Paul Ricoeur tra Husserl e Freud

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Paul Ricoeur tra Husserl e Freud
di Simona Viccaro
Il mio intervento verterà su alcuni momenti della produzione filosofica di Ricoeur precedente il
saggio di cui ci stiamo occupando nel corso (1965). Due sono i punti che vorrei mettere in
evidenza:
1 L’interpretazione della psicoanalisi freudiana rappresenta in modo esemplare un carattere che è
costitutivo del pensiero di Ricoeur sin dal suo “esordio” fenomenologico o, più precisamente,
fenomenologico-esistenziale: si tratta per l’autore di insistere sulla necessità di tenere insieme
filosofia e non-filosofia e di fare di questa necessità l’indicazione del metodo filosofico. Ci
troviamo con Ricoeur all’interno di un pensiero che ha teorizzato questa necessità: “se si rompe
questo legame vitale”, scrive in un saggio dedicato a Kierkegaard, “la filosofia corre il rischio di
non essere più di un semplice gioco di parole o un puro nichilismo linguistico”1.
2 Il ruolo che la fenomenologia husserliana ricopre nella genesi del pensiero di Ricoeur, tema al
quale si è più volta accennato e che ora cercherò di inquadrare meglio.
Sebbene sia stato l’incontro con due personaggi del panorama filosofico francese degli anni ’30 ad
influire in misura forse maggiore sulla sua formazione filosofica (mi riferisco a Gabriel Marcel,
collocabile all’interno di un certo esistenzialismo caratterizzato da una forte ispirazione religiosa, e
a Emmanuel Mounier, padre del personalismo con cui Ricoeur entra in contatto nel ‘34-35 mentre
si trova a Parigi come studente), Husserl è, in un certo senso, insieme a Freud l’altro grande
protagonista del pensiero di Ricoeur l’altro grande maestro con cui Ricoeur stesso dirà che “è
necessario tornare a fare i conti”. Esiste inoltre tra questi due poli un legame così stretto che è
possibile interpretare l’interesse di Ricoeur per la psicoanalisi come il punto di approdo di quella
che si può definire, forse impropriamente, come la sua “fuga dalla fenomenologia husserliana”.
Ciò che deve attrarre il nostro interesse nel momento in cui ci occupiamo qui della fase preermeneutica di Ricoeur, fase in cui le premesse di una nascente filosofia della interpretazione si
pongono proprio a partire dalla sua diretta derivazione dalla fenomenologia di Husserl, è una
“particolare situazione” per cui il modo in cui Ricoeur pensa la fenomenologia prima, la applica
come metodo, e ne diventa poi critico, prefigura una concettualità che è già molto vicina a quella
freudiana, nonostante il giovane Ricoeur sia un critico dell’inconscio. Ecco dunque come tutto ciò
ci restituisce un quadro più ampio in cui l’interpretazione di Freud si colloca, e mostra come questa
relazione, quella tra l’interprete e l’oggetto dell’interpretazione, non sia per nulla frutto di un
interesse casuale e isolabile, ma al contrario si radichi a tal punto all’interno del pensiero di Ricoeur
da essere già preparata molti anni prima del saggio su Freud che dunque, in questa prospettiva,
rappresenta l’eredità di un “discorso sull’uomo” che va delineandosi tra gli anni ’30 e ‘50.
Freud continuerà ad agire anche moto oltre gli anni ’60; non parleremo di questo, ma si tenga
presente che la questione della narrazione e dell’identità che si costruisce all’interno di una
narrazione, tema al quale Ricoeur lavorerà durante gli anni ‘80 e che prenderà corpo in quell’opera
1 P. Ricoeur, Philosopher après Kierkegaard, in Lectures 2. La contrée des philosophes, Seuil, Paris, 1992, tr. it. di I.
Bertoletti, Kierkegaard. La filosofia e l’ “eccezione”, Morcelliana, Brescia, 1995, p. 65.
1 monumentale che è Tempo e racconto, contiene una serie di riferimenti molto importanti alla
psicoanalisi. Ad interessare Ricoeur in questo momento della sua produzione sarà però la
psicoanalisi come pratica analitica, intesa come quel grande laboratorio in cui si costruisce un
racconto, il racconto dell’analizzato, piuttosto che la struttura epistemologico-teorica del discorso
freudiano.
