Introduzione La questione inerente il rapporto tra musica e testo è sempre stata molto dibattuta e continua ad esserlo tuttora. La sua difficoltà è legata al fatto che secondo molti studiosi un testo nato per essere musicato spesso non possiede il valore di un testo poetico non destinato ad essere accompagnato dalle note. La controversia riguardante la relazione tra suono e parola, tra musica e poesia, si è riaccesa in questi ultimi anni, quando alcuni esperti hanno affermato che grandi musicisti come Fabrizio De Andrè o Bob Dylan potrebbero essere considerati i poeti del nostro tempo. L'idea della presente tesi è nata proprio da considerazioni di questo tipo, dal desiderio di analizzare più a fondo tale rapporto così spinoso e problematico. Il genere musicale scelto, quello della canzone, occupa un ruolo particolare in tale contesto: essa già nel Duecento si prestava ad essere musicata, nonostante la trascrizione delle musiche fosse un evento davvero raro. Tale interesse per il rapporto tra un testo e la sua musica è documentato anche dal passo della Divina Commedia in cui Casella canta versi danteschi: E io:" Se nuova legge non ti toglie Memoria o uso all'amoroso canto, che mi solea quetar tutte mie voglie, di ciò ti piaccia consolare alquanto l'anima mia, che, con la mia persona, venendo qui, è affannata tanto!" Amor che nella mente mi ragiona cominciò elli allor si dolcemente, che la dolcezza ancor dentro mi sona. Lo mio maestro e io e quella gente ch'eran con lui, parevan si contenti, come a nessun toccasse altro la mente. Noi eravamo tutti fissi e attenti alle sue note […] (Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, II, 106-119) Ma già prima di allora, fin dai tempi dell'antica Grecia, musica e testo erano due elementi assolutamente indissolubili, strettamente 1 interdipendenti l'uno dall'altro; un brano nasceva per essere accompagnato dalle note, poesia e canto si equivalevano. Nei secoli tale legame si è indebolito notevolmente, l'arte musicale e quella poetica si sono spesso sviluppate in direzioni completamente diverse e hanno dunque avuto modo di allontanarsi sempre più l'una dall'altra; nonostante questo il filo che le tiene legate non si è mai spezzato del tutto e ce lo dimostra il fatto che, anche recentemente, si è assistito a interessantissime collaborazioni tra poeti e musicisti che riescono spontaneamente ad esprimersi in un perfetto connubio di suono e parola. Tale connubio ha da sempre affascinato anche un gruppo musicale che, a mio parere, è tra gli esempi più interessanti del panorama musicale italiano, i Timoria. E' difficile sintetizzare in poche parole le motivazioni che mi hanno spinto a scegliere i Timoria e non un altro gruppo o cantautore appartenente al panorama musicale nazionale. Ciò che so dire con certezza è che, in una canzone d'autore, la compresenza di un testo e di una musica di alta qualità sia indispensabile e che, nel caso specifico dei Timoria, la stretta relazione tra suono e parola sia sempre stata una componente centrale ed indispensabile della loro musica. I Timoria, band bresciana nata nel 1985, ha alle spalle una produzione musicale veramente considerevole, incentrata sull'idea della contaminazione tra le arti; per questa ragione i loro testi sono spesso il risultato di una serie di esperienze e di collaborazioni "interdisciplinari" . In essi sono frequenti riferimenti di diverso genere, a partire da quelli letterari, pittorici e cinematografici, sino ad arrivare a quelli musicali e strettamente poetici. Se consideriamo che la musica, come ogni altro strumento di comunicazione di massa, influenza costantemente quelle che sono le opinioni ed in certi casi le scelte del pubblico, ci renderemo immediatamente conto che, quando attraverso di essa l'artista esprime preferenze poetiche, letterarie o di qualsiasi genere esse siano, questo non potrebbe far altro che nobilitarne ulteriormente la funzione. E' in questo modo che la musica assume delle connotazioni altamente pedagogiche e non si limita più ad esprimere una determinata posizione, uno stato d'animo, un suggerimento ma trasmette la necessità e la curiosità naturale di ampliare quelli che sono i confini della propria conoscenza. Se una canzone, con i suoi contenuti impliciti ed espliciti, spinge l'ascoltatore a riempire, attraverso l'approfondimento e 2 l'informazione quei vuoti che, se non colmati, non permetterebbero di comprenderla realmente a fondo, a quel punto la sua funzione è divenuta educativa. La musica dei Timoria è decisamente stimolante in questo senso, densa com'è di nessi precisi soprattutto con la letteratura e la poesia (basti pensare alle citazioni da Hermann Hesse, Dostoevskij, Neruda, Ferlinghetti, Gom, Victor Hugo e tantissimi altri), ma anche con la musica, l'arte, il cinema (pensiamo ai riferimenti a Freddie Mercury, a Jim Morrison, a Vincent Gallo, così come ai grandi virtuosi del jazz; oppure ancora a Kandiskij, a Lodola, a Tognazzi, a Jodorowskij e così via). Un rapporto, quello tra musica e testo, molto significativo quindi, in quanto le parole non fungono da semplice "ornamento" della musica, ma al contrario possiedono una loro ricchezza che, abbinata alla grandezza del suono, viene sicuramente impreziosita. E' una relazione in cui diverrebbe impossibile stabilire una presunta supremazia del suono sulla parola o viceversa, perché entrambi, anche se per vie completamente diverse, contribuiscono all'esternazione di un pensiero. Certo, i Timoria non sono gli unici ad inserire il loro personale gusto artistico all'interno delle loro canzoni, né sono i primi a riferirsi alla tradizione letteraria. Numerosissimi cantautori prima di loro hanno seguito lo stesso percorso, e con successo (ricordiamo, tra i tanti, grandi artisti italiani come De Andrè, Guccini, De Gregori e Vecchioni); però è anche vero che, nonostante questi ultimi siano stati un esempio per la generazione precedente alla mia e continuino ad esserlo ancora oggi, sarebbe interessante assistere al rinnovamento di questo gusto letterario ed artistico in generale, anche da parte di artisti più giovani. I Timoria forse oggi sono tra i pochi che procedono in tale direzione, che cercano con impegno di percorrere la strada della canzone d'autore, non basata su stereotipi e luoghi comuni, né indirizzata al soddisfacimento delle esigenze più prettamente commerciali, ma al contrario una canzone originale ed indipendente da qualsiasi "cultura di massa" e sempre più preoccupata ed anzi spaventata dall'omologazione di gusti e pensieri. Dopo aver introdotto una breve biografia del gruppo ho individuato quattro filoni tematici e per ciascuno di essi sono state selezionate alcune tra le canzoni più significative. Il primo argomento trattato è quello del rapporto tra le diverse generazioni, inteso sia nei suoi aspetti più critici e problematici che 3 in quelli più intimi e personali; segue la questione delle contaminazioni artistiche, nei confronti della quale i Timoria si sono sempre mostrati particolarmente sensibili. La terza tematica analizzata è quella del viaggio filosofico e spirituale, considerato quindi nella sua diversità dai viaggi geografici, materiali, spesso privi di un obiettivo più profondo. L’ultimo filone individuato è invece quello inerente la critica al virtuale, potentissimo strumento in grado sia di costruire che di distruggere. All’analisi dei contenuti di ogni singola canzone seguono i suoi spartiti, in modo da poter meglio evidenziare la relazione esistente tra il testo e la sua musica. 4 1) La canzone profana medievale 1.1 Le origini della canzone Le origini della canzone, forma poetica letteraria di derivazione provenzale poi diffusasi anche in Italia, risalgono alla prima metà del XII secolo quando, in un sirventese1 datato 1147, il troubadour Marcabrun firma la sua opera, specificando nel suo testo che fu egli stesso che ne fece le mots et le son. Egli usa il termine son nel senso che gli attribuiranno più tardi tanto gli Inglesi (song) che i Tedeschi (Ton), precisando così che, nonostante la sua musica sia legata all'espressione verbale, essa deriverebbe comunque da un principio melodico assolutamente indipendente, che le consente di pretendere una vita propria. E' in questo che, in tale periodo, il son si contrappone al cantus il quale, privato del testo, non è altro che un susseguirsi di intervalli dotati di un loro senso simbolico solo se messi in relazione con il testo liturgico principale. Queste caratteristiche verranno raccolte in un unico genere ricco e promettente, la chanson, che eserciterà una certa attrazione su parecchie generazioni di poeti e musicisti2. In un primo tempo la chanson, diffusa da troubadours e trouvères, sarà monodica, ma ben presto si aprirà ai tentativi polifonici della Francia settentrionale e si adatterà facilmente alle nuove tecniche, inserendosi così alla perfezione nell'ambito di tutte le culture musicali europee, le quali verranno da essa influenzate ma dalle quali, a sua volta, la chanson trarrà elementi molto originali. In realtà i trovatori ed i trovieri, che furono in assoluto i primi poetimusicisti in volgare, non erano altro che nobili che per diletto componevano e poetavano al modo dei menestrelli, anche se comunque essi sapevano scrivere la musica ed erano quindi musicisti colti; furono loro a dar vita al genere poetico 1 Forma poetica originaria della Provenza il cui termine deriva dal fatto che i primi componimenti di questo genere furono poemetti che un servitore (sirven) cantava in omaggio al proprio signore. In seguito i contenuti del sirventes furono di carattere politico, storico, morale, religioso o amoroso. (A.Basso, a cura, D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985) 2 A. Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985. 5 rispettivamente della canço e della chanson e le loro canzoni circolarono proprio grazie a giullari e menestrelli, nonché in codici manoscritti più volte ricopiati. Mentre l'attività dei trovatori fiorì in Provenza tra la fine del 1000 e il 1250, i trovieri operarono nella Francia del Nord tra la fine del XII e la fine del XIII secolo; la lingua utilizzata dai primi era quella d'oc, mentre i trovieri si esprimevano in lingua oil (oc e oil erano i due termini per dire "sì"). Sarà dalla lingua trovierica che poi si svilupperà il francese moderno. I " troubadours" e i "trouvères" non vanno confusi con gli esecutori delle loro musiche, i giullari ed i menestrelli (in francese jounglers), i quali accompagnavano con la viella o con una piccola arpa a sette o più corde il canto del trovatore o del troviere all'unisono; forse lo strumentista eseguiva anche brevi preludi, interludi e postludi3. I loro componimenti, non sempre accompagnati dalla musica, erano racchiusi in raccolte di liriche dette chansonniers (canzonieri), in cui i testi erano accompagnati da biografie degli autori (vidas) largamente romanzate e ricche di elementi fantastici, e da commenti retorici (razos). Il giullare poteva essere un semplice giocoliere o un mimo, che girava di piazza in piazza per divertire il pubblico popolare, ma poteva anche essere poeta fornito di cultura, accolto nelle corti e nelle grandi abbazie per intrattenere un pubblico di condizione più elevata. La concezione dell'amore che si trova espressa nella letteratura di questo periodo è singolare e nuova rispetto al passato; ecco quali furono gli elementi caratterizzanti il cosiddetto amor cortese: -il culto della donna, vista dall'amante come un essere sublime ed impareggiabile, in certi casi addirittura divino. -una posizione di inferiorità dell'uomo rispetto alla donna amata, della quale egli si presenta come umile servitore. -nella sua totale devozione, l'amante non chiede nulla in cambio dei suoi servigi; l'amore quindi è sempre inappagato. Non si trattava comunque di un amore spirituale, platonico, anzi, spesso esso aveva 3 Con il termine preludio si indica un brano strumentale destinato per lo più agli strumenti a tastiera o a liuto, con funzione prolusiva o a una composizione strumentale o vocale più ampia o all'opera teatrale. L'interludio è un brano organistico improvvisato o con carattere d'improvvisazione, interposto tra le strofe di un corale o di un inno, o tra i versetti di un salmo; infine il postludio era, originariamente, un brano organistico da eseguirsi alla fine di un servizio religioso per accompagnare l'uscita dei fedeli dal tempio, ma lo stesso termine si riferisce anche all'opera teatrale, a composizioni vocali o strumentali, ed è in questo caso una sorta di coda, con funzione di commento non sempre necessario. (A. Basso, a cura, D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985). 6 note decisamente sensuali, anche se il possesso della donna era irraggiungibile. -l'amore impossibile generava sofferenza, tormento perpetuo, ma anche gioia, ebbrezza, esaltazione, pienezza vitale. -l'esercizio di devozione alla donna ingentilisce l'animo, lo nobilita, lo purifica di ogni viltà o rozzezza; amare era quindi un continuo esercizio di perfezionamento interiore e si identificava con la "cortesia": solo chi è cortese poteva amare "finamente", ma a sua volta l'"amor fino" (fin' amor in provenzale) rendeva cortesi. -si trattava di un amore adultero, che si svolgeva rigorosamente al di fuori del vincolo coniugale, anzi si teorizzava che nel matrimonio non potesse esistere veramente amor "fino". -l'amore era una passione esclusiva, totale, esaltante, dinanzi a cui tutto si svalutava, tanto che si parlava appunto di " culto della donna" ( domnei ) e di "religione dell'amore": nacque così un conflitto tra amore e religione, tra culto per la donna e culto per Dio; la dedizione totale per la donna ne escludeva qualsiasi altra. Per la nascita delle canzoni di gesta si è anche ipotizzato un legame con i monasteri posti sulle strade dei grandi pellegrinaggi, che conservavano ricordi degli eroi popolari, e che fornivano ai giullari i materiali su cui operare per comporre i loro testi. Tracce dell'influenza del clero si hanno nello spirito di devozione che si fonde col racconto delle imprese eroiche, ed inoltre nelle stesse forme metriche, che riprendevano quelle degli inni religiosi. Data l'imprecisione della notazione del tempo, l'interpretazione e la trascrizione ritmica delle melodie di trovatori e trovieri è un problema arduo, tuttora aperto, che ha dato luogo alle più varie ipotesi e proposte. 7 1.2 I trovatori La lirica trovadorica può essere considerata come il prodotto di una società colta e aristocratica che rifiutava la brutalità della vita circostante e si dedicava totalmente all'adorazione della donna con artificiose espressioni di omaggio cavalleresco4. Le tematiche dominanti erano caratterizzate da una sottile ma penetrante immoralità; non per niente esse erano sempre di tipo eroticoamoroso e contrastavano apertamente con i freddi contenuti del canto gregoriano latino. L'adozione della lingua nazionale in ambito musicale modificherà soprattutto due elementi: il ritmo e la tonalità. Infatti, pur nell'uso dei modi liturgici, due cominceranno a prevalere in modo sempre più esplicito, e sono il maggiore ed il minore moderni; quanto al ritmo, esso potrebbe sembrare apparentemente molto più vincolato rispetto a quello gregoriano, ma in realtà era molto più ricco di possibilità espressive. Il contatto con la danza, stabilito da molte di queste canzoni profane, ne irrobustì il ritmo e lo rese talmente mordente e incisivo da essere presto definito volgare. Infatti esso si allontanava sempre più dall'indifferenza linguistica del latino chiesastico, per avvicinarsi invece ad un ritmo modellato sulle lingue nazionali, quindi più frammentato e nervoso, in quanto rompeva l'unità di misura in tante note di minor valore. Sarà proprio la melodia profana trovadorica a prefigurare quella che diventerà la base per l'affermazione progressiva, in Italia, di una musica che si schiererà contro i valori riconosciuti della musica aulica e ufficiale, liturgica o cortigiana che fosse: la musica popolare. A seconda del contenuto letterario le canzoni trovadoriche presero diverso nome. Distinguiamo innanzitutto le chansons courtoises dalle cosiddette canzoni oggettive. Le prime erano di gusto aristocratico e colto: il poeta prediligeva un verseggiare oscuro, ricco di allusioni comprensibili solo per una cerchia ristretta di iniziati o per la dama alla quale l'omaggio poetico era rivolto; le seconde erano canzoni di gusto semplice e popolareggiante, nelle quali il poeta, più che parlare direttamente di sé, poneva in scena dei personaggi. 4 M. Mila, Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 1963. 8 In questo ultimo gruppo rientravano la pastourelle e la chanson d'aube. La prima rappresentava il corteggiamento di una giovane contadina da parte di un nobile o di un cavaliere che solitamente veniva respinto, e in essa si manifestava il nuovo senso della natura posseduto da questi poeti. La chanson d'aube ( alba in italiano ) era la canzone dell'amico di una coppia di amanti che li avvertiva che la notte era finita. Tra le canzoni trovadoriche abbiamo anche varie forme di canzoni a ballo, canzoni storico-narrative e drammatiche sui temi tradizionali della mal maritata, della sposa ad un guerriero lontano e così via. Da ricordare anche il compianto, canzone di argomento lamentoso, denominata anche planh dal planctus della monodia profana latina, nonché quella di contenuto politico e morale, collegata ad un fatto esterno o contemporaneo, il sirventes (canto del servo). Elenchiamo infine il plazer (piacere), che era un'enumerazione di cose piacevoli, ed il suo contrario, l'enueg (noia), lista di cose sgradevoli. All'interno della produzione trovadorica si delinearono anche diverse tendenze di stile: soprattutto il trobar clus (poetare chiuso), di cui l'esponente più significativo fu Arnaut Daniel , che consisteva in uno stile elaboratissimo, artificioso ed oscuro; ed il trobar leu (poetare dolce, piano), stile più limpido ed aggraziato di cui esponente principale fu Bernart de Ventadorn. Queste canzoni, che ben si adeguavano alla freschezza del gusto popolare e quindi alle rappresentazioni in piazza, venivano spesso interpretate dal giullare o menestrello, sorta di cantore e giocoliere ambulante. Non è credibile invece che venissero condotte sulle piazze le elevate chansons courtoises, che avevano spesso l'aria di vere e proprie dichiarazioni d'amore, talvolta in forma di dialogo a botta e risposta (jeu partì)5. La forma delle canzoni generalmente era variabile, in quanto subordinata al contenuto, ma verso l'inizio del Duecento apparvero componimenti à forme fixe, il cui schema durerà ben oltre la storia della canzone stessa. Il virelai trovierico ( detto anche chanson balladée ) ne è un esempio. Nonostante i contenuti profani della chanson, sarebbe errato affermare che i trovatori abbandoneranno definitivamente le tematiche tipiche del canto gregoriano. Infatti essi non furono insensibili all'ispirazione spirituale, ma al contrario accadeva spesso che la poesia amorosa assumesse delle connotazioni più profonde, 5 M. Mila, op. cit. 9 questo quando l'idealizzazione della donna si spingeva al punto di farla oggetto di un culto quasi religioso. In ogni caso la Chiesa non accettò mai di buon grado queste manifestazioni considerate volgari, immorali e quindi non degne di considerazione, così come i suoi esecutori, visti come personaggi equivoci, se non proprio come dei malfattori; essi non avrebbero potuto dimorare tranquillamente in un villaggio o in una città: erano costretti a vagare e in genere si esibivano anche come intrattenitori e giocolieri. Le cose cominciarono a cambiare nel basso medioevo. La trasformazione generale si può capire bene osservando l'evoluzione dei castelli: da costruzioni prevalentemente di difesa e protezione cominciarono a diventare vere residenze, sempre più aperte a manifestazioni di tipo artistico e letterario e quindi anche agli spettacoli trovadorici. La forma trovadorica più antica è il vers, derivata dal tropo melodico-testuale liturgico (il versus), di struttura musicale priva di ripetizioni (durchkomponiert). Come é stato già detto, tra le forme trovadoriche la più importante fu la cansò: il testo era in forma di coppia strofica, mentre la musica si ripeteva per i primi due gruppi di versi sicché ne risultava uno schema musicale AAB; la struttura delle rime in versi era invece ababcd. Le melodie trovadoriche avevano frasi melodiche brevi, corrispondenti a 3, 4, o 5 battute nostre; erano cantabili e di facile memorizzazione, ma allo stesso tempo eleganti, suadenti e ricche di preziosità melodiche. Esse presentavano una più netta indipendenza dallo stile gregoriano rispetto ad altre musiche del periodo, soprattutto per quanto riguardava la modalità. Dei trovatori rimangono circa 2600 composizioni poetiche e 300 melodie, di cui una trentina su testo religioso. 10 1.3 I trovieri Il movimento trovierico conobbe un vasto sviluppo con i trovieri Chrètien de Troyes e Conon de Bèthune (1160-1219 circa); nel '200, con lo sviluppo della polifonia, operarono anche Gautier d'Epinal, Thibaut ultimo re di Navarra e Adam de la Halle. La forma trovierica più importante fu la chanson, di struttura simile alla cansò trovadorica, tranne che per la melodia che si ripeteva; la prima volta aveva un finale in sospensione (ouvert) e la seconda un finale conclusivo (clos). In sintesi la struttura della chanson era la seguente: melodia: A (ouvert) A (clos) B rime dei versi: ababcd. Altre forme tipicamente trovieriche furono il jeuparti, in cui due persone cantavano a turno la stessa melodia, e il lai, la struttura del quale era la seguente: melodia: A (ouvert) A (clos) B (ouvert) B (clos) rime dei versi: ababcdcd Dei componimenti trovierici sono state tramandate quasi 1400 melodie e circa 4000 liriche. La poesia dei trovieri, in lingua d'oil, presentava di solito minore ricercatezza ed artificio rispetto alle canzoni trovadoriche; le forme erano in parte le stesse usate dai trovatori (sirventese, jeu parti, canzoni a ballo, pastorelle, ecc.), ma i trovieri amavano fare uso delle lunghe lasse monorime usate nella chanson de geste ( come quella celebre di Roland ). Le canzoni di gesta erano lunghi poemi epici e trattavano delle imprese di eroi del passato; molte di queste canzoni si incentravano su Carlo Magno e i "conti palatini" del suo seguito. Questi poemi erano in strofe di un numero irregolare di versi, che assonavano o rimavano fra loro per ogni strofa, a seconda che il poema fosse più o meno antico, e che erano generalmente decasillabi o alessandrini. La trasmissione di questi testi era orale, non erano cioè destinati alla lettura, ma venivano cantati dai cantori dinanzi ad un uditorio, su una semplice melodia, con accompagnamento di uno strumento musicale. I versi decasillabi erano raggruppati in strofe di lunghezza disuguale, le lasse; i versi non avevano rime ma assonanze, cioè erano legati dal ricorrere, nelle parole finali, delle stesse vocali, a 11 partire dall'accento tonico (ad esempio: <<albe>>/<<chevalchet>>/<<Charles>>/<<passages>>/<<reregar de>>, ecc.). Il carattere orale di questi poemi si rifletteva nella loro forma, nel loro linguaggio e nella loro struttura: era frequente il rivolgersi all'uditorio, ricorrevano spesso formule stereotipate, erano continue le ripetizioni, indispensabili per incidere nella memoria degli ascoltatori fatti e personaggi. Poi però le canzoni furono fissate anche dalla scrittura ed é grazie a questo che sono giunte sino a noi. La più famosa di queste canzoni è la Chanson de Roland, canzone di circa 4000 decasillabi in lasse assonanzate di diversa lunghezza; composta intorno al 1100, narrava principalmente le vicende di Orlando e degli altri undici paladini del re Carlo Magno in guerra contro i musulmani in Spagna. Il fatto che il primo canale di diffusione della Chanson de Roland sia stato quello orale ne ha determinato una serie di caratteristiche formali: innanzitutto la scelta delle lasse assonanzate a due a due, tipiche delle canzone popolare; la sintassi molto semplice, prevalentemente paratattica, che rivela la destinazione popolare del testo; la ripresa in ogni lassa di elementi della lassa precedente per favorire la comprensione della vicenda anche all'ascoltatore distratto o appena giunto sul luogo del canto; la ripetizione di formule tipiche della trasmissione orale riferite a Carlo Magno: <<Carlo, che ha la barba canuta >> (v.2308 ), << Carlo, che or ha la barba bianca >> ( v.2334 ), << Carlo, che ha la barba fiorita >> ( v.2353 ). Le canzoni di gesta tendevano a raggrupparsi in cicli intorno ad un lignaggio, cioè ad una famiglia o discendenza nobiliare; questo conferma come esse fossero l'espressione di una casta aristocratica, che attraverso la loro diffusione voleva celebrare la propria posizione nella società. Più tardi le canzoni persero il loro austero carattere di poemi guerreschi e religiosi; questo avvenne con l'introduzione del motivo d'amore. L'esempio francese produsse in Germania il Minnesinger, anche lui nobile, dilettante di poesia e di musica, le cui canzoni avevano però un tono più spirituale ed idealista; verso il 1175 la creazione di canzoni si diffuse anche tra la borghesia con i Meistersinger, giullari girovaghi o musici organizzati in scuole6. Inizialmente i componimenti erano gli stessi francesi adattati con le parole in tedesco, successivamente assunsero aspetti musicali più 6 Enciclopedia della musica De Agostini, Novara, 1995. 12 caratteristici. Le forme che si svilupparono furono i Minnesang e il Lied, entrambi di struttura Barform (come la chanson) che veniva ripetuta per 3, 5 o 7 strofe: le prime due parti ripetute erano dette Stollen (mutazioni), la terza Abgesang (volta). La prima spiegazione che si può dare del Lied è certamente di natura sociologica. Esso deriverebbe dai canti di lavoro, collettivi o individuali, dallo sfogo dei sentimenti di due amanti, di una madre per il suo bambino, dei soldati che marciano contro il nemico o ritornano da una vittoria, l'elogio funebre di un eroe o una celebrazione di nozze, la preghiera per ringraziare o implorare la divinità7. In un primo tempo si affermarono il Volkslied (canto popolare) e il Kirchenlied (canto di chiesa), poi si sviluppò il genere della Hofweise (canzone di corte) che, nata come canto monodico, più tardi, dal 1380 ca., si arricchirà di altre voci, diventando così una forma polifonica. Il gradino successivo è costituito dalle grandi raccolte del Quattrocento, come il Lochamer Liederbuch, il Glogauer Liederbuch ed il canzoniere di Hartmann Schedel nel quale vengono utilizzate, in polifonie a tre e quattro voci, melodie di tipo popolare. Si giungerà così ai cantus firmi di Isaac, Finck, Stoltzer, Adam von Fulda e Senfl. L'amore cortese celebrato dai Minnesinger era decisamente diverso rispetto a quello dei provenzali: né così artificioso e manierato, né soprattutto così esplicitamente sensuale. Riscontriamo invece una continua ansia di elevazione spirituale, un misticismo serio che si rifletteva anche sul carattere delle melodie, le quali erano semplici e popolari ma tuttavia più austere delle vivaci canzoni trovadoriche. Gli omaggi dei Minnesinger alla donna saranno sempre caratterizzati da una profonda sacralità. Il passaggio dalla vita cavalleresca del regime feudale alle nuove consuetudini dell'età comunale o delle prime signorie modificò l'intero assetto sociale. I cantori superarono la crisi raggruppati in solide corporazioni professionali, ma, nel trapasso, si imborghesirono notevolmente; fu così che ai Minnesinger subentrarono i Meistersinger e si passò dunque dalla figura avventurosa del trovatore errante e bellicoso a quella sedentaria e prosaica del nuovo maestro cantore artigiano. 7 A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985. 13 1.4 Prime influenze della chanson in Italia La letteratura in lingua d'oc e d'oil vantava già opere eccellenti quando ancora da noi la letteratura volgare non era sorta, era naturale quindi che esse si proponesse come modello ai nostri scrittori volgari delle origini. La lirica occitanica, resa nota dai trovatori provenzali nelle corti e negli ambienti colti delle città comunali dell'Italia settentrionale, poté diffondersi facilmente nel Nord anche per l'affinità del provenzale con i dialetti piemontesi, liguri e padani; essa si propose come modello sia per la modernità dei contenuti, sia perché si riallacciava alla tradizione latina. Scrittori come Pier della Vigna, Guittone d'Arezzo, Guinizelli, Dante, Cavalcanti la tennero in gran conto e ne studiarono attentamente la tecnica formale, mentre alcuni trovatori italiani come Sordello, Bartolomeo Zorzi, Bonifacio Calvo, scrissero addirittura in provenzale. Tracce consistenti dell'impronta linguistica lasciata dal modello francese le possiamo trovare anche in un episodio del Purgatorio di Dante dove l'autore, per fare omaggio ad Arnaut Daniel, da lui tanto ammirato, lo fa parlare nella sua lingua, dimostrando così di saperla padroneggiare perfettamente (XXVI, vv.140-147). Questa lirica in lingua d'oc, per i suoi contenuti e i suoi caratteri formali, rifletté la civiltà, il gusto, la cultura dell'ambiente nel quale sorse e si sviluppò; così l'amore, rappresentato sempre come gerarchico, cavalleresco, cortese omaggio del cavaliere alla dama splendente nella sua bellezza e perfetta nelle sue virtù, divenne ancora l'argomento principale. I primi trovatori provenzali, alla fine del XII secolo, calarono alla corte dei Savoia, dei Malaspina in Lunigiana, dei Carretto a Savona, dei Marchesi di Monferrato; solo più tardi la poesia occitanica penetrò nelle corti degli Estensi, dei Signori della Marca Trevigiana e nelle città, a Venezia, a Bologna, a Genova, a Firenze. Non poteva restare escluso dall'influenza della lirica provenzale, così ricca di fascino e prestigio, il centro di cultura più vivo ed aperto in Italia nei primi decenni del XIII secolo, la corte siciliana di Federico II. Anche qui, tra il 1230 e il 1250, sorsero imitatori della poesia trovadorica, ma essi non usavano più la lingua d'oc, bensì il loro volgare locale, per quanto depurato e nobilitato; l'importanza di questa scelta fu enorme: i poeti della cosiddetta 14 Scuola siciliana crearono la prima poesia d'arte in volgare italiano, dando così' inizio alla vera e propria tradizione poetica del nostro paese, una tradizione aulica e raffinata che, attraverso la suggestione dei modelli lirici di Dante e soprattutto Petrarca, era destinata a durare per secoli. Questa scuola poetica, pur riprendendo fedelmente temi, procedimenti stilistici, forme metriche dei modelli provenzali, rivelava comunque caratteristiche formali sue proprie e, in alcune composizioni, contenuti un po' diversi da quelli dei modelli francesi, come per esempio certe immagini e similitudini tratte dai fenomeni naturali. Esisteva una vistosa differenza tra la canzone trovadorica e la successiva produzione siciliana. Nella poesia in lingua provenzale, sia quella originaria sia quella degli imitatori dell'Italia settentrionale, accanto al motivo centrale dell'amor cortese, comparve anche una tematica morale, civile, politica, guerresca: si pensi per esempio ai temi politici del Compianto per ser Blacatz di Sordello da Goito o ai versi morali di Guiraut de Bornelh, che Dante definì cantor rectitudinis, cantore della virtù. I poeti siciliani erano tutti funzionari dello Stato, notai come Iacopo da Lentini, esperti di arti cancelleresche come Pier delle Vigne, giudici come Guido delle Colonne; eppure questi uomini, che quotidianamente si occupavano di politica e amministrazione dello Stato, nei loro versi non trattavano altro tema che l'amore. Per questi funzionari di corte l'attività letteraria divenne lo strumento attraverso il quale poter evadere dalla realtà, oppure un ornamento elegante e segno di appartenenza ad un'élite, e l'amore, unico tema dei loro versi, era un puro gioco, aristocratico e raffinato. Gli argomenti ricorrenti della poesia siciliana erano sempre quelli tipici dell'amor cortese: l'omaggio feudale alla dama, la speranza di ottenere una ricompensa alla "servitù" d'amore, il ritegno a rivelare il proprio amore, il dolore per la lontananza, il rimpianto per le gioie d'amore perdute. Tutti questi motivi, già codificati dai trovatori, vennero ulteriormente stilizzati dai siciliani, poi privati di ogni legame con situazioni psicologiche comuni e concrete ed infine astratti da ogni preciso riferimento di luogo e di tempo. Alla stilizzazione dei motivi contribuì certamente il linguaggio, elaborato e prezioso nel lessico così come nella sintassi, lontanissimo da ogni modo colloquiale e realistico, teso a raggiungere un livello stilistico "sublime" mediante l'uso continuo di artifici concettuali, retorici, metrici. 15 L'esperienza poetica e linguistica siciliana non andò dispersa: fu continuata da parte di un gruppo di poeti toscani capeggiati da Guittone d'Arezzo. Questi rimatori toscani ripresero, nel loro volgare, i temi d'amore e le convenzioni stilistiche dei poeti della Magna Curia, ma introdussero un interessante allargamento tematico. L'ambiente politico e sociale della Toscana non era più costituito da una monarchia accentratrice come quella di Federico II, ma da liberi Comuni come Firenze, dove la vita civile era dinamica e percorsa da conflitti e lotte, tra città, tra classi, tra fazioni. Il poeta non era più il burocrate ligio ed il cortigiano raffinato, ma un cittadino inserito nella vita politica della sua città vivendone intensamente le passioni e riversandole nella sua attività poetica. Pertanto si vide affiorare, nella lirica toscana, quella tematica civile e morale che era ignota ai poeti siciliani. L'esempio più evidente fu la grande canzone politica con cui Guittone d'Arezzo, dopo la battaglia di Montaperti ( 1260 ), compianse la sconfitta di Firenze guelfa e ne esaltò la sua passata grandezza. La lingua di questo maestro era un volgare illustre, che supponeva, oltre alla conoscenza del linguaggio dei siciliani, quella del provenzale, del francese e del latino; la sua forma era assai complessa, latineggiante e provenzaleggiante e rifletteva una profonda dimestichezza con le poetiche trobadoriche. Nel suo canzoniere, che comprendeva ben 251 sonetti e 50 canzoni, egli riprese i motivi dell'amor cortese sulla linea dei poeti siciliani, però guardò direttamente anche ai poeti provenzali, in particolare a quella tendenza estremamente elaborata che era il trobar clus (poetare chiuso ermetico). Guittone fu pertanto un poeta difficile ed oscuro: da lui vennero impiegati tutti gli artifici retorici e metrici più complicati, insieme ad un vocabolario composito, in cui erano mescolati dialettalismi toscani, sicilianismi, provenzalismi, latinismi. Per questo Dante, nonostante in giovinezza ne avesse seguito gli insegnamenti, più tardi, nel De Vulgari Eloquentia8, ne respingerà il modello linguistico, definendolo troppo rozzo, estraneo al suo vagheggiato ideale di un <<volgare illustre>>, lontano da ogni particolarismo dialettale. La scuola toscana sostituì ai climi rarefatti della poesia siciliana un gusto logico e discorsivo, un'attenzione concreta ai moti interiori e 8 Fu in quest'opera che Dante espose per primo le leggi della canzone, da lui definita come il componimento strofico più solenne della lirica d'arte romanza. 