’ DI APPRENDIMENTO
Terminologia usata prevalentemente in ambito scolastico per riferirsi a carenze
nell'apprendimento della lettura e/o della scrittura, della matematica e/o nell'acquisizione di
nozioni logiche, scientifiche, storiche e geografiche.
Ci sono alcune caratteristiche frequentemente associate a queste difficoltà
Interazione sociale
Incapacità di stare insieme ad altri, di inviare e ricevere messaggi
Percezione sociale
Incapacità di capire ciò che gli altri pensano o desiderano, di comprendere messaggi anche non
verbali
Autoregolazione
Incapacità di controllare il proprio comportamento tenendo conto dei segnali provenienti
dall'esterno
2. DIFFICOLTÁ RELAZIONALI
Terminologia usata anche in ambito non scolastico per riferirsi a difficoltà riscontrate a livello
emotivo, affettivo e sociale.
3. SVANTAGGIO SOCIO - CULTURALE
Terminologia riferita a possibili cause di difficoltà, mentre con il termine difficoltà relazionali ci
si riferisce agli effetti.
4. SITUAZIONI DI HANDICAP
Terminologia usata per riferirsi a situazioni di una certa gravità, regolarmente certificate,
richiedenti particolari risorse ed investimenti (ad esempio, in ambito scolastico, essere seguiti
dall'insegnante di sostegno ).
Rispetto alla complessità dell’intreccio tra queste quattro categorie di soggetti, R.Vianello offre
anche una casistica di possibilità con cui concretamente potremmo aver a che fare nella quotidianità
del lavoro scolastico.
L’allievo handicappato
Alle origini, il termine handicap indicava negli ippodromi inglesi la penalizzazione che veniva data
al fantino per evitare che la corsa gli fosse troppo favorevole.
In senso traslato, il sostantivo ha finito con il significare un impedimento (fisico, psichico, motorio,
percettivo o mentale) che causa ritardi più o meno gravi di sviluppo, oppure toglie al soggetto
alcune delle sue possibilità funzionali.
Ormai questo termine viene largamente usato, sia nel discorso corrente, sia in quello specialistico e
legislativo, sebbene sia sempre presente il timore che questa denominazione generi nell'insegnante
un atteggiamento negativo, di latente rifiuto e, nella classe, forme negative di emarginazione.
Si utilizzano, comunque, come sinonimi, per allievi portatori di anomalie, carenze o ritardi di
sviluppo, anche espressioni come: «soggetti in difficoltà», «diversi», «ritardati» e, di fronte ai
problemi della diagnosi precoce, si parla anche di «bambini, a rischio». Questo quando si tenta di
prevedere anticipatamente le difficoltà che potrebbero insorgere durante il successivo sviluppo, che
sarebbe bene prevenire subito anziché attendere che esse si siano manifestate per iniziare, solo
allora, un'azione di ricupero.
La nuova terminologia che si è evoluta in questi anni, di pari passo con gli studi psicopedagogici e
riabilitativi, comprende anche la definizione di «diversamente abili» che già comincia a comparire
in alcuni documenti legislativi ufficiali. Essa è dovuta non solo ad una diversa attenzione rivolta al
problema e ad una nuova sensibilità con cui esso viene affrontato, ma anche al fatto che ormai i
criteri di classificazione usati nel passato sono ritenuti superati e con essi il linguaggio che tali
criteri comportavano.
Alle origini delle classificazioni
Obsolete, e quasi completamente abbandonate, risultano le classificazioni rigide fondate sui risultati
ottenuti mediante i test Q.I. (Quoziente d'intelligenza), per mezzo dei quali venivano stabilite delle
graduatorie, e delle casistiche.
Le forme di classificazione accettate erano diverse l'una dall'altra sia per i criteri, sia per la
terminologia adottata per cui i risultati erano difficilmente comparabili.
La Scala di Terman, ad esempio, indicava sette livelli di abilità: idiozia (0-25), imbecillità (25-50),
debilità grave (50-60), debilità lieve (60-70), campo limite (70-80), campo di latenza (80-90),
campo di normalità (90-100). Altre scale invece erano suddivise in cinque livelli e distribuivano il
punteggio in maniera diversa; per esempio, l 'OMS suggeriva di utilizzare la scala Stanford-Binet,
articolata su cinque livelli di insufficienza mentale con valori Q.I. da 20 a 85.
Il linguaggio utilizzato in queste scale, inizialmente di natura scientifica, ha assunto col tempo una
forte connotazione dispregiativa, quasi gergale (idiota, imbecille, cretino), e nasconde i problemi
reali del soggetto invece di spiegarli; per non parlare di altre distinzioni, su base prognostica, che
venivano fatte tra soggetti «recuperabili» e soggetti «irrecuperabili», o tra soggetti «dipendenti»,
«addestrabili» e «irrecuperabili», per cui venivano formulate diagnosi di irrecuperabilità che
giustificavano un atteggiamento di passiva rassegnazione e di non attiva programmazione di
modalità consone a stimolare adeguatamente e competentemente i soggetti “inseriti” in classe.
Da più di un ventennio, l'illusione psicometrica, e cioè la speranza di valutare e schedare il bambino
con problemi di sviluppo per mezzo di batterie sempre più ricche e complicate di test mentali, è
aspramente criticata e giudicata negativamente.
Fra i numerosi motivi di questo rifiuto si citano alcuni dei fattori che hanno determinato questa
tendenza generalizzata, soprattutto da parte della scuola:
◆ il modo di intendere l'intelligenza infantile, che gli studi sempre più approfonditi, inerenti il suo
sviluppo e funzionamento, hanno dimostrato essere estremamente complessi e non riducibili agli
aspetti puramente quantitativi e di efficienza che erano oggetto di valutazione dei test Q.I.
◆ il collegamento tra lo sviluppo cognitivo e fattori diversi, di natura ambientale, affettiva e
relazionale, per cui i problemi dello sviluppo intellettivo si intrecciano con quelli dei rapporti
sociali, in particolare con le relazioni tra madre e bambino, cosa che rende ancora più debole la
possibilità di valutare l'intelligenza in termini di efficienza formale.
◆il fatto che, come rileva lo psicologo Hunt, mentre un tempo l'intelligenza era ritenuta come un
qualche cosa di fisso e immutabile e il suo sviluppo predeterminato, che la funzione del cervello
fosse di natura statica e che l'esperienza dei primi anni di vita, in particolare quella precedente 1o
sviluppo del linguaggio, non avesse importanza, oggi si pensa esattamente il contrario.