L’opera che ci interessa si intitola Il volontario e l’involontario2. Viene pubblicata nel 1950 come
prima parte di un vasto progetto che rimane poi incompiuto, quello cioè di una “filosofia della
volontà”. Il progetto iniziale nasceva dall’idea di svolgere una riflessione sul tema privilegiato della
fenomenologia, il soggetto intenzionale, colto nella dimensione pratica della volontà. Ricoeur
pensava ad una struttura tripartita che da una “eidetica della volontà”, cioè dal momento
specificatamente fenomenologico-descrittivo, sarebbe passata ad una “empirica”, in cui la
fenomenologia pura è abbandonata in favore di una riflessione sulle manifestazioni empiriche della
volontà, e cioè i simboli ( si noti come qui nasce l’interesse ricoeuriano per il simbolo inteso come
elemento non-filosofico, perché pre-filosofico, che rimane però privo di senso se la riflessione
filosofica non si occupa di esplicitarlo). In fine, la terza parte che Ricoeur non scriverà mai, la
“poetica”, avrebbe dovuto considerare la volontà umana ad un livello ontologico-esistenziale in
relazione alla “trascendenza” e alla “colpa”, temi che nella prima parte di cui ci occupiamo, sono
esplicitamente “messi tra parentesi” .
La scelta del tema della volontà si intreccia con una vicenda drammatica della vita di Ricoeur: si
tratta della prigionia in Pomerania degli anni 1940-1945 durante i quali egli legge intensamente la
Philosophie di Jaspers e insieme inizia a tradurre dal tedesco Idee I di Husserl (con questa e con
altre opere husserliane Ricoeur era già entrato in contatto negli anni ’30). La traduzione francese
completa, preceduta da un’importante prefazione, verrà pubblicata nel 1950 insieme a Il volontario
e l’involontario: la genesi della prima ed unica opera fenomenologica è dunque contemporanea al
lavoro di traduzione del testo husserliano.
Perché la volontà? A muovere Ricoeur in direzione di questo tema è una doppia esigenza: da un lato
quella di allargare alla sfera dei vissuti affettivi e volitivi le analisi eidetiche che Husserl aveva
limitato al campo della percezione, della rappresentazione e in generale alle strutture di senso
attraverso cui si esplica la conoscenza, e insieme fornire una “controparte pratica” alle analisi di
Merleau-Ponty che nel 1945 pubblica Fenomenologia della percezione.
Ecco come la fenomenologia appariva al giovane Ricoeur : in un breve saggio intitolato
Husserl(1859-1938), scrive: “la fenomenologia è la somma dell’opera husserliana e delle eresie
generate da Husserl”3. È secondo Ricoeur la stessa natura del metodo husserliano, e cioè il fatto
stesso che la fenomenologia sia innanzitutto un metodo, a permettere la molteplice e progressiva
variazione dei temi di applicazione. Tuttavia, sebbene Ricoeur si collochi tra gli eretici della
fenomenologia insieme, per citare due soli nomi, a Merleau-Ponty e a Levinas, l’operazione di
fuoriuscita dall’orizzonte fenomenologico, viene compiuta senza abbandonare la struttura dello
stile husserliano: da un lato si assiste ad un ampliamento originale del campo tematico cui la
fenomenologia si applica, il vissuto del volere nelle sue articolazioni volontarie e involontarie,
dall’altro la scelta di fare dell’analisi dell’”involontario” parte costitutiva dell’indagine, colloca
2 P. Ricoeur, Philosopie de la volonté - Le volontaire et l’involontaire, Aubier -Montaigne, Paris, 1950, tr. it di Marco
Bonnato, Filosofia della volontà- Il volontario e l’involontario, Marietti, Genova, 1990. 3 P. Ricoeur, Husserl (1859-1938), in A l’école de la phénoménologie, Vrin, Paris, 1986, p. 9. 2 questo esperimento fenomenologico su di un terreno cui appartengono una serie di questioni che lo
stesso Husserl aveva incontrato. Si tratta in generale di seguire la descrizione pura radicalizzando
quella difficoltà che è propria della ricerca fenomenologica, nel momento in cui scopre una
coscienza che ha la duplice natura di attività spontanea e, insieme, di passività ricettiva. Quello che
rappresentava un elemento portante del discorso fenomenologico, diviene per Ricoeur un problema:
la trasformazione della fenomenologia, piuttosto che il suo definitivo oltrepassamento, coincide con
la radicalizzazione di questioni interne al suo stesso orizzonte.