16 al mondo esterno. Questa tendenza era già ravvisabile nelle poesie d'amore, ma toccò il culmine nelle rime ascetiche e morali composte dopo che Guittone decise di convertirsi a vita religiosa; l'energia che pervade tale poesia fa già sentire vicina quella di Dante. Accanto a Guittone d'Arezzo, in questo gruppo di rimatori toscani attivi dopo la metà del Duecento, sono da ricordare Chiaro Davanzati, Monte Andrea Fiorentini, Dante da Maiano di Fiesole e la misteriosa poetessa che si nascondeva sotto il nome di Compiuta Donzella. Un particolare rilievo merita anche Bonagiunta Orbicciani da Lucca, il quale venne descritto da Dante nel Purgatorio come il rappresentante di una maniera di poetare da lui ritenuta sorpassata; qui l'autore presentò anche la formula definitiva della nuova tendenza in corso: <<dolce stil novo>> (Purgatorio, XXIV, vv.55-57). L'influenza dei poeti toscani dunque non rimase circoscritta a Firenze, ma si esercitò anche a Bologna, dove si formò colui che è ritenuto il fondatore dello Stil Novo: Guido Guinizzelli. I rimatori dello Stil novo pervennero ad una poesia effettivamente originale, che interpretava in modo organico la nuova esperienza di vita, i valori spirituali dell'aristocrazia intellettuale comunale, giustificandoli su un piano filosofico. Essi diedero vita, rinnovando la tradizione della lirica amorosa siciliana, provenzale e guittoniana, ad una poesia nuova sia per la concezione organicamente elaborata dell'amore, sia per lo stile più stretto al contenuto. I maggiori esponenti di questa corrente furono i fiorentini Guido Cavalcanti, Dante Alighieri, Lapo Gianni, Dino Frescobaldi, ai quali poi si aggiunse anche Cino da Pistoia; ciò che li distinse con maggiore evidenza fu il rifiuto degli astrusi artifici stilistici cari a Guittone e ai suoi seguaci, e la scelta di uno stile più limpido e piano, che venne appunto definito col termine tecnico <<dolce>>.Volendo trovare un ascendente, se Guittone riprendeva la maniera del trobar clus provenzale, costoro si possono accostare alla maniera del trobar leu. Sul piano dei contenuti, all'omaggio feudale rivolto alla dama, che era tipico dell'amor cortese, si sostituì una visione più spiritualizzata della donna, che venne esaltata come angelo in terra e dispensatrice di salvezza (anche se per questi temi la novità non era assoluta, in quanto simili spunti si potevano già trovare nella tradizione precedente). 17 Più evidente fu invece il distacco dalla tradizione in due altri aspetti: l'attenzione concentrata con più rigore sull'interiorità dell'amante ed il fervore intellettualistico; inoltre si colse l'aspirazione a sostituire la corte reale, sfondo della poesia provenzale e siciliana, con una corte tutta ideale composta da una cerchia ristretta di spiriti eletti disdegnosi del volgo "villano". Il precursore dello Stil Novo fu senza dubbio il bolognese Guido Guinizzelli (appartenente alla generazione precedente a quella di Dante e Cavalcanti), autore del manifesto della nuova tendenza, la canzone Al cor gentil rempaira sempre amore. Tale canzone stabilirà quelli che poi saranno i capisaldi della poesia stilnovistica: l'identificazione tra amore e <<gentilezza>>, l'equiparazione della donna ad un angelo proveniente dal regno di Dio, il gusto per il sottile ragionamento filosofico. La canzone costituì quindi un esempio tipico di stile <<dolce e leggiadro>>, cioè di uno stile chiaro in contrapposizione con la contorta ed artificiosa oscurità guittoniana. Oltre a Dante, fu Guido Cavalcanti la personalità più rilevante del gruppo. La sua profonda cultura filosofica venne confermata dalla sua canzone Donna me prega nella quale, in un linguaggio estremamente arduo e oscuro, egli espose una concezione dell'amore come passione sensuale, che esclude ogni controllo razionale; da tale definizione dell'amore ne deriva una sua rappresentazione cupa e pessimistica, in quanto esso viene descritto come fonte inesauribile di paura e dolore. Guittone e i Siciliani non avevano avuto contenuti talmente nuovi da imporre un effettivo rinnovamento formale; saranno gli autori dello Stil novo a realizzare quest'obiettivo. Grande diffusione ebbe presso di noi anche la letteratura francese in lingua d'oil. Le canzoni di gesta carolingie entrarono in Italia forse già alla fine del secolo XII e si diffusero soprattutto nella valle del Po e nella Marca Trevigiana, dove vennero apprezzate in particolar modo dalle classi popolari. Accadde così che scrittori di scarsa e rozza cultura, senza nessuna conoscenza della tradizione letteraria latina, per rendere i contenuti di queste canzoni più comprensibili alle folle, ne contaminarono la lingua d'origine e ne adeguarono i contenuti all'immaginazione e alla psicologia del popolo. La penetrazione della poesia trovadorica in Italia è un fenomeno storico descritto e studiato in tutte le storie letterarie, ma musicalmente risulta molto più interessante un'altra produzione, 18 quella delle laude, l'esistenza della quale è documentata solo da pochi anni. Mentre in Francia, Inghilterra e Germania il dramma sacro nacque dalla liturgia della messa, in Italia il fenomeno del dramma liturgico iniziò come negli altri paesi, ma poi intraprese un cammino proprio, grazie al propagarsi nel nostro paese di un fenomeno di esaltazione religiosa popolare, dovuto alla nascita degli ordini mendicanti (francescani, domenicani, disciplinati o flagellanti). La forma di canto (in volgare) usata all'interno di questi ordini con intento devozionale fu appunto la lauda. Questo tipo di componimento veniva cantato anche durante le processioni e le preghiere delle confraternite laiche sorte in molti comuni dell'Italia centrale. In un primo tempo cantata ad una sola voce, si trasformò poi in narrazioni a più voci. Famoso tra le laude il Cantico delle Creature di San Francesco d'Assisi, primo documento della poesia volgare italiana, per il quale lo stesso autore pare avesse scritto la musica, andata purtroppo perduta. I due manoscritti a noi giunti (il Laudatario 91 di Cortona e il Laudatario Maglibechiano) raccolgono un totale di 130 laude con testi e musica. Le laude sono modellate sulla forma della ballata con l'alternanza fra ritornello e strofe; la modalità gregorianeggiante si ravviva in esplosioni festose o drammatiche, anticipando spesso i moderni modi maggiore e minore: ne risultano componimenti di grande immediatezza e di spiccato carattere popolare. 19 1.5 Teorizzazione delle regole della canzone La produzione musicale del 1200 è praticamente sconosciuta, se si esclude quella appartenente alla fioritura laudistica; però esistono diversi scritti che ci illustrano la situazione musicale di quel periodo. Sarà Dante Alighieri per primo a teorizzare le leggi della canzone, da lui stesso definita come il componimento strofico più solenne della lirica d'arte romanza (vulgarium poematum supremum); l'autore riteneva che la sua costruzione fosse la più atta a cantare argomenti d'armi, d'amore e morali. La teorizzazione dell’unione organica di musica e versi venne realizzata da Dante nel suo De Vulgari Eloquentia, in cui diede la sua definizione di "canzone" come composizione artistica di parole messe in forma metrica e poi musicate, ma continuava a contemplare l'idea di canzone come forma poetica autonoma, non associata alla musica e scritta in volgare, cioè nella lingua che si avviava a diventare l'italiano. Nell'unione di versi e musica, quest'ultima continuava ad essere considerata come un elemento sussidiario, una sorta di ornamento. La convinzione che la musica rivestisse un ruolo secondario rispetto al testo era ben radicata; sin dai tempi dell'antica Grecia vigeva il principio secondo il quale la musica fosse "ancella della parola", regola ancora sentita all'epoca di Monteverdi. Per assistere all'adattamento della melodia alle inflessioni del testo si dovrà attendere la fine del 1500. Lo stesso Dante esprimerà questo concetto nella Divina Commedia: <<Cantiones per se totum quod debent efficiunt, quod ballate non faciunt: indigent enim plausoribus, ad quod edite sunt>> (II.III.5: <<le canzoni da sé sole effettuano tutto quello che debbono, cosa che le ballate non fanno, poiché hanno bisogno dei danzatori, per i quali vengono alla luce>> )9. La canzone rappresenta la forma più importante e famosa della lirica italiana antica. Sicuramente furono fondamentali le forme datele da Dante e da Cino da Pistoia, ma fu Francesco Petrarca a crearne la struttura fissa. La canzone petrarchesca era suddivisa in stanze (le coblas dei trovatori), mediamente tra cinque e sette, con l'aggiunta di un congedo ( tornada per i trovatori, envoi per i trovieri). I versi sono 9 N.Sapegno (a cura), La Divina Commedia, Milano, 1957. 20 settenari e/o endecasillabi rimati, disposti secondo un determinato ordine10. E' comune che la canzone si concluda con un distico finale a rime baciate. Ecco un classico esempio petrarchesco: 1°piede fronte 2°piede concatenatio diesis 1°volta sirma 2°volta combinatio Chiare,fresche e dolci acque A ove le belle membra B pose colei che solo a me par donna; C gentil ramo ove piacque (con sospir mi rimembra) a lei di fare al bel fianco colonna; A B C erba e fior che la gonna leggiadra ricoverse co' l'angelico seno; aer sacro e sereno, C D E E ove Amor co'begli occhi il cor m'aperse F date udienza insieme H a le dolenti mie parole estreme. H Seguono altre quattro stanze con la stessa disposizione e il congedo. L'effetto di scorrevolezza che caratterizza questa canzone petrarchesca è dato soprattutto dalla prevalenza dei versi brevi, i settenari (ben nove sui tredici versi di cui è composta la strofa), che hanno un ritmo più agile e sciolto dei più ampi endecasillabi; dominano poi le proporzioni perfette e le simmetrie. In questa prima strofa ad ogni elemento della natura sono dedicati tre versi, e torna ripetutamente la stessa struttura sintattica, vocativo seguito da proposizione relativa. La monotonia è evitata con piccole variazioni sintattiche, col gioco dei versi, ora settenari ora endecasillabi, con le rime, col variare del ritmo accentuativo. L'architettura dei piani temporali è costruita secondo uno schema a chiasmo: se indichiamo con A il passato e con B il futuro, abbiamo ABBA (non contando il congedo, che è fuori dal discorso lirico effettivo); il ritmo generale della poesia è dato dunque da un ondeggiare continuo tra passato e futuro, tra memoria e sogno. La stanza abbiamo visto che è divisa in fronte e sirma. La divisione riguarda la sintassi, l'ordine dei versi e delle rime e corrispondeva nella canzone trovadorica all'articolazione melodica (ABAB CD EF [...]). 10 B.Gallotta , Manuale di poesia e musica, Rugginenti, Milano, 2001. 21 <<Il verso che sancisce tale divisione è definito diesis, è in rima (concatenatio) con l'ultimo verso della fronte, e segna l'inizio della sirma. Chiude la stanza un distico a rima baciata (combinatio). La fronte è divisa in piedi, con un ordine stabilito di versi e rime ripetute. In Petrarca la sirma è per il solito indivisa sintatticamente, e senza ordine di versi, anche se possono essere individuate delle volte sulla base delle rime, esclusa però la diesis. Più frequente la divisione completa in due o più volte negli autori del Duecento>>11. Il congedo è lungo circa la metà della sirma, quindi una volta, ed è presente con una certa costanza a partire dal 1300, come formula di saluto o come apostrofe nei confronti della canzone personificata; con esso infatti il poeta si rivolge direttamente alla canzone, <<congedandola >> e affidandole un messaggio. 11 B.Gallotta, op.cit. 22 1.6 L'Ars Nova Il 1300 è anche il secolo in cui si irradia dalla Francia una scuola internazionale di compositori che preferiscono applicare complicatissime procedure compositive dotte alle forme della canzone e della ballata: è l'Ars nova12. L'avvento di questo nuovo stile musicale dipese da una serie di ragioni storico- religiose. Ai primi del Trecento infatti la sede papale fu trasferita da Roma ad Avignone, dove rimase per settant'anni, dal 1305 al 1377. Nel 1320 Philippe de Vitry, diplomatico, poeta, musicista, poi vescovo di Meaux, scrisse un trattato in latino intitolato Ars Nova Musicae ( "La nuova tecnica della musica" ); vi descriveva la nuova notazione musicale che si stava affermando in Francia e la contrapponeva a quella delle generazioni precedenti, la cosiddetta Ars Antiqua ( quella che si sviluppò dalla metà del XII secolo fino a tutto il XII secolo ). Gli esponenti dell'Ars Nova voltarono le spalle al rigido ed astratto formalismo della musica sacra di allora e si appassionarono all'immediatezza espressiva della canzone popolare che accettarono come modello e arricchirono con la propria sapienza e inventiva. Caratteristica principale della nuova musica fu la polifonia, si trattava infatti di un canto a più voci distinte che eseguivano parti diverse. Il desiderio dell'uomo di allora di sentirsi protagonista e di modificare quello che era il suo ruolo nel mondo, emerse nella decisione di imporre tematiche che si discostassero totalmente da quelle dominanti; fu così che vennero introdotte argomentazioni profane: si parlava di amore e di bellezza, di banchetti, mercati e cacce, ma non mancavano temi politici e sociali. Anche il musicista sentiva cambiato il suo ruolo: non più servitore del culto e della Chiesa, ma individuo con una personalità autonoma che voleva esprimersi ed essere riconosciuta. Tra i molti compositori significativi dell Ars Nova, accanto a de Vitry, il più importante fu Guillame de Machaut, del quale ci resta una vasta produzione: 40 ballate, 20 rondelli, 23 mottetti, 32 virelais (particolare forma di ballata, di palese derivazione trovadorica), 18 lais (canzone narrativa) e una messa interamente 12 Enciclopedia della musica De Agostini, Novara, 1995. 23 musicata in stile polifonico, composta per l'incoronazione di re Carlo V, nel 1364. Sicuramente la forma musicale alla quale gli esponenti di questo movimento dedicarono più impegno fu il mottetto, una composizione polifonica in cui ad una voce (il tenor) basata sulla melodia di un canto gregoriano, si affiancavano una o due voci che eseguivano una sorta di commento, utilizzando testo e melodie nuove, a volte anche contrastanti. Ciò che questa musica riusciva a trasmettere era un sentimento molto intenso provocato da una profonda sensibilità melodica e da una cura inconfondibile della vaghezza sonora, indice dei tempi nuovi. Della polifonia in Italia non si hanno esempi prima del 1340, ma questi si presentano talmente maturi e raffinati da indurre a pensare all'esistenza di una precedente fioritura musicale. Gli scambi economici e culturali con la Francia erano assai intensi, specialmente per i fiorentini. Il ritorno della sede papale da Avignone, nel 1377, dovette certamente condurre nel nostro paese una schiera di musici e cantori francesi; perciò le innovazioni dell'Ars Nova vennero subito conosciute e praticate in Italia dove, del resto, era già stato manifestato un netto rifiuto nei confronti delle aride astrazioni scolastiche dell'Ars Antiqua. Non si trattava però di pura ripetizione: in Italia la nuova tecnica acquistò caratteri originali e si distinse per una maggiore vivacità delle melodie e una costruzione più fantasiosa, mentre i compositori francesi preferivano strutture più rigide e rigorose. La complicazione polifonica delle voci, tipica della musica francese dell'epoca, venne dunque evitata; si sviluppò una forte tendenza al predominio di una voce che guidava la melodia principale, mentre le altre tendevano a subordinarsi a questa e forse venivano spesso raccolte in un'esecuzione strumentale. Le forme principali dell'Ars Nova italiana furono tre: il madrigale, la ballata e la caccia. 1) Il madrigale trecentesco era una breve composizione poetica, per lo più di otto versi, dei quali i primi sei davano due terzine a rima varia, conchiuse da un distico a rima baciata detto ritornello. La scelta della disposizione delle rime era una prerogativa del poeta; in certi casi tale disposizione variava per ogni terzina. Gli schemi più utilizzati erano sicuramente ABB CDD EE; ABB ACC DD; ABA BCB DD; ABC ABC DD; ABB CDD EFF GG, anche se con molte varianti; infatti dei quattro madrigali di Petrarca, 24 per esempio, soltanto il primo <<Non al suo amante più Diana piacque>>, rientrava in una delle combinazioni indicate, (la terza)"13. D'origine pastorale (probabilmente il nome, mandriale, deriva da mandria), era una forma arcaica di idillio, somigliante alle pastourelles e aubes provenzali; l'argomento principale era l'amore in tutti i suoi aspetti, sia romantici che divertenti, ma, con il passare del tempo, accolse anche argomenti politici, satirici e musicali. Il brano era polifonico e si strutturava in due strofe, una musicale ripetuta per le terzine e una per il distico, talvolta strofico al suo interno, con una sola melodia che veniva ripetuta per i due versi. <<La natura prevalentemente intellettuale di questa forma poeticomusicale è confermata anzitutto dalla sua quantità limitata e dalla presenza di esempi bilingui con strofe alternate in francese ed italiano, ognuna con le rispettive notazioni. Esiste poi un certo numero di madrigali canonici>>14. 2) La ballata era una forma poetico-musicale di origine popolare. Le prime testimonianze comparvero nell'Italia centrale alla metà del 1200; erano diversi i punti di contatto con la dansa o balada trovadorica e il virelai trovierico ( la cosiddetta chanson balladée ), ma non con la tarda ballade trovierica messa in polifonia da Guillame de Machaut, che era una composizione lirica e di forma più simile alla chanson con refrain o al rondò. La ballata tipica era composta da versi endecasillabi e/o settenari che si organizzavano in una ripresa seguita da una o più strofe; tale ripresa poteva essere strutturata in un numero di versi che variava da uno a quattro, con rime variamente disposte. La strofa era suddivisa in tre parti, due mutazioni e una volta: le prime avevano lo stesso numero e tipo di versi e le stesse rime; la seconda si rifaceva allo schema della ripresa, con il primo verso che rimava con l'ultimo della mutazione (concatenatio), e quello di chiusura in rima con l'ultimo della ripresa (chiave). In certi casi il componimento era chiuso da altre strofe ancora una volta intercalate dalla ripresa e spesso il finale era caratterizzato da una sorta di congedo, simile per schema e rime alla ripresa, detto replicatio. 13 14 B.Gallotta, op. cit. B.Gallotta, op.cit. 25 Questo schema di base era variabile: le mutazioni potevano essere tre, la concatenatio e la chiave potevano mancare e lo schema della volta e quello della ripresa sovente non corrispondevano15. La ballata fu la forma principale dopo la metà del Trecento: prima a due voci, poi a tre, sostituì progressivamente per importanza il madrigale; una parte era sempre vocale, le altre potevano essere vocali o strumentali a seconda dei casi. Il suo scopo era quello di accompagnare il ballo a tondo; vi sono comunque ballate liriche, cantate senza danza, e letterarie, come le sette ballate del Canzoniere di Petrarca. Nel momento in cui la ricca e varia forma della ballata si prestò all'espressione del sentimento religioso, nacque la lauda, ma anche questa, nonostante la diversità di contenuto, rivelava quel carattere popolaresco che era proprio della ballata profana. La struttura di questa seconda forma musicale era sempre strofica, il brano, cioè, era costituito da più strofe musicate nello stesso modo e legate da un ritornello. 3) La caccia, nei primi tempi denominata anche incalzo, nacque nel tardo medioevo e, a quel tempo, era sinonimo di "canone", cioè di composizione in cui le voci si inseguono e si riprendono in cerchio, in modo da trasmettere una sensazione di circolante confusione; in questo senso era molto simile alla caça spagnola e alla chace francese. Diversamente da quest'ultima, costruita con tre voci a canone circolare, e tutte cantate, la caccia italiana vantava la presenza di due voci superiori a canone finito (le due voci alla fine si ritrovavano insieme) e, tranne rare eccezioni, di un tenor strumentale che fungeva da sostegno. Inoltre, mentre la forma francese era in un unico episodio, quella italiana era normalmente divisa in due, il secondo dei quali costruito in contrappunto libero su un distico finale di endecasillabi a rima baciata, o sull'ultimo endecasillabo. Anche il secondo episodio poteva però essere in canone e talvolta vi era un solo episodio per l'intero brano, con un'imitazione continua16. Tipica della caccia era la forma polimetrica. Ciò non toglie che potessero esistere anche ballate, madrigali, rispetti e sonetti con contenuti simili a quelli della caccia, cioè con varie scene dialogate, popolaresche, allegre e movimentate; in questo caso le 15 16 B.Gallotta, op.cit. B.Gallotta, op. cit. 26 espressioni più adatte erano quelle di ballata-caccia, madrigalecaccia, ecc. Composizione di movimento decisamente molto rapido, dapprima descriveva veramente una scena di caccia, poi qualunque scena movimentata e frenetica colta con realistica evidenza descrittiva: talvolta vi si intrecciavano le caratteristiche grida dei venditori ambulanti e la vera e propria descrizione sonora di un rumoroso mercato, di una strada risonante di voci, secondo la tipica vivacità meridionale. 27 2) Canzoni polifoniche del '400 2.1 Il precursore del genere polifonico: il mottetto profano Sarà di certo durante il XV secolo che si affermerà definitivamente il genere polifonico, ma già prima di allora si erano manifestati degli eventi che presagivano questo importantissimo cambiamento. Infatti, con il passare del tempo, l'aspetto colto della possibile giustapposizione di alcune melodie diverse iniziò ad attirare l'attenzione dei musicisti e dei poeti, ai quali non bastava più il solo adattamento di una musica ad un testo, essendo state fino ad allora utilizzate tutte le possibilità offerte.17 La chanson partecipava così all'evoluzione di una polifonia che cercava un equilibrio simile a quello cui tendevano un tempo il cantus e il son nel momento in cui si unirono. Ora però tale unione doveva stabilirsi verticalmente, data la simultaneità delle parti vocali; si assisterà ad una mescolanza di linguaggi prima di ottenere dei componimenti totalmente scritti in lingua latina o in volgare. Questo genere di componimento polifonico prese il nome dall'elemento base dei primi sons dei troubadours, il mot, e finì per chiamarsi motet, nonostante l'importanza di un tenor liturgico avente il ruolo di cantus18. Negli ultimi anni del 1200 vennero realizzati dei mottetti (questo il loro nome in italiano) in forma di rondeau19, il cui tenor usava il linguaggio del popolo; questo è il caso delle composizioni di Adam de la Halle, i rondeaux del quale si avvalevano di una tecnica che aveva del mottetto e del conduit. Anche durante il periodo dell'Ars Nova il carattere della chanson venne conservato nei componimenti chiamati ballades, rondeaux o virelais e che possono essere considerati il tramite dagli ultimi componimenti monodici dei trouvères alla canzone polifonica del 1400, nonostante 17 A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985. A.Basso (a cura), op.cit. 19 Il rondò musicale, come quello poetico, è basato sulla ripetizione. In un rondò il tema principale riappare non meno di tre volte, spesso anche di più; ciascuna volta il tema e la sua riapparizione sono nettamente separati da un episodio contrastante. (O.Karolyi, La grammatica della musica, Einaudi, Torino, 1969). 18 28 l'interruzione dovuta alla creazione di alcune opere (come quelle di Guillame de Machault). 29 2.2 La Scuola franco-fiamminga Gli avvenimenti politici del XIII secolo misero in frequente contatto i musicisti francesi con quelli inglesi e finirono per togliere alla Francia il primato musicale, dopo la disfatta militare di Azincourt (1415). Così, prima che si affermasse compiutamente l'egemonia musicale dei Fiamminghi, si ebbe un periodo di transazione riempito da alcuni musicisti inglesi, tra i quali emerse John Dunstable20. Nel XV secolo il centro della produzione musicale di maggiore originalità si spostò verso la zona settentrionale della Francia, la Borgogna, e nelle Fiandre, corrispondenti alle province meridionali del Belgio e dell'Olanda moderni. Alleate degli inglesi durante la guerra dei Cent'anni, queste zone ricevettero un forte impulso alle loro attività commerciali: Anversa diventò in questo periodo il porto più importante dell'Europa settentrionale. Queste regioni furono fra le prime in cui il sistema feudale scomparve e le città fiorirono con istituzioni che potrebbero essere definite democratiche. L'istruzione era assai diffusa, anche quella musicale: le città del nord ebbero così cori preparati, con coristi abili e in grado di leggere con perizia le nuove notazioni; la loro fama fece sì che sempre più spesso, nel coro papale, fossero chiamati i migliori coristi del nord. Per la loro origine, i musicisti di quest'epoca vengono accomunati sotto il nome di Scuola franco- fiamminga (o borgognonafiamminga). <<Parlando di musica fiamminga si dà una determinazione che non è soltanto di spazio (Belgio, Olanda e Francia del Nord), ma anche di tempo (circa 1400-1550) e che investe un grandioso fenomeno di maturazione ed evoluzione stilistica nella storia della musica>>21. Le composizioni polifoniche di questo periodo si limitarono col tempo alle due forme della messa e del mottetto. Nel coro polifonico fiammingo il tenor poteva essere costituito da una melodia gregoriana o anche da una profana, che davano il nome alla messa; talvolta poteva essere d'invenzione, e allora la messa prendeva il nome dal modo in cui era composta (missa primi toni, ecc.). 20 21 M.Mila, Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 1985. M.Mila, op.cit. 30 L'uso di argomenti profani non deve meravigliare, se si pensa <<alla scarsa differenziazione melodica che v'era in quel tempo fra sacro e profano e alla compassata gravità musicale di certe canzoni lubriche e vivacissime nel testo>>22. Il mottetto non era più la composizione dei secoli precedenti codificata da Guillame de Machaut, ma si era trasformato in una forma di grande libertà ritmica e complessità contrappuntistica. Ogni singola parte del mottetto era totalmente indipendente, a tal punto che ogni melodia era in sé compiuta e rivestiva addirittura un testo poetico diverso; furono queste le ragioni che sottoporranno tale genere a rischio di bando dalla pratica liturgica. Se nella prima metà del 1400 il mottetto era ancora generalmente a tre voci (una delle quali, il tenor, spesso strumentale), con la scomparsa dell'uso degli strumenti in chiesa la polifonia sacra si fece esclusivamente vocale ed il numero delle voci passò da tre a quattro. La tecnica dell'imitazione canonica si perfezionò a tal punto tra i fiamminghi che il numero delle parti reali venne moltiplicato fino a raggiungere eccessi memorabili, si complicarono incredibilmente i divieti e le regole che erano alle basi dell'alternanza delle voci, si abusò di canoni rovesciati (dove la seconda voce era, per esempio, la prima letta a partire dal fondo) e di ogni specie di artifici. Quindi il compositore finì per curarsi molto superficialmente del testo sacro, essendo quest'ultimo, almeno nella maggior parte dei casi, totalmente incomprensibile, in quanto sommerso dall'intrecciarsi di ogni singola voce con tutte le altre. Uno scambio molto fitto di influenze stilistiche avvenne nel Quattrocento tra le Fiandre e l'Italia. La musica fiamminga si affermava sempre più non solo nella sede papale, ma anche nelle principali signorie italiane; intanto la musica dotta italiana, che apparentemente veniva soppiantata da quella fiamminga, si sviluppava silenziosamente nelle sue forme più popolari. Fu in questo contesto che si inserì uno dei più grandi maestri fiamminghi, Guillame Dufay, che operò molto attivamente nel nostro paese, prima come cantore della cappella papale, poi al servizio dei Malatesta di Rimini, poi al servizio dei duchi di Savoia; tra le sue più belle composizioni ricordiamo la musica alla prima stanza della canzone petrarchesca "Vergine bella, che di sol vestita". 22 M.Mila, op.cit. 31 Dufay non fu soltanto un abile cantore, ma un artista di vasta cultura in grado di riassumere le varie tendenze che si divulgavano dall'Italia e dalla Francia. Forse più di lui attento alla parola fu il suo rivale Gilles Binchois, artista di grazia delicata ed elegante, più portato alla sensibilità che alla profondità del sentimento e che, a differenza di Dufay, riuscì meglio nella canzone profana23. I tre grandi maestri che occuparono la prima metà del Quattrocento, Dunstable, Dufay, Binchois, componevano le loro canzoni di testo francese a tre parti, in quello stile che è stato definito omofono24, in cui il concorso degli strumenti richiamava le forme della balade e del mottetto del Trecento francese. Tra questi autori comunque il compositore per eccellenza di canzoni fu Gilles Binchois, chiamato <<padre dell'allegrezza>>. Come è stato già detto, nel Quattrocento gli scambi culturali tra l'Italia e le Fiandre si infittirono notevolmente, nonostante la musica del nostro paese, almeno in apparenza, sembrasse subire una rarefazione di quantità e di qualità. La musica dotta e religiosa divenne appannaggio dei cantori e dei maestri fiamminghi, attirati nella cantoria papale e nelle cappelle dei principi. Rimase agli italiani la musica profana e d'intrattenimento, caratterizzata dalla dimessa semplicità popolaresca; eppure, in un clima di apparente povertà musicale, il nostro paese svolse un compito d'importanza vitale, conservando alla musica la sua genuina natura artistica e promuovendo i mezzi tecnici dell'armonia consonante e tonale, adeguati alla nuova sensibilità. 23 M.Mila , op. cit. Dice Karolyi a proposito dell'omofonia:<<La melodia, è la dimensione orizzontale della musica, l'armonia quella verticale. Quando una melodia viene cantata o suonata completamente da sola, come nella musica popolare o nel canto gregoriano, l'aspetto orizzontale è ovviamente predominante. Questo tipo di musica è detta omofonica (dal greco omos, identico, foné, suono o voce) […]>>. (O.Karolyi, La grammatica della musica, Einaudi, Torino, 1969) 24 32 2.3 I nuovi generi profani in Italia Più volte ci si è chiesti se siano esistiti brani effettivamente validi solo se abbinati ad una determinata struttura musicale. Tutte le forme musicali nate in questo periodo potrebbero essere inserite in questa categoria; ci riferiamo alle ballate medievali, ai madrigali trecenteschi, alle cacce, per arrivare alle frottole e barzellette e alle canzonette in genere, dalla scuola siciliana in poi. Queste forme già all'origine erano predisposte per un determinato impianto vocale. Naturalmente diverse poesie popolari potevano essere divertenti e spiritose, ma a livello estetico il loro apprezzamento, salvo rare eccezioni, era riservato all'esecuzione con la struttura musicale, polifonica o monodica che fosse25. Le forme in cui si espresse il canto profano d'intrattenimento di questi anni si innestarono soprattutto sul tronco della canzone a ballo trecentesca e presero nomi diversi a seconda della zona di diffusione. Nacquero così numerosi generi locali di canzone polifonica: le villotte, i canti carnascialeschi, gli strambotti, le barzellette, le frottole. La villotta era un componimento musicale vocale generalmente eseguito in ritmo di danza e di carattere popolaresco; il testo, di norma cantato a tre o quattro voci, veniva in genere preso dall'omonima forma poetica. In questo genere musicale si potrebbero individuare i segni precursori dello stile madrigalesco. Quasi con certezza si può affermare l'origine friulana di questa forma da cui deriva anche la tradizionale cantata del Friuli, però la villotta ebbe grande sviluppo anche in alcune città venete (Venezia, Padova) e in Lombardia (Mantova) a partire dal 1450 circa. La sua esecuzione, a tre o quattro voci, era sempre omofonica e si basava soprattutto su ritmi binari alternati a ritmi ternari; il finale, che si chiamava nio, era brevissimo. Nel 1500 la villotta prese anche il nome di villanella o villanesca, in particolare in ambito partenopeo, dove essa si era diffusa come "canzonetta alla napoletana"; la musica di quest'ultima si avvicinava a quella della frottola e si contrapponeva invece a quella del madrigale, rispetto alla quale si distingueva per la maggior semplicità della struttura. La sua caratteristica principale era la prevalente tendenza al comico, al parodistico. 25 B.Gallotta , Manuale di poesia e musica, Rugginenti, Milano, 2001. 33 In altre regioni la villanella era andata assumendo diverse denominazioni come <<villanella veneziana>>, <<villanella bergamasca>>, <<villanella ferrarese>> e così via. All'estero venne anche chiamata, verso la fine del 1500, << villanella francese>>, <<villanella spagnola>>, ecc. La struttura metrica era varia. Delle quindici "Canzoni villanesche alla napolitana" (stampate appunto a Napoli nel 1537 da Giovanni da Colonia) undici non erano altro che componimenti in cui ogni strofa era composta da una mutazione, cioè da un distico (ossia da una strofa formata dall'unione di due versi) di endecasillabi seguito da una ripresa o un ritornello formati da versi di diversa lunghezza. Il primo di questi componimenti (<<Madonna, tu mi fai>>) era strutturato secondo lo schema ABccd, ABccd, ABccd, EEccd, ma, in generale, esistevano altri schemi usati molto frequentemente e molto differenti rispetto a quello citato. Il numero delle strofe non era fisso e frequenti erano le villanelle di una sola strofa. Gli argomenti erano amorosi e a volte piuttosto audaci. La villotta è sopravvissuta nel Friuli fino ai giorni nostri come canzone tradizionale, soprattutto nella Carnia, dove si è trasformata in una sorta di danza cantata da un solista e dal coro. I canti carnascialeschi erano i canti propri del "carnasciale", cioè del carnevale ed erano componimenti poetico-musicali creati in occasione delle sfilate dei carri. Quando la sfilata era ispirata da divinità o figure mitologiche questi canti venivano chiamati Trionfi, tra i quali ricordiamo innanzitutto quello di Bacco e Arianna scritto in forma di frottola-barzelletta da Lorenzo de' Medici: Quant'è bella giovinezza che si fugge tuttavia! RIPRESA Chi vuol esser lieto sia: di doman non c'è certezza. Questo è Bacco e Arianna, I MUTAZIONE belli, e l'un dell'altro ardenti: perché 'l tempo fugge e inganna, II MUTAZIONE sempre insieme stan contenti. Queste ninfe ed altre genti VOLTA sono allegre tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: INTERCALARE di doman non c'è certezza. 