Ormai, il concetto di intelligenza risulta radicalmente modificato in senso più ampio, più
pragmatico, maggiormente rapportato all'apprendimento ed al comportamento umano e viene
meglio definito in termini di rendimento, di adattamento ai modelli culturali, di capacità ideativa e
di soluzione di problemi.
Con Gardner si parla di più intelligenze, con caratteristiche distintive, e si apre la strada alla
definizione degli stili cognitivi e degli stili attributivi.
Oltre che sul piano dei principi, i risultati dei test Q.I. sono stati contestati anche sul piano pratico,
in quanto è stato osservato che il punteggio ottenuto dai singoli soggetti non era legato al loro
presumibile grado intellettuale, ma alle conoscenze che essi avevano acquisito dal loro ambiente, e
per mezzo delle quali erano riusciti a dare un numero maggiore di risposte esatte.
Vennero creati allora dei test di nuova impostazione, i cosiddetti test cultur free, vale a dire test
liberati da fattori culturali, dalle conoscenze e dalla preparazione del soggetto, che potessero
cogliere 1'intelligenza come forma pura, senza cioè le influenze ambientali.
Questo tentativo dimostrò come nessun test possa essere impostato senza fare ricorso ad elementi
culturali poiché le prove risentono sempre, in qualche misura, dell'ambiente culturale in cui vive il
soggetto.
Anche classificazioni di origine neuropsichiatrica sono state abbandonate, come quella avanzata da
H. Zulliger, il quale classificava i «ragazzi che non si lasciano influenzare da alcun metodo», nel
seguente modo:
- oligofrenici (deboli di mente): mongoloidi, cretini, idioti, imbecilli, deboli;
- anormali psichici: psicopatici, psicotici, deboli morali, epilettici, neurotici;
- esseri antisociali: criminali, traviati, asociali, dissociali;
- ragazzi «difficili».
Questo tipo di classificazione risulta essere addirittura un ostacolo alla conoscenza del soggetto in
difficoltà poiché un debole mentale potrebbe essere contemporaneamente un «debole morale» e un
«dissociale», inoltre, il criterio di distinzione risulta essere artificialmente costruito.
Definizioni e classificazioni oggi
Spesso, il problema della corretta definizione, e successiva classificazione, di concetti quali:
handicap, disabilità, menomazione, se non adeguatamente affrontato crea confusione e difficoltà di
comunicazione tra le varie parti (docenti, operatori socio-sanitari, legislatori…).
Occorre tener presente che queste definizioni, naturalmente, sono frutto ed espressione della ricerca
e della cultura di un determinato contesto storico ed ambientale, per cui sono soggette a variazioni e
cambiamenti che via via meglio rispecchiano il dibattito socio-culturale del momento.
Si sceglie, con questo lavoro, di proporre la classificazione internazionale delle menomazioni, delle
disabilità e degli handicap, poiché rappresenta il sistema di riferimento più frequentemente
utilizzato in numerosi paesi europei e nordamericani.
A questo proposito varie nazioni europee, compresa l’Italia, investite della necessità di omologare i
vari linguaggi, hanno sottoscritto un accordo volto a promuovere iniziative «tendenti a diffondere
l'uso della classificazione [...] sia ai fini della valutazione e del controllo dei trattamenti di
riabilitazione, sia in vista di una più approfondita conoscenza del fenomeno sotto il profilo
statistico» (Foschi e Serio 1990,3)”
Si cercherà inoltre di estrapolare, dai diversi documenti legislativi rivolti al sistema educativo
nazionale italiano, secondo un’analisi diacronica e sincronica del fenomeno, quanto di queste
espressioni siano entrate a far parte del linguaggio corrente degli addetti ai lavori, e come ciò abbia
prodotto un cambiamento di mentalità, più generalizzato, nell’ambito sociale allargato dei “non
addetti ai lavori” (famiglie, territorio…),
Nei documenti ufficiali dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) le espressioni quali:
menomazione, disabilità ed handicap hanno significati ben precisi, poiché ogni definizione ha una
“funzione di segnale esplicito e non eludibile” (Giobbi 1980,7) che deve emergere ogni volta che
viene adoperata.
L’attenzione dunque dei docenti, soprattutto se specializzati, e degli operatori sociosanitari, dovrà
fare riferimento a tali definizioni e classificazioni, senza utilizzarle in modo inappropriato e
confuso, nella pianificazione della riabilitazione e dell'attività programmatoria per l’integrazione.
L’OMS, in una assemblea tenutasi nel 1975, decise che era necessario definire, oltre che le
classificazioni delle malattie (Intemational Classification of Diseases [ICD] ), anche le
«conseguenze» delle stesse (International Classification of Impairement, Disabilities and Handicaps
[ICIDHI]), poiché si era preso coscienza dei seguenti fattori:
- le persone si rivolgono ai servizi sociosanitari non tanto dopo la formulazione della diagnosi,
ma solo quando le conseguenze delle malattie diventano un problema per svolgere le normali
attività inerenti i loro ruoli sociali;
-
la consueta classificazione delle malattie non era sufficiente a codificare adeguatamente le
diverse forme morbose;
-
era necessario migliorare la qualitià dei servizi descrivendo anche le interrelazioni esistenti tra i
diversi possibili eventi diagnosticati da un punto di vista medico e quelli definibili in termini di
«conseguenze delle malattie».
Una sequenza di fenomeni connessi alla malattia, più estesa di quella contenuta nell'ICD, avrebbe
dovuto essere la seguente:
Malattia
Infortunio
Malformazione
Menomazioni
(Impairment)
Disabilità
(Disability)
Svantaggi
(Handicaps)
Considerare anche le menomazioni (Impairment)1, le disabilità e gli svantaggi, sia nella fase della
diagnosi, sia in quella della riabilitazione e dell’insegnamento, costituisce un momento rilevante per
migliorare le condizioni di vita delle persone colpite da particolari malattie.
Tali classificazioni furono successivamente (1980) diffuse tra i professionisti dell'assistenza e della
riabilitazione e divennero di patrimonio comune anche nell’insegnamento.