L’opera è molto vasta, faremo dei salti per mettere in luce i punti che ci interessano.
Nell’introduzione generale, intitolata “Questioni di metodo”, Ricoeur scrive che il suo intento è
quello di operare una “descrizione” delle strutture del volontario e dell’involontario, ovvero delle
“possibilità fondamentali dell’uomo”. Il “descrivere”, chiarisce, è cosa diversa dallo “spiegare”, e
cioè di quel procedere proprio delle scienze positive che si occupa di ridurre il complesso al
semplice. La peculiarità della descrizione risiede nel fatto che essa è capace di individuare “le
relazioni” e dunque in questo caso ciò che emerge dalla descrizione di quell’esperienza pratica del
soggetto che è la volontà, è sempre la reciprocità di volontario e involontario, il rinvio necessario
dell’uno a all’altro, l’impossibilità cioè che ciascun momento risulti intellegibile di per sé. Se da un
lato l’involontario ha un senso solo come l’altro della volontà, di cui è però reciproco e non alterità
assoluta, il volere si configura come un riferirsi costante ad una necessità non riducibile al suo
dominio. In questo senso il “descrivere” corrisponde al “comprendere”; comprendiamo veramente
qualcosa solo quando riusciamo, attraverso la descrizione, a considerare non l’oggetto di per sé ma
bensì la su relazione ad altri oggetti coinvolti nella comprensione e, insieme, al soggetto che
comprende, rispetto al quale questi oggetti non si trovano in una relazione semplicemente causale.
È secondo Ricoeur la comprensione della reciprocità di questi due momenti della vita pratica della
coscienza l’unico procedimento filosoficamente valido per porsi sulla via della “riconquista del
soggetto” dall’ingabbiamento in cui lo tiene l’atteggiamento naturalistico delle scienze; una tale
riconquista deve essere però “totale”, “integrale” e oggetto della riflessione filosofica deve divenire
un’ esperienza che include “l’io desidero, l’io posso, l’io vivo e in generale l’esistenza come
corpo”.
La ricerca che si delinea in queste pagine introduttive ci si presenta dunque come rivolta non ad una
volontà astratta, pura, ma piuttosto ad un soggetto che è già sempre situato in un corpo e che, ancora
più radicalmente, non può autodeterminarsi in un atto di volontà senza riferirsi ad esso come alla
sorgente più autentica di tutti i suoi atti. Qui la precisazione circa il modo di intendere il corpo è
essenziale: si tratta non di quel “corpo-oggetto” diagnosticato dalla psicologia empirica come una
oggettività tra le altre, come strumento che “io ho “ a mia disposizione, bensì di un “corposoggetto”, del corpo che “io sono”, del corpo come radicamento necessario dell’intenzionalità che è
inoltre singolare e insostituibile. Che in questa nozione di corpo-soggetto vi sia un chiaro
riferimento a quella husserliana di “corpo-proprio”, è evidente. Nella quinta delle sue Meditazioni
Cartesiane Husserl distingue il Leib, definito qui come “il mio corpo nella sua peculiarità unica”,
che ha dunque la peculiarità di essere eigen (proprio), perchè incluso all’interno della “natura
appartentiva”, dal Körper 4, il corpo fisico che risponde alla misurazione di certe quantità. La
frattura che separa il metodo di analisi fenomenologico da quello della psicologia empirica è per
4 E. Husserl, Cartesianische Meditationen und Pariser Vorträge, a cura di S. Strasser, Husserliana, vol. I, Nijhoff, Den
Haag. 1950, tr. It di Filippo Costa Meditazioni cartesiane con l’aggiunta dei Discorsi Parigini, Bompiani, Milano,
1960, v edizione 2009, p. 119. 3 Ricoeur radicale: laddove quest’ultima procede verso una riduzione che degrada gli “atti, con la
loro intenzionalità ed il loro riferimento ad un ego, a semplici fatti osservabili”, la filosofia opera in
direzione esattamente inversa, in quanto il riferimento alla radice soggettiva è proprio ciò che essa
si propone di recuperare. Le premesse ricoeuriane mostrano fino a questo punto un impianto
fenomenologico molto ben visibile: che Ricoeur avesse letto e fatto proprio il tema husserliano
della crisi delle scienze positive, intesa come la perdita del senso che queste ultime hanno per la vita
dell’umanità, perdita che si mostra proprio in quella tendenza all’ “obbiettivismo fisicalistico” cui si
oppone il “soggettivismo trascendentale”, motivo proprio della filosofia fenomenologica, è chiaro.