34 <<Seguono altre sei strofe in versi ottonari, con la stessa struttura della prima e le stesse parole ripetute (segnate in grassetto). Inizialmente si può parlare di frottola perché non vi è intercalare dopo la ripresa. Quest'ultima però viene poi replicata solo parzialmente, preceduta dalla parola tuttavia, per cui si ritorna al ritornello intercalare e alla forma della barzelletta. D'altra parte musicalmente i canti carnascialeschi tendono ad essere bipartiti come le ballate, usando una melodia per la ripresa e un'altra per la strofa, compresa la volta>>26. Alcune varianti formali di questo canto, di carattere più popolaresco, molto spesso si trasformavano in vere e proprie mascherate rappresentanti gruppi sociali, goliardici e di mestiere, talvolta caratterizzati da alcuni interventi dialettali27. Queste manifestazioni erano promosse dalla corte medicea e si svolgevano solitamente per le vie e le piazze di Firenze . Sembra che l'iniziatore sia stato proprio Lorenzo il Magnifico e il suo esempio fu seguito da molti poeti fiorentini come Iacopo Nardi, Pier Francesco Giambullari, il Giuggiola, Benedetto Varchi e Antonfrancesco Grazzini, che ne diede alle stampe la prima raccolta nel 1559. Il più noto di questi componimenti, come è stato già detto, è il Trionfo di Bacco ed Arianna del Magnifico, a imitazione del quale Gabriele d'Annunzio compose il suo Trionfo di Isotta. Lo strambotto (da estribot= satirico o semplicemente da "strambo") era un componimento di contenuto amoroso, una sorta di serenata costituita da un'unica strofa di endecasillabi solitamente in ottava. La disposizione delle rime avveniva o secondo la struttura della strofa toscana, ABABABCC, o secondo la cosiddetta canzuna, la strofa siciliana che seguiva lo schema ABABABAB. Un componimento molto simile allo strambotto era il Rispetto toscano, solitamente costruito secondo lo schema ABABCCDD ed in genere articolato in due quartine, testa e coda, con la seconda che commentava o approfondiva i concetti della prima; nel caso in cui il rispetto fosse sprovvisto di tale articolazione esso veniva definito madrigalesco. <<Si può parlare di strambotti e rispetti spicciolati quando essi sono isolati o in raccolte senza alcuna connessione. Sono continuati, quando in una serie si registrano connessioni strofiche e tematiche>>28. 26 B.Gallotta , op. cit. F.Luisi, La musica vocale nel Rinascimento, Torino, 1977. 28 B.Gallotta, Manuale di poesia e musica, Rugginenti, Milano, 2001. 27 35 Lo strambotto-rispetto venne poi ripreso in termini letterari da poeti come Carducci e Pascoli. Lo strambotto, talvolta chiamato anche frottola, era musicalmente intonato con un solo motivo, ripetuto ogni due versi; la sua esecuzione era affidata a un cantore (spesso un poeta) che si accompagnava col liuto. La barzelletta era organizzata in versi molto scanditi, ottonari e talvolta settenari; venne diffusa tra la seconda metà del '400 e l'inizio del '500, soprattutto nell'Italia centro-settentrionale. Il termine trae origine probabilmente da belzeretta, a sua volta derivata dalla francese bergerette (pastorella, villanella). La barzelletta derivava dal genere profano più accreditato del Trecento, ossia la ballata. Quest'ultima, vagamente imparentata con la ballade trovierica, assunse in Italia, soprattutto a Firenze, una fisionomia propria: era prevalentemente monodica, ma anche corale e danzata, la sua struttura era composta da una ripresa (o ritornello) seguita da due piedi e da una volta; i versi della ripresa erano cantati da un solista e ripetuti dal coro. I versi dei piedi erano appannaggio del solista, la volta era corale. Mentre la ballata propriamente detta, composta di versi endecasillabi e/o settenari, era quindi caratterizzata dal fatto che la ripresa fosse seguita da una o più strofe, nella barzelletta parte della ripresa veniva ripetuta subito dopo la ripresa stessa e dopo le strofe. Tra il 1400 ed il 1500 il termine "frottola"( da "frotta", insieme svariato di argomenti ) venne utilizzato genericamente per indicare qualsiasi poesia di origine popolare in musica. Ancora oggi la tendenza principale è quella di sottolinearne il valore strettamente musicale, inquadrando la forma poetica nell'ambito della barzelletta, nonostante quest'ultima, come abbiamo visto, abbia una sua individualità precisa sia nel testo che nella musica. <<Anche la poesia della frottola rinascimentale può avere caratteristiche specifiche, che la qualificano come una ballata irregolare, con una ripresa completa e, a differenza della barzelletta, senza elementi di rondò. Il linguaggio è sempre più marcatamente popolare, i versi più irregolari, e talvolta la ripresa è costituita da un ritornello di canzonetta posposto alla strofa [...]>>29. In certi casi ciò che identifica la frottola è il suo contenuto accostabile a quello delle frottole medievali, costituito cioè <<da una serie di massime, riflessioni, proverbi, osservazioni di carattere 29 B.Gallotta, op.cit. 36 moraleggiante, politico e satirico>>30 disposti in frotta, cioè in disordine, con enunciati giustapposti. Diverse forme popolaresche, di cui abbiamo parlato precedentemente, derivano senz'altro dalla frottola; tra queste la villotta polifonica, che a seconda dell'area dialettale poteva essere veneziana, padovana o bergamasca. Un'altra forma molto diffusa, contemporanea a quella della frottola stessa, fu quella della frottolabarzelletta, particolarmente impiegata nei canti carnascialeschi31. Molto in auge a Milano, Mantova, Verona, Ferrara, Padova e Venezia la frottola fu coltivata da Marchetto Cara, Bartolomeo Tromboncino, Costanzo Porta e altri. Se la frottola presenta forse il massimo di semplificazione della scrittura musicale verso un ideale monodico di melodia armonicamente accompagnata, alcuni storici ritengono che sia la villotta il genere profano d'intrattenimento che conservò una relativa ricchezza di polifonia e costituì il ponte verso il madrigale cinquecentesco. Dalla chanson à refrain trovadorica a queste forme sviluppatesi a cavallo tra il '400 e il '500, nascono insomma le basi della formacanzone così come la intendiamo oggi: una forma monodica con accompagnamento strumentale, strofica, "chiusa", con ampie ripetizioni melodiche e, generalmente, un vero e proprio ritornello. C'è da precisare comunque che tutti i termini utilizzati sinora per indicare le varie canzoni polifoniche sono termini generici utilizzati in tutta Italia, ai quali non corrisponde una precisa differenziazione di forme musicali. <<Tra la villanella, la villotta e la frottola non pare possibile stabilire vere distinzioni, salvo che si voglia, a posteriori, raggruppare sotto una di queste denominazioni - villotta per esempio - tutti gli esempi di canto profano a tre o quattro voci nei quali la sensibilità armonica propria degli Italiani non esclude l'impiego della tecnica d'imitazione canonica perfezionata dai Fiamminghi [...]>>32. Nel XV secolo l'Italia fu uno dei pochi paesi in cui si poté assistere allo spettacolo di una nobilitazione artistica del canto popolare; altrove, tra la lirica d'arte e i mezzi espressivi utilizzati dal popolo, rimase un divario profondo. Questo fu il caso della Germania, dove il Minnegesang e il Meistergesang, ossia il canto d'amore cavalleresco e il pedante canto scolastico riuscirono a stento a 30 B.Gallotta, op.cit. B.Gallotta, op.cit. 32 M.Mila, Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 1963. 31 37 sopravvivere sia nelle corti che nelle associazioni borghesi dei Mastersinger e finirono per perdere tutta la loro ricchezza. L'arte dei Minnesanger e dei Meistersinger produsse comunque della canzoni a voce sola dette Volkslieder (canzoni popolari) o Hoflieder (canzoni di corte). Intanto anche in Francia la canzone profana continuava ad arricchire il repertorio della musica polifonica. Essa rimase affidata alle sapienti mani di artisti fiamminghi come Okeghem e Josquin Després, i quali cercarono spesso di accostarsi alla vivacità e alla freschezza espressiva della canzone del popolo; ma fu inevitabile un'incongruenza tra la semplicità del materiale e la sua complicata trattazione33. Bisognerà aspettare il Cinquecento per assistere alla fusione finalmente equilibrata della nobiltà stilistica della polifonia profana con le fresche energie del canto popolare. Forse solo la Spagna, oltre l'Italia, manifestò un certo impegno nel combinare gli strumenti comunicativi del popolo e quelli dei musicisti; questo fenomeno si intensificò a tal punto da rendere quasi indistinguibili la canzone popolare e la canzone d'arte. I villancicos spagnoli erano canti profani o religiosi, fioriti tra il Quattrocento ed il Cinquecento, molto simili alle nostre villanelle. Tra i numerosi autori di villancicos ricordiamo Juan Del Encina ( 1469-1537). 33 M.Mila, op.cit. 38 3) L’età del Rinascimento 3.1 La nascita del madrigale cinquecentesco Se durante il Trecento ed il Quattrocento il termine canzone sembra non aver avuto accezioni particolari, a partire dal Cinquecento non sarà più così. Nel primo decennio del XVI secolo, infatti, il vocabolo appare varie volte nel frontespizio di stampe vocali italiane, in certi casi da solo, in altri contrapposto al mottetto per indicare genericamente il carattere profano della raccolta o di una sua parte, in altri ancora avvicinato a termini <<profani>> come sonetti, strambotti, frottole, quasi per denunciare la presenza di composizioni diverse, per caratteri, da quelle cui alludono gli altri vocaboli del titolo34. Le canzoni rinascimentali diventeranno oggetto di commercio ed il criterio di successo consisterà, d'ora in poi, nell'arte del piacere. Il loro stile subirà sempre di più l'influenza del luogo di diffusione; anche i criteri di raggruppamento delle canzoni stesse dipese, da questo momento in poi, dal luogo di origine dell'editore incaricato. E' perfino possibile individuare delle variazioni nello stile di uno stesso musicista, secondo l'editore cui sono dirette le sue opere35. Anche per la musica il Rinascimento fu epoca di grande fioritura e rinnovamento; lo stimolo venne sia dallo studio dei classici, sia dallo spirito umanistico, con l'importanza attribuita all'uomo ed alla sua capacità di pensiero. In questi anni la musica vocale profana italiana manifestò un forte desiderio di trasformazione sulla scia di quelli verificatisi in ambito poetico, nel quale ci si avviava sempre più verso una lirica basata sui principi <<petrarcheschi>>. E' proprio a questa lirica che spesso i musicisti incominciarono a rivolgersi, dimostrando così una certa preferenza per il <<serio>>, per il sentimentale e talvolta per il patetico; questi artisti si indirizzavano così ad una morbida, elegante scrittura dove tutte le melodie avessero la stessa importanza e procedessero in uno spirito essenzialmente vocale. 34 35 A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985. A.Basso (a cura), op.cit. 39 Nei primi anni del Cinquecento le due grandi forme polifoniche ancora diffuse erano quelle della messa e del mottetto. Per quanto riguarda la prima, la costante immutabilità del testo associata alla coralità del mezzo sonoro, promuoveva una religiosità alquanto impersonale, dalla quale erano bandite le confessioni e le confidenze dell'artista in senso romantico. Una certa ricchezza d'espressione ed una maggiore libertà erano concesse al musicista dalla minore forma di musica sacra a più voci, il mottetto, più maneggevole e vario che la messa, un po' meno condizionato dalle esigenze liturgiche e capace di dar forma ad uno stato d'animo ben preciso, quello del suo autore. Il corrispondente profano del mottetto era il madrigale polifonico che, a partire dal terzo decennio del secolo, dominò in modo incontrastato tutto il Cinquecento. Non più legato ad una particolare forma letteraria, come nel Trecento, il madrigale polifonico era il rivestimento musicale di qualsiasi breve poesia profana in lingua volgare, con libertà di rime e di metro; aperto a tutte le tendenze innovatrici, in esso conversero le opposte tendenze del secolo: stratificazione polifonica e condensazione omofonica delle voci, tonalità moderna e antica sensibilità modale, spiegamento melodico e contrazione verticale, autonoma sintassi musicale e volontà d'espressione poetica e illustrativa. Inizialmente a quattro voci come la frottola, forma dalla quale derivava, si fissò poi, verso la metà del secolo, nel tipo di madrigale a cinque voci; rispetto alla frottola si spogliò della veste popolaresca e acquistò una maggiore nobiltà e ricercatezza artistica, anche se la differenza in fondo non fu sostanziale. Non a caso infatti, tra le frottole dell'undicesimo libro della raccolta di Ottaviano Petrucci36 (che fu il primo ad impiegare i caratteri metallici per la stampa dei testi musicali), molte possedevano un testo poetico talmente ricco e prezioso da indirizzare verso una nobiltà di condotta musicale di tipo madrigalesco. Il madrigale si trasformò nello strumento attraverso il quale esprimere, in modo aristocratico ed artificioso, spirituali pene d'amore; in un certo senso divenne dunque il corrispondente musicale del sempre più diffuso petrarchismo letterario. Fu così che esso si inscrisse perfettamente nel contesto rinascimentale italiano: nelle splendide corti dell'epoca la poesia e 36 Il XVI secolo si aprì proprio con la pubblicazione di una sua antologia contenente non meno di 94 canzoni a tre voci e 222 canzoni a quattro voci. 40 la letteratura acquistavano una crescente convenzionalità e si allontanavano sempre di più dalla vita di tutti i giorni, per compiacersi di formule ricercate e di aulici luoghi comuni. Torquato Tasso, nel 1584, si lamentò del fatto che la musica, sedotta da questa poesia artificiosa, stesse << degenerando divenuta molle ed effeminata>>37. Da un punto di vista più prettamente tecnico, il madrigale polifonico era una forma aperta, con una successione di episodi polifonici (strutture contrappuntistiche di linee melodico- testuali) costruiti su uno o più versi; questi episodi a loro volta potevano eventualmente costituire degli episodi più vasti (episodi composti), che coincidevano o facevano parte di sezioni individuate da chiusure cadenzali precise e marcate. Un madrigale poteva inoltre, sul piano generale, essere chiaramente suddiviso in parti (più sezioni per una parte), esattamente come avveniva per i mottetti più lunghi38. Il madrigale polifonico veniva definito concertato sia nel caso in cui fossero presenti cori strumentali, oltre che del basso continuo, o in presenza di voci solistiche che si alternavano col coro o fra loro, o anche per la presenza di più cori. Dal madrigale polifonico si distinguevano il madrigale poetico e il madrigale poetico- musicale. Quest'ultimo, oltre ad utilizzare come testo il madrigale poetico, impiegava anche sonetti, stanze di canzone, ottave liriche ed epiche e ballate; non a caso, per buona parte del XVI secolo, sarà Petrarca, con i suoi sonetti e le sue canzoni, il poeta preferito dai musicisti. Il madrigale poetico, che comunque resterà la forma maggiormente usata musicalmente, va inteso come poesia per musica in senso lato; infatti, un testo appartenente a questa categoria, pur essendo inteso all'atto della sua stesura come potenzialmente musicabile, risulta comunque dotato di una sua autonomia estetica e letteraria. Esempi di testi di questo genere vennero offerti da Ariosto, Tasso, Guarini e Marino, autori di poesie ben presenti nei cataloghi musicali, ma altrettanto valide e suggestive da un punto di vista poetico39. Tale forma poetica presentava le seguenti caratteristiche: una sola strofa la cui lunghezza oscillava dai cinque ai quindici versi; il metro era in endecasillabi e/o settenari disposti liberamente dal poeta, così come le rime, organizzate però preferibilmente in un 37 M.Mila , Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 1963. B.Gallotta , Manuale di poesia e musica, Rugginenti, Milano, 2001. 39 B.Gallotta, op.cit. 38 41 distico finale a rima baciata; potevano esserci sino ad un massimo di tre versi non rimati. Il poeta poteva scegliere anche degli schemi più rigidi, come nel caso di << Ecco mormorar l'onde>> del Tasso, dove si ha una serie continua di distici a rima baciata40. Nel complesso si trattava di una forma molto libera, coerente con la corrispondente forma musicale. Il contenuto era di carattere idillicoamoroso, molto pittorico e descrittivo e con un ritmo spesso ampio e melodico, anche se, nei primi anni del '600, il madrigale poetico tenderà a diventare più breve (sei-otto versi), molto più realistico, meno pittorico e maggiormente aspro ed incisivo, senza però abbandonare l'argomento amoroso. Nell'Italia del XVI secolo due furono i grandi centri di produzione di musica sacra, Roma e Venezia, grazie in particolare alla costante presenza, in queste città, di musicisti provenienti dalle Fiandre. La scuola romana si mantenne fedele alla pura vocalità, in uno spirito di intima devozione e secondo le prescrizioni liturgiche, mentre la scuola veneziana fece posto, anche nella polifonia sacra, ad elementi più coloriti, tipici del madrigale profano, non escludendo dalla chiesa nemmeno l'uso degli strumenti. E' naturale quindi che la scuola romana si sia affermata nella seconda metà del secolo, fiancheggiata ed appoggiata in tutto e per tutto dal movimento di ripresa cattolica della Controriforma41; al contrario la scuola veneziana, più innovatrice ed aperta alle nuove tendenze riformiste, attirò un numero consistente di musicisti nella prima metà del 1500, colmando così il bisogno di cambiamento diffuso dal movimento rinascimentale italiano. Tra il 1500 ed il 1600 si sviluppò anche un altro genere polifonico che venne definito "canzonetta": si trattava di una breve composizione, senza elaborazioni ricercate, da 2 a 8 versi (soprattutto 3-4), quasi sempre con movenze di danza e di carattere leggero. Di origine italiana, la canzonetta si affiancò alla forma evoluta del madrigale e a quella più popolare della villanella; lo schema era AABCC, la struttura semplice, il ritmo deciso, mentre il testo non seguiva alcuna forma fissa. 40 B.Gallotta, op.cit. In questi anni la Chiesa si opponeva infatti alle proposte riformatrici di Lutero. Quest'ultimo ed i suoi seguaci reclamavano una fusione più stretta di testo e musica e rifiutavano il canto gregoriano per le difficoltà di ordine ritmico che ne rendevano difficoltosa l'esecuzione; il riformatore tedesco cercava invece di introdurre nel culto un canto metrico che derivava la sua forma dal Lied. 41 42 3.2 La scuola veneziana Tra i primi esponenti della scuola veneziana ci furono diversi maestri fiamminghi trapiantati in Italia; il più importante tra questi fu sicuramente Adriano Willaert, che viene considerato, forse impropriamente, il suo fondatore. Egli divenne maestro di cappella in San Marco nel 1527, ebbe numerosi allievi, tra cui alcuni dei più grandi musicisti che in seguito entreranno a far parte della storia della musica veneta. Willaert fu autore di diversi madrigali, ancora a quattro voci, in realtà un po' freddi nella loro eleganza; comunque non disdegnò mai la forma più modesta e popolaresca delle Canzoni villanesche a tre o quattro voci (1545). Questo grande maestro fiammingo non rimase di certo estraneo all'interesse che la pratica strumentale suscitava allora in Italia e trascrisse per lo strumento prediletto del '500, il liuto, madrigali e canzoni di un altro fiammingo emigrato in Italia e poi entrato a far parte della scuola veneziana, Philippe Verdelot. Alla scuola veneziana non appartenne materialmente Jakob Arcadelt, che visse a Firenze e a Roma e fu cantore papale; nonostante ciò quest'autore venne considerato più volte uno dei veneziani. "Il bianco e dolce cigno" di Arcadelt fu uno dei pezzi più famosi nel 1500 e rimase documento delle maggiori altezze raggiunte dal madrigale. Allievo di Willaert a Venezia fu invece il fiammingo Cipriano de Rore, poi suo successore alla direzione della cappella di San Marco; egli avviò il madrigale sulle vie del cromatismo, cominciò cioè a far uso delle note alterate da diesis e da bemolli, aumentando così le possibilità di modulazione armonico-tonale e imponendo una grande semplificazione del contrappunto42. Tra gli allievi di Willaert non vanno dimenticati neanche Nicola Vicentino e Marcantonio Ingegneri, maestro di Monteverdi, anche se i due geni che più di tutti rappresentarono la scuola veneziana furono senza dubbio i due Gabrieli, Andrea ed il suo nipote Giovanni. La musica dei Gabrieli si situava sia al di là della secca aridità scolastica del contrappunto fiammingo, sia al di là della dimessa semplicità delle forme popolari ed era in grado di evocare coi suoni un'atmosfera, uno stato d'animo, una situazione. 42 M.Mila, Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 1963. 43 Le dissonanze ricomparvero, ma non erano più, come nei primordi della polifonia, il risultato involontario della somma delle parti, bensì vennero impiegate come mezzi espressivi corrispondenti ad una precisa ed approfondita penetrazione psicologica. La grandezza del suono non impedì un'aderenza al testo poetico attenta ed espressiva, come non accadrà invece nel caso della scuola romana, nell'ambito della quale vennero utilizzati spesso strumenti comunicativi freddi ed impersonali. Con i Gabrieli l'orchestra acquistò un suo primo ordinamento: i complessi di strumenti a fiato presenti a Venezia e a Verona vennero utilizzati per trascrizioni puramente strumentali di canzoni alla francese; trascrizioni che finirono per rivestire caratteri sempre più spiccati di libertà ed autonomia, come si vede nella Battaglia di Andrea Gabrieli, che si staccò completamente dall'omonima composizione vocale di Janequin. Queste parafrasi sempre più indipendenti finirono per fare della canzone francese un genere di vera e propria polifonia strumentale, che non aveva più niente a che vedere né col canto né con la Francia. La fusione timbrica di voci e orchestra, introdotta da Andrea Gabrieli, venne perfezionata dal nipote Giovanni, autore delle 14 canzoni e 2 sonate a più strumenti e voci, contenute nelle Sacrae Symphoniae. Furono la spigliatezza ritmica della chanson francese e la colorita espressione della villanella e del madrigale i modelli ideali di Giovanni Gabrieli. Straordinaria era l'unità di queste composizioni pur mutevolissime nel loro svolgimento, ispirate a contrasti di tempo, di metro, di scrittura e pervase dal genio dell'autore e dalla sua capacità comunicativa schietta e personalissima. In Italia sarà comunque Luca Marenzio, vissuto alla corte estense, poi a quella del re di Polonia ed infine nella cappella papale, a portare il genere all'apice del suo splendore. Il suo madrigale sintetizzò tutti gli esperimenti tecnici dei veneziani, l'uso del semitono cromatico, delle dissonanze e della modulazione armonica a fini espressivi; tutto ciò venne impiegato in modo assolutamente naturale, senza però escludere un'incredibile perfezione formale. Il madrigale di Marenzio dunque, sottile fusione di parole e musica, può essere considerato l'esempio ideale di quel petrarchismo sonoro di cui si è parlato finora. Nella sua arte si ammira << l'espressione perfetta di un tempo e di una società dall'anima supremamente raffinata, estrema ascensione dello stile e della tecnica del 44 madrigale del secolo XVI, che presenta la fusione di una lirica coltivatissima (petrarchisti) con l'arte della frase contrappuntisticamente matura (eredità dei fiamminghi): unione della parola e del suono in una perfezione unica nel suo genere >> (Engel)43. L'esperienza di Marenzio risulta particolarmente interessante anche perché sembra anticipare la drammaticità di Monteverdi, nonostante egli la temperi sempre con una certa dose di signorile delicatezza. Alla fine del 1500 si svilupperà un'altra versione del madrigale, sempre più distante rispetto alla formalità petrarchesca e sempre più vicina ad uno stile più colorito ed espressivo: stiamo parlando del cosiddetto madrigale dialogico. Alcuni musicisti infatti pensarono di musicare polifonicamente poemi dialogati in forma drammatica; questa tendenza rimase senza seguito, anzi, più esattamente, diede vita ad un genere intriso di una sanguigna comicità e molto vicino quindi all'imminente stile barocco. Sicuramente il capolavoro di questo genere fu l'Amfiparnaso del modenese Orazio Vecchi, vera e propria commedia di maschere in cui cinque voci interpretano di volta in volta ogni personaggio e solo di rado si spartiscono e raggruppano variamente44. 43 44 M.Mila, op.cit. M.Mila, op.cit. 45 3.3 La scuola romana Se la prima metà del XVI secolo è dominata dai canoni della scuola veneziana, la seconda è caratterizzata invece dalla fioritura delle composizioni sacre create dagli autori appartenenti alla cerchia della scuola romana. Messa e mottetto furono le due forme nelle quali si incanalò la produzione religiosa di questa scuola, esclusivamente vocale, a differenza di come si praticava a Venezia, cioè nel rigoroso stile <<a cappella>>45. Ogni parte della composizione polifonica mantenne comunque una propria autonomia melodica, senza lasciarsi raggruppare con altre in una funzione subordinata di semplice accompagnamento. Si poté così assistere all'affermazione spontanea del senso tonale, mirato a creare dei momentanei punti di riposo; mentre alcune voci concludevano momentaneamente sulla tonica, ce n'era sempre una che da questa conclusione staccava il filo di una nuova frase. L'obiettivo della scuola romana era quello di portare il contrappunto al più alto grado di chiarezza e di purezza armonica. La polifonia sacra si allontanò così dalla semplicità diretta del gregoriano, il quale aveva come unico scopo quello di diffondere con entusiasmo parole di fede; esso cercava di porsi quindi come atto materiale di preghiera e non come opera d'arte. Nel '500 invece, grazie ad un controllo perfetto di una tecnica complicatissima quale quella del contrappunto fiammingo, diventò possibile situare l'espressione religiosa nella categoria dell'arte. Se in passato quindi l'unica funzione della musica era quella di trasmettere un determinato messaggio spirituale, dopo l'esperienza rinascimentale l'arte divenne il mezzo attraverso il quale realizzare l'obiettivo principale di ciascun individuo: l'espressione dei propri sentimenti e dei propri pensieri. Sicuramente il fatto che i testi da musicare fossero poco vari rappresentava una vera e propria mortificazione per certi artisti, i quali avrebbero voluto trasmettere in modo sincero e sempre nuovo stati d'animo ed emozioni; questo fu il caso di Palestrina, che musicò 103 volte il testo liturgico della messa. Ora però la parola assunse una funzione del tutto particolare: se in epoca gregoriana essa aveva il compito di fungere da veicolo della preghiera, nel 1500 divenne perfettamente inintelligibile sommersa 45 M.Mila, op.cit. 46 nel diluvio del contrappunto. Il Concilio di Trento si pose questo problema e propose così una maggiore comprensibilità del testo, nonché la soppressione dei temi tratti da canzoni profane che in qualche modo avrebbero potuto offendere la santità del culto. Non mancarono cardinali estremamente rigorosi che avrebbero voluto senz'altro l'abolizione del canto nelle chiese. La questione si risolse con la riconferma della purezza della vocalità e con l'abolizione dei temi profani nelle messe; le parole, nonostante le assicurazioni premesse dai musicisti alle pubblicazioni musicali, continuarono a non capirsi. Il più grande e tipico esponente della scuola romana fu senza dubbio Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525-1594). Egli pubblicò in gioventù un libro di madrigali profani assolutamente perfetti dal punto di vista formale; più tardi, quasi per riparare, pubblicò alcuni libri di madrigali spirituali, ma fu nella vitalità dei mottetti e nella maestosità delle messe che il suo genio si espresse in tutta la sua ampiezza46. Anche in Spagna la grande polifonia sacra conobbe uno sviluppo meraviglioso; essa si differenziò dalla religiosità serena del Palestrina e descrisse dolorosamente il dramma interiore della coscienza umana alla ricerca di Dio. Ovviamente la polifonia non decadde neanche nella patria fiamminga, dove le qualità di musicisti eccellenti come Nicolas Gombert e Clemens Non Papa furono offuscate dalla figura straordinaria di Orlando di Lasso, uno dei più interessanti autori di canzonette profane. Nelle sue innumerevoli canzoni francesi, villanesche ecc., su testi spesso licenziosi, fece largo impiego del canto popolare sia francese che italiano, ed utilizzò gli espedienti del linguaggio polifonico per dar vita ad un irresistibile effetto comico. Orlando era in realtà un'anima in preda al dubbio e all'ansia del divino, come dimostrò la crisi religiosa che lo colse verso la metà della sua vita e che si accentuò col tempo, gettandolo in preda ad una dolorosa malinconia. Più serena invece la consistente produzione di un altro grande della polifonia fiamminga, Filippo De Monte, autore di oltre 1100 madrigali, 38 messe 318 mottetti. Le vicende della canzone profana nel XVI secolo risultano essere molto interessanti, in quanto essa acquistò delle particolari caratteristiche che ebbero una larga influenza anche in Italia. 46 M.Mila, op.cit. 47 Il contrappunto a quattro voci della canzone fiamminga del '400 era troppo pesante per la leggerezza dei temi popolari che nei primi decenni del nuovo secolo si erano imposti al gusto dei musicisti, influenzati non poco anche dalla frottola italiana. Le prime raccolte di canzonette francesi stampate nel 1528 e nel 1529 da Attaignant (compositore che in Francia raggiunse la fama di Petrucci nel nostro paese), diedero totalmente sfogo alla vivacità ritmica dei temi popolari47. Esistono comunque profondissime differenze tra il modo in cui il rapporto tra musica e poesia venne vissuto in Francia ed il modo in cui tale relazione venne trattata in Italia. Da noi il letterato non si curava minimamente del testo; non era lui a sceglierlo ma il compositore, che lo sottoponeva ad un'attenta lettura musicale e che costruiva gli episodi musicali entro gli spazi delimitati dalla punteggiatura. In sintesi potremmo dire che non esisteva nessun rapporto di collaborazione tra petrarchisti e madrigalisti. Una delle caratteristiche più accentuate del Rinascimento francese fu invece la strettissima relazione creatasi tra la musica e la poesia, questo grazie soprattutto all'attività svolta da l'Académie de Musique et de Poésie, fondata nel 1571 dal poeta Jean-Antoine de Baif, con la protezione del re Carlo IX e la collaborazione di Jodelle e Ronsard. Quest'accademia nacque sulla scia della corrente d'idee diffusasi in Francia in quegli anni, secondo la quale i poeti avrebbero dovuto destinare veramente la loro opera al canto e ne avrebbero dovuto prendere in considerazione ogni sua singola esigenza. Ovviamente questo sarebbe stato fattibile solo nel caso in cui musicisti e poeti avessero collaborato tra di loro il più attivamente possibile. Fu Ronsard per primo nel 1565 ad insistere sulla necessità di concepire il componimento poetico in funzione della musica che lo completa:<<pour etre plus propre à la musique et accord des instruments, en faveur desquels il semble que la poésie soit née...>>48. Lo scopo principale dell'Académie divenne quello di ristabilire l'antica unità tra musica e poesia, spogliando la prima dalle complicazioni apportate dal contrappunto e riconducendo la seconda alla metrica quantitativa degli antichi. 47 48 M.Mila, op.cit. A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985. 48 Baif e gli altri adepti dell'Accademia cercarono infatti di ottenere un'unità tra <<effetti>> musicali e poetici, proprio mediante l'introduzione della nozione di quantità in una poesia francese che fosse ricondotta alle norme antiche49. Fu così che i loro esperimenti li avvicinarono notevolmente alla chanson e al salmo in rime francesi, generi molto ammirati a quel tempo. La causa principale dell'insuccesso parziale di questi tentativi risiede nella natura stessa del verso francese, nel quale il concetto di quantità resterà sempre incerto, mentre la successione di sillabe toniche e atone può conferirgli il ritmo di cui la musica fa uso. Gli studi portati avanti dall'Académie ebbero comunque importanti risultati: grandi artisti come Orlando di Lasso, Jacques Maudit e Claude le Jeune vennero influenzati positivamente dalle collaborazioni con i poeti dell'epoca. 49 A.Basso (a cura), op.cit. 49 3.4 Il Lied rinascimentale A partire dal 1500 la storia del Lied tedesco può essere suddivisa in varie fasi distinte. Infatti, mentre il Lied profano era praticato dall'alta borghesia o dai cortigiani e si evolveva al di sopra dei Volkslieder (di cui ama ripetere la struttura a strofe brevi) e delle più ampie Hofweisen, il Lied di argomento spirituale era praticato soltanto nell'ambito della comunità religiosa ed era entrato a far parte del repertorio delle cantorie parrocchiali come un vero e proprio mottetto50. La Hofweise, rispetto al Volkslied, era molto più vicina alla produzione dei secoli precedenti. Nella Hofweise si fondevano alcuni elementi del Minnesang con lo spirito inaugurato dall'Umanesimo. Il suo stile si ditingueva dal realismo dei Volkslieder, essendo decisamente più raffinato ed elevato, mentre a livello contenutistico era orientata verso tematiche astratte estrapolate dalla tradizione culturale greco-romana. Mentre il Volkslied nasce con la melodia, la Hofweise è creata a tavolino ed è quindi fornita da acrostici, assonanze, artifici poetici, simili a quelli dei Mastersinger51. Sicuramente lo sviluppo della polifonia nel secolo precedente influenzò notevolmente quella che era la natura del Lied, anche se in realtà il Lied a più voci affonda le radici in una tradizione di lunga data che possiamo far risalire all'antica tragedia greca, nella quale il coro era espressione collettiva e non individuale e rappresentava l'opinione della massa, di tutta l'umanità. Con lo sviluppo della polifonia la funzione del coro si arricchì ulteriormente: esso divenne infatti lo strumento attraverso il quale esprimere il sentimento del poeta espresso dall'unione e fusione di più voci. Alcuni esempi di come questa pratica venisse attuata sono la chanson borgognona del '400 ed il madrigale italiano del '500. A partire dal 1536 si verificò un cambiamento fondamentale per il Lied: infatti, prima di questa data, esso impiegava il tenor ed il cantus firmus52 nella forma Bar poteva essere realizzato con l'appoggio di strumenti; alcune testimonianze dicono addirittura che 50 A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985. A.Basso (a cura), op.cit. 52 All'inizio del XIII secolo l'espressione cantus firmus indicava il canto liturgico monodico e si distingueva nettamente dal cantus fractus o mensurabilis. In questa accezione è sinonimo di musica plana, cantus planus o immensuratus e dei corrispettivi termini italiani musica piana, canto piano, canto fermo. (A.Basso, a cura, D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985) 51 50 talvolta l'esecuzione del doppio cantus firmus poteva essere anche puramente strumentale. Dal 1536 in poi invece tutte le voci saranno provviste del testo ed emergerà in questo modo una tendenza verso la musica a cappella, tutto questo in accordo con l'importanza che il pensiero dominante, quello umanistico, attribuiva alla parola. 