Definizione e classificazione delle menomazioni
Secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità,
“una menomazione si riferisce a perdite o anormalità che possono essere transitorie o
permanenti e comprendere l'esistenza o l'evenienza di anomalie, difetti o perdite a carico di arti,
organi, tessuti o altre strutture del corpo, incluso il sistema delle funzioni mentali.
La menomazione rappresenta l'esteriorizzazione di uno stato patologico, e in linea di principio
riflette i disturbi a livello d'organo.”
Le classificazioni internazionali delle menomazioni 2 includono:
1. Menomazioni delle capacità intellettive (intelligenza, memoria, pensiero, altre intellettive,
2. Altre menomazioni psicologiche (coscienza e vigilanza, percezione, attenzione, funzioni
emotive e volitive, comportamentali)
3. Menomazioni del linguaggio (funzioni del linguaggio, voce)
4. Menomazioni dell’udito (sensibilità uditiva, altre)
5. Menomazioni visive (acutezza visiva, altre)
6. Menomazioni viscerali (organi interni, altre funzioni particolari)
7. Menomazioni scheletriche (capo, tronco, arti-meccaniche e motorie, malformazioni)
8. Menomazioni deturpanti (capo, tronco, corpo, arti, altre
9. Menomazioni generalizzate, sensoriali e di altro tipo
Definizione e classificazione delle disabilità
1
In termine inglese «impairment» è stato sempre tradotto con il corrispondente italiano di «menomazione» anche
quando la terminologia corrente ricorre ad altre espressioni di uso più frequente come disturbo, deficit, insufficienza,
ecc. Il termine menomazione viene generalmente considerato più comprensivo di disturbo, poiché riguarda anche le
perdite, come ad esempio quella di una gamba, che rappresenta una menomazione, ma non certamente un disturbo o un
deficit.(Nota Soresi,1998)
2
Vedi, per approfondimenti, SORESI S., Psicologia dell’handicap e della riabilitazione, Il Mulino, Bologna, 1998,
Quadro 1.1 pagg.20-24
L’OMS definisce le disabilità nell’ambito delle conoscenze e delle esperienze sanitarie, come:
“qualsiasi restrizione o carenza (conseguente a una menomazione) della capacità di svolgere
un'attività nel modo o nei limiti ritenuti normali per un essere umano.”
e, più precisamente (ICIDH) si tratterebbe di:
“scostamenti, per eccesso o per difetto, nella realizzazione dei compiti e nella espressione dei
comportamenti rispetto a ciò che sarebbe normalmente atteso [...1, possono avere carattere
transitorio o permanente ed essere reversibili o irreversibili, progressive o regressive [...], possono
insorgere come conseguenza diretta di una menomazione o come reazione di un soggetto,
specialmente da un punto di vista psicologico, ad una menomazione fisica, sensoriale o di altra
natura. La disabilità si riferisce a capacità funzionali estrinsecate attraverso atti e comportamenti
che per generale consenso costituiscono aspetti essenziali della vita di ogni giorno. Ne
costituiscono esempio i disturbi nella adozione di comportamenti appropriati; nella cura della
propria persona (come il controllo della funzione escretoria e la capacità di lavarsi e
alimentarsi); nell'esecuzione delle altre attività quotidiane e nella funzione locomotoria (come la
capacità di camminare)”
Questa definizione di disabilità aiuta, in sede di diagnosi, «cosa privilegiare» per una rilevazione
corretta da un punto di vista metodologico e «come» procedere per l'attivazione di programmi di
riabilitazione.
Per quanto riguarda il «cosa rilevare», andrebbe innanzi tutto posta particolare attenzione
sull'analisi dei comportamenti che le persone manifestano mentre si trovano impegnate a svolgere
attività di tipo «quotidiano», privilegiando «il dire e il fare» delle persone in contesti di vita reale e
non «artificiali»; perciò la modalità corretta, in fase di diagnosi e valutazione, dovrebbe essere
quella di un osservatore in possesso di un «atteggiamento situazionistico»3 che metta in atto
procedure di osservazione diretta volte a precisare abilità contestuali all'ambiente di vita della
persona, e non a particolari e artificiali ambiente appositamente strutturato e predisposto dagli
«specialisti» della riabilitazione.
Per quanto concerne il «come procedere», nelle operazioni di diagnosi e di valutazione, si ricorrerà,
vista la definizione, a operazioni diagnostiche di tipo normativo (con riferimento a valori normativi
e a stime attendibili della presenza di queste abilità nella popolazione di riferimento dei soggetti
analizzati), che rilevino «scostamenti, per eccesso o per difetto» in modo da misurare la quantità di
scostamento considerata necessaria affinchè si possa parlare di disabilità (tendenza centrale, da un
lato - moda, media, mediana- e di variabilità -varianza).
Purtroppo, a livello nazionale, esistono poche scale di valutazione delle disabilità tarate sulla
popolazione italiana e mancano i parametri di riferimento relativi a repertori di abilità dei «non
disabili»
Le classificazioni internazionali delle disabilità4 includono:
•
3
4
Disabilità nel comportamento (consapevolezza, relazioni)
(Soresi 1995),
Op.citata Soresi, 1998, pagg.28-31
•
Disabilità nella comunicazione (parlare, ascoltare, vedere, altre)
•
Disabilità nella cura della propria persona (escretorie, igiene personale, vestirsi, alimentarsi e
altre)
•
Disabilità motorie (deambulazione, “da costrizionzione” per menomazioni, altre)
•
Disabilità inerenti la propria sussistenza (domestiche, nei movimenti, altre)
•
Disabilità nella destrezza (attività quotidiane, attività manuali, destrezza)
•
Disabilità "circostanziali" (da dipendenza e scarsa capacità di resistenza, ambientali, altre)
•
Disabilità in particolari capacità
•
Altre limitazioni all' attività
Naturalmente, oltre alla rilevazione delle disabilità, è importante quantificare il livello di gravità
delle stesse, e le abilità residuali possedute dalla persona per avere indicazioni indispensabili nel
programmare i trattamenti riabilitativi e la sua integrazione scolastica e/o lavorativa.
Occorre tener presente che non necessariamente le menomazioni comportano disabilità o inabilità,
basti pensare a quanto una semplice protesi possa diminuirne le conseguenze invalidanti.
