Introduzione - succoallapera.com

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Introduzione
La questione inerente il rapporto tra musica e testo è sempre stata
molto dibattuta e continua ad esserlo tuttora. La sua difficoltà è
legata al fatto che secondo molti studiosi un testo nato per essere
musicato spesso non possiede il valore di un testo poetico non
destinato ad essere accompagnato dalle note. La controversia
riguardante la relazione tra suono e parola, tra musica e poesia, si è
riaccesa in questi ultimi anni, quando alcuni esperti hanno
affermato che grandi musicisti come Fabrizio De Andrè o Bob
Dylan potrebbero essere considerati i poeti del nostro tempo.
L'idea della presente tesi è nata proprio da considerazioni di questo
tipo, dal desiderio di analizzare più a fondo tale rapporto così
spinoso e problematico.
Il genere musicale scelto, quello della canzone, occupa un ruolo
particolare in tale contesto: essa già nel Duecento si prestava ad
essere musicata, nonostante la trascrizione delle musiche fosse un
evento davvero raro. Tale interesse per il rapporto tra un testo e la
sua musica è documentato anche dal passo della Divina Commedia
in cui Casella canta versi danteschi:
E io:" Se nuova legge non ti toglie
Memoria o uso all'amoroso canto,
che mi solea quetar tutte mie voglie,
di ciò ti piaccia consolare alquanto
l'anima mia, che, con la mia persona,
venendo qui, è affannata tanto!"
Amor che nella mente mi ragiona
cominciò elli allor si dolcemente,
che la dolcezza ancor dentro mi sona.
Lo mio maestro e io e quella gente
ch'eran con lui, parevan si contenti,
come a nessun toccasse altro la mente.
Noi eravamo tutti fissi e attenti
alle sue note […]
(Dante Alighieri, Divina Commedia, Purgatorio, II, 106-119)
Ma già prima di allora, fin dai tempi dell'antica Grecia, musica e
testo erano due elementi assolutamente indissolubili, strettamente
1
interdipendenti l'uno dall'altro; un brano nasceva per essere
accompagnato dalle note, poesia e canto si equivalevano.
Nei secoli tale legame si è indebolito notevolmente, l'arte musicale
e quella poetica si sono spesso sviluppate in direzioni
completamente diverse e hanno dunque avuto modo di allontanarsi
sempre più l'una dall'altra; nonostante questo il filo che le tiene
legate non si è mai spezzato del tutto e ce lo dimostra il fatto che,
anche recentemente, si è assistito a interessantissime collaborazioni
tra poeti e musicisti che riescono spontaneamente ad esprimersi in
un perfetto connubio di suono e parola.
Tale connubio ha da sempre affascinato anche un gruppo musicale
che, a mio parere, è tra gli esempi più interessanti del panorama
musicale italiano, i Timoria.
E' difficile sintetizzare in poche parole le motivazioni che mi hanno
spinto a scegliere i Timoria e non un altro gruppo o cantautore
appartenente al panorama musicale nazionale.
Ciò che so dire con certezza è che, in una canzone d'autore, la
compresenza di un testo e di una musica di alta qualità sia
indispensabile e che, nel caso specifico dei Timoria, la stretta
relazione tra suono e parola sia sempre stata una componente
centrale ed indispensabile della loro musica.
I Timoria, band bresciana nata nel 1985, ha alle spalle una
produzione musicale veramente considerevole, incentrata sull'idea
della contaminazione tra le arti; per questa ragione i loro testi sono
spesso il risultato di una serie di esperienze e di collaborazioni
"interdisciplinari" . In essi sono frequenti riferimenti di diverso
genere, a partire da quelli letterari, pittorici e cinematografici, sino
ad arrivare a quelli musicali e strettamente poetici.
Se consideriamo che la musica, come ogni altro strumento di
comunicazione di massa, influenza costantemente quelle che sono
le opinioni ed in certi casi le scelte del pubblico, ci renderemo
immediatamente conto che, quando attraverso di essa l'artista
esprime preferenze poetiche, letterarie o di qualsiasi genere esse
siano, questo non potrebbe far altro che nobilitarne ulteriormente la
funzione. E' in questo modo che la musica assume delle
connotazioni altamente pedagogiche e non si limita più ad
esprimere una determinata posizione, uno stato d'animo, un
suggerimento ma trasmette la necessità e la curiosità naturale di
ampliare quelli che sono i confini della propria conoscenza.