51 3.5 La canzone strumentale Abbiamo già accennato all'importanza che alcuni strumenti musicali acquistarono durante il XVI secolo, però sarebbe utile soffermarsi sulla centralità di due di questi in particolare: il liuto e l'organo. E' vero che di musica scritta espressamente per gli strumenti si hanno nel Medioevo scarsissime tracce, però è altrettanto importante il ritrovamento, avvenuto nella seconda metà del secolo XV, di un manoscritto contenente 250 pezzi strumentali, per la massima parte trascrizioni di mottetti di Dunstable, Dufay, Binchois ecc.: questo ci dimostra chiaramente che non era possibile separare, in quest'epoca, la musica strumentale da quella vocale. Senza dubbio la voce dominava su tutto il resto, ma non doveva essere facile, nelle riunioni private e profane, trovare sempre quattro e più voci necessarie all'esecuzione di un madrigale. Fu così che venne spianata la strada verso la piena affermazione, tra il Cinquecento ed il Seicento, della canzone per liuto e della canzone per tastiera. La canzone per liuto apparve con le trascrizioni liutistiche di chansons che, elaborate da Francesco Spinaccino, furono edite da Petrucci nel 1507; pagine di Ockeghem, Hayne, Ghiselin, Brumel e Agricola vennero qui presentate nel tentativo di adattare i tratti essenziali del discorso originario alla natura del liuto: soprattutto un arricchimento con << passaggi >>, cioè con disegni mossi che presentavano in genere un certo significato polifonico. In seguito le canzoni per liuto abbonderanno; sempre rifacendosi a chansons vocali, rimasero nel complesso sul cammino della trascrizione, dal semplice trasporto sullo strumento giungendo alla versione <<arricchita>>, intavolata, come veniva definita una canzone nata per voci che poi veniva ripensata strumentalmente53. Col quarto decennio del secolo si impose sui liutisti italiani la giovane chanson parigina, che anche nella nostra penisola otteneva grande successo grazie al suo brio, alla sua eleganza, alla sua leggerezza nei toni sentimentali e la sua tendenza al pittoresco. L'autore più trascritto fu Claudin de Sermisy, seguito dal grande Janequin e, ad una certa distanza, da molti altri. Anche nell'ambito della canzone per tastiera vennero raggiunti risultati interessanti. Nelle canzoni per organo di Marco Antonio 53 A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985. 52 Cavazzoni (1523) la pratica del trascrivere chansons apparve intesa con spiccata indipendenza; suo figlio Girolamo , nei suoi Ricercari ( 1542 ), si spinse addirittura fino alla libera parafrasi e diede vita a canzoni caratterizzate da una profonda intimità religiosa. In seguito si affermò definitivamente la tendenza a "superare" la trascrizione e a creare in autonomia, senza una base di partenza. A scopo orientativo possiamo distinguere in tale indirizzo due mete: da un lato fiorì la canzone alla francese, ossia quella su cui la chanson agì non più con l'autorità di un modello da rispettare, ma solo proponendo certi suoi tratti, come per esempio la sua natura prevalentemente gaia e la costruzione in strofe ben distinte. D'altro lato venne coltivata una forma di canzone in cui erano allentati al massimo o addirittura sciolti i legami tematici con la chanson; le poche caratteristiche comuni, inerenti indole e struttura, vennero comunque rinnovate. I primi casi di canzoni strumentali recanti un titolo originale furono una canzone a 5 di Vicentino, "La bella", stampata nel 1572 e due leggiadre Arie di canzon francese a 4 di Ingegneri, pubblicate nel 1579. Al divulgarsi di questa forma contribuì in particolar modo Fiorenzo Maschera col suo primo Libro de canzon da sonar che, apparso nel 1582, ebbe molte ristampe, una delle quali destinata ai suonatori d'organo; queste musiche a volte si mantenevano in un clima assai unitario, a volte allineavano episodi contrastanti e vi prevaleva un tono d'eleganza senza spiccati rilievi. Con la fine del '500 le canzoni per gruppi di strumenti iniziarono ad apparire numerose in libri destinati ad autori singoli ed in antologie. Naturalmente alcuni autori arricchirono il repertorio della canzone strumentale molto più di altri; tra questi ricordiamo il già citato Andrea Gabrieli, le canzoni del quale, conservate in stampe del 1605, non erano semplici << trasporti >> sulla tastiera, bensì offrivano un discorso trasformato da magistrali << passaggi >> in uno stile da tasto diretto. Una sua canzone del 1596 venne da lui definita ariosa: si trattò di una creazione molto originale nel senso che la fantasia del musicista vi operò senza seguire alcun modello, e da una chanson prese tutt'al più le mosse; forse questa fu tra le prime canzoni " indipendenti". Gabrieli lasciò inoltre composizioni svolte nel carattere della canzone, ma denominate ricercari, probabilmente perché originali nel significato di cui si è detto; altri suoi ricercari condotti su 53 materiale tematico di chansons fanno credere che l'autore avesse in mente alcuni ripensamenti di esse in veste di canzoni54. In Germania fi Hans Leo Hassler (1564-1612), allievo di Andrea e condiscepolo di Giovanni Gabrieli, ad introdurre lo stile del maestro italiano, arricchendolo però della vivacità tipica del canto popolare tedesco. Nel Quattrocento e nel Cinquecento la Francia rimase quasi estranea alla creazione della musica strumentale, mentre in Spagna la vihuela, varietà iberica del liuto, contò valenti autori di canzoni e danze, come Luis Milan. In Inghilterra invece, il madrigale italiano darà vita ad una produzione originale di grande eleganza, ma allo stesso tempo semplice e diretta, liberata dal peso della tradizione petrarchista. Il liuto ebbe un brillante successo, o come strumento d'accompagnamento a canti profani, o come strumento solista, impiegato nella trascrizione di arie e danze, riunite in forma di suite, cioè di una composizione strumentale consistente in un seguito di danze stilizzate: si distinse soprattutto John Dowland, autore di una raccolta di <<pavane appassionate>> per viola e liuto, intitolate Lachrimae. Ma la maggior gloria musicale inglese sta nella scuola dei virginalisti, che seppero individuare il carattere leggero e profano del virginale e distinguerlo da quello religioso dell'organo; canti profani e danze formarono in gran parte la materia della loro produzione contrappuntistica, notevole per la sua natura strumentale. Fu così che la polifonia, ormai sconfitta in ambito vocale, ricevette un forte impulso in quello strumentale, dove prosperò per un secolo, traendo un'incredibile vitalità e freschezza dai problemi di adattamento alle tecniche esecutive. Anche la scrittura a quattro parti per coro, che sembrava aver esaurito tutti i suoi motivi d'interesse, venne in questo periodo rivalutata grazie alle infinite possibilità offerte dalle dita sulla tastiera. Le varie forme nelle quali si esplicava la pratica organistica erano contraddistinte da uno stile fugato assai libero ed erano principalmente due: ricercare e toccata, la prima più rigorosamente contrappuntistica, la seconda più virtuosistica e brillante. Queste forme si svilupparono anche nell'ambito della letteratura per liuto; infatti nomi come fantasia, canzone, capriccio, intonazione, ecc., designavano forme molto simili nella sostanza a quelle per 54 A.Basso (a cura), op.cit. 54 tastiera. Comunque il liuto, col passare del tempo, si appropriò sempre più dell'esecuzione di canzoni profane e di danze, dall'unione delle quali (pavana, saltarello e piva; oppure pass'e mezzo, gagliarda e pavana) venne a poco a poco organizzandosi il genere strumentale della suite. Agli inizi del Seicento, col decadere della pratica liutistica, la produzione di canzoni da tasto si infittì ulteriormente. Secondo alcuni storici, il gusto di comporre canzoni strumentali d'assieme <<originali>>, non sarebbe nato dalla pratica del trascrivere chansons per gruppi di strumenti (come avvenne invece nel caso della canzone da tasto); nessun documento testimonia infatti il fatto che questa nuova tendenza abbia avuto per humus l'esperienza dell'intavolare55, anche se comunque tale eventualità non potrebbe essere esclusa con assoluta certezza. Esiste però una ragione che, più di qualsiasi altra, ci potrebbe indurre a pensare che la canzone per gruppi di strumenti fosse una creazione "originale": nel caso di una chanson su liuto o su tastiera, l'intavolatura costituiva una premessa grafica indispensabile, in quanto all'esecutore di quegli strumenti occorreva un testo dove fossero verticalmente riunite le parti originariamente notate sui libretti singoli. Per suonare invece una chanson con un gruppo di strumenti <<monodici>> potevano servire i libretti stessi della lezione vocale, per cui nel senso grafico la trascrizione non era necessaria. Se fino agli inizi del XVII secolo la canzone d'assieme si svolse essenzialmente in un discorso polifonico a imitazioni, dal Seicento in poi verranno accolte alcune tendenze che in seguito riscuoteranno un notevole successo prendendo a insegna il termine di <<sonata>>. Ai primi del XVII secolo alcune grandi figure di musicisti isolati portarono al massimo sviluppo quest'arte di comporre fantasie strumentali basate su canzoni; tra questi ricordiamo Girolamo Frescobaldi, autore del Capriccio sopra la Girolmeta. Ma ormai avevano preso il sopravvento i generi monodici come l'aria, l'opera, l'oratorio, la cantata e la sonata strumentale. 55 A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985. 55 4) Classicismo e romanticismo 4.1 L'opera del Settecento in Europa Durante l'età di Bach e Handel, che operarono a cavallo tra il XVII ed il XVIII secolo, la musica colta si era trasformata in un linguaggio estremamente elaborato, destinato alle corti o a fastosi allestimenti teatrali. I libretti dell'opera seria, che si sforzavano di portare sulla scena le grandi passioni ed i fatti memorabili dell'antichità, erano dominati dalla retorica più convenzionale ed artificiosa. Inoltre, con l'abolizione dei personaggi comici dell'opera seicentesca, l'opera seria aveva perso anche le ultime tracce di naturalezza. A prevalere erano numerosi elementi extramusicali come il famoso bel canto, stile interpretativo tipico dell'opera italiana, che tenderà a mettere in secondo piano gli aspetti testuali e drammatici del teatro musicale, a vantaggio di un'emancipazione della vocalità (e dunque del melodismo) in sé e per sé. Ma bel canto fu anche sinonimo di divismo: deformazioni dei cantanti, capricci di prime donne, idolatrie di tenori, scenografie spettacolari e così via. Musicalmente, la falsità dell'opera seria si manifestò con la scomparsa quasi definitiva dei cori e con l'impoverimento delle funzioni orchestrali; in sintesi l'opera divenne un alternarsi monotono di recitativi sempre uguali che nessuno ascoltava e di arie incuranti dei valori espressivi del testo56. La librettistica di Metastasio rispecchiava perfettamente questa scissione estrema tra aria e recitativo. Fino al Settecento l'interesse per forme e stili vocali popolari da parte della musica "d'arte" si era espresso più che altro attraverso stilizzazioni e falsificazioni: il "popolareggiante" era un genere d'autore. Solo a partire da Haydn e Beethoven le melodie popolari furono utilizzate, in modo più sistematico, dai compositori classicoromantici quali materiali meritevoli di attenzione e vennero talvolta affrontati con lo stesso spirito che sarebbe stato riservato ad un tema originale. 56 M.Mila, Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 1963. 56 Ma, verso la metà del Settecento, vi fu un'importante inversione di tendenza, che portò alla nascita dello stile galante e quindi alla diffusione di una forma e di un'espressione più semplici. <<Per distrarre l'attenzione dello spettatore dai tragici casi dell'opera seria s'era cominciato ad inserire fra un atto e l'altro intermezzi di carattere sempre più deliberatamente allegro e ridanciano [...]. La conquistata naturalezza negli argomenti e nella recitazione aveva il più benefico effetto sull'ispirazione del musicista che, tra l'altro, poteva ora compiacersi d'intrecciare le voci, specialmente per i finali, nei più vari e dinamici concertati, cosa che mal consentiva la gravità dell'opera seria>>57. Il merito di questo progresso dell'opera seria italiana andò ai musicisti usciti da quella scuola napoletana che fino ad allora si era impegnata nell'ambito dell'opera seria più convenzionale e retorica; fu sempre in tale contesto che si fece strada colui che, in questi anni, svolse veramente un ruolo di primo piano, Carlo Goldoni. Fu proprio grazie a cambiamenti di tale portata che si iniziò ad incamminarsi verso uno stile più semplice e meno artificioso che in passato, uno stile che fino ad allora era stato categoricamente scartato e che evolverà poi nel classicismo e si imporrà ovunque, attenuando i confini tra arte ed intrattenimento. Si scriverà molta musica facile, da suonare in famiglia ed anche i massimi compositori decideranno di cimentarsi con questi generi leggeri: Haydn compose canzonette e Mozart creerà ballabili alla moda per i carnevali. Quest'ultimo, pur attenendosi alle formule esteriori del melodramma all'italiana e quindi a quelle del Singspiel tedesco, riuscì a sviluppare in modo insospettato il contenuto poetico e drammatico. Alcune sue considerazioni, espresse in una lettera che egli scrisse al padre nel 1781, sulla natura dell'opera, ci aiutano a capire come venisse concepito allora il rapporto tra musica e testo. Egli affermò, infatti, a proposito del Ratto dal Serraglio: <<Io non so, ma in un'opera la poesia deve esser assolutamente la devota figlia della musica. Perché le opere comiche italiane piacciono sempre dappertutto? E anche con le miserie del testo? [...] Perché tutta la musica domina e il resto si dimentica>>58. Certo è che, in questi anni a cavallo tra XVIII e XIX secolo, la questione inerente la relazione fra suono e parola era ancora molto dibattuta. 57 58 M.Mila, op.cit. G. Pestelli, L'età di Mozart e Beethoven, in "Storia della musica",6, Torino, 1979. 57 In realtà da sempre i compositori, a seconda delle esigenze e delle circostanze storiche, sociali e culturali, fecero del testo poetico ciò che ritenevano più opportuno, a dimostrazione che tecnicamente ciò fosse possibile; quindi, quando fu il caso, non esitarono ad abbassare drasticamente il livello d'interazione verbale della poesia, essendo consapevoli del fatto che le ragioni di successo dei loro lavori fossero musicali e non letterarie59. A questo discorso si potrebbe facilmente ricollegare la precedente affermazione di Mozart, che implicava chiaramente la convinzione della necessità di una sottomissione delle parole al suono. In Italia il predominio vocale continuò a manifestarsi obbedendo, in fondo, alla natura spontanea della musicalità nazionale, ma si evolse in forme nuove anche se legate a quelle del Settecento. Il recitativo secco resistette ancora per pochi anni; l'aria si fece più concentrata e modificò alquanto il tipo della melodia, sostituendo ad andamenti quasi decantati e gentilmente patetici un fraseggiare più nervoso, interrotto, a scatti, dal tono infuocato fino all'invettiva. L'Ottocento fu, per l'Italia, il periodo più fulgido del melodramma, che non sarà più un semplice svago mondano; d'ora in poi si andrà al teatro d'opera per partecipare intensamente alle appassionate vicende della scena, per mettersi nei panni dei personaggi e per soffrire con loro, confrontare le loro sventure con le proprie per imparare da loro una vita più intensa, nobile ed appassionata60. Il romanticismo musicale italiano si concentrò intorno alla figura della persona umana, ne toccò da vicino gli interessi e le esperienze; il tema dominante dei grandi capolavori di questi anni sarà quasi sempre l'amore, considerato l'unica sola verità della vita, l'unico elemento positivo. 59 60 B.Gallotta, Manuale di poesia e musica, Rugginenti, Milano, 2001. M. Mila, Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 1963. 58 4.2 Le origini della canzone moderna Le influenze della melodia popolare si fecero sentire anche nel Lied romantico e nel song inglese, e in parte anche nel melodramma italiano ottocentesco, contemporaneamente al risveglio dell'interesse verso i cosiddetti "pezzi chiusi" o "forme chiuse solistiche": non solo le arie, ma anche duetti, concertati, finali e simili. Da tali forme derivò, per ulteriore semplificazione, la romanza da salotto con accompagnamento di basso continuo ( chitarra, pianoforte o arpa ), che apparve in Francia già alla fine del XVIII secolo, diffondendosi velocemente in Italia e che perseguì un ideale di naturalezza, a metà strada tra il melodramma e il canto popolare, con un carattere spiccatamente sentimentale e spesso patetico. Tutte queste forme rappresentarono gli antenati più prossimi della canzone moderna, non solo perché le trasmisero una concezione vocale melodrammatica e una serie di temi e di retoriche, ma anche perché la gente comune, il popolo, vi si riconobbe, cullandosi nella familiarità di elementi che appartenevano alla sua memoria, alla sua tradizione. Tutto ciò ridiventò canzone quando cominciò ad adattarsi alle esigenze dei locali pubblici, a nuovi circuiti di diffusione e continua rielaborazione delle forme strofiche, colte e popolari, della musica vocale. E' proprio la Francia che viene considerata la patria della canzone moderna. Fu in questo paese infatti che la vivacità della satira politica incrementò, fin dalla fine del '600, una produzione di canzonette ed epigrammi che non si era mai interrotta dal medioevo in poi, ma che sul finire del Settecento, ritornando in gran voga, trovò anche la sede adatta per farsi ascoltare dal pubblico più vasto: il caffèconcerto, nato nel 1770 a Parigi al Cafè des musicos, sul Boulevard du Temple, un piccolo locale dove si cominciava ad offrire agli avventori, perché vi si trattenessero più volentieri, uno spettacolino musicale di scenette e canzoni. I suoi fasti, comunque, verranno celebrati più tardi, nella Parigi del Secondo Impero, simbolo della Belle Epoque61. 61 G.Borgna, Storia della canzone italiana, Mondadori, Milano, 1992. 59 Il repertorio attingeva direttamente alla tradizione del Caveau, fondato dal Gallet nel 1729, dove si riunivano numerosi artisti per dar vita ad un festival di canzonette. Intanto la canzone rivelava in modo sempre più esplicito la sua duplice natura: da una parte quella di intrattenere con argomenti di tipo bacchico e amoroso, dall'altra la sua importanza in quanto strumento di satira e di commento politico. A diffondere questi contenuti furono soprattutto gli esponenti della cosiddetta <<Societé de gens de lettres>>, nata a Parigi proprio in questi anni. Questa tradizione si prolungò nell'Ottocento, dopo aver ricevuto nuovo impulso dalla rivoluzione del 1789. Infatti, poco dopo la Rivoluzione Francese, la chanson, intesa nel suo aspetto popolare di melodia spontanea, venne riscoperta dai romantici nel momento in cui si misero alla ricerca di un caratteristico nazionale62. Nacque allora il teatro detto di vaudeville (da <<voix de ville>>, voci della città). Celebre, tra i nuovi autori di versi, fu soprattutto Pierre Jean de Beranger ( 1780-1857 ), creatore della famosissima Le roy d'Yvetot e di altre centinaia di canzoni satiriche, sentimentali e patriottiche, che oltre a dargli una larghissima popolarità, gli procurarono varie condanne. Un altro genere di spettacolo molto importante per la storia della canzone fu in quegli anni l'operetta; la Belle époque si potrebbe anzi far nascere proprio con le prime operette firmate da Jacques Offenbach63, animato dalla voglia della satira in musica. Tra i suoi capolavori ci furono Les deux aveugles e soprattutto Orfeo all'inferno, autentico trionfo dell'ironia in musica. A Parigi nacque anche un altro genere destinato ad un largo successo nell'ambito cittadino: la canzone <<nera>>, detta <<canaille>>, che celebrava gli eroi negativi, gli spettri della notte e dei bassifondi e rappresenterà, per almeno una generazione, il risvolto maledetto della Belle époque. Il protagonista principale di questo genere fu Aristide Bruant (18511925), creatore di personaggi patetici e corrotti, ma sempre pieni di forza umana, talvolta tragicamente grandi che impressero il sigillo ad un'epoca. Dopo Bruant vanno ricordati anche Mayol, il cantante in frac, padre della <<chanson chantée>>; Dranem, fondatore del genere grottesco; e Yvette Guilbert, che portò al successo la famosa Madame Arthur. 62 63 A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985. G.Borgna, Storia della canzone italiana, Mondadori, Milano, 1992 60 4.3 La canzone italiana nel secondo Ottocento E' con la composizione di "Santa Lucia" che ha inizio la storia della canzone italiana vera e propria; questo brano nacque dalla fantasia di Enrico Cossovich e Teodoro Cottrau; fu scritta nel 1848, ma pubblicata solo due anni più tardi. Recitava così: Sul mare luccica l'astro d'argento, placida è l'onda, prospero il vento. Venite all'agile barchetta mia... Santa Lucia! Santa Lucia! Come possiamo vedere la lingua utilizzata fu l'italiano, un italiano letterario, ma comunque molto vicino ai modi del parlato. Tranne rare eccezioni, tra cui Addio a Napoli del 1868 sempre di Cottrau, sarà solo alla fine dell'Ottocento che la canzone italiana in lingua riuscirà definitivamente ad affermarsi ed a spodestare così la canzone dialettale, soprattutto quella napoletana. LA CANZONE NAPOLETANA- Le origini della canzone napoletana risalgono addirittura al 1200, periodo in cui verrà composto uno dei più antichi canti popolari partenopei, il Canto delle lavandaie del Vomero. Il genere di canto tipico di questa fase era la villanella, che come sappiamo era una sorta di canzone agreste, che diede vita ad un fenomeno musicale fra i più interessanti della storia della canzone europea. Su versi in dialetto scrissero villanelle alla napoletana famosi compositori come Orlando di Lasso, Claudio Monteverdi, Giulio Caccini, quindi alcuni tra i nomi più illustri della musica polifonica italiana. Più tardi le villanelle cederanno il posto a composizioni meno dotte, meno polifoniche e nascerà così la canzone monodica, ad una sola voce, con accompagnamento di strumenti: cioè la moderna canzone napoletana64. Altro famoso antico canto popolare fu Michelemmà, scritto nel 1650 circa; si trattava di una canzone a ballo in tempo sei ottavi, allegro, in cui già si scorgevano i segni della futura tarantella. Fu 64 G.Borgna, op.cit. 61 attribuita al pittore-poeta Salvator Rosa, ma non esistono validi elementi a conferma di questa supposta paternità. Sempre alla seconda metà del Seicento dovrebbe risalire la nascita della tarantella; è incontestabile l'origine pugliese di questa danza, così come è fuori discussione il fatto che la sua terra di adozione diventerà ben presto Napoli. A essa, nell'Ottocento, si ispireranno i maggiori compositori, da Auber a Chopin, da Liszt a Mendelssohn, da Bellini a Donizetti. A Giulio Genoino e sempre a Cottrau venne attribuito il rifacimento della celebre Fenesta ca lucive. I versi di questa canzone vennero definiti "altissimi" da Pasolini nel suo saggio sulla poesia popolare italiana65; splendida era anche la melodia che ricordava motivi del Mosè in Egitto di Rossini e della Sonnambula di Bellini (non a caso la paternità di questa composizione gli sarà a lungo attribuita). Ma il passaggio dalla canzone popolare alla canzone d'amore di oggi fu segnato da Te voglio bene assaje, i versi della quale erano stati scritti da Raffaele Sacco, secondo alcuni nel 1835, secondo altri nel 1839; la musica è stata spesso attribuita a Gaetano Donizetti e sembra che a dar credito a questa voce fu inizialmente lo stesso autore dei versi66. Questa canzone, a quei tempi, conquistò l'intera Napoli a tal punto da diventare ossessionante. Molti saranno i successi musicali nella Napoli di fine Ottocento, tra i quali emerse sicuramente Funiculì funiculà, scritta nel 1880 dal giornalista Giuseppe Turco e da Luigi Denza. Questo brano si rifaceva al canto popolare, prendeva le mosse dall'improvvisata e dallo Zoccolaro che a metà '800 Cottrau aveva strappato alla voce di un venditore ambulante; comunque esso si differenziava da tale canto, perché mostrava una nuova possibilità di relazione tra il far poesia, sia pure di propaganda, e il fare musica, sia pure d'occasione; insomma, recava il segno di un rapporto, innovativo e strettissimo, tra il poeta ed il musicista. Dello spartito di Funiculì funicula si vendettero nel giro di un anno un milione di copie, dando così inizio al duraturo successo internazionale della canzone napoletana. L'influenza di questo repertorio è stata talmente grande che, nonostante l'uso del dialetto ed il carattere musicale "esotico" (intinto di arabismi e di riflessi zingareschi), questo genere è considerato nel mondo, a un secolo di distanza, parte della cultura egemone. La compiutezza della forma strofa-ritornello, l'incredibile 65 66 P.P.Pasolini, La poesia popolare italiana, Milano, 1960. G.Borgna, Storia della canzone italiana, Mondadori, Milano, 1992. 62 efficacia narrativa, i legami con la tradizione operistica, costituirono da subito un modello, un vero e proprio canone per molti dei repertori di canzone che si sarebbero formati in seguito in altre parti del mondo. Tra gli altri grandi esponenti della canzone napoletana ricordiamo anche Di Capua, de Curtis, Denza, Costa e tra i verseggiatori soprattutto Salvatore di Giacomo. CANZONE ROMANA- Oltre alla canzone napoletana, in questo periodo altri due generi di canzone dialettale svolsero un'importante funzione: la canzone romana e quella milanese. I canti romaneschi molto spesso venivano chiamati "sonetti" e, non a caso, la prima canzone appartenente a questo genere aveva per titolo Sonetto (<<bella quanno te fece mamma tua>>). La canzone romana moderna nacque nel 1890 in occasione del ventennale della presa di Porta Pia; per la circostanza, infatti, Giggi Zanazzo aveva scritto Feste di maggio, una canzone che poi venne musicata da Antonio Cosattini. Il fulcro della canzone romana non poteva che essere la "serenata", canto prettamente romanesco esaltato oltre cinquant'anni fa prima da Giuseppe Gioachino Belli con un sonetto intitolato appunto La serenata, forse scritto per Maria Corti. CANZONE MILANESE- Secondo molti studiosi una canzone popolare milanese distinta dalla canzone lombarda e intesa come una struttura musicale e poetica non elementare, non è mai esistita. Si cantavano a Milano motivi che giravano per tutta la regione e che spesso provenivano dalle regioni vicine, anche se poi venivano rivestiti da versi nel dialetto locale; più che canzoni erano strofette, filastrocche, cantilene e solitamente provenivano dalla campagna. Il nostro paese, a fine '800, si fece fortemente influenzare dalla principale tendenza francese di quegli anni: il café chantant; esso riuscì comunque a dar vita ad una versione originalissima di caffèconcerto. In Italia se ne aprirono un po' dovunque, aiutando la canzone ad uscire dai salotti e dai teatri lirici e ad alleggerirsi del suo passato melodrammatico: il primo fu il Caffè Margherita di Napoli, inaugurato nel 1890; quello di Roma sarà aperto invece molto più tardi, nel 1908. La sera dell'inaugurazione del Caffè Margherita di Napoli il programma non prevedeva cantanti italiane, in quanto il cafè chantant non aveva prodotto da noi personalità degne di occasioni così eccezionali; così cantarono l'ungherese Rosa Dorner e la 63 viennese Dora Parner. Per molto tempo ancora continuarono a calcare le scene dei più famosi locali e a mietere successi solo o soprattutto artiste straniere67. Fu così che le cantanti italiane aspiranti ad una fama internazionale, dovettero adottare nomi francesizzanti in omaggio all'attività di chanteuse. Il caffè concerto, simbolo all'estero sia del divertimento ma anche di una certa intelligenza ed eleganza, da noi venne proposto quasi unicamente su un'immagine peccaminosa della bellezza femminile. La grande stella del cafè chantant italiano fu Lina Cavalieri, che dovette lottare a lungo per farsi notare, ma che infine riuscì a diventare, a Parigi, vedette della canzone italo-napoletana; la Cavalieri riuscì ad affermarsi anche come soprano lirico e attrice di cinema, ma la sua carriera più interessante restò legata ai testi di autori come Costa, Tosti, Gambardella, Tirindelli. In sintonia con il clima volgare e insano dei nostri caffè-concerto, quasi tutte le canzoni nate in tale contesto erano sboccate ed audaci: le battute pesanti non si contavano ed il doppio senso era all'ordine del giorno; il linguaggio, non di certo aulico e letterario, era, il più delle volte, molto vicino ai modi diretti della lingua parlata. Nonostante ciò, osservando con attenzione i loro versi e la loro struttura musicale, queste possono essere considerate, a tutti gli effetti, le prime vere canzoni italiane. Se è vero, come abbiamo detto, che in Italia venne ereditata dai francesi la grande passione per il cafè chantant, è altrettanto vero che, nel nostro paese, si affermò, negli stessi anni, un genere assolutamente originale, quello delle romanze che alcuni autori, più o meno illustri, composero con vena lirica ed effusiva e che costituirono spesso il repertorio di cantanti come la stessa Lina Cavalieri. Avvenne che, nell'Ottocento, si iniziò a cantare le arie delle opere più famose come brani a sé stanti e su di esse i musicisti cominciarono a modellare brevi romanze da intonare al pianoforte. Le cosiddette "romanze da salotto", nelle quali eccelsero artisti come i già citati Costa, Denza, Gambardella, Leoncavallo e Tosti, permisero anche alla piccola e media borghesia il lusso aristocratico del concerto in casa, ma ad un modico prezzo; per cantarle era sufficiente qualche amico di famiglia anche dilettante, ma con una voce ben impostata, mentre strutturalmente erano composizioni molto complesse. 67 G.Borgna, op.cit. 64 Nate come lavoro di operisti quali Mercadante, Donizetti, Ponchielli e, in Francia, Gounod e Bizet, le romanze seppero, anche in seguito, mantenere un tono che stava tra l'aria d'opera e la canzone, soprattutto quella di gusto patetico, e che finiva quindi per accontentare tutti68. Oltre che per i suoi stretti rapporti con il melodramma e con la musica dell'Ottocento e del Novecento, la romanza da salotto fu importante perché fu l'anticamera della canzone di gusto moderno. La definizione del termine romance che Jean Jacques Rousseau diede nel suo Dictionnaire de Musique del 1767 descrive in maniera molto precisa le caratteristiche linguistiche e formali di questo genere nella fase iniziale del suo sviluppo: <<Air sur lequel on chante un petit poeme du meme nom, divisé par couplets, duquel le sujet est pour l'ordinaire quelque histoire amoureuse, et souvent tragique. Comme la romance doit etre écrir d'un style simple, touchant, et d'un gout un peu antique, l'air doit répondre au caractère de paroles; point d'ornement, rien de maniéré, une mélodie douce, naturelle, champetre, et qui produise son effet par elle-meme, indépendamment de la manière de la chanter; il n'est pas nécessaire que le chant soit piquant, il suffit qu'il soit naif, qu'il n'offusque point la parole, qu'il la fasse bien entendre, et qu'il n'exige pas une grande étendue de voix [...]>>69. Alla fine del Settecento la romanza era ancora legata agli schemi originari tardo-settecenteschi, non tanto nei temi trattati, abbastanza vicini ai mutamenti in atto nella società, quanto nella struttura musicale: la melodia, adagiata nelle misure della phrase carrée (battute 2+2, 4+4, 8+8) si dipana con tranquille modulazioni maggiore-minore-maggiore nel couplet, che può venire ripetuto nel caso di tesi più lunghi del consueto70. Sarà solo nel 1830 che nascerà la romanza romantica vera e propria, quando si instaurerà un nuovo rapporto tra testo e musica: le liriche di autori come Louis Niedermeyer e di Hyppolite Monpou non si appoggeranno più su versi melensi di oscuri parolieri, bensì si ispireranno alla poesia suggestiva di Lamartine, de Musset o Victor Hugo. La romanza godette di un incredibile successo anche in Italia; come in Francia si trattò di una produzione abbondantissima, ma ordinata su alcuni filoni principali dotati di una certa autonomia. 68 G.Borgna, op.cit. A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985. 70 A.Basso (a cura), op.cit. 69 65 Distinguiamo innanzitutto un filone <<arcadico>> che intona romanze su versi di Metastasio o chiarisce le proprie intenzioni nel sottotitolo, che tende a mantenere in vita temi e modi di canto cari a coloro che guardano con sospetto alle mode <<romantiche>>71. A questo filone si potrebbe ricollegare la produzione di tipo lirico che rappresenta il fulcro di tutto il repertorio italiano; a volte questi brani venivano pubblicati singolarmente, altre volte facevano parte di raccolte di un solo autore o antologiche. Appartenevano decisamente ad un altro filone le romanze che raccontavano delle storie, protagonisti delle quali erano solitamente individui innocenti vittime del proprio destino. Nella narrazione il linguaggio musicale si anima rispetto alla condotta largamente prevedibile della produzione <<lirica>>; la linea melodica può essere interrotta da parole non intonate o da un breve recitativo, mentre l'armonia sottolinea le durezze dei casi narrati con abbondanti settime diminuite, scale cromatiche e inquiete modulazioni72. Lo sviluppo di questo genere raggiunse il culmine in Italia con Francesco Paolo Tosti, cantante e compositore la produzione e lo stile del quale costituirono l'anello di congiunzione della maniera ottocentesca tardoromantica con la canzone all'italiana contemporanea. Egli si cimentò anche con testi molto impegnativi, musicando numerose poesie di D'Annunzio, alcune tratte dal poema paradisiaco. Con il passare del tempo vennero divulgate non solo le trascrizioni per canto e pianoforte delle romanze da salotto, ma anche le riduzioni per mandolino e magari per violino; in questo modo esse penetrarono sia in ambito borghese che in quello popolare, diventando una sorta di prodotto commerciale e aprendo la strada alla canzone moderna. Tutte queste composizioni, così come Santa Lucia, erano in lingua e segnarono per certi aspetti la nascita della canzone italiana, anche se, talvolta, si stenterebbe a definirle "canzoni italiane" a tutti gli effetti, vista l'accentuata letterarietà dei loro testi. Per esempio: Io ti seguii, come un'amica face, della notte nel velo... 71 72 A.Basso (a cura), op.cit. A.Basso (a cura), op.cit. 66 oppure Vieni meco, t'aspetta la bruna, fida barca del tuo marinar... Un altro elemento che non le permetterebbe di rientrare a pieno titolo nella categoria di "canzone italiana" era la sua struttura musicale, sempre in bilico tra la romanza e la canzone stessa. Ma a parte questi aspetti discordanti, è incontestabile il fatto che la romanza da salotto di questi anni fosse strettamente collegata a quella che noi, comunemente, definiamo canzone. In ogni caso la romanza da salotto italiana si distinse sempre dal Lied e dalla mélodie, soprattutto per quanto riguardava il suo rapporto con il testo: la maggior parte delle romanze nostrane, infatti, affidava anche le elaborazioni musicali più interessanti a versi occasionali nei quali erano completamente assenti le tensioni tipiche del romanticismo letterario. Alla <<facilità musicale>> tipica del genere si affiancava dunque la poca eleganza di testi convenzionali e questo non faceva altro che ridurre ulteriormente la romanza ad un genere di consumo, a musica da intrattenimento di pessimo gusto. Sicuramente alcune produzioni si distinsero rispetto ad altre, soprattutto quelle realizzate tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, quando la romanza italiana raggiungerà le altezze della più raffinata letteratura europea e la sua immagine verrà decisamente riscattata dall'attività del già nominato Francesco Paolo Tosti. 