Si riporta, per chiarezza, la definizione dei concetti di abilità e inabilità proposte da Fallani et
al.(1992,52):
“L'abilità di qualsiasi soggetto animato consiste nella capacità di realizzare un'azione, di compiere
un «lavoro» nell'accezione fisica del termine, di portare a termine un programma o un progetto
predeterminato. L'abilità dipende dal possesso di una o più capacità e, fatta eccezione per alcune
azioni di estrema semplicità, di solito sono più funzioni integrate a determinare l'abilità complessiva
o specifica individuale.”
L'impossibilità o l'incapacità di attivare comportamenti in grado di consentire la realizzazione dei
suddetti programmi determina invece:
“L’inabilità rispetto all'azione considerata e in riferimento alle capacità ritenute normali in un
campione di popolazione omogenea. L'inabilità consiste dunque nell'assoluta incapacità a svolgere
un'azione, sia nel caso che questa capacità non sia stata mai posseduta che in quello, invece, in cui
sia andata perduta.
L'incapacità di portare a compimento l'azione, ma con risultati più o meno soddisfacenti, realizza la
condizione di disabilità, riconoscibile per l'anomalia del risultato, causalmente riconducibile ad una
menomazione.” (ibidem,53).
La disabilità, dunque, per essere precisa e ben definita, richiede operazioni di stima che evidenzino
la “quantità di discrepanza” dalla prestazione “abile”.
I soggetti disabili, non sarebbero perciò inabili, ma solo meno o diversamente abili.
Definizione degli handicap
L'OMS propone, nella terza parte dell'ICIDH (1980), una sua definizione:
“Nell'ambito delle evenienze inerenti alla salute si intende per l'handicap una condizione di
svantaggio vissuta da una determinata persona in conseguenza di una menomazione o di una
disabilità che limita o impedisce la possibilità di ricoprire il ruolo normalmente proprio a quella
persona in relazione all'età, al sesso e ai fattori socioculturali.”
e si precisa inoltre che
“esso è caratterizzato dalla discrepanza tra l'efficenza o lo stato del soggetto e le aspettative di
efficenza e di stato sia dello stesso soggetto che del particolare gruppo di cui egli fa parte.
L'handicap rappresenta pertanto la socializzazione di una menomazione o di una disabilità e
come tale rif1ette le conseguenze - culturali, sociali, economiche e ambientali - che per
l'individuo derivano dalla presenza della menomazione e della disabilità. Lo svantaggio proviene
dalla diminuzione o dalla perdita della capacità di conformarsi alle aspettative o alle norme
proprie all'universo che circonda l'individuo.” (ibidem, 1980,177).
Perciò, solo in presenza di soggetti con disabilità o menomazioni si può parlare di handicap; tale
svantaggio, realmente “vissuto” dalla persona, riguarda l’ambito dei ruoli e delle attività del suo
contesto socioculturale e si caratterizza in termini di discrepanza tra efficienza e aspettative di
efficienza.
Correttamente dunque dicesi «handicappato» colui che manifesta livelli non soddisfacenti di abilità
o inabilità a causa di menomazioni che gli impediscono di rispondere a specifiche aspettative di
efficienza. Per questo, variando il livello di efficienza richiesto dalle prestazioni, può anche
diminuire o sparire la situazione di handicap e cambiare anche notevolmente l'intensità dello
svantaggio percepito e provocato.
Non tutte le menomazioni provocano di fatto disabilità; queste ultime sono «attive» solamente in
precisi contesti; il soggetto può manifestare abilità diverse in contesti diversi; da ciò l’importanza di
ampliare le possibilità di realizzazione personale ed esplicazione delle proprie abilità residuali, in
ambienti d’apprendimento e/o relazionali e di lavoro diversificati poiché così la persona può essere
o non essere handicappata.
Altresì non tutte le menomazioni provocano disabilità e non tutte le difficoltà che le persone
possono incontrare sono determinate da menomazioni.
Ci può essere handicap anche in assenza di disabilità (ad esempio in presenza di «menomazioni
deturpanti», ustioni, con vissuti di svantaggio associati soprattutto al contesto interpersonale). Esso
si manifesta solamente quando si attendono o pretendono livelli di prestazione standard a
prescindere dalle effettive possibilità della persona in questione.
Gli handicap si riferiscono, in modo specifico, a quelle che sono definite le «funzioni della
sopravvivenza»
Per quanto sopraddetto, occorre allora ben distinguere l’Handicap dalle:
•
•
•
•
difficoltà d' apprendimento
difficoltà relazionali
svantaggi socio-culturali
ritardi mentali a eziologia ambientale
Le classificazione degli handicap, come lo stesso ICIDH precisa, non può essere considerata una
tassonomia dello svantaggio, né una guida per la classificazione di persone disabili, ma unicamente
una serie di “circostanze che pongono queste persone in condizione di svantaggio nei confronti dei
loro simili considerati sulla base delle convenzioni sociali” (ibidem).
La proposta evidenzia le dimensioni e gli ambiti in cui il soggetto portatore di menomazioni
disabilitanti incontra difficoltà o ostacoli - di qualsivoglia natura - in situazioni necessarie alla sua
partecipazione sociale, situazioni reali, della quotidianità.
Le «funzioni della sopravvivenza» considerate sono le seguenti:5
•
Handicap nell'orientamento;
•
Handicap nell'indipendenza fisica;
•
Handicap nella mobilità;
•
Handicap nell'occupazione;
•
Handicap ne1l' integrazione sociale;
•
Handicap nell'autosufficienza economica;
•
Altri handicap.
Lo schema complessivo risulta essere il seguente:
.
Malattia
Infortunio
Malformazione
Menomazioni
(Impairment)
Menomazioni delle
capacità intellettive
Disabilità nel
comportamento
Altre menomazioni
psicologiche
Disabilità nella
comunicazione
Menomazioni del
linguaggio
Disabilità nella cura
della propria
persona
Menomazioni
dell’udito
5
Disabilità
(Disability)
Disabilità motorie
Menomazioni
visive
Disabilità inerenti la
propria sussistenza
Menomazioni
viscerali
Disabilità nella
destrezza
Menomazioni
scheletriche
Disabilità
"circostanziali"
Menomazioni
deturpanti
Disabilità in
particolari capacità
Menomazioni
generalizzate,
sensoriali e di altro
tipo
Altre limitazioni alla
attività
Op.citata Soresi, 1998, Quadro 1.3, , pagg.42-49
Svantaggi
(Handicaps)
Handicap nello
orientamento;
Handicap
nell'indipendenza
fisica
Handicap nella
mobilità
Handicap
nell'occupazione
Handicap nella
integrazione sociale
Handicap
nell'autosufficienza
economica
Altri handicap.