Ma notiamo come questo riferimento si accompagna alla critica molto forte che subito dopo
Ricoeur muove ad Husserl, e vediamo che questo accade proprio in riferimento al tema del corpo.
La fenomenologia del corpo proprio rappresenta agli occhi di Ricoeur una condizione necessaria ma
non sufficiente. Nella prospettiva ricoeuriana questo accade in quanto con la riduzione
trascendentale la fenomenologia procederebbe in direzione di una sorta di “disincarnazione ideale”
del soggetto che, attraverso la sospensione del mondo, verrebbe a produrre una sospensione del
corpo stesso, che del mondo non è altro che un prolungamento: “L’atteggiamento trascendentale
istituito dalla riduzione trascendentale e l’atteggiamento naturale hanno in comune la stessa
eliminazione della presenza in qualche modo autoaffermante della mia esistenza corporea”.
Questa critica alla riduzione trascendentale è in realtà parte della critica più ampia che Ricoeur
muove alla fenomenologia o, meglio, alla sua interpretazione nei termini di idealismo, che è
spiegata molto chiaramente in un saggio correlato ed esplicativo al testo di cui ci stiamo
occupando5. Qui si dice esplicitamente che l’applicazione del metodo descrittivo proprio della
fenomenologia ai vissuti affettivi e volitivi, sebbene sia inizialmente fecondo, e dunque di esso sia
necessario fare un uso rigoroso, in un secondo momento deve essere abbandonato perché portatore
di quello che Ricoeur definisce un “pregiudizio logicista”. Mantenendo il primato della
rappresentazione come modello indiscusso di tutta la vita della coscienza, Husserl avrebbe ridotto
alla “rappresentazione neutra dell’io penso”, e cioè alla sola funzione logico-teoretica, tutte le altre
modalità esplicative della coscienza, tra le quali appunto il volere ed il desiderare. Il limite di questo
modello emerge secondo Ricoeur proprio nel momento in cui lo si applica alla volontà: è la natura
propria di questo particolare oggetto d’indagine a non essere riconducibile ad una tale forma neutra,
essendo piuttosto ciò che la spezza e la singolarizza. La fenomenologia risulta a questo punto, nella
visione di Ricoeur che ne mostra tutta la forza ma anche i limiti, un pensiero che “pone davanti a
sé”, secondo appunto il modello rappresentativo, piuttosto che “partecipare” di quella
indeterminatezza ineliminabile e propria della vita affettiva. Ecco che Ricoeur fenomenologo e
critico della fenomenologia delinea un modo di pensare la vita della coscienza (pratica ma anche
teoretica, proprio perchè si tratta di coglierla nell’unità e nella reciprocità delle parti piuttosto che
nella separazione), che si sottrae ad ogni operazione di rischiaramento totale. La riflessione dovrà a
questo punto farsi esistenziale e completare la fenomenologia del “corpo-proprio”, nel momento in
cui scopre che il vivere unitamente al corpo comporta un grado di “opacità”, scrive Ricoeur
utilizzando i termini della filosofia di Marcel, che non può essere ridotto ad un “problema” da
risolvere analiticamente, ma che va piuttosto accolto, come si accoglie un “mistero”: “partecipare al
mistero dell’esistenza incarnata” laddove, si noti, il corpo è divenuto carne, “significa fare proprio il
ritmo interno di un dramma”. Ecco che, proprio nel momento in cui ci troviamo nel cuore della
critica ad Husserl, la riflessione ricoeuriana sembra prefigurare un possibile avvicinamento a Freud
5 P. Ricoeur, Méthode et Tâches d’une phenomenologie de la volonté, in A l’école de la phénomenologie, cit. pp. 65-92. 4 (con avvicinamento intendo che il problema di Ricoeur è, in un certo senso, il problema di Freud) .