67 4.4 La canzone ottocentesca nel resto del mondo Soprattutto nella seconda metà del XIX secolo contributi notevoli nell'ambito del genere canzonettistico vennero dalla Spagna, specialmente col teatro musicale di Joaquin Valverde. Sempre in Spagna nacque una forma di tango detto flamenco, da non confondere con l'omonima danza argentina. Il tango argentino, nato probabilmente in Francia, si affermò nei sobborghi di Buenos Aires e venne importato nel 1890 in Europa dove riscosse un incredibile successo; il nuovo genere fondeva i modi della canzone <<nera>> parigina con la sensualità latino-americana. Corrispondente al flamenco in Spagna e al tango in Argentina fu il fado portoghese, anch'esso, come il tango, canzone e danza: basato su un argomento sentimentale, si manifestava in una sorta di lamento contro il destino avverso. Contemporaneamente nell'Europa orientale nasceva la polka, che verso il 1835 si irradiò da Praga in tutta l'Europa. In molte nazioni periferiche, come la Boemia e la Russia, si era verificato un risveglio dello spirito nazionale e si era affermata l'idea che l'arte in genere, quindi anche la musica, avesse l'obbligo di accogliere certe aspirazioni e certe manifestazioni della coscienza popolare. Tale convinzione si propagò anche nel campo dell'opera e nacquero così lavori dove vennero accolti numerosi frammenti di melodie popolari. Qualche anno più tardi in Germania si imponeva, grazie anche ad autori come Brecht, una forma di cabaret politico destinato a lasciare un segno profondo nel genere canzonettistico. Intanto in Inghilterra e soprattutto negli Stati Uniti venivano ideate ballate epico-liriche con protagonisti eroi e fuorilegge, i cui modelli derivavano dalla tradizione scozzese ed irlandese seisettecentesca; a tale categoria appartengono i minstrel-shows americani, creati da un gran numero di musicisti, fra cui Foster è il più importante. Alla fine dell'Ottocento la canzone inglese verrà accolta nelle forme proprie del music-hall, genere che presto sarebbe sbarcato anche negli Stati Uniti, dove si fonderà con un tipo di ballata sentimentale (sentimental ballad); in seguito lo stile sincopato, diffuso dal jazz, si affermerà nella canzone di tutto il mondo occidentale. 68 5) La nascita della canzone moderna 5.1 La canzone italiana nella prima metà del '900 Per tutto l'Ottocento e nei primi anni del Novecento, fino allo scoppio della Grande Guerra, ebbero un ruolo assai importante i canti patriottici e politici in genere. Per i primi basti pensare a quello che poi diventerà il nostro inno nazionale, il Canto degli italiani del 1847, scritto da Novaro e Mameli, o all'Inno a Giuseppe Garibaldi, composto da Luigi Mercantini e musicato da Alessio Olivieri; o ancora ad Addio mia bella addio, la <<più popolare gentile canzone che sia stata scritta e cantata da coloro che combatterono le guerre dell'Indipendenza dal 1848 al 1878>>, secondo la definizione del Canzoniere nazionale di Pietro Gori. E' proprio di quest'ultimo invece uno dei più noti canti politici di questi anni, Addio a Lugano, scritta in carcere nel 1894. Le canzoni composte durante la Grande Guerra erano imbevute di retorica risorgimentale; ne è un classico esempio La leggenda del Piave, scritta da Giovanni Gaeta nel 1918 sotto lo pseudonimo di E. A. Mario e che venne cantata per la prima volta al Rossini di Napoli. Tutte le canzoni di questo periodo testimoniano il passaggio dall'italiano aulico o dai dialetti all'italiano popolare unitario (ricco di regionalismi e gergalismi, ma non regionale) che la guerra favorì e accelerò straordinariamente73. Il linguaggio delle canzoni del primo dopoguerra era un linguaggio colto ispirato allo stile del più grande poeta-scrittore di quegli anni, Gabriele D'Annunzio. In questi brani i valori tradizionali venivano spesso soppiantati dal culto dell'istinto, dell'azione, del coraggio, dell'amore tempestoso e della passione. Dopo la guerra l'aristocrazia e l'alta borghesia del vecchio café chantant vennero sostituite da una nuova borghesia più irrequieta,vogliosa di successo e decisa a differenziarsi ancora di più dalla classe operaia e dalla semplicità del mondo contadino. Era questo nuovo ceto sociale che popolava, animava e trasformava in 73 G.Borgna, Storia della canzone italiana, Mondadori, Milano, 1992. 69 spettacolo quasi di massa il tabarin, e che tentava di imitare lo stile di vita parigino. Un altro genere di spettacolo canoro si impose nel periodo immediatamente successivo alla fine della guerra: la "sceneggiata napoletana", espressione con cui si indicava uno spettacolo teatrale il cui soggetto era estrapolato dal testo di una canzone. Si trattava, nella maggior parte dei casi, di storie d'amore e di tradimento; la donna era sempre rappresentata come un essere perfido, infido e infedele, tale da meritare le peggiori punizioni, e persino la morte74. Il periodo compreso tra il 1926 e quello dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale fu molto fortunato per la canzone romana. Infatti nel 1926 vennero composti a Roma due brani che faranno la storia della musica italiana: L'eco der core di Oberdan Petrini e Barcarolo romano di Pio Pizzicaria, entrambe musicate da Romolo Balzani, vero e proprio cantautore romano che poi avrebbe raggiunto una vastissima popolarità anche grazie alle sue doti di attore. Nel frattempo un importantissimo cambiamento si era verificato a livello sociale: l'avvento della radio negli anni '20 ed in generale lo sviluppo dei moderni mass-media e del cinema soprattutto che, a partire dal 1930, poté avvalersi anche dell'uso del sonoro. In realtà sulla radio, così come su tutti gli altri mezzi di comunicazione di massa, verrà imposto dal fascismo un severissimo controllo. Nel 1924 una circolare del Partito Nazionale Fascista recava l'ordine di presentare tutte le canzoni straniere con parole <<comunque tradotte>>; incappò nella censura anche La leggenda del Piave (divenuta ormai popolarissima) perché conteneva espressioni sconvenienti come <<tradimento>> o <<onta consumata a Caporetto>>. Comunque il fascismo prestò molta attenzione alla musica leggera, allo scopo di utilizzare a proprio vantaggio il nuovo e potentissimo mezzo di comunicazione di massa. Tra le canzoni di questo periodo ricordiamo quelle dichiaratamente politiche (tra queste la più importante fu Giovinezza) ma anche canzoni di impianto più tradizionale, che trattavano argomenti più quotidiani che eroici: i valori della casa e della famiglia soprattutto. La seconda guerra mondiale non produsse un nuovo genere o nuove tematiche musicali. Anche i due brani di quegli anni in assoluto più conosciuti, Fischia il vento e Bella ciao, non erano altro che riadattamenti di vecchie canzoni: la prima era stata composta sull'aria di una canzone russa, 74 G.Borgna, op.cit. 70 Katiuscia, il cui testo era stato riadattato pare da Felice Cascione, comandante garibaldino; la seconda, indubbiamente una delle più famose, affondava le radici addirittura in una ballata francese del Cinquecento, assorbita prima dalla tradizione piemontese e passata poi nel Trentino, nel Veneto, nel repertorio infantile, nei canti della guerra del 1915-18, nel repertorio delle mondariso ed infine in quello dei partigiani75. L'estraneità di questi canti da quelli del repertorio leggero italiano spiega in parte perché dalla guerra non nascerà una nuova canzone. 75 G.Borgna, op.cit. 71 5.2 Nascita della canzone moderna I nuovi media dunque trasformarono completamente la canzone. In Italia saranno il caffè concerto, il tabarin e poi appunto la radio a creare quel circolo di domanda ed offerta che faranno della canzone il genere musicale più diffuso e più amato nel ventesimo secolo76; la radio inoltre aiuterà la canzone, debitrice sia al folklore che al melodramma, a liberarsi da questi vincoli ottocenteschi. Inoltre, per poterne rievocare la bellezza, non era più necessario canticchiare per conto proprio le canzoni che casualmente si erano udite per strada, dai cantastorie o nelle grandi feste popolari, poiché ora ci si poteva concedere il lusso di ascoltarle ogni qualvolta lo si avesse voluto: questa era la grande possibilità che veniva offerta dai dischi, dalla radio e dalla televisione. Se però, da una parte, i new media apportarono cambiamenti di tale portata alla canzone, è altrettanto vero che ne fecero un genere di consumo primario, collettivo, di massa appunto. Il loro potere di penetrazione trasformava ogni canzone in un bene comune, un patrimonio culturale condiviso da tutti gli italiani: fu a questo punto che la canzone diventerà ciò che conosciamo noi oggi, la canzone moderna. Come abbiamo sottolineato precedentemente, nella prima metà del secolo la canzone italiana era "in lingua". Già nel corso dell'Ottocento la poesia italiana aveva manifestato il suo notevole sforzo di rinnovamento linguistico, liberandosi pian piano dal lungo dominio del petrarchismo e dallo stile aulico ed artefatto che esso aveva imposto; ma in ambito musicale passerà tutta la prima metà del Novecento prima che la canzone si riesca ad inserire pienamente nell'ambito dell'italiano più vivo, quello del quotidiano. Fino agli anni '50 il lessico utilizzato dai parolieri era molto limitato, legato ad una serie di convenzioni e di restrizioni; ma, dalla seconda metà del secolo in poi, forse grazie alla diffusione di un certo rock n'roll all'italiana, ai primi successi di Domenico Modugno e all'impegno dei cantautori, l'immaginario della canzone italiana ed il suo lessico verranno incredibilmente arricchiti. Emergeranno così l'uso di una lingua più colloquiale, l'interesse per la poesia moderna ed una nuova concezione dell'amore. Questi cambiamenti furono sicuramente importanti, anche se non 76 G.Salvatore, Mogol-Battisti. L'alchimia del verso cantato, Castelvecchi, Roma, 1997. 72 riusciranno a cancellare i legami con il passato: il lessico canzonettistico era ancora condizionato fortemente, oltre che dal perdurante petrarchismo, dall'invadenza di una tematica amorosa ancora legata a schemi prestabiliti, ad una vera e propria "retorica del cuore". Insomma, vennero ereditati dalla canzone italiana di questi anni alcuni luoghi comuni insiti nel genere. Il tema dell'innamorato timoroso, supplichevole, talvolta vincente, altre volte lacrimoso o geloso della canzone trovadorica, era ancora presente, ma questi argomenti, all'inizio degli anni '60, divennero veramente intollerabili e la necessità di una riforma radicale in ambito musicale diventava sempre più evidente. Se, dunque, in campo poetico si stavano verificando mutamenti molto rilevanti, soprattutto grazie alle innovazioni apportate da Montale ed in generale dagli ermetici, ciò non avveniva nel campo della canzone, essendo ancora intrappolata quest'ultima nella "retorica del cuore". Solo a partire dagli anni '60 alcuni cantautori, primi fra tutti quelli appartenenti all Scuola di Genova, avrebbero cominciato ad indirizzarsi in direzioni differenti, decisamente più innovative. E' anche vero che, in un certo senso, la lingua italiana ha sempre offerto meno possibilità, per quanto riguarda le rime, rispetto a molte altre. Sicuramente, soprattutto nel primo Novecento, molte rime banali (pensiamo al diffusissimo accostamento dei termini moon e june per gli inglesi) dominarono nell'ambito musicale internazionale; ma per la canzone italiana la situazione era ancora più critica, in quanto l'abbinamento dei termini amore/cuore, in un primo tempo affascinante in quanto avvicinava l'idea del sentimento a quella dell'organo ad esso preposto, divenne ad un certo punto onnipresente, ossessionante. Nacquero così rime banalissime, <<strofe coniate con lo stampino, e canzoni tutte uguali, tutte ugualmente insulse>>77. L'abbondanza di luoghi comuni nel lessico e nelle rime non era l'unico problema che la canzone italiana di questi anni dovette affrontare; era infatti la struttura stessa del verso cantato ad aver bisogno di un profondo e radicale rinnovamento. Anche a tale proposito la poesia si era mostrata molto più attenta e consapevole. Gozzano, già nel 1907, ironizzava sulle <<rime rozze>> ereditate dal melodramma e poi confluite nella romanza. 77 G.Salvatore, op.cit. 73 Solamente negli anni '50 inizierà ad alzarsi qualche voce di protesta anche in ambito musicale, anche se, nella canzone, l'impresa di estirpare la "retorica del cuore" si presentava molto più complessa che in campo poetico. C'era bisogno di una rivoluzione del verso cantato, un'intera tradizione metrica doveva essere messa in discussione e, affinché questo potesse avvenire, era necessario rinnovare sia le soluzioni testuali che quelle musicali. Il problema consisteva infatti nel rapporto tra accenti musicali e accenti prosodici, cioè nell'incontro fra gli impulsi ritmici della melodia e quelli del verso. Se all'epoca del canto gregoriano tale relazione era conciliata da una sorta di regola interna, in quanto i suoi schemi erano anche di tipo grammaticale, nella musica vocale moderna ogni lingua presenta caratteristiche sue proprie. In tedesco, ad esempio, l'avvicinamento del ritmo prosodico a quello musicale è più semplice, vista la natura fortemente timbrata, sillabica ed accentuativa della lingua; i capolavori del Lied romantico, genere molto vicino a quello della canzone, nacquero anche dalla duttilità ritmica del linguaggio poetico tedesco78. Per quanto riguarda la lingua italiana, finché dovette misurarsi con l'ambito operistico, essa fu capace di esprimere la più ampia libertà ritmica, grazie alla sua notevole articolazione. I suoi accenti rivelavano una naturale musicalità e la lunghezza dei polisillabi permetteva una vasta adattabilità metrica del verso cantato. In italiano inoltre il numero delle sillabe di una frase può essere utilizzato in mille modi differenti, dando così vita ad una serie di figure metriche: <<ad esempio facendo cadere una vocale alla fine di una parola (con un troncamento, o apocope); metricamente, poi, anche le parole sdrucciole possono funzionare come fossero tronche. Quando due vocali s'incontrano in successione nel corpo di una parola, o fra due parole consecutive, le si può fondere, contraendo uno iato (per sineresi) o semplicemente contando due sillabe come una sola (sinalefe); e si può anche fare l'inverso. In generale, si possono contare liberamente sia un dittongo che uno iato, e perfino spostare l'accento tonico di una parola per farlo coincidere con l'accento ritmico del verso (sistole e diastole)>>79. Negli anni '60 la rima venne messa in discussione da autori come Gino Paoli e Luigi Tenco, che la elimineranno completamente. Altri la esalteranno nella ricerca di soluzioni raffinatissime; tra coloro 78 79 G.Salvatore, op.cit. G.Salvatore, op.cit. 74 che scelsero questa strada ci fu anche Francesco Guccini, che comincerà a piegare al suo volere lessici aulici e popolari, termini antiquati e cognomi famosi. La rima ricca ed inconsueta si adatta meglio invece alla canzone umoristica, prima almeno dell'avvento sulle scene di Mogol. La diffusione anche in Italia del rock n'roll e del rhythm&blues comincerà a far pesare l'importanza dei fraseggi melodici afroamericani. L'inglese sembrava essere l'unica lingua adatta al fraseggio della "musica nera": così la canzone moderna incontrerà l'esigenza di accorciare o allungare le sillabe a proprio piacimento; anche le melodie, oltre che al ritmo, dovettero imparare ad essere più scandite e fu in questo modo che cominciò a trasformarsi la natura stessa della canzone ed iniziava a prevalere la sua struttura metrica. La fluidità del canto andava spezzettata e divenne necessario comporre a partire da spunti ritmici anziché da idee melodiche. Con il passare del tempo l'interesse per la metrica divenne collettivo ed obbligato e tutta la produzione musicale italiana, anche quella sanremese, ne venne influenzata. Questa parziale americanizzazione delle metriche italiane influirà negativamente sul testo delle canzoni: la scarsità di monosillabi (limitati solo, o quasi, ad avverbi e pronomi personali) e di parole tronche (c'erano voluti più di cinquant'anni per liberarsi di apocopi e troncamenti) rappresentava un serio problema per i parolieri italiani, che si trovarono costretti ad una serie limitata di mosse obbligate e spesso forzate, come un uso esagerato di prime e terze persone singolari del futuro. La questione poteva essere risolta solo con un atto di coraggio nel senso della discontinuità, con una rottura definitiva con la tradizione. Ciò avvenne nella prima metà degli anni '70, quando la melodia della canzone cominciò a cercare un fraseggio più vicino al "parlato" e riuscì in questo intento grazie a due collaborazioni eccellenti: quella di Mogol con Battisti e quella di Dalla con Roberto Roversi. <<Nel primo caso, la rivoluzione fu il frutto della libertà di manipolare sillabe e metri delle melodie, che Battisti concedeva a Mogol; nel secondo, della costrizione a cui Dalla volutamente si sottopose componendo melodie su poesie in versi liberi, dalle metriche cangianti e dalle lunghezze insolite>>80. Si arrivò così, attraverso due percorsi molto diversi, all'adeguamento del melos 80 G.Salvatore, op.cit. 75 alla parlata e ai suoi propri ritmi interni e ad una trasformazione che modificherà per sempre la canzone italiana. In questo modo si capovolgeva la precisa gerarchia estetica che si era affermata fin dal melodramma, in cui si assegnava più importanza agli episodi vocali nei quali la melodia poteva dispiegarsi. 76 5.3 La forma strofica della canzone moderna Il punto di contatto tra i diversi esempi e tipi di canzone, oltre alla relativa brevità, è sicuramente il fatto che tutte possiedono una struttura ripetitiva, cioè contengono elementi testuali e/o musicali che si ripetono, spesso basati sulla stessa successione di metri e versi, che corrisponde alla nozione letteraria di strofa. Molto spesso si è cercato di definire la canzone senza ricorrere alla nozione di strofa; cercheremo di evitare tale atteggiamento, molto rischioso in quanto sembrerebbe sottintendere un primato del testo sugli elementi musicali. Dice Franco Fabbri a tale proposito: <<In altre parole, è vero che quando viene musicato un testo preesistente la sua struttura strofica influenza la stesura della musica; è vero che quando un compositore crea due ò più sezioni uguali (nel caso che la musica venga invece creata prima del testo) sottintende comunque uno schema strofico per l'autore del testo che interverrà successivamente; ed è altrettanto vero che la regolarità del verso è importante sia nel suo sviluppo compositivo (filogeneticamente e ontogeneticamente, insomma); ma ciò che conta, ciò che "fa funzionare" le canzoni che la contengono, è la ripetizione in sé, non che questa si articoli a partire dal testo>>81. Cerchiamo di capire adesso, in modo più preciso, cosa si intenda per forma strofica. Essa è la forma di una composizione vocale in cui tutte le strofe del testo, come è stato già detto, sono intonate sulla stessa melodia oppure con una stessa melodia per una data sezione e le sue eventuali ripetizioni (che chiamiamo A) e un'altra melodia per una sezione contrastante che chiamiamo B. Esistono poi ulteriori distinzioni e definizioni per indicare i meccanismi di articolazione e ripetizione strofica. Si parlerà di forma bipartita se il brano vocale consta di due strofe melodicamente diverse (schema AB), o se una stessa strofa si ripete due volte, la seconda con eventuali varianti (schema AA o AA'); si parla invece di forma tripartita se consta di tre strofe, che talvolta possono essere tutte diverse (schema ABC), anche se più spesso lo schema va a coincidere con quello dell'"aria col da capo", dove la prima parte viene ripetuta dopo l'episodio contrastante (ABA o ABA')82. 81 82 J.J.Nattiez (a cura), Enciclopedia della musica I. Il Novecento, Einaudi, Torino, 2001. G.Salvatore, Mogol-Battisti. L'alchimia del verso cantato, Castelvecchi, Roma, 1997. 77 Tutte queste varianti si riscontrano nel più importante genere vocale "strofico" dell'Ottocento, il Lied, assieme alla forma più elementare, quella basata su un'unica strofa ed unica melodia che si ripetono (col testo che si modifica da una strofa all'altra); tale forma elementare, con cosiddetto schema "monostrofico", è tipica del canto popolare (Volkslied), anche se compositori come Schubert ne fecero ampio uso. Le forme bipartite e tripartite furono codificate nel Kunstlied, il canto "artistico", tipico soprattutto del romanticismo tedesco ma sorto in ambito viennese intorno alla metà del '600. Trattandosi della messa in musica di un componimento poetico, solitamente nel Lied romantico nessuna parte del testo si ripeteva, a meno che il carattere di "canzone" non fosse già implicito nella poesia originale; salvo qualche rara eccezione, il Lied tendeva a presentarsi come una forma strofica senza ritornello. Tutti questi schemi sono sopravvissuti nel contesto della musica "colta" europea, ma solo alcuni caratterizzano ancora la canzone moderna. Tra questi abbiamo lo schema bipartito detto "strofaritornello" (SR), AB (con varie possibili ripetizioni delle sezioni A e B), molto vicino alle tradizioni popolari italiane, francesi e spagnole; in secondo luogo abbiamo lo schema AABA, definito "chorus-bridge"(CB), diventata tipica della ballad americana. Esistono alcuni casi di canzoni che si offrono già "segmentate", quindi ciò fa in modo che vengano evitate lunghe polemiche ed indagini tra studiosi. Questo è il caso per esempio del blues: in questo genere afroamericano, infatti, l'articolazione formale è data come norma, sia perché un blues è formato quasi sempre da una successione di sezioni di dodici battute, ma anche perché esso fornisce per la sezione modulare una successione armonica standard. Comunque l'esempio del blues non è l'unico esistente; molte canzoni, anche passando ad altri generi, prevedono la ripetizione di un'intera sezione, identica nelle parole e nella musica, che quasi sempre contiene il titolo: è la parte che in italiano si chiama ritornello, in francese refrain, in inglese chorus. La diversa nomenclatura segnala anche un diverso modo di intendere la struttura della canzone, come vedremo in seguito. Quella che per noi italiani è la strofa, data come sappiamo dalla ripetizione di una sezione nella parte musicale, in inglese viene definita verse. 78 Talvolta, a causa di alcune varianti motivate dalle esigenze del testo, l'identità della parte musicale viene in qualche modo modificata. Per esempio, le strofe di Mr. Tambourine man di Bob Dylan (1965, dall'album "Bringing it all back home"), sono di lunghezza diversa e contengono numerose varianti nella scansione metrica, ma questo non impedisce che la canzone venga percepita come una forma regolare determinata dall'alternanza di strofe e ritornelli. Tutte queste varianti sono state ereditate direttamente dalla canzone popolare e sottolineano l'importanza della funzione narrativa della strofa. Quest'ultima svolge un ruolo particolare nella ballata, forma di canzone in cui le strofe stesse si susseguono con l'eventuale interposizione di ritornelli che riassumono, esprimono un concetto a sfondo moraleggiante e commentano il discorso sostenuto in precedenza. Sia il brano di Dylan citato precedentemente, che la sua Like a rolling stone, sempre del 1965, appartengono alla categoria della ballata; la seconda in modo particolare ne è una dimostrazione esemplare: il chorus è memorabile, anche per come mette a nudo una successione di accordi semplicissima (I-IV-V), inquadrandola fra le ricorrenze dell'inciso melodico destinato a catturare la nostra attenzione (hook per gli inglesi), che si svolge quasi tutto sulla dominante per ritornare sulla tonica, e sulla fondamentale83. L'inserimento del ritornello nella struttura della ballata accentua il finalismo insito nel racconto, a tal punto da rendere quasi superflua una vera tensione narrativa: in effetti moltissime canzoni, forse la maggior parte di quelle romantico-sentimentali, utilizzano lo schema strofa-ritornello per accentuare la natura del testo. In queste canzoni il climax finale è spesso sottolineato dalla reiterazione del ritornello, arricchito con ogni possibile artificio musicale. Ma non sempre questo avviene, anzi, in certi casi, viene utilizzato il procedimento esattamente opposto a quello qua sopra esemplificato; stiamo parlando di quelle canzoni orientate verso l'inizio piuttosto che verso la fine, secondo un meccanismo di progressiva sottrazione del piacere piuttosto che di una crescente sollecitazione. Questo è lo schema tipico di molte canzoni del XX secolo, tra le quali la maggior parte di quelle che John Lennon e Paul McCartney scrissero per i Beatles. 83 J.J.Nattiez (a cura), Enciclopedia della musica I. Il Novecento, Einaudi, Torino, 2001. 79 Fino ad ora abbiamo solo nominato i due schemi principali diffusi in tutto il mondo, il modello SR ed il modello CB; abbiamo parlato ampiamente del primo, ma non a sufficienza del secondo. Questo secondo modello è caratterizzato dalla presenza quasi costante di una strofa introduttiva, il verse; essa ha la funzione di preparare la scena, spesso con un andamento di recitativo e con un carattere che può essere anche molto diverso da quello di tutto ciò che segue. Il verse comunque non è sempre presente. Il chorus è più lungo ed articolato di quello delle canzoni strofaritornello del modello finalistico di canzone di cui abbiamo parlato precedentemente e soprattutto il suo testo non viene ripetuto integralmente; questo chorus contiene molto spesso il titolo, che si appoggia all'hook, ma contiene anche altro testo, che varia da chorus a chorus. Inoltre esso si ripete all'inizio della canzone, senza che vengano interposte altre sezioni; quindi, mentre nello schema strofa-ritornello quest'ultimo può trovarsi ripetuto senza interposizioni proprio alla fine della canzone, nello schema che stiamo esaminando il chorus si ripete senza interposizioni all'inizio. Dopo questa doppia esposizione del chorus segue una sezione intermedia caratterizzata da un elemento di contrasto costituito da una riduzione degli elementi di interesse: questo inciso viene chiamato bridge o middle-eight (otto e mezzo, sottintendendo il numero di battute, anche se, in certi casi, la lunghezza della sezione è diversa). Il bridge separa i primi due chorus dal successivo ed è ripetuto nel caso in cui si dovesse presentare un'ulteriore istanza del chorus. Sintetizziamo gli schemi dei due modelli descritti: SR (strofa-ritornello): strofa, ritornello, strofa, ritornello, (strofa, ritornello) ritornello. CB (chorus-bridge) : (verse), chorus, chorus, bridge, chorus, (bridge, chorus). Quelle indicate tra parentesi sono le sezioni facoltative. Se consideriamo il diverso peso delle ripetizioni dell'elemento principale (due chorus all'inizio in un caso, due ritornelli alla fine dell'altro), ci renderemo subito conto che questi due modelli di canzone mettono in atto strategie dell'attenzione e della fascinazione veramente differenti. Dice Fabbri: <<Lo schema SR è discorsivo, additivo, coinvolgente, finalistico; il piacere (la bella melodia, l'inciso accattivante, i versi indimenticabili) è la conseguenza di un percorso, giunge al termine di una fase preliminare, è un premio, il risultato di una 80 dimostrazione, la conclusione di una vicenda appassionante [...]. Lo schema CB è esclamativo, distaccato, sottrattivo, orientato all'inizio, piuttosto che alla fine; il piacere è immediato, ma la sua fonte, dopo essere stata presentata, rivelata in tutti i suoi aspetti, ripetuta per una migliore assimilazione, viene sottratta e sostituita dal grigiore, dalla disciplina asservita alla geometria e alla logica dell'inciso intermedio. Non è una narrazione, ma una messa in scena. [...] La struttura CB è chiusa, senza evoluzione: la sua condizione di esistenza è il restringimento, l'implosione, il ridursi allo hook del chorus che si rimpicciolisce fino a diventare un punto, come l'immagine di un televisore spento; la struttura SR può gonfiarsi, accumulare nuovi elementi, esplodere. Basata com'è sulla crescita, la struttura SR assolve alla sua funzione se testo e musica sviluppano al meglio le loro capacità narrative; viceversa perché la struttura CB funzioni è sufficiente che vengano presentate situazioni efficaci: la struttura CB è una macchina scenica in sé>>84. Proprio per questi motivi, il modello CB, sviluppatosi in ambito teatrale, sopravviverà anche alla separazione dal palcoscenico, perdendo per strada il verse introduttivo. Intorno agli anni '30 del XX secolo si adatterà perfettamente alle esigenze del "tutto e subito" manifestate dai nuovi mass-media: l'introduzione del concetto di format radio, una programmazione orientata ad un target di ascoltatori omogeneo per gusti e consumi, al quale non deve essere lasciato il tempo di annoiarsi e di cercare un'altra stazione, imporrà lo sviluppo e la diffusione della canzone basata sulla struttura CB, canzone mirata ad attirare da subito, con il suo exploit iniziale, l'attenzione degli ascoltatori. 84 J.J.Nattiez (a cura), op.cit. 81 5.4 La monodia accompagnata e il suo linguaggio: armonia, melodia e vocalità Ancora oggi la canzone si presenta come monodia accompagnata, cioè nella forma in cui si era manifestata fin dalle lontane origini trobadoriche, ma, nonostante questo, sono molte le differenze rispetto al passato: innanzitutto la melodia e l'armonia, assieme alle rispettive prassi, cioè la vocalità da una parte e le tecniche di elaborazione dell'accompagnamento dall'altra. Parleremo prima dei parametri armonici, cioè della sequenza di accordi che sostiene e orienta le melodia. Tranne rare eccezioni, la canzone rimane oggi l'espressione per eccellenza della musica tonale; il più delle volte i suoi accordi rientrano in una casistica abbastanza ristretta e tale limite deriva un po' da convenzioni popolari, un po' da una certa pigrizia da parte di molti autori, in parte motivata, quest'ultima, dalla convinzione che il pubblico di massa voglia ascoltare sempre soluzioni "familiari". Eppure l'armonia della canzone è molto importante, è lei che determina il senso della melodia, elemento essenziale della canzone stessa. Un giro d'accordi banale, o realizzato in modo banale nell'accompagnamento, può privare una melodia del suo effettivo valore, mentre certi allontanamenti dagli schemi più consueti sono spesso in grado, se bella, di valorizzarla o, se è debole, di rafforzarla85. E' stato rilevato che, in alcune forme moderne, l'impianto melodico è spesso più modale che tonale; è questo per esempio il caso del genere rock86. Durante il corso del Novecento è emerso un certo interesse nei confronti della modalità, prima da parte dei musicisti colti, poi da parte di esponenti di nuovi generi musicali sviluppatisi nel corso del secolo. Intorno agli anni '60 la concezione modale venne rafforzata anche grazie alla diffusione della musica indiana e, negli ultimi trent'anni, dal crescente interesse verso la musica popolare, molto vicina, a livello tecnico, alla semplicità della concezione melodica. 85 G.Salvatore, Mogol-Battisti. L'alchimia del verso cantato, Castelvecchi, Roma, 1997. Nella musica tonale tutte le note della scala gravitano attorno alla tonica, ovvero alla nota chiave che definisce la tonalità di una scala; ogni nota quindi è in posizione gerarchica rispetto ad essa. Alcuni compositori moderni, per emanciparsi dall'eredità della musica tonale, hanno riscoperto un sistema di scale risalente all'antica Grecia, basato sui cosiddetti modi. La caratteristica di tali scale era la loro disposizione in ordine discendente. (O.Karolyi, La musica moderna, Mondadori, Milano, 1998) 86 82 Nel campo della musica modale è molto frequente l'uso del bordone, cioè di una nota fissa suonata da un basso o da altri strumenti; su questa base un modo funziona in tutto e per tutto come una scala melodica svincolata dagli accordi e dalla loro concatenazione, mentre, al contrario, nella musica tonale una scala non ha nessun significato se non in relazione ad un accordo. La differenza pratica consiste nel fatto che una melodia modale ripropone costantemente il suo modo di riferimento: il canto, anziché divagare in modo fantasioso, si concentra in un suo universo melodico, confermandolo e ripercorrendolo continuamente, anche nei suoi significati culturali. Questo, insieme alla ripetitività dei bordoni, contribuisce a conferire ai modi una qualità filosofica e mistica87. La canzone moderna, oltre che essere stata influenzata fortemente dalla modalità, ha assunto, in questi ultimi decenni, anche un certo carattere ritmico, dovuto al contatto ed al confronto, dagli anni '50 in poi, con generi come il rock n'roll, poi il rhythm&blues e la soul music, infine dal funky e dalla fusion music. Occupiamoci adesso della vocalità, le questioni inerenti la quale, nella musica pop e leggera, non sono mai state considerate con attenzione sistematica. Intorno agli anni '60 e '70, artisti di grande rilievo come Bob Dylan e Mick Jagger iniziarono ad allontanarsi dalle levigatezze vocali della musica leggera americana precedente gli anni '60; contemporaneamente in Italia lo stesso processo veniva avviato da Celentano e dagli "urlatori" in generale, ma anche da altri cantautori più eccentrici come Jannacci, senza escludere coloro che, come Modugno, apportarono intonazioni regionali alla nostra canzone. Più in generale potremmo dire che, in questi anni, si manifestò la necessità generalizzata di un ritorno al recitativo, cioè ad un'articolazione vocale più ridotta nell'escursione melodica e più libera nella prosodia, perché simile a quella della lingua parlata. Sicuramente qualche timido tentativo di riavvicinamento al recitativo si era verificato anche nella prima metà del secolo, ma fu nella seconda metà che, sotto l'influsso della musica afroamericana e, in alcuni casi come quelli di Dalla e Mogol-Battisti, da un desiderio di maggiore libertà metrica, che questa tendenza esplose e produsse effetti importantissimi. 87 G.Salvatore, Mogol-Battisti. L'alchimia del verso cantato, Castelvecchi, Roma, 1997. 