Disturbi dell’apprendimento
Fra i più dibattuti e controversi problemi che investono la scuola e tutto il settore della società ad
essa collegata (famiglie, enti, ricercatori, educatori, operatori sociosanitari..), e su cui molto si è
investito come settore di ricerca psicopedagogica, è quello riferentesi ai “disturbi
dell’apprendimento”.
In questo ambito molta è la confusione ancor oggi dilagante proprio per una mancanza di un
riferimento chiaro ed univoco ad un concetto che scientificamente definisca il fenomeno.
Purtroppo, anche da parte degli operatori scolatici e non, spesso corre l’abitudine a riferirsi ad un
“imprecisato disturbo d’apprendimento” ogniqualvolta un ragazzo presenti una qualsiasi difficoltà a
svolgere un compito secondo canoni considerati “normali”.
Questo tipo di disturbi invece è stato ampiamente studiato a partire dagli anni ’60, ed ha attualmente
una specificità scientificamente testata sulla quale sono stati elaborati anche modelli riabilitativi
efficaci.
Occorre dunque far chiarezza a livello di definizione e classificazione.
La prima definizione che fa riferimento al termine learning disability viene proposta da Kirk nel
1962 e si riferisce:
“a un ritardo, disordine, o ritardato sviluppo in uno o più dei processi della parola, linguaggio,
lettura, scrittura, aritmetica, o altre aree scolastiche che risultano da un handicap psicologico
causato da una possibile disfunzione cerebrale e/o da disturbi emotivi o comportamentali. Non è il
risultato di ritardo mentale, deprivazione sensoriale o fattori culturali e di istruzione” (Hammill
1990, 75)6.
Sempre in ambito nordamericano, a livello di istituzioni pubbliche, la definizione più accolta, e che
ha influenzato le scelte operative dei servizi, è quella offerta dall'U.S. Office of Education (USOE)
nel1977 che dice che:
“il termine specific learning disability si riferisce ad un disordine in uno o più dei processi
psicologici di base implicati nella comprensione o nell'uso del linguaggio, parlato o scritto, che si
può manifestare in una insufficiente capacità di ascoltare, parlare, leggere, esprimersi
correttamente e adeguatamente per iscritto, o fare calcoli matematici. Il termine include condizioni
quali gli handicap percettivi, il danno cerebrale, la disfunzione cerebrale minima, la dislessia e
l'afasia evolutiva.
Il termine non include bambini che hanno learning disabilities che sono principalmente il risultato
di handicap visivo, uditivo, motorio o mentale, o di disturbo emotivo, o di svantaggio ambientale,
culturale o economico” (Hammill 1990,77)7
E’ da dire che, comunque, risulta molto difficile delimitare una volta per tutte gli ambiti in cui un
soggetto manifesta disturbo di apprendimento, tanto più che esiste una stretta relazione fra ambiti
distinti.
Lo stesso Comitato Scientifico del Council for Learning Disabilities (BTCLD,1986), contro l'uso di
formule di discrepanza e di procedure di identificazione e diagnosi riferite a singoli specifici ambiti
di apprendimento, raccomandava di compiere «ampie valutazioni diagnostiche condotte da gruppi
interdisciplinari» e relative a «tutte le aree di disturbo di apprendimento» previste dalla legislazione;
6
7
C.CORNOLDI, I disturbi dell’apprendimento, Il Mulino,Bologna,1991
Op.cit C.Cornoldi
inoltre tali aree non possono essere identificate una volta per tutte e valere per diversi contesti e
livelli di età.
L’attenzione a determinate abilità, ritenute fondamentali in una preciso contesto socio culturale e
storico (negli ultimi secoli, la nostra società ha mostrato di attribuire particolare peso all'
apprendimento di lettura, scrittura e calcolo, perciò ha rivolto particolare attenzione ai casi che non
riuscivano a raggiungere quegli apprendimenti), può variare nel tempo ed è strettamente legata allo
progresso della ricerca scientifica e tecnologica.
In base a queste considerazioni, C. Cornoldi (1991) osserva come “il termine «disturbo
dell'apprendimento» sia una espressione-ombrello che raccoglie una gamma diversificata di
problematiche nello sviluppo cognitivo e nell'apprendimento scolastico, non imputabili
primariamente a fattori di handicap grave, e definibili in base al mancato raggiungimento di taluni
criteri rilevanti di apprendimento per i quali esiste un largo consenso.”8
Cassificazione dei disturbi di apprendimento
Fletcher e Morris [1986,60] osservano che «l'assunzione fondamentale di una ricerca sulla
classificazione è che esistano soggetti che presentano somiglianze/differenze in una serie di attributi
che identificano una tassonomia. L'obiettivo della ricerca sulla classificazione è quello di sviluppare
una serie di criteri oggettivi in base ai quali i soggetti possano essere esaminati in gruppi
omogenei».
Come abbiamo già ribadito, l’operazione classificatoria viene incontro non solo ad esigenze della
ricerca e della semplificazione delle procedure diagnostiche e prognostiche, ma anche di
chiarificazione concettuale.
Fletcher e Morris, propongono tre criteri per una classificazione nel campo dei disturbi
dell'apprendimento basati:
-
sulla prestazione
sull'analisi dei processi
sull'esame dello sviluppo
e sembrano soprattutto favorevoli a classificazioni che si fondano su una formulazione teorica
chiaramente definita e sulla ricerca di validità interna (individuando precisi criteri operazionali,
controllando replicabilità su altri campioni, attendibilità sullo stesso campione, capacità esplicativa)
e di validità esterna.
Occorre ricordare che ogni classificazione fa riferimento a precisi modelli su cui non tutti
concordano, per questo motivo, tradizionalmente, si è dato maggior peso alle classificazioni rivolte
all’identificazione delle prestazioni deficitarie.