Se cioè si può riassumere quello freudiano come un tentativo di ricondurre l’attività dell’io alla sua
radice pulsionale, e dunque anche corporea, radice che riporta ad una dimensione in cui il conflitto
tra le istanze psichiche è originario e mai definitivamente risolvibile, possiamo dire che a muovere
Ricoeur sia la medesima tensione, che assume però la forma della necessità filosofica, di guardare
alla dimensione conflittuale costitutiva dell’uomo senza tentarne una pacificazione semplicistica e
riduttiva. Un elemento freudiano sembra inoltre tornare nel modo in cui Ricoeur procede e disegna
lo schema di quest’opera: parlare della “decisione” come prima espressione della volontà libera
significa ritornare al corpo come prima e più autentica fonte dei motivi che ispirano questa
decisione, così come a contaminare l’azione in cui la decisione si attua, è la forza dell’ “abitudine”;
infine, quello che Ricoeur definisce il “consentire”, e cioè l’esercizio della volontà portato al suo
massimo grado, significa nient’altro che affermare, assegnare validità che sia frutto di un
riconoscimento libero e razionale all’”involontario assoluto” nelle sue tre forme (il “carattere”
inteso come struttura della persona, l’ “inconscio” e la “vita”).
Se da queste considerazioni metodologiche generali, in cui però si condensa il senso essenziale del
testo, ci spostiamo alla parte relativa all’ “involontario assoluto”, ci accorgiamo che l’incontro con
Freud soltanto prefigurato, si fa invece concreto e assume la forma di un dialogo critico proprio con
la nozione di inconscio. Con l’involontario assoluto ci troviamo ad un livello della vita della
coscienza del quale è possibile fornire solamente una “comprensione-limite” e all’inconscio, che
rappresenta l’estremo margine di questo limite, la riflessione accede con molta difficoltà in quanto
il tragico rapporto della volontà con ciò che la necessita, è qui non solo immutabile e non scelto, ma
anche celato, nascosto. Vediamo come l’operazione che Ricoeur compie nei confronti della nozione
di inconscio è molto interessante, perché anticipa alcuni tratti che saranno propri della
interpretazione del ’65, sebbene qui l’inconscio non sia propriamente l’oggetto di indagine. Nelle
pagine de Il volontario e l’involontario, Ricoeur procede ad un rigoroso distanziamento
dall’inconscio, ma, si noti, dall’inconscio inteso nel suo significato esclusivamente naturalisticodeterministico: il dominio dello psicoanalista riguarda ciò che riduce l’uomo a “macchinale
patologico”, lo stravolgimento del normale equilibrio attraverso la ripetizione del sintomo in forma
di automatismo. È questo significato dell’inconscio, significato che pure corrisponde a quello che
Freud stesso pensava, a fare della psicoanalisi la portatrice di una “pericolosa filosofia dell’essere”:
se cioè si considera l’inconscio come una sorta di altro soggetto all’interno del soggetto, se lo si
“sostantivizza” rendendolo il principio assoluto e costitutivo di ogni atto soggettivo, se in altre
parole l’inconscio si riduce alla mera “causa” di cui la coscienza sarebbe semplicemente “effetto”,
la relazione tra coscienza e inconscio è perduta, e il senso autentico del metodo psicoanalitico
completamente pervertito. Scrive Ricoeur: “Il fattore decisivo della cura è la reintegrazione del
ricordo traumatico nel campo di coscienza. È questo il cuore della psicoanalisi; che lungi dall’essere
una negazione della coscienza, è al contrario un mezzo per estendere il campo di coscienza di una
volontà possibile mediante dissoluzione delle contratture affettive. Essa guarisce mediante una
vittoria della memoria sull’inconscio”.