83 Un altro fatto che contribuì enormemente al riaffermarsi della vocalità "cantata" e "parlata" fu l'uso sempre più frequente di espressioni vocali puramente emotive; si diffuse, infatti, la consuetudine di inserire, nel testo da cantare, grida, singhiozzi, sospiri, grugniti, consuetudine ereditata ancora una volta dai generi musicali prima citati. Talvolta accadeva anche che una sillaba venisse trascinata a lungo in fioriture e vocalizzi, o in commistione con recitativi ritmici del rap. Furono sempre Dalla e Battisti a mostrarsi incredibilmente innovativi anche in questa direzione. La voce, e quindi l'interpretazione, veniva sicuramente in questo modo valorizzata, in quanto la potenzialità più profonda di chi cantava veniva portata alle estreme conseguenze. La giusta valorizzazione delle qualità vocali del cantante è fondamentale, se consideriamo che l'interpretazione si pone esattamente a metà strada tra quello che la melodia ed il testo rappresentano di per sé. Infatti la profonda carica erotica della voce funge da tramite tra musica e parole ed è per questo che non va assolutamente svalutata. Concludiamo dicendo che, in una canzone, non si può affermare che esista a priori una superiorità da parte del testo nei confronti della musica, così come non si dovrebbe verificare il fenomeno opposto, cioè un dominio del suono sulla parola. 84 6) L'evoluzione della canzone moderna 6.1 La "canzone d'autore" Dovendo stabilire una data simbolica per indicare la nascita della moderna canzone italiana d'autore, ci dovremmo concentrare sicuramente sul 31 gennaio 1958, giorno in cui, la storia musicale nostrana, verrà rivoluzionata dalle seguenti parole: "Penso che un sogno così non ritorni mai più mi dipingevo le mani e la faccia di blu poi d'improvviso venivo dal vento rapito e incominciavo a volare nel cielo infinito volare oh oh cantare oh oh oh oh" Ovviamente ci riferiamo alla canzone "Nel blu, dipinto di blu" di Domenico Modugno e Migliacci, presentata al Festival di Sanremo alla fine degli anni '60. Il brano vincerà il Festival, venderà un milione di copie e spezzerà l'egemonia che un certo tipo di canzone melodica e "all'italiana" aveva imposto fino ad allora88. Prima degli anni '50, infatti, l'atmosfera della canzone italiana era caratterizzata, da un lato, da un perenne tono enfatico e melodrammatico, da un altro, da una serie di contenuti irreali ed artificiosi: <<abbondavano bianche mammine, femmine maliarde e perverse, insieme a vecchi scarponi militari, e poi fiori e campane, un bric-à-brac sospeso tra Liala e Pitigrilli>> (Paolo Jachia, 1998). La "favola" presentata da Modugno nel '58 è raccontata invece con brevi parole, precise ed efficaci, libere e piene di entusiasmo, interpretate con intensità e credibilità. Ricordiamo che la più grande innovazione di questa edizione sanremese fu che, per la prima volta, un autore interpretava una propria canzone, mentre la norma festivaliera prevedeva che le funzioni di interprete e autore fossero distinte e che alcuni cantanti importanti presentassero addirittura più di una canzone. 88 P.Jachia, La canzone d'autore italiana 1958-1997, Feltrinelli, Milano, 1998. 85 La grande capacità interpretativa di Modugno era senza dubbio legata al fatto che egli provenisse dal mondo teatrale, ed era quindi, prima che cantautore, "cantattore"; nelle sue canzoni era la voce, impostata teatralmente, a trascinare la musica ed era quindi l'impostazione attoriale a dare un senso, un ritmo, una velocità alle parole e alla musica. Così, grazie ad una personalissima interpretazione, egli riuscì ad oscurare la consunta retorica sanremese: emergeva in questo modo, per la prima volta, l'unità di testo, musica e interprete, caratteristica principale della moderna canzone d'autore. Certo, se si volessero riassumere gli elementi fondanti di quest'ultima, sarebbe un compito molto arduo. Infatti, con il passare degli anni, la canzone d'autore è stata definita in molti modi diversi e talvolta contrastanti tra loro: basti pensare a coloro che sostengono che i cantautori di oggi siano i poeti del nostro tempo, posizione rifiutata decisamente da altri esperti, secondo i quali il testo della canzone d'autore, per quanto ricco ed espressivo, non potrà mai essere paragonato all'eleganza di un testo poetico. Questa questione è, ancora oggi, molto dibattuta. Le parole di Roberto Vecchioni a proposito ben esemplificano la confusione che gravita tuttora intorno a questo concetto:<< "Canzone d'autore" è un termine infelice e ambiguo, derivante dall'ancor più infelice eponimo "cantautore". Un termine dovrebbe per sua natura circoscrivere e quindi segnare del limiti: qui invece i confini restano aleatori e indefiniti. Autore di che? Di canzoni belle, serie, colte, impegnate, sociali, stilisticamente nobili. E chi lo dice? Quando possiamo veramente esser certi che tutto ciò si verifichi? E si verifica poi sempre? E' lo stesso Modugno quello di Vecchio frac e di Piange il telefono?[...] Cos'è infine che dà la patente di "cantautore", il diritto al titolo? E' l'esclusività della creazione? E' la costanza temporale dell'impegno? E' quella serie di capolavori oscuri e sconosciuti al grosso pubblico? E' la capacità di far coincidere "colto" e "popolare", realtà e simbolo nello stesso percorso?>>89. Nel caso della canzone d'autore italiana, soprattutto degli anni '60 e '70, la situazione era ancora più disordinata, in quanto i nostri cantautori subivano, da una parte, l'influenza di grandi artisti francesi come Brel, Ferré, Aznavour, Becaud e Brassens; dall'altra, 89 L.Coveri (a cura), Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d'autore italiana, Interlinea, Novara, 1996. 86 si sviluppava con prepotenza il filone delle ballate americane da Guthrie a Dylan. L'Italia quindi ereditò sia l'amore, tipico della canzone d'autore francese, per le tematiche esistenzialistiche, sia l'interesse per la tematica sociale che, nei brani degli autori americani, aveva ormai soppiantato le argomentazioni di tipo amoroso. Ma ereditò anche due stili completamente differenti: da una parte un accompagnamento lento, stretto, chiuso in se stesso (quello francese); dall'altra, un accompagnamento vasto, incalzante e fino ad allora totalmente ignoto (quello americano). I cantautori italiani, indubbiamente arricchiti da queste tradizioni, si trovarono di fronte ad una dicotomia, con la prospettiva di una scelta o di una contaminazione. Fu da qui che iniziò il viaggio verso la ricerca di uno stile proprio, più italiano appunto. Dice ancora Vecchioni: <<Ma quale che sia a tutt'oggi il risultato di questo itinerario, con la canzone d'autore è nato un nuovo genere letterario che ha l'aspetto della poesia "classicamente" intesa e della canzone melodicamente popolare, ma è, al chiudersi dei due circuiti, diverso dall'una e dall'altra e non si definisce dalla giustapposizione delle parti, ma è struttura autonoma inscindibile di lirica e melica>>90. In realtà esiste una sostanziale differenza tra la poesia e la canzone: nella prima è la parola l'unico significante, mentre nella seconda i significanti sono almeno tre, la parola, il suono (o meglio l'accostamento dei suoni) e l'espressione vocale di chi comunica. Nella canzone, l'espressività di chi canta e l'abbordabilità dei concetti, fanno dell'immediatezza la sua principale caratteristica, cosa che non avviene invece nel caso della poesia. Ma perché il confronto tra la canzone d'autore ed il testo poetico è diventata una questione talmente spinosa? Forse perché il termine cantautore ha finito, col tempo, per far coincidere l'autorevolezza d'autore con la qualità letteraria del testo e per cancellare le capacità di musicista del cantautore stesso91. La tendenza principale quindi è quella di avvalorare il poeta, di sottolineare la forza del linguaggio, l'originalità del verso ed il coraggio del messaggio. Di certo questa tendenza non è completamente immotivata: alla fine degli anni '50, da Modugno in poi, la parola acquisterà 90 91 L.Coveri (a cura), op.cit. P.Jachia, La canzone d'autore italiana 1958-1997, Feltrinelli, Milano, 1998. 87 un'importanza fondamentale, ma, in ogni caso, questo non giustifica la tendenza a svalutare le qualità compositive dell'autore. Sicuramente è difficile stabilire se la canzone d'autore possa essere "letta" come poesia o no, o se i testi delle canzoni siano o meno la vera poesia contemporanea, però possiamo dire con certezza che la canzone d'autore italiana ha contribuito alla formazione di almeno due generazioni, questo anche grazie alla complicità della "cultura rock" di qualche decennio fa e alla diffusione della canzone sudamericana. Tra l'altro non dimentichiamo che la canzone d'autore italiana si distinse totalmente dalle cosiddette canzonette popolari e commerciali, cercando significati ben al di là dello stereotipo. Con essa il "letterario" subentra in scena in modo prepotente: non più la semplice equazione proposta dalle canzonette (libertà=popolo, distacco=dolore, donna=amore), ma una visione più profonda dell'esistenza umana; il cantautore inserisce varianti, sfumature, umorismi, assurdità logiche, riferimenti storici, favolistici e letterari92. E' in questo modo che la canzone d'autore si è costruita un universo metaforico tutto suo, ben distinto da quello della poesia. La canzone è un'opera di qualche minuto, l'ascoltatore deve poter trarre le sue conclusioni sin dal primo ascolto, non è concessa l'incomprensione ed è per tale ragione che essa ha necessariamente dovuto costruirsi gli strumenti che fanno in modo che ciò avvenga. 92 L.Coveri (a cura), Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d'autore italiana, Interlinea, Novara, 1996. 88 6.2 L'esperienza di Cantacronache e la scuola di Genova L'esperienza di Cantacronache venne avviata a Torino nel 1957 dal musicista Sergio Liberovici, che raccolse intorno a sé interpreti, ricercatori, studiosi come Fausto Amodei, Michele Luciano Straniero, Emilio Jona, Giorgio de Maria, Italo Calvino; con Cantacronache si affermò anche una delle nostre prime cantautrici, Margot, pseudonimo di Margherita Galante Garrone. I Cantacronache tentarono una canzone polemica e anticonformista, calata nella cronaca delle vicende e del costume italiano; i suoi esponenti avevano come riferimento la tradizione contadina, la canzone partigiana, i canti anarchici, ma vennero largamente influenzati anche dai chansonniers francesi, soprattutto da Brassens. Al clima di Cantacronache è legata quella che fu probabilmente la più bella canzone politica del secondo dopoguerra, Per i morti di Reggio Emilia, di Fausto Amodei, composta all'indomani dei motti popolari del 1960 e che recitava così: Compagno cittadino, fratello partigiano, teniamoci per mano in questi giorni tristi. Di nuovo a Reggio Emilia, di nuovo là in Sicilia son morti dei compagni per mano dei fascisti. Di nuovo, come un tempo, sopra l'Italia intera urla il vento e soffia la bufera... In quello stesso periodo, a Milano, Gianni Bosio e Roberto Leydi si erano fatti promotori alle Edizioni Avanti! di un vivace lavoro di ricerca sul canto e sulle tradizioni popolari. Nel 1961 avvenne la prima collaborazione tra costoro ed il gruppo del Cantacronache, per poi decidere, tra il '62 ed il '63, di fondersi, dando vita così al Nuovo canzoniere italiano. A quest'ultimo va il merito principale di aver formulato una canzone politicamente impegnata, capace di riprendere codici e moduli espressivi della musica popolare, in un processo a metà strada tra l'imitazione e la vera e propria reinvenzione. 89 La canzone del Nuovo canzoniere italiano voleva essere in opposizione non solo nei confronti del potere dominante, ma anche verso la canzone comune, quella prodotta in seno alla "musica leggera". Questo sentimento venne espresso in un libro sarcastico e critico intitolato Le canzoni della cattiva coscienza, contenente interventi di Straniero, Liberovici, Jona e de Maria e pubblicato da Bompiani: storia, musica e testi della canzone italiana venivano attentamente analizzati con lo scopo di mostrare, in sostanza, come la funzione della canzone fosse consolatoria e ingannevole, la sua qualità mediocre perché tendente alla massificazione del gusto, la sua retorica ipocrita perché disimpegnata e la sua natura profondamente mercantile, perché non rivolta alla valorizzazione del talento, bensì indirizzata dal fiuto commerciale93. Il libro va apprezzato indubbiamente per l'impegno collettivo nel considerare il fenomeno in tutte le sue sfaccettature, però risalta, inevitabilmente, il pregiudizio di fondo su cui si basano le critiche, talvolta per questo poco credibili. Il limite artistico , oltre che musicale, sta nel non aver cercato di uscire dalla contingenza politica e di essere rimasti prigionieri di un eccesso di retorica e di intellettualismo. I rappresentanti del Cantacronache avrebbero voluto ricreare il clima dominante in Francia, dove erano fiorite prima una fortissima amicizia e poi una importante collaborazione tra Sartre, Aznavour, Prévert e Brassens; ma i Cantacronache italiani, rispetto ai chansonniers francesi, non furono in grado di imporsi come artisti autonomi e non subalterni. Dall'esperienza del Cantacronache furono influenzati profondamente i cantautori della cosiddetta scuola genovese. Una precisazione iniziale: una Scuola di Genova in senso stretto non è mai esistita. Tutto avvenne per caso, quando tra 1959 ed il 1960 la casa editrice Ricordi decise di dar vita anche ad una etichetta discografica; il compito di selezionare i nuovi talenti venne affidato a Nanni Ricordi e Franco Crepax, i quali, dopo aver individuato alcune canzoni interessanti (molto diverse da quelle dominavano il mercato di allora), decisero che, novità per novità, avrebbero proposto agli autori stessi delle canzoni di improvvisarsi interpreti dei loro brani. Fu così che, dal nulla, emersero Paoli, Bindi, Tenco, De Andrè, Lauzi, Endrigo. La Francia, con la sua tradizione sotterranea che traccia un percorso discontinuo ma preciso che va da François Villon a Boris Vian, fu 93 G.Salvatore, Mogol-Battisti. L'alchimia del verso cantato, Castelvecchi, Roma, 1997. 90 ancora una volta molto influente sui cantautori genovesi, sensibili anche ai testi di Jacques Prévert. Importante punto di riferimento era anche la produzione americana, a partire dai testi politicamente impegnati di Pete Seeger e Woody Guthrie, fino ad arrivare ai brani della controcultura di Dylan. Non bisogna però pensare che queste influenze siano state le dirette responsabili del cambiamento della canzone italiana di questi anni; la questione di fondo era che aulicismi e linguaggio ottocentesco, retorica del cuore e rime stereotipate, avevano stancato, erano ormai diventate fortemente anacronistiche. L'Italia di quegli anni era profondamente provinciale, e non solo nelle canzone; bigottismo e conformismo dominavano in tutti i campi, scalfiti, talvolta, solo dal dilagante mito del benessere e del consumo. A quell'Italia questi primi cantautori trasmisero una carica di anticonformismo e di spregiudicatezza; loro esprimevano la loro obbedienza a diversi valori e modelli di vita, aspiravano ad un <<mondo diverso, diverso da qui>>, come cantava Paoli in Sapore di sale, lanciata al Cantagiro del 196394. Questi ragazzi davano voce ad un sentimento differente, al malessere di allora diffuso tra i giovani. I loro testi, come la loro vita d'altronde, erano pieni di dolore autentico; non dimentichiamo, infatti, che Gino Paoli nel 1963 tentò di togliersi la vita, Luigi Tenco nel 1967 mise fine ai suoi giorni al festival di Sanremo. La morte di Tenco segnò il cammino di tutti quelli che avevano condiviso con lui idee e sentimenti. A distanza di poco tempo De André scrisse Preghiera in gennaio, un'accorata invocazione a Dio affinché accogliesse in Paradiso l'amico, ignorando per una volta il divieto che ne esclude i suicidi. Sia il testo che la forma della canzone sono semplici, nonostante le parole siano rivolte a Dio; ma, il Dio a cui l'autore si rivolge non è quello dei benpensanti, bensì quello che conforta i sofferenti e gli umili95. De André, nel corso della sua lunga carriera, ha costantemente rielaborato in forma personalissima materiali attinti da diversi poeti, a partire dall'opera di Edgar Lee Masters, fino ad arrivare alla poesia di Umberto Saba; di quest'ultimo in particolare il cantautore genovese ha ripreso Città vecchia nella canzone omonima. Scrive Saba: 94 95 G.Borgna, Storia della canzone italiana, Mondadori, Milano, 1992. Accademia degli Scrausi, Versi rock, Rizzoli, Milano, 1996. 91 Qui tra la gente che viene che va dall'osteria alla casa o al lupanare dove son merci ed uomini il detrito di un gran porto di mare, io ritrovo passando l'infinito della povertà. Qui prostituta e marinaio, il vecchio che bestemmia, la femmina che bega[...] Qui degli uomini sento in compagnia il mio pensiero farsi più puro dove più turpe è la via Nella canzone di De André si respira la stessa atmosfera. Nell'<<aria spesso carica di sale,/gonfia di odori>> (efficace suggestione sinestetica96) si muovono figure di intensa umanità, come la bimba che impara il "mestiere", o i pensionati all'osteria che cercano <<la felicità dentro a un bicchiere>>: Li troverai là, col tempo che fa estate e inverno, a stratracannare, a stramaledir le donne, il tempo ed il governo. Loro cercan là la felicità dentro a un bicchiere per dimenticar d'esser stati presi per il sedere Lo schema metrico è quello della ballata, forma usata molto frequentemente dall'autore. E' sempre la ballata, scandita da rime baciate e alternate, quella utilizzata da De André ne "La guerra di Piero"; la struttura è molto complessa: il "cantastorie" si rivolge a Piero con la seconda persona ed alla sua voce si alterna quella di Piero stesso, in prima persona ed in forma colloquiale. Il testo è poi impreziosito da una serie di immagini metaforiche (<<marciavi con l'anima in spalle>>, per esempio) e come la prosopopea97 <<il grano ti stava a sentire>>. Nella canzone è molto frequente l'uso del passato remoto, tempo verbale in declino nell'italiano comune e molto raro nei testi musicati, tranne in quelli 96 La sinestesia è quel tipo di metafora che consiste nel trasferimento di un significato dall'una all'altra percezione sensoriale, per esempio <<un colore caldo>>. (Accademia degli Scrausi, Versi rock, Rizzoli, Milano, 1996) 97 La prosopopea è quella figura retorica che consiste nella personificazione di esseri inanimati o concetti astratti, a cui viene attribuita la facoltà di parola. (Accademia degli Scrausi, Versi rock, Rizzoli, Milano, 1996) 92 di Dalla e di Battiato; da rilevare infine l'anastrofe98 <<dei morti in battaglia ti porti la voce>>, in cui viene alterato l'ordine normale delle parole (ci aspetteremmo infatti <<la voce dei morti in battaglia>>). Non si può negare che i cantautori della scuola genovese manifestarono uno spiccato interesse poetico, alimentato forse dal fatto che avessero un amico in Arnaldo Bagnasco, che ai loro concerti talvolta leggeva poesie di Montale, Sbarbaro, Caproni, Campana. Inoltre i riferimenti letterari, da parte di alcuni autori, erano talvolta espliciti, come nel caso già citato di De André, o in quello di Endrigo, che intraprese vere e proprie collaborazioni con Pasolini, Rafael Alberti, Gianni Rodari, Vinicius De Moraes e persino Ungaretti. Fuori dalla scena genovese , anche Francesco Guccini si era interessato all'attività dei chansonniers francesi e a quella di Dylan; coi suoi riferimenti letterari però egli aveva un rapporto molto pratico e gli piaceva "rifare": nei suoi album si ispirò da Folgòre da San Gemignano e François Villon, a Carducci e Brel, e soprattutto a Gozzano. Francesco De Gregori, anche lui grande patito di Dylan, avrebbe, qualche anno dopo, attinto a riferimenti "alti" di varie letterature del Novecento: Eliot e Joyce per quella inglese, Hemingway e Ferlinghetti per l'americana, Penna e Caproni per la poesia italiana. Anche Roberto Vecchioni, tra riecheggiamenti, citazioni e parafrasi, userà Ariosto, Pascoli, Penna e nell'86 Branduardi metterà in musica i versi di Yeats99. 98 Per anastrofe o inversione si intende il cambiamento dell'ordine abituale di una sequenza di parole. (Accademia degli Scrausi, Versi rock, Rizzoli, Milano, 1996) 99 G.Salvatore, Mogol-Battisti. L'alchinia del verso cantato, Castelvecchi, Roma, 1997. 93 6.3 L'epopea del "beat" Alla fine degli anni '60 i Beatles e i Rolling Stones, i due storici complessi britannici, vivevano il loro momento magico, unitamente a due grandi cantautori statunitensi, Joan Baez e Bob Dylan; la loro influenza cominciava ad essere sentita anche in Italia, promuovendo innovazioni sia nella musica che nei testi delle canzoni. Proprio dagli Stati Uniti giunsero così i messaggi della Beat Generation; "beat" equivaleva a "sconfitto", "battuto". Se però lo leggiamo come abbreviazione di beatus il termine corrisponde, secondo quanto suggerito da Kerouac, sia a "sconfitto" che a "santo"; questa identificazione della santità con la sconfitta fu il tratto caratteristico dei beat, che possedevano una mistica della povertà volontaria100. <<La Beat Generation prima, poi il movimento hippy e la contestazione studentesca, introdussero nuovi argomenti, valori e obiettivi polemici nel pensiero giovanile internazionale: la critica alla civiltà delle macchine e dei consumi, al perbenismo e alla burocrazia, al dogmatismo delle religioni e degli stati; gli ideali del pacifismo, dell'uguaglianza sociale e razziale, dell'ecologia; le utopie della vita comunitaria, del solidarismo, di una società senza denaro fondata sul baratto e sulla produzione alternativa, del viaggio e della musica come fattori di esperienza e di comunicazione>>101. Ovviamente tutte queste argomentazioni giunsero ben presto ad influenzare la canzone di quegli anni. Così scrive Francesco Guccini nel 1965, nel brano "Dio è morto", portato poi al successo dai Nomadi: Ho visto la gente della mia età andare via lungo le strade che non portano mai a niente cercare il sogno che conduce alla pazzia nella ricerca di qualcosa che non trovano nel mondo [...] e un Dio che è morto ai bordi delle strade Dio è morto nelle auto prese a rate Dio è morto nei miti dell'estate Dio è morto... 100 101 G.Borgna, Storia della canzone italiana, Mondadori, Milano, 1992. G.Salvatore, Mogol-Battisti. L'alchimia del verso cantato, Castelvecchi, Roma, 1997. 94 Fu in particolare a partire dal 1966 che, in Italia, il termine "beat" entrerà nell'uso corrente del lessico giovanile: in un primo tempo circoscritto alla pura identificazione di una musica elettrificata e ritmicamente accentuata, poi esteso a tutto ciò che rappresentava il nuovo modo di esprimersi lontano dagli schemi del passato102. Il livello di consapevolezza con cui la cultura beat americana venne abbracciata in Italia non appare certo omogeneo: il vero movimento beat italiano rimase un fenomeno underground, con le sue riviste ciclostilate, bollettini arrangiati diffusi alla meglio. Nel '66 nacque a Milano "Mondo beat" e una rivista minore, "Urlo beat"; fu questa la vera avanguardia del movimento, ma venne perseguitata: i redattori delle riviste venivano arrestati per aver contravvenuto alle leggi sul "buon costume" o per oltraggio alle forze armate. Fu in questo clima che si sviluppò la canzone beat italiana, che rimase però sempre sganciata dal movimento centrale e sempre ignorata dalle riviste, che la consideravano un tentativo di strumentalizzare i giovani. 102 G.Borgna, Storia della canzone italiana, Mondadori, Milano, 1992. 95 6.4 La collaborazione Mogol-Battisti Mogol e Battisti hanno composto insieme centoquaranta canzoni nell'arco di tempo che va dal 1966 al 1980. Se nelle loro prime canzoni è facile rinvenire un forte legame tra loro e il "mondo beat" italiano e straniero, va subito precisato che questi due artisti seppero reinterpretare il mutamento epocale degli anni '60 inglesi e americani in termini molto personali e originali. Battisti mostra sin da subito di conoscere il modo in cui i Beatles componevano e infatti le sue strategie compositive erano assai simili a quelle utilizzate dal gruppo inglese. Proprio come quelle dei Beatles, le canzoni di Battisti cercavano di sfuggire alla quadratura tradizionale del periodare melodico, cioè alle otto o sedici battute di ogni sezione strofica, puntualmente suddivise in frasi melodiche dalle lunghezze e simmetrie piò o meno costanti. Quest'innovazione può essere paragonata al passaggio dalle "stanze" della tradizione poetica al "verso libero" della poesia del Novecento, dove il pensiero è guidato semplicemente dalla pura urgenza espressiva e dai suoi ritmi più intimi103. I Beatles furono sicuramente i primi a sperimentare, nella formacanzone, schemi diversi da quelli canonici. Il lavoro ebbe inizio nel 1964 con la registrazione dell'album "A hard day's night", dove il brano I'll be back aveva la sezione B di sette battute, con notevole effetto sulle attese dell'ascoltatore, abituato ad aspettarsi un periodare in otto misure. Queste varianti consentivano una maggiore elasticità, in quanto contribuivano a sottolineare effetti emotivi, narrativi o drammaturgici del testo della canzone. Battisti era ben predisposto a raccogliere simili spunti per farne una caratteristica saliente del suo stile. I tagli in 2/4 compaiono già in uno dei suoi primi capolavori, 29 settembre, probabilmente composta nel '66 e che subì forse l'influsso sia dei Beatles che dei Byrds; seguiranno ben presto anche le irregolarità della quadratura strofica, della continuità ritmica e del periodare melodico: sarà in questo modo che Battisti rinnoverà il linguaggio della canzone italiana. Questo interesse per le forme nuove sin trova sin dal primo singolo (Per una lira/Dolce di giorno), pubblicato a luglio nel '66. Battisti vi utilizza in modo alternato le due strutture strofiche principali 103 G.Salvatore, Mogol-Battisti. L'alchimia del verso cantato, Castelvecchi, Roma, 1997. 96 della forma-canzone: lo schema della ballad americana e lo schema italiano (ma anche francese) a strofa e ritornello. Dice Gianfranco Salvatore: <<Il lato B, Dolce di giorno, propone la forma a ballad (AABA, qui con un'ulteriore sezione A conclusiva), poi raramente ripresa da Battisti nella produzione successiva. Le sezioni A, comunque, ritornellano una porzione del testo (<<ho già deciso/che questa è/l'ultima volta che esco con te>>) alle battute 916. I tratti della canzone rimangono semplici: metrica regolare, a quinari, per motivi di due battute (tutti tranne l'ultimo). Il tempo è ternario, in 6/8. Lo schema strofico è esposto un'unica volta, con la ripresa finale della sezione A. Anche l'arrangiamento appare estremamente lineare[…] Per una lira, sul lato A, segue invece lo schema strofa-ritornello, adottando una struttura strofica abbastanza regolare. Questa struttura strofica è tra le più elementari del primo Battisti: uno schema AB con ciascun membro di otto battute, preceduto dal comune giro armonico I/VIm/IV/V ripetuto due volte su quattro battute a mò di introduzione. Nel secondo chorus, in B, si evita la cadenza perfetta rallentando e aggiungendo due battute coronate per andare a modulare due toni sopra. Il terzo chorus è di nuovo nelle sedici battute canoniche, molto dinamizzato dalla modulazione lontana([...]). La cadenza è d'inganno, sul VI grado, (la relativa minore), e porta un ad libitum IV/Vim di dieci battute, con l'organo rinforzato da una figura reiterata al pianoforte, e una conclusione ex abrupto, di grande effetto, in una scia d'eco che ribatte l'ultimo accordo dell'organo>>104. Per quanto riguarda le innovazioni tematiche apportate da Mogol e da Battisti, la più importante riguarda sicuramente il fatto che essi rivoluzionarono la canzone italiana con la descrizione di un rapporto assolutamente paritario tra uomo e donna, tanto paritario che con una donna si può parlare d'amicizia: occorre sottolinearlo, questa era un'esperienza quasi del tutto nuova per il costume e la musica italiana. Estremamente importante fu anche la presenza di Battisti al centro della stagione del cosiddetto "rock progressivo" dei primi anni '70, che seguì la fine della stagione beat. Il disco che interpreta questa stagione musicale è Anima latina, uno dei primi concept-album italiani, ossia uno dei primi lp che non fossero una compilation di 104 G.Salvatore, op.cit. 97 successi ma un'opera in cui le varie canzoni seguivano un filo logico, poetico e musicale, unitario105. 105 P.Jachia, Storia della canzone italiana 1958-1997, Feltrinelli, Milano, 1998. 98 6.5 L'italiano del rock Alla fine degli anni '60 il rock ha rappresentato un vero e proprio fenomeno di costume, è diventato l'urlo di protesta dei giovani contestatari ed ha portato con sé una nuova cultura di massa, con i suoi miti (la trasgressione, l'eccesso, il pacifismo e l'egualitarismo) ed i suoi riti (i grandi raduno-concerti come quelli dell'Isola di Wight e soprattutto di Woodstock)106. Nel nostro paese il fenomeno si sviluppò solo dieci anni dopo, contrapponendosi alla tipica canzonetta sanremese e allo stile dominante dei cantautori. Nella sua Musica ribelle del 1978, Eugenio Finardi inveiva contro <<le strofe languide di tutti quei cantanti/con le loro facce da bambini e con i loro cuori infranti>>. Il linguaggio rock, nato come intimamente antitradizionale, si riconosce oggi in una precisa tradizione. Per farci un'idea di cosa sia il rock inteso classicamente, cominceremo a dare uno sguardo a quello che, a lungo, ne è stato considerato il manifesto, Vita spericolata di Vasco Rossi: Voglio una vita maleducata, di quelle vite fatte così Voglio una vita che se ne frega,che se frega di tutto si voglio una vita che non è mai tardi, di quelle che non dormi mai voglio una vita di quelle che non si sa mai. E poi ci troveremo come le star a bere del whisky al Roxy Bar o forse non ci incontreremo mai ognuno a rincorrere i suoi guai ognuno col suo viaggio, ognuno diverso ognuno in fondo perso dentro ai fatti suoi Ciò che colpisce è innanzitutto la regolarità della struttura, basata su minime variazioni rispetto ad uno schema fisso, non diversamente quindi da come accade nella canzone tradizionale. Se prendiamo come punto di partenza l'anafora107 voglio una vita, ci renderemo subito conto che i versi sono sempre completati da aggettivi con lo stesso numero di sillabe e con la stessa sequenza fonica finale (maleducata, e poi spericolata, esagerata) o, in 106 Accademia degli Scrausi, Versi rock, Rizzoli, Milano, 1996. L'anafora è una figura retorica molto usata sia in prosa che in poesia che consiste nella ripetiziono di una o più parole all'inizio di frasi o versi successivi. (Accademia degli Scrausi, Versi Rock, Rizzoli, Milano, 1996). 107 99 alternativa, da sintagmi108 appositivi introdotti dal che. Il ritornello, ripetuto sempre uguale dopo ogni strofa, è formato da due coppie omologhe di versi, secondo lo schema: quarta persona del futuro (ci troveremo, ci incontreremo) seguita da una proposizione implicita (a + infinito) e da una coda giocata sull'anafora di ognuno109. Possiamo notare anche la presenza del tanto amato "noi generazionale" dei testi rock; basta pensare a titoli come Siamo solo noi dello stesso Vasco Rossi, Non è tempo per noi di Luciano Ligabue, Non siamo solo noi dei Timoria, Noi sì che vivremo dei Rats. L'antecedente di queste canzoni va cercato nella musica anglosassone: in My generation del '65 gli Who cantavano <<People try to put us down/just because we get around>>. Molto frequente anche l'uso di rime baciate, con una netta predilezione per quelle tronche, ottenute facendo ricorso alla rima identica (mai:mai); a una zeppa, cioè ad una espressione o parte del discorso che ha la funzione di far tornare la misura del verso altrimenti mancante di sillabe (per esempio sì in rima con così); a due parole straniere (star:bar). Un altro classico della canzone rock italiana è Salviamoci la pelle!!!! di Ligabue: Lei ha la foto di sua madre, un giorno o l'altro la guarderà che così non vuole diventare, che così, giura, mai non sarà. Lui la foto di suo padre l'ha dentro, impressa a fuoco nell'anima, impressa ad alcool, botte e insulti: <<andiamo via, andiamo dai, andiamo va>> La strofa è divisa in due parti secondo un perfetto parallelismo tra i quattro versi dedicati a lei e i quattro dedicati a lui; abbondano le simmetrie (la foto di sua madre/la foto di suo padre; che così non vuole/che così giura; impressa a fuoco/impressa ad alcool) e le altre figure di ripetizione: oltre alle anafore verticali appena citate compare anche un'anafora orizzontale (andiamo[...] andiamo[...] andiamo). 108 Il sintagma, unità sintattica minima formata da due o più parole che hanno un'unica funzione nella frase, può essere nominale (per esempio articolo + sostantivo: <<il bambino>>) o verbale (per esempio verbo + verbo:<<sta dormendo>>). (Accademia degli Scrausi, Versi rock, Rizzoli, Milano, 1996) 109 Accademia degli Scrausi, Versi rock, Rizzoli, Milano, 1996. 