Si presentano qui di seguito alcune tipologie classiche di classificazioni, riferite alla prestazione,
distinte in base:
g al riferimento agli apprendimenti scolastici in senso stretto
g allo sviluppo neuropsicologico
Classificazioni classiche di ispirazione psichiatrica9
TAB. 1.3. Tipi classici di psicopatologia del bambino descritti dalla neuropsichiatria infantile
italiana aventi implicazione per i disturbi dell' apprendimento
Instabilità psicomotoria o sindrome ipercinetica
Disordini del linguaggio e della parola
Ritardo semplice del linguaggio
Afasia congenita o disfasia di sviluppo
1. Afasia da deficit prassici
2. Afasia da deficit gnosici
Altri disordini specifici dell' apprendimento
Dislessia e disgrafia
Discalculia e acalculia
Impaccio motorio e dlsprassia dello sviluppo
Impaccio motorio
Paratonia
Sincinesie
Disprassia dello sviluppo
Disprassia motoria o aprassia afferente o cinestesica
Disprassia apratto-somatognosica
- Aprassia obiettiva
- Aprassia posturale
• Aprassia costruttiva
Balbuzie
1. Tonica
2. Clonica
3. Palilalica
4. Paralitica
5.
(Fonte:Guareschi Cazzullo,1972J).
TAB. 1.4. Tipi fondamentali di psicopatologie del bambino secondo la classificazione esposta da
Ajuriaguerra e Marcelli (1989) aventi implicazioni per i disturbi dell'apprendimento
Tipi fondamentali di psicopatologia del bambino
Psicopatologia delle condotte motorie
Alterazioni della lateralizzazione
Disgrafia
Impaccio motorio
Disprassie
8
9
Op.Citata, pag25
Op.Cit.,pagg.31,32
Instabilità psicomotoria
Psicopatologia del linguaggio
Alterazioni dell'articolazione
Ritardo della parola
Ritardo semplice del linguaggio
Audiomutismi
Afasia
Dislessia-disortografia
Balbuzie
Psicopatologia delle funzioni cognitive
Insufficienza mentale profonda (QI < 25), severa (QI < 40), moderata (QI < 55), lieve (QI < 70)
Bambini superdotati
(Fonte Ajuriaguerra e Marcelli,1989).
Si propone inoltre il conosciutissimo, e ormai di largo uso anche in Europa, Manuale degli
psichiatri nordamericani, (DSM-III-R, 1989), che è oggetto di costante revisione, riassunto nella
tabella 1.5. Esso è così diffuso proprio perché garantisce almeno alcuni elementi minimali di
linguaggio comune.
Un confronto fra le tavole può permettere di evidenziare talune differenze cospicue che pure
riguardano elaborazioni provenienti dallo stesso ambito psichiatrico.
Possiamo distinguere tre tipi fondamentali legati all'apprendimento scolastico (calcolo, scrittura,
lettura), tre tipi legati al linguaggio (articolazione, espressione, ricezione e - inoltre - i disturbi
dell'eloquio) e il disturbo di sviluppo della coordinazione motoria.
Classificazioni basate sui processi
Esistono altre proposte di classificazione basate prevalentemente sulla ricerca ispirata dalla teoria,
piuttosto che sull'indagine descrittivo-tassonomica, che hanno soprattutto matrice psicometrica,
cognitivista, neuropsicologica, neurologica o evo1utiva.
Molti modelli specifici, desunti dall’attuale avanzata ricerca teorica sull'apprendimento, soprattutto
nell'ambito cognitivista, sono in grado di fornire diversificazioni e spiegazioni adattate ad una
vastissima gamma di problemi di apprendimento.
Questi modelli studiano il funzionamento normale e pato1ogico dei vari processi cognitivi e sono
volti all’individuazione di fattori critici presenti nel disturbo.
Essi hanno evidenziato il ruo1o di numerosissimi, e parzialmente diversificati processi, all’interno
della vasta, complessa e variegata area dei disturbi dell'apprendimento (ad esempio problemi di
memoria, elaborazione linguistica, denominazione, ripetizione mentale, attenzione…).
Da ricordare, in particolare, le ricerche sulla «memoria di lavoro», sulla «consapevolezza
fonologica», sulla metacognizione e la velocità di elaborazione.
Teorie dell’intelligenza e della differenziazione psicologica.
Esistono due ipotesi nelle analisi cognitiviste, l’una basata sulla generalizzazione dei meccanismi
cognitivi, uguali per tutti gli individui (ipotesi globale), che perciò non implica necessariamente una
classificazione dei disturbi dell'apprendimento, l’altra che presuppone la differenziazione fra tipi
diversi che fa invece riferimento a modelli di differenziazione psicologica generalmente associati a
molti, ma non a tutti i modelli di intelligenza (ipotesi specifica al compito).
Si ritiene importante riportare, fra i numerosi altri approcci che sono stati utilizzati con riferimento
diretto ai disturbi dell'apprendimento, i lavori di Sternberg (1987) che affrontato il problema
sottolineandone le implicazioni educative.
Nella sua teoria delle «Componenti», egli analizza le relazioni fra l'intelligenza e il mondo interno o
mentale di un individuo e riconosce il ruolo interattivo delle strutture mentali, dell'esperienza e del
contesto.
Indica tre tipi di Componenti:
-
metacomponenti,
-
componenti di prestazione
-
componenti di acquisizione di conoscenza.
“Le metacomponenti riguardano il funzionamento di un sistema esecutivo centrale di
pianificazione (come decisioni, scelte, monitoraggio) e diversificano dai soggetti normali quelli con
ritardo mentale o grande talento generalizzato.
Le Componenti di prestazione sono utilizzate nella esecuzione di varie strategie richieste
nell'azione concreta specifica e si organizzano in fasi di soluzione del compito (codifica degli
stimoli, combinazione e confronto fra stimoli, risposta); esse sono deficitarie nel ritardo mentale e,
per quanto riguarda i disturbi dell'apprendimento, sono deficitarie in quelle che sono di «classe»,
[... ovvero che sono comuni a classi di compiti, ma non attraverso domini multipli di conoscenza,
ad esempio i disturbi nella matematica potrebbero sorgere da difficoltà di esecuzione di
componenti di prestazione relative ad abilità algebriche o geometriche. Nel dominio verbale.. i
disturbi della lettura risultano, in parte, da deficit nel riconoscimento e decodifica della parola e
nella codifica fonetica nella memoria a breve termine (Sternberg 1987,148-149)].
Le componenti di acquisizione di conoscenza sono invece processi usati nell'acquisire nuova
conoscenza: esse presentano notevole variabilità nei soggetti con disturbi dell' apprendimento,
soprattutto per il fatto che tali soggetti possono presentare, vuoi per mancanza delle altre abilità,
vuoi per limitate specifiche esperienze, variabili livelli di conoscenza dei domini specifici.