Che si sia d’accordo o meno con questo utilizzo che Ricoeur fa dell’inconscio freudiano, che esso
non sia esente da forzature filosofiche, è evidente. Sebbene Freud ci si presenti già in questo
momento piuttosto che come teorico dell’irrazionalità, come quel teorico della ragione e degli
strumenti che essa può e deve utilizzare per esplorare e vincere l’irrazionale (tratto peculiare
dell’interpretazione del ’65), è altrettanto vero che Ricoeur si muove in direzione di una sorta di
filosoficizzazione dell’inconscio, e in questa operazione sembra tornare nuovamente la matrice
5 husserliana del suo pensiero. Ciò che interessa a Ricoeur è la riduzione della portata negativa
dell’inconscio, operazione che in definitiva coincide con la riduzione della sua natura extracosciente: per essere funzionale ad una teoria della volontà umana, esso non potrà più essere la
freudiana “lacuna” che spezza l’unità del vivere cosciente, ma sarà piuttosto, scrive Ricoeur, “la
materia affettiva che riempie e struttura la “forma intenzionale” cui offre una infinita possibilità di
mettersi in questione e di dare a se stessa senso e forma”. Se è soltanto questo il significato
dell’inconscio che può e deve essere mantenuto, ciò accade perché in Ricoeur agisce una
preoccupazione etica, sebbene non si tratti qui di un discorso direttamente etico, che prende la
forma di un’attenzione rivolta alla responsabilità dell’uomo nei confronti della propria libertà e che
l’interpretazione del freudismo in termini esclusivamente deterministici metterebbe totalmente fuori
gioco. La fenomenologia della volontà delinea quindi i tratti di una soggettività in cui la libertà del
volere diviene la sola condizione a partire da cui è possibile riconoscere un esser già da sempre
necessitato di questa libertà. Se, come scrive Ricoeur, “ogni potere è intriso di impotenza” è vero
altresì e forse in misura maggiore che “soltanto colui che esercita un potere sembra riconoscerne i
limiti”.
Un accenno breve a ciò che accade nel secondo volume dell’opera che stiamo considerando,
intitolato L’uomo fallibile (1960), ci aiuta a capire meglio, in quanto ci presenta nei termini ben
definiti di un’ antropologia, la concezione del soggetto che alla fine de Il volontario e l’involontario
è soltanto intravista. L’intenzione di Ricoeur è qui quella di costruire un’ antropologia sul concetto
di “fallibilità” che si lega a sua volta al concetto di “sproporzione”, di cui già Cartesio aveva parlato
in riferimento alle facoltà umane, ma che viene tradotto dal nostro autore in termini di fragilità
esistenziale. La sproporzione è quella condizione esistenziale in cui all’uomo è rivelata
l’impossibilità di coincidere pienamente con se stesso: egli è “destinato alla razionalità illimitata,
alla totalità e alla beatitudine, nella stessa misura in cui è limitato nella prospettiva, in balìa della
morte, legato al desiderio”. Qual è in questo contesto il ruolo della riflessione? Secondo Ricoeur
essa dovrà occuparsi di esplicitare la sproporzone, che il simbolo dice meglio del concetto, evitando
da una parte di ridurla, dall’altra di soccombervi. Se infatti il soggetto ricoeuriano è questa sintesi
sempre perseguita, ma mai definitivamente raggiunta, tra la finitezza del proprio sentire, conoscere,
desiderare, e l’esigenza della dimensione “infinita” della felicità, l’unico esercizio possibile resta
quello di una filosofia dell’uomo, laddove però l’uomo pronuncia comunque “la gioia del sì nella
tristezza del finito”, realizzando così il supremo atto di libertà, di una libertà critica e disillusa, che è
in definitiva l’unica libertà possibile.
In conclusione si dirà che, collocando il soggetto di Ricoeur “tra” fenomenologia e psicoanalisi,
emerge come esso non sia né teoria dell’ego puro, né teoria della psiche, ma piuttosto discorso
sull’uomo che non può però porsi come tale senza passare attraverso la lezione e di Husserl e di
Freud, sebbene questo passaggio comprenda un andare “contro e oltre” l’uno e l’altro.
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