100 A prescindere dai singoli esempi, possiamo dire più in generale che, nell'ambito della musica rock italiana, nasce spesso l'esigenza di utilizzare strumenti che le permettano di distinguersi nettamente dalla tradizione canzonettistica precedente. La necessità di far rimare versi che finiscono con parole tronche però rappresenta un riavvicinamento, anche se non volontario, alle caratteristiche della canzone tradizionale. Quindi sono esigenze di tipo pratico che spiegano la tendenza a collocare in clausola parole monosillabiche semanticamente deboli (in ambito rock soprattutto le più vicine alla lingua parlata), che permettono di chiudere la curva prosodica del verso (cioè quella determinata dagli accenti della frase) con un movimento ascendente. E' per questo che i pochi monosillabi della lingua italiana ricorrono così spesso nei testi delle nostre canzoni e non di certo in abbinamenti ritmici originali, ma al contrario in un numero di combinazioni molto limitato e prevedibile a partire dalla vocale prescelta. A livello contenutistico i testi rock si mostrano decisamente innovativi. Prevalgono campi semantici legati alla natura, intesa nei suoi aspetti più selvaggi e primitivi; la maggior parte delle volte la figura animale equivale a quella umana (basta pensare a Bambolina barracuda, Lo zoo è qui, Figlio di un cane di Ligabue o Cane e La preda dei Litfiba, per citare qualche esempio). Ma i riferimenti alla natura sono presenti anche in quelle canzoni che considerano il lato mitico dei quattro elementi primari (aria, fuoco, acqua, terra) come fonte di energia positiva. Pensiamo a canzoni come Aria dei Flor, Il vento dei Litfiba o Io sono dei Negrita (<<mentre canto sono il tempo, sono il vento, sono Dio/sono l'acqua, sono il fuoco, sono io>>). Qualcosa di animalesco lo si può riscontrare anche nell'aggressività che caratterizza alcuni testi rock, aggressività che ha la funzione di scuotere l'ascoltatore e che si concentra in tre principali aree semantiche: il lessico, i riferimenti alla violenza fisica, una serie di vocaboli ed espressioni tesi a suscitare fastidio. Della prima categoria fanno parte canzoni come Vita in un pacifico mondo nuovo dei Fluxus (<<Devi essere tu ad annientare lo stato/a distruggere il mondo dove tutto sarà controllato>>) o come Caldo dei Diaframma (<<poi un pensiero esplode>>). Al secondo gruppo appartengono canzoni come Ti taglio la gola di Vasco Rossi o Fuoco su di te dei Marlene Kuntz, che recita:<<io voglio fare fuoco 101 su di te, fuoco su di te/sarebbe bello vedere i tuoi contorni svanire/nel rogo delle mie brame>>. Nella terza categoria rientrano invece brani come Del mondo dei CSI (<<il nostro mondo è adesso/debole e vecchio/puzza il sangue versato e infetto>>); oppure Pace frog dei Negrita, traduzione del noto brano dei Doors, che dice:<<Sangue sulle strade che mi arriva alle caviglie/sangue sulle strade che mi arriva alle ginocchia/sangue che si espande, melma su dal fondo/sangue sulle strade nei cunicoli del mondo>>. Nell'ambito della musica rock anche il rapporto con i mezzi di comunicazione di massa è spesso conflittuale. Dicono i Negrita in War: <<ma qual è il ruolo dell'informazione/e chi pilota quest'aberrazione/chi dirige questo gioco bestiale, virtuale>>. Nei confronti della radio il sentimento varia a seconda dei casi; Finardi nella Radio afferma:<<amo la radio perché arriva dalla gente/entra nelle case e ci parla direttamente>>, mentre Ligabue in Radio radianti fa il verso alla lingua patinata dei DJ:<<radiofelici/radiocontenti/radiosorrisi e baci smack/radio radianti>>110. A partire dagli anni '80/'90 in poi i testi abbandonano la concretezza e la durezza tipiche del genere rock per abbracciare l'astrazione di atmosfere rarefatte, come ci dimostrano i testi di Resta dei Litfiba (<<resta una parte di me/quella più quella più vicino al nulla>>), oppure di Antimateria dei Ritmo tribale (<<vorrei un corpo/fatto di antimateria/con dentro un cuore/che si stacchi dalla terra>>). Inoltre i testi si liberano dagli schemi e dalle costrizioni della rima ed acquistano un certo surrealismo, come avviene in Caldo dei Diaframma (<<l'autostrada è una serpe che striscia>>), e per arricchirsi di sinestesie, dicono infatti sempre i Diaframma:<<coprirò il peso di queste distanze>> (dal brano In perfetta solitudine), oppure i Timoria in Milano:<<e i ricordi non bastano ad asciugare i pensieri>>. Ed ancora i Negrita in Sono io:<<Chagall/su una nuvola di fiori/suona musica a colori per me>>. Come abbiamo potuto vedere in questi ultimi anni è emersa una evidente ricchezza metaforica dei testi, insolita per la tradizione rock e sembra che l'espressività di queste canzoni sia decisamente destinata a crescere. 110 Accademia degli Scrausi, op.cit. 102 6.6 L'hip-hop italiano Sotto le denominazioni di hip-hop, reggae, raggamuffin, posse si raccolgono numerosi generi musicali che, partendo da scenari abbastanza nascosti, sono riusciti a farsi spazio nella scena musicale nazionale. In Italia ha guadagnato sempre più terreno uno di questi generi in particolare, le posse: una posse è una coalizione di individui unita da una causa comune; l'originalità del termine coincide con il fatto che questi gruppi hanno da sempre evidenziato la differenza tra la loro formazione e quella dei tradizionali "gruppi" o "complessi". Dice Alberto Campo a proposito del linguaggio utilizzato dalle posse:<<Non era la solita solfa e occorrevano parole che segnassero la diversità, la rottura rispetto al passato. Ma c'era dell'altro, oltre alla riforma stilistica imposta da ritmi e metriche del rap: trattandosi di musica "parlata", che cioè nella parola ha la propria ragion d'essere, i versi delle canzoni non erano più elementi ornamentali, ma soggetti principali delle stesse>>111. In Italia l'esplosione del fenomeno risale al 1990, anno di uscita di Batti il tuo tempo, dei romani Onda Rosse Posse. La loro musica fece da colonna sonora al movimento di protesta studentesco della Pantera e rappresentava la volontà di dare contenuti nuovi alla canzone politica. Al giorno d'oggi sono numerosissimi i gruppi che hanno scelto, come mezzo di espressione, questo genere musicale, ma tra questi emergono le formazioni storiche dei 99 Posse, dei Bisca, degli Almamegretta e dei Sud Sound System. Ovviamente tra gli elementi di novità rispetto alla canzone tradizionale spicca il ritmo; in questo contesto il rapper gode di una libertà compositiva maggiore di quella di cui dispongono i cantautori o i parolieri, in quanto nella costruzione di un testo rap ci si ispira ai moduli della discorsività parlata. Infatti il cantautore deve fare i conti con la cosiddetta mascherina, uno schema sillabico precostituito che, per ragioni di melodia, impone la presenza, alla fine del verso, o di una parola tronca o di un monosillabo. Nel rap invece la parola è assolutamente svincolata dalla melodia (praticamente inesistente) ed a dettare legge è un ritmo molto ferreo. Quest'ultimo è in quattro quarti, interrotto solo dallo scratch (il suono prodotto dallo sfregamento della puntina sul disco di vinile mosso avanti e indietro manualmente) e dal cutting (una 111 A.Campo, Nuovo? Rock?! Italiano!, Giunti, Firenze, 1995. 103 forma di miscelazione di due dischi per cui si ripete molte volte la stessa porzione sonora); l'esito è quello di una prosa ritmata, non cantata, secondo la musica, in cui la forte scansione delle sillabe vuole rendere l'effetto di un'energia repressa. Anche la velocità di pronuncia è condizionata dalla ritmica, che costringe ad accelerazioni e sincopi oppure, viceversa, a riempimenti con formule fisse, di solito tratte dal parlato quotidiano112. Se da una parte il rap si sottrae allo schema limitativo imposto dalla mascherina, da un'altra esso è strettamente legato ad un suo schema, nel quale la rima svolge una funzione centrale. Essa infatti, che non ha lo stesso valore metrico che ha nella canzone e nella lirica tradizionale, risponde a due esigenze precise. La prima è di natura stilistica: nella rima deve confluire la carica aggressiva del testo; la seconda è di natura testuale: il brano rap deve risultare come una sorta di poema in prosa, l'orecchio non deve percepire il momento "in cui si va a capo". E' per questo che spesso, nella stesura del brano, i versi vengono scritti tutti di seguito, a volte anche senza punteggiatura, in modo da rendere difficile la scansione metrica; è la rima che garantisce il giusto livello di poeticità, ma soprattutto essa svolga una funzione connettiva, compatta le varie parti del testo. Gli autori dei testi rap non cercano però la classica rima, cioè quella situata alla fine del verso, bensì utilizzano la rimalmezzo (nel caso in cui la parola si trovi alla fine della prima metà del verso), la rima interna (quando almeno uno dei due termini è posto all'interno del verso), l'assonanza (cioè la rima imperfetta fondata sull'identità delle sole vocali di due parole) e la consonanza (rima imperfetta fondata sull'identità fonica tra le consonanti di due parole). Talvolta l'uso di insistere sugli stessi suoni spinge gli autori a creare dei veri e propri scioglilingua, l'effetto dei quali è quello di dar vita ad una reazione a catena. La medesima funzione unificante svolta dalla rima e dallo scioglilingua è propria anche di quegli artifici che in retorica vengono definiti figure di ripetizione, tra le quali senza dubbio emerge, per la sua frequenza, l'anafora. Esemplare fin dal titolo un brano dei 99 Posse, Ripetutamente, in cui ricorre per ben sedici volte la parola qualcuno ed in cui domina la rima in mezzo. 112 L.Coveri (a cura), Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d'autore italiana, Interlinea, Novara, 1996. 104 Lo stesso uso ritmico dell'anafora si ha in Rappresaglia, sempre dei 99 Posse; qui il pronome ti viene pronunciato con intensità crescente:<<ti possono arrestare, la casa perquisire/da quello che ti è caro ti possono strappare/ ti possono picchiare, ti possono umiliare>>. Un'altra figura di ripetizione è l'anadiplosi, ossia la ripresa all'inizio di una frase o di un verso o di uno o più elementi che chiudono la frase o il verso precedenti. Tale figura funge da collante tra i versi e può sostituirsi alla rima o collaborare con essa. A livello lessicale, non dobbiamo dimenticare che, la maggior parte delle formazioni italiane che produce questo genere musicale, proviene dal sud; così si verifica spesso che espressioni dialettali tipicamente meridionali vengano inserite nel testo della canzone. Se ci addentriamo invece nel campo dei contenuti di queste canzoni ci accorgeremo che i loro tratti distintivi sono il rifiuto delle ideologie, il senso di marginalità rispetto ad un sistema deludente, uno spiccato antagonismo sociale e una scelta pacifista, antiproibizionista e libertaria con forti venature anarchiche. 105 7) Le forme della canzone 7.1 Forme di canzone a strofe uguali Sino ad ora abbiamo giusto accennato al fatto che esistano diverse forme di canzone, senza però entrare nello specifico. Cercheremo ora di capire quante e quali forme di canzone possano essere identificate. La canzone si classifica in forme mono-bi e tripartite. La forma monopartita deve considerarsi come la più piccola forma musicale autonoma esistente e si basa su di una sola idea, che quindi si identifica col tema. In questo caso quindi accade che il periodo musicale, modellato sulla strofa ritmica della strofa del testo, si ripete immutato per tutte le strofe. L'andamento ritmico dev'essere sempre chiaro; quello melodico è tanto migliore quanto più il canto si intende anche da solo, senza nessun aiuto armonico114. Il giro armonico, in generale, è rappresentato da una semplice cadenza (T-D-T); di solito serve come tema per variazioni benché si incontri anche quale forma autonoma come lo sono i Preludi n.7 e 20 dell'opera 28 di Chopin e la Bagatella n.10 dell'opera 119 di Beethoven (quest'ultima, a causa della dilatazione di quattro misure che subisce nella ripetizione, si può essere indotti a considerarla bipartita)115. 114 115 Bas, Trattato di forma musicale, Ricordi, Milano, 1913. R.Nielsen, Le forme musicali, Edizioni Bongiovanni, Bologna, 1961. 106 7.2 Forma binaria di canzone Consideriamo ora il caso di una canzone o di un inno con due o tre strofe da musicare. Da questi semplici gruppi binari o ternari scaturiscono le forme più ricche e complesse. Il concatenamento di due periodi o strofe musicali può avvenire in due modi che, indicando i periodi o strofe con lettere maiuscole, rispondono a questi due schemi: I. A-A' II. A-B Nella prima combinazione la seconda parte o periodo o strofa musicale A' è uguale o simile alla prima A, invece nella seconda combinazione la seconda parte o strofa B è diversa dalla prima A116 . Sia il tipo A-A' che quello A-B presentano delle varietà; vediamo di analizzarle separatamente. Tipo A-A'. Varietà I: La forma più semplice di questo genere si può considerare un caso del tipo di canzone o d'inno a strofe uguali e si ha con la ripetizione di uno stesso periodo musicale; ciò avviene per esempio in canti con due strofe di testo, oppure in composizioni strumentali fatte di periodo più o meno ampio. Varietà II: La sostanza di questa forma semplicissima rimane immutata se, per esempio, in una canzone la prima strofa viene cantata da un solo o da poche voci, e la seconda invece del coro intero. E' una forma di cui non mancano esempi nell'arte popolare, con la disposizione a strofe alternate d'inni e di canzoni, e in campo strumentale. Se il pezzo è breve questo tipo si confonde con un periodo binario semplice o doppio, di cui la prima metà o strofa è data ad un solo strumento o ad una sola parte, mentre la seconda metà o strofa viene ripetuta da tutti. Se invece il pezzo raggiunge una certa ampiezza, le due metà occupano ognuna un periodo intero, magari doppio e triplo. La prima metà del pezzo è una preparazione, la seconda metà è un periodo solido e conclusivo; in queste condizioni le due strofe o i due periodi sono nello stesso tono. Difatti la seconda parte non è altro che una replica della prima. Ma è proprio il fatto che esista questa replica che potrebbe diminuire il valore e l'interesse suscitato dalla seconda parte, facendo desiderare all'ascoltatore qualcosa di differente rispetto a ciò che ha già udito. Il bisogno di varietà infatti è uno degli 116 Bas, Trattato di forma musicale, Ricordi, Milano, 1913. 107 elementi principali del senso estetico e dunque della forma ed è per questo che ogni composizione va costantemente alimentata con elementi nuovi e vivi. Dice Bas a tale proposito :<<[...] il complesso d'ogni composizione dev'essere un continuo aumento d'interesse, di vita, e talvolta anche di rapidità di movimento. La forza, in certo modo, d'incremento, d'ascensione, dei periodi musicali, è uno dei capisaldi della forma e dell'arte di comporre in genere. Quando questa forza manca, è inutile ogni più accorta applicazione di buone regole>> 117. In questo caso, per soddisfare il bisogno di varietà, ci sono i seguenti modi. Varietà III: Modificare od ornare più o meno largamente la ripresa con forme melodiche addizionali, in modo da rinfrescare e ravvivare l'interesse suscitato dalla strofa o dalla parte che si replica. Varietà IV: Questo modo è molto più efficace ed importante dell'altro ed ha come base lo spostamento tonale della ripresa A': Esposizione A |tono principale| Ripresa A' |tono affine| Ma, in quanto "il senso tonale ottiene il completo riposo solo quando si ritorna colla chiusa definitiva là d'onde si son prese le mosse" 118, si potrà dire in generale che "la condotta fondamentale della modulazione rispetto al periodo musicale e ad ogni forma si può riassumere in questo schema": tono principale tono affine ritorno al tono principale Tale schema, una volta applicato allo schema binario che ci interessa in questo momento , diventa: Esposizione A |tono principale tono affine| Ripresa A' |tono affine ritorno al tono principale| La scelta del tono affine è libera e viene fatta in base a quello che è il gusto dei compositori a seconda del carattere del pezzo e delle tendenze personali. Nell'ambito della teoria armonica risultano evidenti due cose: se il pezzo è di modo Maggiore, A si presenta in tono principale, ed A' 117 118 Bas, op.cit. Bas, op.cit. 108 in tono di dominante; se il pezzo è di modo minore, A si presenta in tono principale ed A' nel relativo Maggiore quando il tema vi si presta, o in tono di sottodominante. Inoltre, nei pezzi di modo Maggiore, il tono di Sottodominante va usato con ogni cautela, anzi, solitamente viene evitato. E' importante avanzare, in tale contesto, una precisazione fondamentale riguardante la struttura interna dei due periodi A e A'. Essi non hanno mai in questa forma il tipo ternario a-b-a'; ciò esercita un'influenza notevole sul senso complessivo d'unità del pezzo, ed è quindi un importante elemento di forma. Infatti, la ripresa della frase iniziale (come nel tipo a-b-a') rende il periodo poco adatto a concatenarsi col sopraggiungere di un periodo nuovo, che comincia anch'esso con lo stesso suo motivo iniziale e finale. Solitamente le due parti A e A' si ripetono, prima l'una e poi l'altra e questo viene indicato col segno di ritornello, così ||: A :||: A' :|| La forma, la struttura che stiamo trattando in questo momento domina tutte le composizioni strumentali prima della fine del secolo XVIII e rappresenta in un certo senso un primo stadio, ancora non del tutto maturo, di quella forma musicale che, partendo dalla semplice ripetizione di una strofa, sta evolvendo e maturando verso il tipo ternario a.b-a', che è la base della forma moderna. Tipo II: A-B. Il tipo A-B è meno organico del precedente e bisogna aver cura di condurre la forma in modo che le due parti o strofe diventino un'unità sola, pur essendo tra loro diverse. Varietà V: Uno dei modi più sicuri di raggiungere l'unità è indicata dallo schema seguente: A Periodo indeciso, quasi introduzione modulante. B tema deciso, chiaramente tonale. In questo modo il periodo B ha una preponderanza su A, che assicura l'unità della forma. Ma a questo punto bisogna intendersi sul significato dell'espressione tema: quest'ultimo è il pensiero, l'idea da cui scaturisce in tutto o in parte una composizione ed è dunque inevitabile che questo pensiero, quest'idea comprenda, nel periodo musicale che l'esprime, un insieme più o meno ampio e complesso di elementi, di motivi che contribuiscono al suo carattere, al suo valore ed al suo significato. Non si confonderà dunque il tema né 109 con il motivo né con lo spunto, che è solo un principio di tema: cioè non si confonderà il tutto né con le sue parti, né con il suo inizio. Il tema così concepito dev'essere un periodo, sia pur doppio o triplo, ma sempre concreto, efficace, così da affermarsi nella mente e nell'animo di chi ascolta come qualche cosa di vitale e di più o meno completo. Rispetto alla tonalità, il tema è sempre legato al tono suo proprio, o ad una data modulazione; questi due elementi, tono e modulazione appunto, sono caratteristici del tema stesso quanto le formule ritmiche, melodiche, armoniche da cui è composto. Dal punto di vista tonale Bas afferma che <<lo schema ora proposto esprime già come la prima parte A debba essere più o meno vaga, modulante, per lasciare la decisione anche tonale alla parte seconda B. Ma a tale proposito bisogna tener presente che la maniera di modulare, e l'usar molte modulazioni o poche, è un fatto strettamente legato alle tendenze ed ai caratteri propri d'ogni tempo e d'ogni singolo compositore>>119. Varietà VI: Tale varietà è detta anche forma binaria di canzone ed è fatta su questi schemi: N°1 ______A______ |__a__| |__a'__| tono _____ principale ______B______ |__b__| |__a''__| tono ripresa affine del tono princip. N°2 ______A______ ______B______ |__a__| |__b__| |__c__| |__b'__| tono I.tono affine II.tono affine ripresa del principale tono princip. Poiché indichiamo con lettere maiuscole (A e B) le due grandi parti della forma, e con lettere minuscole (a, b, c) le frasi od i periodi semplici che le compongono, è chiaro che ognuna delle parti o strofe musicali A e B è di tipo binario, cioè consta a sua volta di due elementi: ma B ha la sua prima metà diversa e la seconda uguale o simile alla corrispondente in A. Questa forma offre il vantaggio 119 Bas, op.cit. 110 della varietà recata dalla prima metà di B, mentre il ritorno della seconda metà di A alla fine del pezzo garantisce l'unità e l'efficace conclusione. Varietà VII: Quando le due parti A e B sono totalmente diverse l'una dall'altra e magari contrastanti, è chiaro che questa varietà appartiene alle forme a periodi semplici diversi. In questi casi bisogna attenersi al principio secondo il quale le due parti devono presentare un aumento di vitalità e di interesse musicale l'una rispetto all'altra, in maniera che la seconda sia più viva, più mossa ed attraente della prima. Solo così il senso estetico unifica i due periodi o strofe musicali in una sola linea ascendente. Dal lato tonale la migliore garanzia di condotta logica e d'unità vien data da uno schema in cui A va dal tono principale ad un suo affine, B ritorna dall'affine al principale. 111 7.3 I tipi ternari Il concatenamento di tre parti o periodi o strofe musicali presenta cinque diverse combinazioni: 1. Tipo A-A’-A’’ 2. Tipo A-A’-B 3. Tipo A-B-B’ 4. Tipo A-B-A’ 5. Tipo A-B-C Tutte queste combinazioni sono soggette alle seguenti leggi: I. Il periodo o parte intermedia d’ogni forma ternaria tende ad essere breve, mentre il periodo o parte finale tende ad essere lungo120. Infatti la parte o strofa centrale è presa fra la prima che che ha l’importanza dell’affermazione iniziale, e l’ultima che contiene il peso, l’ampiezza, la decisione della chiusa; quindi, trovandosi tra due periodi più significativi di lei, tende alla brevità. La tendenza al prolungamento nei periodi finali è legata alle basi stesse del ritmo. II. Ogni forma d’almeno tre periodi ha l’ultima nel tono principale. Il fatto che il senso tonale trovi completo riposo solo quando si conclude nel tono iniziale, è uno dei cardini dei rapporti di tonalità; se così non fosse le relazioni tra i diversi toni non avrebbero più valore. D’altra parte il periodo finale è il grande elemento musicale e ritmico che racchiude la decisione ultima, la conclusione definitiva del pezzo. Passiamo ora all’analisi di ogni singolo tipo. Tipo I: A-A’-A’’. E’ fondato come il suo analogo binario A-A’ sulla ripetizione di un periodo o strofa musicale. Lo schema tonale di questa forma è il seguente: A Tono principale A’ I.Tono affine A’’ II.Tono affine <<Tutti e tre i periodi hanno andamento modulante: il primo periodo A, parte dal tono principale e va al primo tono affine; il secondo periodo A’, va dal primo tono affine al secondo tono affine; il terzo periodo A’’, parte da questo secondo tono affine e ritorna al tono principale. Saggi di questa forma non sono rari in G.S. Bach [...]>>121. 120 121 Bas, op.cit. Bas, op.cit. 112 Tipo II: A-A’-B. Pùo essere considerata un’amplificazione di quella binaria A-B, di cui si ripete il primo periodo A, in questo modo: A I.Tema Tono principale A’ Ripresa Tono principale B II.Tema con senso conclusivo Tono principale In questo caso il primo periodo o strofa musicale, dovendosi riprendere, non può essere un’ampia introduzione più o meno indecisa, ma anzi deve avere una chiara fisionomia tematica. Dal lato tonale si noti come nel nostro schema tutti e tre i periodi sono in tono principale. La spiegazione sta nel fatto che, se da un lato è vero che nelle forme di almeno tre periodi l’ultimo va sempre in tono principale, è altrettanto vero che ogni tema che ritorna va anch’esso nel tono principale. Tipo III: A-B-B’. Anche questo può essere considerato un’amplificazione di A-B. Se ne possono dare due varietà: 1. Il periodo A ha carattere indeciso di introduzione modulante: A B Periodo indeciso, Tema chiaramente d’introduzione tonale. modulante. B’ Ripresa del tema. In questa forma esiste un solo vero tema, quello che si presenta in B, con la prima affermazione tonale; la ripresa in B avverrà anch’essa nel tono principale. 2. Il periodo A è un vero periodo tematico: A B B’ I.Tema II.Tema Ripresa del II. Tema Tono principale » tono affine » ritorno del tono principale In questo caso il II. Tema in B ha il suo tono proprio. <<In tutt’e due queste forme la tendenza al prolungamento già riconosciuta nei periodi finali può sì sviluppare la terza parte, ma non dà mai luogo ad una vera coda, cioè ad una riconoscibile appendice. La rende superflua la natura del periodo B’, ch’è già un’immediata ripresa, quindi una particolarmente percettibile ripetizione od un’amplificazione di B>>122. 122 Bas, op.cit. 113 Tipo IV: A-B-A’. Questo tipo, detto addirittura in certi casi forma ternaria di canzone, od anche forma di rondò, è cartterizzato dal ritorno di A in A’, dopo di B. A B Esposizione oI.Tema Intermezzo o II.Tema Tono principale Tono affine A’ Ripresa del I.Tema Ripresa del tono principale In tutte le altre forme binarie e trnarieil passaggio dal tono di una parte o periodo o strofa musicale al tono di un’altra viene sempre preparato; in questo modo ogni periodo o strofa compie un movimento modulatorio dal tono proprio a quello della parte o strofa che sta per seguire, oppure verso il tono principale in cui si chiude. Questo può avvenire anche in tale forma, ma può anche accadere che, in una particolare connessione tonale, ogni periodo termini nel suo proprio tono. Per quanto riguarda invece il carattere tematico della parte centrale, si possono verificare due situazioni: o la seconda parte o strofa B è un vero tema più o meno contrastante, oppure è un intermezzo privo di personalità tematica e tonale, relativamente indipendente dalla prima parte A. Tipo V: A-B-C. Questo ultimo tipo di forma ternaria è fatto di tre parti o strofe diverse tra loro. In questo caso diventa necessario un continuo aumento di vitalità e spesso di moto ed è sempre vigente la regola secondo la quale ogni forma ternaria ha l’ultimo periodo nel tono principale. 114 7.4 Il Lied <<Il Lied, nella sua accezione più pura, è l’espressione poetica e musicale manifestantesi in una forma semplice di un sentimento soggettivo con l’esclusione d’ogni elemento epico e drammatico. Forma semplice in quanto d’origine popolare e prediligente la struttura strofica regolare: alla quartina in poesia corrisponde, di regola, in musica il periodo di otto (o sedici) misure. Se alla prima quartina si aggiunge una seconda con una nuova melodia si ottiene la forma della Canzone (Lied) bipartita che, così in sé compiuta, può essere ripetuta per un numero illimitato di strofe.[…]>>123. Questa è la forma più comune del Lied a partire dalla metà del 1700, quando venne creato il nuovo stile monodico con accompagnamento strumentale; si tratta di una forma strofica in cui la strofa dallo schema di canzone bi- o tripartita può essere preceduta e seguita da un breve pre- e postludio affidati allo strumento. Possiamo facilmente intuire che è la forma poetica del testo a determinare quella musicale del Lied, quindi, se per esempio la poesia non ha forma strofica, allo stesso modo non la potrà avere la musica. In realtà però questo non sempre avviene: in certi casi “se il metro della poesia e l’accento della parola influiscono sulla struttura del periodo musicale e sull’andamento della linea del canto, la volontà (del compositore) di compenetrazione intensiva del testo porta, certe volte, alla creazione d’una forma musicale la quale non è la conseguenza di quella poetica, ma vuol essere l’espressione dello stato d’animo equivalente a quello della poesia. Avviene così che, per esempio, la forma strofica della poesia non venga rispettata dalla musica, sia in parte, sia completamente>>124 Possiamo distinguere tre forme tipiche di Lied: invariata; in questo tipo la forma poetica determina la semplice canzone strofica in cui la melodia per ciscuna strofa del testo rimane quella musicale. Oltre al Lied strofico semplice in cui cioè le strofe sono tutte uguali esiste anche quello variato. Il secondo tipo di Lied è più complesso ed è caratterizzato da una parte strumentale che ha funzione di nesso, detta <<durchkomponiert>>. Questo tipo segue il senso della poesia piuttosto che la sua forma, creando così un’atmosfera generica; 123 124 R.Nielsen, Le forme musicali, Edizioni Bongiovanni, Bologna, 1961. R.Nielsen, op.cit. 115 inoltre esso è in grado di valorizzare la parola, per cui ogni strofa riceve la sua propria melodia e, se per ragioni di equilibrio formale la melodia iniziale viene ripresa, questa appare modificata. Ovviamente questo tipo, concentrandosi sulla caratterizzazione e l’illustrazione del testo, sacrifica in certi casi la forma musicale intesa in senso assoluto a favore di una sottolineatura più efficace della parola, seguita in tutte le sue sfumature espressive. Il terzo tipo è libero e serve per canzoni di contenuto narrativo e declamatorio (ballata). Tra il primo ed il secondo tipo esistono comunque delle forme intermedie in cui una parte della poesia è trattata in forma strofica e l’altra come <<durchkomponiert>> oppure in cui l’inizio di ogni singola strofa è sempre uguale o per lo meno simile variando invece il seguito. 116 8) Tematiche dominanti nella produzione musicale dei Timoria "Non siamo arrivati, ma nessuno fino ad ora ci ha comprati". "Mork" (El topo grand hotel, 2001) 8.1 Chi sono i Timoria I Timoria nascono nel 1985 come Precious Time, nome con il quale nel 1986 parteciperanno alla manifestazione Deskomusic organizzata dal Giornale di Brescia. Sarà la vittoria riportata in quest'occasione che permetterà loro di accedere alle selezioni di Rock Targato Italia; grazie alla seconda importante vittoria ottenuta anche in tale contesto i Timoria, il più giovane gruppo partecipante, avrà la possibilità di effettuare un provino con la Polygram. E' solo nel 1988 che però avrà ufficialmente inizio la produzione discografica del gruppo: a marzo viene pubblicato il primo singolo, "Signornò", brano dal contenuto fortemente antimilitarista dedicato ad Amnesty International. La partecipazione alla manifestazione Rock Targato Italia porterà poi alla pubblicazione del mini-album "Macchine e dollari", due brani del quale (la title-track e "Ma perché non mi vuoi?") riusciranno a riscuotere un certo successo anche in radio. In questo stesso anno i Timoria partecipano anche alla compilation "Scorribande", presentando un brano dedicato al 40° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo, intitolato "L'altra via". Nell' '88 la formazione non è ancora quella definitiva: mancano Enrico Ghedi e Carlo Alberto Pellegrini (detto Illorca), che arriverà nel gruppo l'anno successivo al posto di Davide Cavallaro. Intanto i consensi che i Timoria ottengono dal vivo sono sempre più frequenti ed appassionati. Nel giugno del 1989 esce il 45 giri composto dal brano "Non sei più tu" e "Pugni chiusi", cover del brano dei Ribelli, nonché sentito omaggio, nel decennale della sua scomparsa, a Demetrio Stratos, il cantante degli Area. Il 13 giugno il gruppo debutta a Firenze nella sua formazione definitiva, con un concerto di solidarietà dedicato agli studenti di 117 Piazza Tien An men. I Timoria sono composti ora da Omar Pedrini, Enrico Ghedi, Carlo Alberto Pellegrini, Diego Galeri e Francesco Renga. A novembre esce "Walking my way", nato dalla collaborazione tra i Timoria e Gianni Maroccolo, allora bassista dei Litfiba nonché produttore sia di questo singolo che dell'album del '90 "Colori che esplodono", il quale riscuoterà un notevole successo, tanto da classificarsi sesto nel referendum annuale della critica musicale. Il singolo "Milano (non è l'America)", corredato da immagini di Wim Wenders, ottiene una buona rotazione sia sulle radio che su Videomusic. Quest'anno si concluderà con l'esibizione a Parigi in occasione dell'annuale festa della musica. Il 1991 si apre con la partecipazione dei Timoria al Festival di Sanremo col brano "L'uomo che ride", basato sull'omonimo romanzo di Victor Hugo; il gruppo verrà eliminato dalle giurie nel corso della prima serata, ma appositamente per loro verrà istituito il premio della critica. Il brano sanremese entrerà a fare parte dell'album "Ritmo e dolore", uscito a marzo e prodotto sempre da Gianni Maroccolo, la collaborazione con il quale avrà fine proprio l'anno successivo. Il 1992 è l'anno di "Storie per vivere", album che, nonostante la presenza di brani come "Sacrificio", "Atti osceni" e "Non siamo solo noi", dedicato a Freddie Mercury, non soddisfa molto né il gruppo né il pubblico. La seconda pubblicazione del disco vanterà l'aggiunta di "Male non farà", canzone firmata da Ligabue; i Timoria intanto collezionano concerti con un pubblico sempre più numeroso e aprono undici date del tour di Ligabue Lambrusco e Popcorn. E' del 1993 l'album "Viaggio senza vento", uno dei più importanti concept album alla realizzazione del quale partecipano artisti come Eugenio Finardi, Mauro Pagani e Candelo Cabezas; sarà proprio questo lavoro, prodotto in proprio, a permettere ai Timoria di aggiudicarsi il loro primo disco d'oro. Seguirà un tour lunghissimo di 90 date in 10 mesi. Tra le numerosissime esibizioni di questo periodo particolarmente importante fu quella avvenuta in occasione dell'edizione '94 di Sonoria, festival rock italiano dal cast eccellente che li vede sul palco con Aerosmith, Sepultura, Whitesnake e Helmet. Nel marzo del '95 esce "2020 speedball", anch'esso realizzato ed arrangiato dagli stessi Timoria. Questo è anche l'anno in cui il 118 gruppo viene invitato a collaborare al tributo ad Augusto Daolio, per il quale verrà incisa "Io vagabondo" insieme a Gianna Nannini. Nel febbraio del 1997 esce "Eta beta", disco ancora più composito dei precedenti e che vede la collaborazione con Leon Mobley, Dave Fuczinsky e Luca Zulu Persico dei 99 Posse; l'album comprende inoltre una cover di "Zobie la mouche" dei Negresses Vertes, rappresentativa dell'amore del gruppo nei confronti della Francia e della lingua francese. Questo lavoro segnerà l'ingresso nel gruppo del percussionista Filippo Ummarino. Intanto le collaborazioni tra i Timoria e altri artisti, tra i quali Antonella Ruggiero e Marco Lodola, proseguono ininterrottamente. Il 1998 è l'anno in cui il cantante Francesco Renga esce dal gruppo, dopo aver con esso realizzato un'antologia che celebra i dieci anni di carriera dei Timoria, intitolata "Senza tempo". Proprio in questo periodo si sviluppa l'interesse, da parte di Omar Pedrini, per il Brescia Music art, festival artistico all'insegna della collaborazione tra i diversi generi artistici: tre giorni di musica, pittura, scrittura, poesia, installazioni video e molto di più, che attirano artisti come 883, Jovanotti, Alberto Fortis, Marco Lodola, Marc Kostabi, Emidio Clementi, Enrico Ruggeri, Madaski, Daniele Silvestri e tanti altri. Il festival è caratterizzato da insolite ed interessanti esibizioni "interdisciplinari". E ' proprio in quest'occasione che i Timoria presentano ufficialmente i nuovi componenti del gruppo, Filippo Ummarino (percussioni) e Sasha Torrisi (voce e chitarra ritmica) e rafforza ancora di più il suo rapporto con Lodola, nell'atelier artistico del quale, Lodolandia, realizza gran parte del nuovo album, "Timoria 1999". In questo disco verrà inserito il brano "L'amore è un drago dormiente", su testo di Aldo Busi e musica di Omar Pedrini; ed è sempre in tale occasione che debutta il Gruppo '98, riunione di artisti provenienti dai campi più disparati avente come obiettivo la rivalutazione del bello che vuole operare sulla realtà provando a trasformarla. Il 2001 è l'anno di "El topo grand hotel", decimo album dei Timoria che riuscirà ad aggiudicarsi il titolo di terzo miglior album dell'anno nel referendum indetto da Musica & Dischi e che permetterà al gruppo di collaborare con artisti quali Ferlinghetti, Jodorowsky, Eddie Henderson, James Thompson, David Fuczinski, Leon Mobley e Articolo 31. Nel 2002 i Timoria partecipano per la seconda volta al Festival di Sanremo con il brano "Casa mia", che poi verrà inserito nell'album 119 che uscirà il 5 aprile, "Un Aldo qualunque sul treno magico", colonna sonora del film di Dario Migliardi "Un Aldo qualunque", che vede tra i protagonisti lo stesso Omar Pedrini nelle vesti di un prete rock, don Luigi. L'atmosfera evocata dall'album è la stessa che si respira nel film, ambientato negli anni '70. I Timoria oggi sono: Diego Galeri: batteria, voce Enrico Ghedi: tastiere, voce Omar Pedrini: chitarre, voce Carlo Alberto Pellegrini: basso, voce Sasha Torrisi: chitarre, voce Filippo Ummarino: percussioni Discografia: The precious time (1986) Macchine e dollari (1988) Colori che esplodono (1990) Ritmo e dolore (1991) Storie per vivere (1992) Viaggio senza vento (1993) 2020 speedball (1995) Eta Beta (1997) Senza tempo (1998) Timoria 1999 (1999) El topo grand hotel (2001) Un Aldo qualunque sul treno magico (2002) 120 "Qualcosa di mio lo lascerò in questo mio tempo, saltando nel vuoto aspetterò il nostro momento" "Senza vento" ( Viaggio senza vento, 1993) "Devo vincere la colpa che oggi è esser giovani" "Non siamo solo noi" (Storie per vivere, 1992) 8.2 Il rapporto intergenerazionale Credo sia impossibile rilevare, nel repertorio musicale dei Timoria, dei filoni veri e propri, delle tematiche ben definite, innanzitutto perché ogni canzone è il frutto di una serie di interessi talvolta anche molto eterogenei tra loro ed in secondo luogo perché alcune di esse propongono tematiche assolutamente a sé stanti e quindi difficilmente "catalogabili". Nonostante questo, al fine di rendere tale analisi più chiara ed ordinata possibile, è stato necessario selezionare alcuni dei temi proposti dal gruppo nel corso della loro carriera, iniziata quando ogni suo componente era appena diciottenne. E' proprio per sottolineare il modo in cui i contenuti dei Timoria si siano evoluti col tempo che ho voluto inserire, tra le varie tematiche, quella del rapporto intergenerazionale, così da poter evidenziare come tale relazione abbia assunto delle connotazioni diverse, anche se comunque coerenti, con il trascorrere degli anni. Quella del rapporto tra differenti generazioni è sempre stata una problematica viva e presente, a partire dai primi album ed in modo particolare dall'album "Colori che esplodono", considerato dal gruppo il primo disco vero e proprio e contenente una delle canzoni che forse testimonia più di tutte le altre la difficoltà di porsi in relazione con un genitore. "Albero" rappresenta, attraverso una efficacissima allegoria naturalistica, il rapporto tra un padre ed un figlio: Albero, la vita è dentro di te crescerò senza capire perché per quanto tempo ho vissuto nascosto tra le tue foglie per quanto tempo ho giocato tra le tue braccia più forti e soffro vedendo le tue foglie cadere non posso sentire l'inverno arrivare perché? 