Sternberg accenna comunque a generali difficoltà, presenti nei disturbi dell'apprendimento, a
utilizzare le proprie conoscenze, risultanti ad esempio in compiti di priming semantico o di
organizzazione di materiale mnestico.”10
Riteniamo importante qui citare un altro modello di funzionamento mentale, che ha avuto grande
influenza in ambito neuropsicologico e che ha influito anche, indirettamente, sulle modalità di
affrontare l’insegnamento e l’apprendimento delle discipline, in ambito scolastico, che è quello
modulare teorizzato da Fodor [1983].
Secondo tale modello, “si assume, oltre ad un sistema centrale non modulare, l'esistenza di sistemi
cognitivi di elaborazione dell'input, chiamati moduli, fra 1oro perfettamente indipendenti. Tali
moduli si caratterizzano per il fatto di interessare un singolo dominio cognitivo, di essere
predeterminati geneticamente, di avere una ben precisa struttura neurologica, di non essere il
risultato della composizione di abilità più semplici, di essere autonomi, di dare avvio automatico e
10
Op.cit.Pagg.46-47
completo all'elaborazione de1l'informazione che 1i riguarda, di avere uscite poco profonde, di avere
specifiche caratteristiche evolutive, di non consentire all'informazione elaborata contatti con altri
sistemi.
In base ad un modello modulare un disturbo di apprendimento è dovuto ad un disturbo in uno o più
dei moduli implicati in quell'apprendimento: l'obiettivo della indagine neuropsicologica deve essere
quello di identificare i moduli non funzionanti, ovvero le dissociazioni fra sistemi integri e sistemi
deficitari. A loro volta, i casi di dissociazione raccolti sono utilizzati per dimostrare ruo1o e
indipendenza di tali moduli. Nell'ambito della psicopatologia dell'apprendimento sono
particolarmente significativi, a questo proposito, alcuni contributi di Cossu, che ha per esempio
evidenziato, in taluni soggetti, l'indipendenza fra abilità di lettura e di scrittura o ha capovolto l'idea
tradizionale per cui taluni prerequisiti specifici (ad esempio la percezione visiva) contribuiscono all'
apprendimento della lettura, mostrando come anche la relazione opposta può essere dimostrata e
cioè un aumento di capacità visive, generate dal fatto stesso di essere stati esposti all'apprendimento
della lettura.
Una teoria modulare mette in dubbio molte classiche assunzioni nel campo dei disturbi
dell'apprendimento, basate sulla evidenziazione di rapporti e contributi fra abilità diverse. Ad
esempio, esistono numerose evidenze di una relazione fra lettura e scrittura o fra i cosiddetti
precursori dell'apprendimento e gli apprendimenti successivi, per cui sembrerebbe almeno prudente
prevedere oltre a sistemi modulari di elaborazione dell'input, anche componenti maggiormente
integrate non necessariamente legate ad un sistema centrale attentivo e cosciente.
Va aggiunto che, nell'ambito neuropsicologico e della scienza cognitiva, ove l'approccio modulare
aveva trovato largo seguito, molti studiosi fanno invece oggi riferimento a modelli connessionistici
che assumono che l'elaborazione dell'informazione avvenga in maniera distribuita nelle varie aree
del sistema nervoso centrale e in parallelo.
In questo caso, il disturbo di apprendimento richiede di essere diversamente concettualizzato
presumibilmente in relazione alla distruzione di un determinato tipo di configurazione
dell'attivazione complessiva che corrisponde all’abilità interessata.”11
Classificazioni cognitiviste e neuropsicologiche.
Abbiamo visto come, dal punto di vista cognitivista, una classificazione può basarsi su un modello
di funzionamento cognitivo specifico o generale e sulla individuazione delle componenti
indipendenti o semi-indipendenti che sono critiche per tale funzionamento.
Alcune tipologie di classificazioni riguardanti i disturbi dell'apprendimento, si riferiscono a:
• . difficoltà nella memoria sequenziale,
• problemi nella elaborazione successiva (evidenziabili ad esempio attraverso un test di memoria
sequenziale a breve termine)
• problemi nella elaborazione simultanea (diagnosticabili, ad esempio, con prove di
apprendimento di coppie associate),
• problemi linguistici che non hanno a che fare con problemi di oblio e di memoria a breve
termine o associati al funzionamento degli emisferi
• problemi a base percettiva associati al funzionamento dell'emisfero destro
• disturbi di tipo visivo e di tipo uditivo
• dislessia visiva
• dislessia uditiva
• disturbi associati alle abilità linguistiche
11
Op.Cit.pag.47
disturbi associati alle abilità non-verbali (visuospaziali), caratterizzato da nove elementi
sintomatici fondamentali (chiaramente discernibili a partire dagli otto-nove anni) e che sono
(Rourke e collaboratori (1989):
1. deficit tattile- percettivi bilaterali, generalmente interessanti maggiormente il lato sinistro
del corpo
2. problemi di coordinamento psicomotorio
3. deficit nelle abilità visuospaziali
4. problemi in compiti cognitivi e sociali non verbali
5. buona memoria verbale meccanica
6. difficoltà ad adattarsi a nuove situazioni
7. difficoltà in aritmetica a fronte di buon successo in lettura e scrittura
8. verbosità
9. deficit in percezione, giudizio e interazione sociali; tendenza a ritirarsi in se stessi
•
•
•
•
disturbo di apprendimento matematico (strategie di soluzione e funzionamento dei lobi frontali)
dislessia superficiale
dislessia fonologica
dislessia profonda
Questi disturbi dislessici vengono analizzati (Sartori 1984) in base ad un modello di esecuzione
adottato da molti ricercatori, chiamato modello standard di lettura, che viene riportato nella figura
1.2.
Sartori elabora la seguente tassonomia di dislessie, descritta con la specificazione delle lesioni
funzionali (riferite a componenti del modello-standard, indicate dalle lettere) necessarie per spiegare
il disturbo.
Sindromi dislessiche
•
•
•
•
•
Lettura lettera-per-lettera
Dislessia superficiale
Dislessia fonologica
Dislessia profonda
Lettura visiva non semantica
(iperlessia)
Lesioni funzionali necessarie a spiegare
il disturbo
P. F. G oppure P, H
G, F oppure H
via P-Q-R
via (P-Q-R) + Q + L
L+ (E-P-Q-R) in paz. it.