121 Albero, la vita è dentro di te crescerò son forte ormai come te e finalmente ti guardo tu hai radici più forti e finalmente ti ascolto senza paura, senza paura e soffro vedendo le tue foglie cadere non posso sentire l'inverno arrivare perché? Come si evince dal testo l'albero rappresenta la continuità, ciò che c'è sempre stato prima di noi, è dunque un punto di riferimento costante per colui che deve ancora crescere, che deve costruirsi delle radici "forti". Se la prima parte della canzone sembrerebbe il frutto di una mente ancora adolescente, la seconda risulta invece essere un resoconto più lucido di quello che l'albero, quindi la figura paterna, ha rappresentato nella vita dell'autore. L'albero è quindi il simbolo della stabilità. La grandezza di questa canzone, scritta nel 1990, consiste anche nel fatto che essa rappresenta un germe, il germe di quel simbolismo che poi acquisterà un'importanza sempre più crescente nella produzione artistica dei Timoria e che riuscirà ad esprimersi totalmente nell'album pubblicato nel 2001, "El topo grand hotel". Ma, trattando la tematica del rapporto intergenerazionale, sarebbe impossibile non nominare due pilastri della produzione del gruppo, "Sacrificio" del '92 e "Senza vento" del '93. "Sacrificio" è un'analisi molto intima, sentita e personale di quella che è la propria condizione di figlio, analisi permeata da una particolare sensibilità che spinge l'autore ad affrontare prima quello che è il proprio rapporto con la madre e ad esprimere quindi la necessità di essere ancora una volta accompagnato e guidato nel cammino della sua esistenza; poi egli si rivolge al padre, con una lucidità tale che gli permette di realizzare istantaneamente quella che è stata la sua vita, sofferta e dignitosa. "Sacrificio" può essere considerata un'autoanalisi, una riflessione su sé stessi, in essa è assolutamente assente il desiderio di esprimere disprezzo e ribellione nei confronti di una generazione in cui non ci si riconosce, desiderio che spesso caratterizza i testi delle canzoni giovanili. Di questa canzone, scritta da Omar Pedrini e contenuta nell'album "Storie per vivere", riportiamo prima il testo e poi gli spartiti: 122 Mentre scivola il week-end e mi faccio male a modo mio torno a casa e tu sei lì stai sognando cose semplici. Nell'oscuro specchio che impietosamente giudica vedo ciò che resta in me tra gli sfregi della vita mia. Madre, tuo figlio è cieco e non lo sai forti le sue mani ma tu non lasciarle mai e quando il mio nemico vinto tu vedrai ti porterò lontano e poi sarò il tuo amante se lo vuoi. Forte uomo resta qui ciò che resta sono immagini se ricordi quando tu combattevi per qualcosa in più. Figlio della povertà di un onesto uomo andato via prima di vedere che ora bevi vini nobili. Padre, non piangere ora tu sai che se ti tradiranno ancora, ancora vincerai e se mancherà qualcosa agli anni tuoi te ne regalo un po’ dei miei prendili tutti se li vuoi. 123 "Senza vento" fa parte dell'album "Viaggio senza vento", primo concept album dei Timoria che gli ha permesso tra l'altro di aggiudicarsi il loro primo disco d'oro. Nonostante la tematica proposta sia ancora quella del rapporto talvolta assai problematico tra le diverse generazioni, in questo caso la questione viene affrontata in modo decisamente diverso, sicuramente più critico; inoltre in questa canzone viene offerta un'interpretazione personale di quella che è la situazione sociale e soprattutto ideologica all'inizio degli anni '90. La generazione "senza vento" è la generazione di oggi, quella che viene continuamente contrapposta ai giovani di trent'anni fa, a coloro che grazie alla loro fermezza ideologica sono riusciti in parte a cambiare il mondo. Questa canzone è lo strumento attraverso il quale la nuova generazione rivendica quello che è il proprio ruolo all'interno della società, stanca di essere confrontata ininterrottamente con una realtà che ormai non le appartiene più, ma consapevole anche dell'importanza degli avvenimenti storici e sociali di tre decenni fa. E' vero quindi che gli anni '90 sono stati anni confusi, anni in cui forse sarebbe stato necessario essere guidati da un vento più preciso, così come era accaduto negli anni '60 e '70, cioè quando la direzione da seguire era chiara più o meno per tutti e gli obiettivi da perseguire erano espliciti e di una certa "consistenza". Ma è anche vero che la nuova generazione appartiene ad una realtà completamente diversa e che quindi anche il suo modo di porsi nei confronti di essa sia altrettanto differente. Anche in questo caso riportiamo il testo della canzone seguito dai suoi spartiti: 124 E son qui, non c'è niente strade, bar: comunque mi difendo, non mi arrendo la mia età è un fuoco freddo nato qui, vivo e non credo in niente, credo in niente. Mi dici che voi trent'anni fa fermaste un po’ il mondo mi dicono che vent'anni fa era tutto diverso ma son pronto per volare senza vento. Come me anche tu resti qui e vedi le giornate già vissute dentro me il risveglio ciao a voi perché domani parto, sweet reaction. Qualcosa di mio lo lascerò in questo mio tempo saltando nel vuoto aspetterò il nostro momento ma son pronto per volare senza vento 125 "Povero e fiero sarò, nel nome dell'arte anch'io" "Nel nome dell'arte" (Storie per vivere, 1992) "C'è un lungo fiume di dolore che attraversa il tempo. Nel suo letto scorrono il fuoco dell'arte e i cadaveri dei suoi figli maledetti" Omar Pedrini (da Eta Beta, 1997) 8.3 Contaminazioni artistiche Il Brescia Music Art, primo festival italiano delle contaminazioni, è nato nel 1998 per volontà di Omar Pedrini (leader dei Timoria), secondo il quale l'arte è un fiume incontaminato che ad un certo punto del suo percorso si sviluppa in tanti piccoli rigagnoli dando vita alle sue diverse espressioni, cioè la musica, la pittura, la poesia, il cinema, la danza e così via. Partendo da tale presupposto si intuisce che esista un legame indissolubile tra i diversi strumenti di comunicazione artistica, legame dovuto al fatto che l'obiettivo di base di ciascuno di essi resta comunque quello di esprimere un contenuto molto intimo e personale. La musica dei Timoria cerca di rimettere insieme quei mezzi espressivi che talvolta vengono considerati nella loro singolarità, mentre ne viene ignorata la strettissima interconnessione. Nei brani dei Timoria convergono gli interessi di ogni suo singolo componente, da quelli strettamente musicali fino ad arrivare alle preferenze poetiche, letterarie e cinematografiche. Compaiono così citazioni di Pablo Neruda, di Dino Campana, di Lawrence Ferlinghetti, di Italo Calvino, di Victor Hugo, di Sergio Leone, di Alejandro Jodorowskji e così via. La passione letteraria in modo particolare è sempre emersa nei dischi dei Timoria, soprattutto quella nei confronti degli autori della Beat Generation, di Hermann Hesse e dei classici della letteratura mondiale, come Kerouac, Dostoevskji, Castaneda, Camus, i poeti maledetti. Alla base del background culturale dei Timoria c'è una solida preparazione classica, a partire dal nome stesso del gruppo, di origine greca. In passato si è assistito anche a incursioni della lingua latina, avvenute nell'album "Ritmo e dolore" del 1991, contenente il brano "Gloria fluxa est". "Colori che esplodono" è considerato dal gruppo il primo album a tutti gli effetti, ma è anche il primo lavoro in cui emerge 126 violentemente questo spiccato amore per l'interdisciplinarietà. Il disco è un omaggio ai grandi artisti che hanno arricchito la storia della pittura e a tutti coloro che in passato hanno evidenziato i numerosi nessi esistenti tra essa e la musica; compaiono così riferimenti a grandi esponenti del mondo artistico come Van Gogh, che affermava di dipingere le note, Kandinsky, secondo il quale i suoi quadri non erano altro che "improvvisazioni musicali", Mussorgsky, grande compositore russo particolarmente sensibile alla magia delle diverse arti. Sempre di questo album fa parte il singolo "Milano (non è l'America)", arricchito dalle immagini di Wim Wenders. Ma il significato di "Colori che esplodono" è ancora più profondo: la copertina ritrae un bambino, simbolo del candore e della disillusione e quindi della speranza che, all'inizio di un nuovo decennio (l'album uscì nel 1991), qualcosa sarebbe cambiato in meglio; il bambino è anche colui che abbraccia, come primissimo mezzo espressivo e comunicativo, il disegno, cioè la pittura nella sua forma più semplice, istintiva e naturale. I testi e le musiche si inscrivono perfettamente in questo contesto, essendo molto eterei, delicati e poetici. L'amore per la poesia emerge già in questo disco, contenente il brano "Siempre nacer", liberamente ispirato all'omonimo testo di Pablo Neruda. E' proprio questa grande passione a spingere i Timoria a recitare poesie durante i concerti, con la convinzione che, al giorno d'oggi, sia molto più provocatorio dal palco invitare i giovani alla lettura piuttosto che incitarli ad una "ribellione" spesso ingiustificata e forzata. A partire da questo momento in poi i riferimenti poetici e letterari diventeranno sempre più frequenti. Nell'album successivo, "Ritmo e dolore", viene invece riadattata la poesia di Hermann Hesse "Jugendflucht" e viene proposto un brano ispirato al romanzo di Victor Hugo "L'uomo che ride", canzone con la quale i Timoria parteciperanno al Festival di Sanremo, durante il quale verrà istituito appositamente per loro il premio della critica, previsto ancora oggi ed assegnato a chi propone un testo, una musica o dei contenuti particolarmente originali ed innovativi. "L'uomo che ride" narra, in modo più o meno esplicito, le vicende di Gwynplaine, personaggio creato da Victor Hugo. Ciò che caratterizza il protagonista del libro, e quindi della canzone, è la sua diversità fisica, che poi lo porterà a sentirsi differente da tutti gli altri in qualsiasi contesto; anche il suo modo di vivere l'amore, 127 nonché le sue vicende personali, si distinguono da quelle di chiunque altro. In Gwynplaine si possono riconoscere tutti coloro che, almeno in un momento della loro vita, hanno percepito la sensazione di essere "diversi", non omologati al resto della società. E forse anche i Timoria, che in ambito musicale sono sempre stati considerati "anomali" sia per la particolarità dei temi proposti che per la loro estraneità alle imposizioni dello show-business, si sono perfettamente immedesimati in tale condizione. Riportiamo il testo e le note del brano "L'uomo che ride": Come la gloria può uccidere un Re e l'amore un forte uomo l'uomo che ieri correva per te puoi dimenticarlo ormai. Non tornerà mai più l'ho visto andare via nessuno sa perché non tornerà mai più. Han bevuto il suo bicchiere raccontava un vecchio ieri il suo orgoglio l'ha guidato per avere dignità. Non tornerà mai più l'ho visto andare via nessuno sa perché non tornerà mai più. Ricordati di me sono l'uomo che ride tiepide lacrime le nasconde il mio viso perdonami se puoi per averti amato se un giorno tornerò sarà solo per te. Ricordati di me quando volerai in alto il resto è merda sai. E se qualcuno parlando di lui e del suo eterno sorriso tu non scordare che dentro di sé c'era un forte uomo sai. 128 La diversità, intesa in tutte le sue forme, ha sempre colpito i Timoria e ne ha influenzato le letture; a prescindere dai gusti assolutamente personali e quindi dalle correnti letterarie amate da ogni suo singolo componente, il gruppo ha sempre cercato di concentrarsi su quei personaggi che destavano stupore a causa del loro essere al di fuori della massa, all'esterno di una società che condanna tutto ciò che ad essa non si adegua. Nasce in questo modo anche il testo di "Boccadoro", brano contenuto nel disco del '95 "2020 speedball" e ispirato all'opera di Hermann Hesse "Narciso e Boccadoro": Uomo corri più che puoi, i gendarmi stan cercando te. Ora non temere che verdi valli e prati rivedrai. Corri come il vento corri vagabondo via. Uomo forte e giovane a quante donne hai sorriso già. Ridi non aver paura il castello è lontano ormai. Bacia il tuo destriero, ridi Boccadoro che la foresta è tua. Forse lei dorme già nella notte pregherà per te ma tu non piangere. Ridono spiriti le anime del bosco sanno che si scorderà di te. Non sai dove il viaggio porterà questo è il tuo destino non sarai più uomo ma figlio tornerai. 129 Il desiderio di contaminare la propria musica con quella di altri grandi esponenti appartenenti ai campi più disparati ha spinto il gruppo a cercare collaborazioni con artisti come Marco Lodola, famoso in tutto il mondo per i suoi originali lavori realizzati con materiali poveri quali perspex e anamel, e Aldo Busi, creatore del testo del brano "L'amore è un drago dormiente" contenuto in "Timoria 1999" e musicato da Omar Pedrini. Un altro campo che ha sempre attirato l'interesse dei Timoria è quello cinematografico. Nonostante sia ovviamente impossibile stabilire una gerarchia tra le differenti espressioni artistiche, la poesia viene vista dal gruppo come l'arte più efficace, quella più immediata ma anche la più povera in quanto per essere realizzata necessita di pochi strumenti; il cinema invece, essendo in grado di racchiudere tutte le altre, viene considerata l'arte più completa. Questa passione esplose già ai tempi di "Viaggio senza vento", primo concept album e quindi primo lavoro che implica una scenografia, che ha un filo conduttore; quest'album, prodotto dai Timoria, può essere quindi paragonato ad un film, avendo esso una trama ben definita, un protagonista e un'ambientazione più o meno reale. Tale scia verrà poi ripresa nei dischi successivi, soprattutto in "2020 speedball" e "El topo grand hotel", anche se l'album che rappresenta a pieno titolo l'avvicinamento del gruppo al mezzo cinematografico è "Un Aldo qualunque sul treno magico", uscito nell'aprile del 2002 come colonna sonora del film di Dario Migliardi "Un Aldo qualunque". Le musiche e i testi delle canzoni rispecchiano quella che è l'atmosfera descritta nella pellicola, ambientata nella Torino degli anni '70. Il suono deve molto a gruppi storici di quegli anni, e non è un caso che proprio in quest'album venga ripreso un concetto al quale tre decenni fa si era molto affezionati, quello del "magic bus", introdotto dagli Who e poi divenuto il simbolo di un'epoca. 130 "Partirò restando qui…" Febbre" (El topo grand hotel, 2001) " Hai attraversato cento nuove città, tra poco il viaggio dolce meta sarà…" "Il mercante dei sogni" (Viaggio senza vento, 1993) 8.4 Il viaggio filosofico e spirituale La vita dell'uomo è un continuo viaggio, costellato da una serie di difficoltà, ma anche da soddisfazioni che danno la forza ed il coraggio di andare avanti e di continuare a sperare: questo sembra essere il messaggio che i Timoria da sempre hanno cercato di trasmettere. Il tema del viaggio, non un viaggio materiale ma interiore e filosofico, è presente in modo più pregnante in due dischi , "Viaggio senza vento" del 1993 e "El topo grand hotel" del 2001. Si tratta di due album, ispirati ai concept degli anni '70, protagonista del quale è Joe, guerriero alla ricerca di sé stesso, nonché alter ego di Omar Pedrini. "Viaggio senza vento" illustra quello che è il percorso del suo protagonista che, dopo il suo arresto e la sua fuga, riuscirà a riscoprirsi, non senza conoscere anche l'amore; il malessere che lo accompagna è lo stesso che affligge tutta la generazione senza vento, è un malessere che lo spinge a fuggire dalla quotidianità e dalla sua superficialità e andare alla ricerca di una realtà suprema, dell'Om, della perfezione. Il tragitto di Joe è dunque un tragitto spirituale, un viaggio che può essere realizzato anche da fermi e che va oltre qualsiasi concezione e restrizione di tipo spazio-temporale. I riferimenti alla filosofia orientale non sono assolutamente casuali. Il viaggio di Joe potrebbe essere paragonato infatti al percorso di Siddharta e non per niente l'esperienza del suo creatore, Hermann Hesse, rispecchia in parte quelle che sono le concezioni che l'album vuole trasmettere: l'autore tedesco ha infatti descritto l'India pur non essendoci mai stato, l'ha descritta da un punto di vista prettamente occidentale, ma è riuscito comunque a coglierne l'essenza. Il tipo di viaggio di cui egli parla è soprattutto "entronautico", intimo e spirituale. La conclusione è che la vita è un percorso che ci arricchisce ogni giorno di più e che ci permette di ampliare il 131 bagaglio delle nostre conoscenze e delle nostre emozioni; è un viaggio ininterrotto, senza tempo e senza età, che non ha niente a che fare con le condizioni esterne materiali dell'ambiente in cui vive la persona che lo compie , ma è da esso astratto. A sintetizzare lo stato d'animo del protagonista è un brano in particolare, "Piove", completamente incentrato sulla descrizione del viaggio e sulle sensazioni procurate dalla pioggia e dall'insieme degli elementi naturali che lo circondano. Questa canzone assume una funzione decisiva in quanto descrive molto efficacemente i paesaggi incontrati e le percezioni tattili e visive dello stesso Joe. Ma "Piove" è fondamentale soprattutto perché l'idea della pioggia richiama il concetto di purificazione tanto caro alla filosofia e alla religione orientale: Certi giorni questo viaggio sembra non finire mai ma se guardo alle mie spalle non ho perso molto sai. Non c'è tempo per pentirsi tutto appartiene a ieri quanti ladri, quanti amanti tropi santi, troppi eroi. Non si può tornare là. Ma se guardi l'orizzonte sei a metà del viaggio ormai non t'importa della gente cerchi l'immortalità. Ad un tratto il tuono e il lampo squarcia il cielo sopra me tutti nelle loro tane muore l'elettricità. Giace inferma la città. Mentre piove, piove son felice perché lava queste strade entra dentro di me. 132 E tu uomo intelligente non puoi farci niente sai la sua forza in un istante può schiacciarti se vorrà. E l'odore dell'asfalto l'erba, i fiori, il vento che mi vien voglia di spogliarmi voglio che entri dentro me. E distrugga ciò che può. Mentre piove, piove son felice perché lava queste strade entra dentro di me. 133 L'album "Viaggio senza vento" è introdotto da una sorta di "racconto" che ne riassume il contenuto e che racchiude le tematiche trattate in ogni singola canzone. Riportiamo tale premessa, abbinando ad ogni sua parte i brani che le corrispondono: Dopo una notte avida di emozioni Joe chiude gli occhi alla partita domenicale del quartiere vinto dal sonno e dai dubbi. Joe Sangue impazzito Viene svegliato dai calci dell'accalappiacani che lo costringe nell'incubo di un canile-prigione lobotomia per uniformarlo. Lasciami in down Il guardiano di cani La cura giusta Joe, trovata una pistola dai tre colpi d'oro, uccide il suo guardiano. Comincia così la fuga consapevole di ciò che si lascia alle spalle. La fuga Verso Oriente Da lontano il veggente segue il suo cammino e prevede il loro incontro grazie al quale Joe vivrà le sue visioni e i sogni che lo aiuteranno a diventare guerriero per conquistare la libertà totale. Il mercante dei sogni Il sogno La nuova forza gli permette di ripartire verso la città del Sole dove conosce anche l'amore. La città del Sole Piove Come serpenti in amore Ora un desiderio più forte lo conduce sulla via del ritorno, alla realtà armato del suo sorriso e della sua esperienza. Per gente degna di lui. La città di Eva Il guerriero Il viaggio di Joe inizia quindi dopo la partita domenicale, che verrà seguita da una notte di riflessione, durante la quale il protagonista potrà confrontarsi con Dio ed affrontare così le problematiche legate alla sua religiosità. "Sangue impazzito" descrive il rapporto tra l'individuo e qualcosa di metafisico, in parte conosciuto e in parte no, qualcosa che attira e spaventa, ma che risulta indispensabile nei momenti cruciali o di sconforto. Il protagonista della canzone è un tossicodipendente che dopo una notte tormentata si ritrova seduto sui gradini di una chiesa, luogo da cui avrà inizio il 134 suo viaggio e presagio della spiritualità dalla quale quest'ultimo sarà permeato: Uomini, domenica gente che allegra va risveglia la città dormono le fabbriche in giro ancora io vivo, non lo so… E incontro anche te che corri a pregare un po’ Dio la strada la so e penso che un tempo quel tempio era mio e mi chiedo perché un giorno ho detto addio. Corro via, ma non so se fuggire o rincorrere qualcosa, forse chi sono qui e dentro me sangue impazzito che mi spinge fino a voi correte di più sognando un futuro così vi guardo da qui e penso che un tempo quel campo era mio e mi chiedo perché un giorno ho detto addio. 135 Il viaggio di Joe terminerà con il suo ritorno al mondo dal quale è partito, con una forza e con tante esperienze in più, ma soprattutto con la consapevolezza di aver scoperto una parte di sé stesso. Nonostante questo il percorso del guerriero non è ancora terminato e verrà ripreso in un altro importante concept album, realizzato dai Timoria nel 2001, "El topo grand hotel": Joe questa volta andrà verso un nuovo mondo, conoscerà nuove città, nuovi continenti, nuovi pianeti. "El topo grand hotel" è il resoconto di un sogno allucinatorio, che vede Joe prima a Roma, poi ad Amsterdam, infine in Messico. Il percorso che lo porterà fino ad Europa 3, meta tanto agognata, è denso di incontri interessanti (Castaneda, i Velvet Underground di Nico, Lawrence Ferlinghetti, Ugo Tognazzi, i Doors di Jim Morrison, Vincent Gallo, Mork) e gli consentirà di visitare luoghi geografici realmente esistenti ma anche luoghi interiori, nuovi mondi. Il suo percorso, anche questa volta soprattutto spirituale, gli permetterà di volare, di trasformarsi da serpente ad aquila e di conquistare così la propria libertà, ma anche la capacità di schivare la tendenza alla superficialità e all'omologazione presente nella società. L'amore per le contaminazioni esplode in questo ricchissimo album, nel quale i Timoria collaborano con Eddie Henderson, che suona la tromba in "Vincent Gallo blues", con James Thompson, cori e wha wha sax in "Joe", con gli Articolo 31 in "Mexico". Inoltre nel disco sono contenuti il reading, da parte dello stesso Ferlinghetti, di un suo brano tratto da "What is poetry?" e quello di un brano di Alejandro Jodorowskji, tratto da "No basta decir". Lo stesso titolo dell'album è ispirato al film del regista "La talpa", ambientato negli anni '70. "El topo grand hotel" è il manifesto di quel simbolismo che da sempre ha caratterizzato la produzione artistica del gruppo; in questo disco convergono i vari interessi di ogni singolo componente, da quelli letterari quindi a quelli cinematografici, da Ferlinghetti a Jodorowskji. L'atmosfera evocata dai suoni e dai testi delle canzoni è assolutamente onirica; il tema del sogno quindi, molto caro ai Timoria e già presente in "Viaggio senza vento", viene ripreso e arricchito dalla magia di Jodorowskji, grande regista ma anche attento studioso delle credenze, dei rituali, della simbologia onirica comune a tutte le popolazioni del mondo. 136 Questo album vede Joe rimettersi in cammino, questa volta molto più irritato dalla leggerezza e dalla falsità che lo circondano, talmente sofferente da decidere di ripartire, cosciente però anche del fatto che il suo sarà un viaggio senza ritorno che gli permetterà di scoprire una nuova realtà in cui il tempo acquisterà una certa relatività e il passato, il presente o il futuro diventeranno concetti assolutamente effimeri. Meta di questo viaggio sarà questa volta un pianeta lontano, Europa 3, sul quale verrà guidato dall'alieno Mork. Anche in questo caso la presenza dell'alieno all'interno dell'album non è per niente casuale: egli rappresenta tutte le cose che l'uomo non potrà mai sapere, è il simbolo del dubbio più grande, l'interrogativo che da sempre tormenta l'animo umano, quello cioè legato ad una ipotetica vita ultraterrena. In "El topo grand hotel" vengono così riproposti la tematica religiosa e quella legata all'esistenza e alla caducità delle cose. Sarà proprio Mork a guidare Joe sul pianeta Europa 3 in cerca di un mondo migliore e alla conquista della propria libertà. 137 "Quel vecchio che sputa rabbia e verità non è pazzo, ma è il tempo reale. Dice che qui moriremo di schiavitù in velocità artificiale". "Speedball" (2020 speedball, 1995) 8.5 La critica al virtuale "2020 speedball" viene pubblicato a due anni di distanza da "Viaggio senza vento" e rappresenta, rispetto a quest'ultimo, un passo in avanti, nonostante l'impostazione sia decisamente molto più critica e molto più legata a quelli che sono i problemi che affliggono la società di oggi. In "2020 speedball" il guerriero, dopo essersi purificato tramite il viaggio in Oriente, è pronto a guardare al futuro; riesce così a intravedere anche i pericoli ai quali l'uomo sta andando incontro, tra i quali quelli legati all'uso indiscriminato dei nuovi mezzi tecnologici. Il 1995, anno in cui quest'album verrà pubblicato, è un anno molto confuso in quanto il "virtuale" (termine del quale allora non si conosceva esattamente il significato) era ancora un'incognita, un mondo da scoprire ma anche un'arma pericolosa se usata in modo inadeguato. I Timoria con questo lavoro hanno voluto sottolineare proprio tale duplice natura: da una parte i vantaggi che i moderni strumenti tecnologici potrebbero procurare se utilizzati con intelligenza, dall'altra il pericolo che essi rappresentano, pericolo di astrazione dalla realtà alla quale apparteniamo. Ciò che quest'album esprime maggiormente è proprio la paura che l'immersione in una realtà virtuale possa comportare la perdita totale del senso del vero, perdita che non necessariamente si dovrà verificare, ma che comunque rappresenta un'eventualità nel caso in cui i moderni strumenti tecnologici venissero usati senza nessuna conoscenza di base. "2020 speedball" non condanna dunque coloro che aprono la loro mente alla nuova tecnologia; esso è piuttosto una critica all'abuso, e non all'uso, del computer e di Internet in particolare. Ancora oggi questo album risulta più attuale che mai, basti pensare a quella parte dei ragazzi che familiarizzano con il computer prima ancora che con i mezzi di comunicazione più tradizionali. In questo senso "2020 speedball" non ha fatto altro che presagire una ipotetica situazione futura. 138 Il titolo del disco è particolarmente significativo. L'anno a cui si allude rappresenta una data relativamente lontana, un periodo in cui la velocità, la simulazione e l'astrazione tipici del virtuale potrebbero impossessarsi di ogni cosa; il termine "speedball" invece si riferisce al fatto che molti strumenti offerti dall'alta tecnologia potrebbero con una facilità estrema trasformarsi in droghe potentissime. L'interrogativo posto dai Timoria è quindi il seguente: quali saranno le droghe del futuro? Cosa ci aspetta? Anche in questo caso riportiamo la premessa dei Timoria al disco, affiancata dai brani che corrispondono ad ogni sua parte: 2020: hai mai provato a fare l'amore con un cyberpirata incontrato in autostop 2020 su un'autostrada informatica? 2020: i governi, oggi proibizionisti, combatteranno le droghe virtuali? Sarà così pericoloso lo sballo del futuro? 2020: la società ha sempre più bisogno di predicatori. Li avrai, naturalmente a casa tua, sul tuo canale preferito. 2020: cerchiamo l'astronauta che guiderà la missione Europa III in cerca di nuovi pianeti da colonizzare. 2020: sarai capace di conservare l'amore per la terra e per i suoi doni? Avrai tempo, "piccolo punto veloce", di amare te stesso con le tue imperfezioni? Buon viaggio, uomo. Speedball Dancin' queen Week-end Mi manca l'aria Guru Europa III Boccadoro Fino in fondo Come possiamo vedere, in questo disco confluisce da un lato il desiderio di mettere in guardia l'ascoltatore da quelli che potrebbero essere gli effetti indesiderati causati dall'abuso dei moderni mezzi di comunicazione, da un altro la volontà di sottolineare l'importanza 139 ed il valore delle cose vere, della loro fisicità e concretezza. L'ultimo brano dell'album non per niente è intitolato "Fino in fondo" ed è un invito ad abbracciare la genuinità della vita. Le conclusioni che potremmo addurre sono quindi le seguenti: l'uomo da sempre, ad un certo punto della sua vita, si è dovuto confrontare con l'ignoto, con qualcosa di cui fino a quel momento non aveva neanche immaginato l'esistenza; la sua saggezza consiste nel cercare di capirne il funzionamento e nel non abusare di questa sua nuova conoscenza. "Speedball" è il brano in cui l'atteggiamento allarmistico e il timore del vuoto e del superficiale sono più evidenti: Se finirò un altro giorno seduto qui a impazzire di televisione muore così la speranza voce di chi non si arrende mai: rivoluzione. Vivere, morire in fretta, datemi la via d'uscita. Speed-Speedball corri veloce speedball. Quel vecchio che sputa rabbia e verità non è pazzo, ma è il tempo reale, dice che qui moriremo di schiavitù in velocità artificiale. Soffoca il mio pianeta guidano la nostra vita. Speed-speedball voglio sognare speedball. Speed-speedball Sei tu il futuro? 140 Ma, in questo album, viene espressa anche l'esigenza di fuggire da un mondo falso e "alleggerito" dalle cose vere. E dove si può scappare se non il più lontano possibile, in un'altra dimensione, su un altro pianeta? Tale pianeta è Europa III, simbolo della salvezza dell'uomo, ma anche della sua sofferenza, in quanto ogni partenza prevede anche l'abbandono di cose e persone amate: Partirà nella notte qui l'han chiamata Europa III nello spazio infinito che fa sentire vicino a Dio. Cercherò il futuro là nasceranno altre civiltà. Certo che mi mancherà questa vecchia gente che mi saluta, spera solo in me che ho paura da nascondere. Su una stella nuova per ritrovare quello che qui non c'è. Mai più vita mai più amore. 141 Conclusioni A partire dal 1200, periodo in cui il genere della chanson si affermò in Francia, il rapporto tra musica e testo si è modificato continuamente. Se durante il XII e il XIII secolo tale relazione è stata arricchita dalla produzione di trovatori e trovieri, considerati in assoluto i primi poeti-musicisti in volgare, dal 1400 in poi il legame esistente tra suono e parola si è indebolito sempre più, questo soprattutto a causa dell’avvento delle canzoni polifoniche, di canzoni cioè che tendevano a rendere il testo incomprensibile, in quanto sommerso dalla grandiosità delle musiche. E anche in epoca rinascimentale la polifonia, pur essendo strumentale più che vocale, continuava a far da padrona. Durante il 1700 ed il 1800 la musica e il testo, intesi come strumenti espressivi e comunicativi, si incamminarono in direzioni totalmente diverse, a causa dello sviluppo dell’orchestra e dell’attenzione posta sulle questioni più prettamente tecniche. In questi anni il rapporto tra musica e poesia era sicuramente molto forte in ambito melodrammatico, ma spesso il testo, per adeguarsi alle esigenze strettamente musicali, veniva svalutato ed impoverito. Nonostante ciò in tutti questi secoli è stato impossibile rompere definitivamente un rapporto, quello tra suono e parola, che per sua natura non può essere spezzato, essendo questi due elementi nati per essere affiancati. Collaborazioni relativamente recenti, come quelle tra Debussy e D’Annunzio o Debussy e Mallarmé, ci dimostrano che tale relazione è più viva e passionale che mai. Oggi il rapporto tra musica e testo è in certi casi molto profondo. Nel caso specifico dei Timoria la musica viene composta a partire dal testo e non viceversa ed ha come funzione quella di valorizzarne il contenuto, anche se in realtà musica e testo si completano a vicenda. Le conclusioni a cui sono giunta, grazie all’analisi storica del genere della canzone ed alla preziosissima conversazione con Enrico Ghedi, componente storico dei Timoria, è che è forse impossibile cercare di stabilire se gli elementi testuali debbano prevalere su quelli musicali o viceversa; infatti quando un testo ed una musica di alta qualità si incontrano, è per dar vita ad un nuovo “prodotto”, ricco in quanto frutto di differenti spunti artistici, ma ormai inscindibile nella sua unità e compattezza. 142 Bibliografia -Accademia degli Scrausi Versi rock Rizzoli, Milano, 1996 -Bas Trattato di forma musicale Edizioni Ricordi, Milano, 1913 -Borgna Gianni Storia della canzone italiana Mondadori, Milano, 1992 -Campo Alberto Nuovo? Rock?! Italiano! Giunti, Firenze, 1995 -Coveri Lorenzo (a cura) Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d’autore italiana Interlinea, Novara, 1996 -Fabbri Mara Musica e mito in Luciano Sampaoli Il Cerchio, Rimini, 1998 -Gallotta Bruno Manuale di poesia e musica Rugginenti, Milano, 2001 -Jachia Paolo Storia della canzone italiana 1958-1997 Feltrinelli, Milano, 1998 143 -Karolyi Otto La grammatica della musica Einaudi, Torino, 1969 -Karolyi Otto La musica moderna Mondatori, Milano, 1998 -Luzi Mario, Sampaoli Luciano Il tempo tra poesia e musica Edizioni Crocetti, Milano, 1997 -Luzi Mario, Sampaoli Luciano Torre delle ore Milano, 1994 -Mila Massimo Breve storia della musica Einaudi, Torino, 1963 -Nielsen Riccardo Le forme musicali Edizioni Dongiovanni, Bologna, 1961 -Pasolini Pier Paolo La poesia popolare italiana Milano, 1960 -Salvatore Gianfranco Mogol-Battisti. L’alchimia del verso cantato Castelvecchi, Roma, 1997 144 -Sapegno Natalino (a cura) La Divina Commedia Milano, 1957 -Timoria, 2020 speedball Getar Edizioni musicali, Milano, 1995 -Timoria, Le migliori interpretazioni Carisch, Milano, 1992 -Basso Alberto (a cura) D.E.U.M.M. (Dizionario Enciclopedico Universale della Musica e dei Musicisti) Utet, Torino, 1985 -Enciclopedia della musica De Agostini Novara, 1995 -Nattiez Jean Jacques (a cura) Enciclopedia della musica I. Il Novecento Einaudi, Torino, 2001 145