Oppure-> L in paz. ing.
Recenti Classificazioni
Poiché, come abbiamo visto, definizioni e classificazioni appartengono al contesto socio-culturale di
un dato momento storico, e sono collegate alle ricerche in atto in tutti i settori, dalle neuroscienze
alle tecnologie, sono soggette a cambiamenti e a “ripensamenti”, perciò non sono codificate una
volta per tutte.
L’OMS, di recente, (novembre 2001), ha pubblicato una nuova Classificazione del Funzionamento,
delle Disabilità e della Salute (International Classification of Functioning, Disability and Health ICF) che è stata riconosciuta da 191 paesi tra i quali anche l'ltalia.
Con questa pubblicazione si è proposta il perseguimento dei seguenti obiettivi:
1. fornire una base scientifica per la comprensione e 1o studio della salute
2. fissare un linguaggio comune per precisare le componenti della salute nonché
favorire e migliorare la comunicazione tra esperti ed utenti;
3. permettere, a livello mondiale, confronti di dati ed esperienze
4. fornire sugli stati di salute un sistema organico di codificazione agli organismi di diffusione
delle informazioni.
Questo documento introduce una novità rilevante nel modo di osservare e classificare le disabilità
basate più sull'analisi della vita delle persone e sulle “modalità con cui esse si trovano a convivere
con le loro patologie e cercano di migliorare le proprie condizioni di vita in vista di un'esistenza
produttiva e arricchente",12 piuttosto che sui tassi di mortalità della popolazione.
Esso pone tutte le malattie sullo stesso piano, a prescindere dalle cause, dai disturbi mentali alle
patologie fisiche, per proporre un linguaggio uniforme e un quadro “all'interno del quale descrivere
la salute e gli ambiti ad essa connessi, come l'educazione e il lavoro".
Non più dunque una classificazione basata sulle “conseguenze delle malattie” (menomazioni,
disabilità ed handicap), formulata sulle “mancanze”, difficoltà, ecc., in senso negativo e riduttivo,
ma la rassegna delle “componenti della salute” volte a rilevare esperienze e situazioni in positivo
sulle attività svolte e sui livelli di partecipazione alla vita di tutti i giorni.
Persona dunque, vista come individuo ed essere sociale, su cui s’incentra:
-sia la verifica del funzionamento organico ed anatomico e delle funzioni, anche mentali e
psicologiche, e loro adeguatezza e completezza
-sia l’attenzione sulle attività pratiche svolte e i livelli di partecipazione.
Tale ottica dovrebbe cambiare in senso migliorativo tutte le politiche socio-sanitarie e riabilitative
elaborate in difesa dei diritti di persone in difficoltà.
Le due parti in cui è suddivusa la ICF sono:
Parte Prima: Funzionamento e Disabilità
Una prima sezione volta alla verifica del funzionamento organico/anatomico
Una seconda volta alle attività pratiche e ai livelli di partecipazione sperimentati, di seguito indicati:
Attività:
• di apprendimento e di applicazione delle conoscenze;
• comunicative
• motorie
• relative agli spostamenti nell’ambiente
• relative alla cura della propria persona
12
Comunicato stampa WHO,2001a,pag.1
•
•
•
di vita quotidiana
interpersonali
di svolgimento di compiti e prestazioni fondamentali
Ambiti della partecipazione
• alle cure personali
• nella mobilità
• allo scambio di informazioni
• alla vita domestica e e assistenza
• all’istruzione
• al lavoro
• alla vita economica
• alla vita sociale e di comunità.
Parte Seconda: Fattori Contestuali
Una prima sezione si occupa dei fattori contestuali quali le caratteristiche, fisiche e sociali,
dell’ambiente di vita del soggetto;
una seconda sezione dei fattori personali quali: sesso, razza, età, stili di vita, abitudini, stili di
coping di riferimento, background sociale, educativo e professionale, eventi di vita significativi che
hanno influenzato o influenzano la sua vita.
Questi devono essere tenuti presenti per l’impatto che hanno sulle condizioni di vita e risultati degli
interventi stessi.
L’interazione di tutte queste componenti: funzioni e strutture del corpo, attività, partecipazione,
caratterizza dunque la condizione di salute dell’individuo, e tutte devono essere tenute presenti nel
predisporre le necessarie cure ed opportune provvisioni adeguate alle sue difficoltà (disturbi /
malattie).
_________________________________________________________________
Alcune indicazioni per costruire una mappa concettuale
Sui propri Saperi naturali intorno a
“handicap” (psicologia/riabilitazione)1
1-Attivare un “brain storming” personale (scrivendo velocemente su di un foglio)
tutto ciò che viene in mente rispetto all’handicap, senza censure, parole-concetto
(20/30 concetti circa).
2-Rileggere e aggiungere per colmare lacune o togliere i concetti meno pertinenti;
controllare di aver espresso i concetti chiave, que1li rilevanti per il tema richiesto.
3-Cominciare ad organizzare la propria mappa gerarchicamente partendo dai concetti
più generali e più inclusivi, NODI portanti, ai concetti meno generali e più specifici,
che formeranno la rete.
4-Le linee tra un nodo e l’altro rappresentano le “connessioni” tra un concetto e
l’altro e possono avere una direzionalità
servono per indicare, ad esempio, da quale concetto ne deriva un altro.
5- Si possono anche aggiungere alcune brevi parole di congiunzione (sono, e, dove,
il, con, poi per, in… parole legame) lungo le frecce per chiarire le connessioni.
6-Tener presente che:
-i nomi propri non sono parole-concetto
-la maggior parte delle prime mappe risulteranno poco simmetriche, nel senso che ci
saranno gruppi di concetti molto ricchi di particolari e altri più poveri.
-potrete anche ridisegnare la mappa se questo vi sembra utile per avere un'idea più
precisa e più organizzata; di solito la prima nasce un po’ confusa e poco
equilibrata…la rete nasce via via che si fa…
-le mappe possono avere forme varie, tutte valide: concentriche a grappolo, lineari…
Si allegano alcuni esempi fatti da corsisti della SSIS per altri insegnamenti.
1 13
J.D.NOVAK, D.B.GOWIN, Imparando a imparare, SEI,Torino,1989
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