Se una canzone, con i suoi contenuti impliciti ed espliciti, spinge
l'ascoltatore a riempire, attraverso l'approfondimento e
2
l'informazione quei vuoti che, se non colmati, non permetterebbero
di comprenderla realmente a fondo, a quel punto la sua funzione è
divenuta educativa.
La musica dei Timoria è decisamente stimolante in questo senso,
densa com'è di nessi precisi soprattutto con la letteratura e la poesia
(basti pensare alle citazioni da Hermann Hesse, Dostoevskij,
Neruda, Ferlinghetti, Gom, Victor Hugo e tantissimi altri), ma
anche con la musica, l'arte, il cinema (pensiamo ai riferimenti a
Freddie Mercury, a Jim Morrison, a Vincent Gallo, così come ai
grandi virtuosi del jazz; oppure ancora a Kandiskij, a Lodola, a
Tognazzi, a Jodorowskij e così via).
Un rapporto, quello tra musica e testo, molto significativo quindi, in
quanto le parole non fungono da semplice "ornamento" della
musica, ma al contrario possiedono una loro ricchezza che, abbinata
alla grandezza del suono, viene sicuramente impreziosita. E' una
relazione in cui diverrebbe impossibile stabilire una presunta
supremazia del suono sulla parola o viceversa, perché entrambi,
anche se per vie completamente diverse, contribuiscono
all'esternazione di un pensiero.
Certo, i Timoria non sono gli unici ad inserire il loro personale
gusto artistico all'interno delle loro canzoni, né sono i primi a
riferirsi alla tradizione letteraria. Numerosissimi cantautori prima di
loro hanno seguito lo stesso percorso, e con successo (ricordiamo,
tra i tanti, grandi artisti italiani come De Andrè, Guccini, De
Gregori e Vecchioni); però è anche vero che, nonostante questi
ultimi siano stati un esempio per la generazione precedente alla
mia e continuino ad esserlo ancora oggi, sarebbe interessante
assistere al rinnovamento di questo gusto letterario ed artistico in
generale, anche da parte di artisti più giovani.
I Timoria forse oggi sono tra i pochi che procedono in tale
direzione, che cercano con impegno di percorrere la strada della
canzone d'autore, non basata su stereotipi e luoghi comuni, né
indirizzata al soddisfacimento delle esigenze più prettamente
commerciali, ma al contrario una canzone originale ed indipendente
da qualsiasi "cultura di massa" e sempre più preoccupata ed anzi
spaventata dall'omologazione di gusti e pensieri.
Dopo aver introdotto una breve biografia del gruppo ho individuato
quattro filoni tematici e per ciascuno di essi sono state selezionate
alcune tra le canzoni più significative.
Il primo argomento trattato è quello del rapporto tra le diverse
generazioni, inteso sia nei suoi aspetti più critici e problematici che
3
in quelli più intimi e personali; segue la questione delle
contaminazioni artistiche, nei confronti della quale i Timoria si
sono sempre mostrati particolarmente sensibili. La terza tematica
analizzata è quella del viaggio filosofico e spirituale, considerato
quindi nella sua diversità dai viaggi geografici, materiali, spesso
privi di un obiettivo più profondo. L’ultimo filone individuato è
invece quello inerente la critica al virtuale, potentissimo strumento
in grado sia di costruire che di distruggere.
All’analisi dei contenuti di ogni singola canzone seguono i suoi
spartiti, in modo da poter meglio evidenziare la relazione esistente
tra il testo e la sua musica.
4
1) La canzone profana medievale
1.1 Le origini della canzone
Le origini della canzone, forma poetica letteraria di derivazione
provenzale poi diffusasi anche in Italia, risalgono alla prima metà
del XII secolo quando, in un sirventese1 datato 1147, il troubadour
Marcabrun firma la sua opera, specificando nel suo testo che fu egli
stesso che ne fece le mots et le son. Egli usa il termine son nel
senso che gli attribuiranno più tardi tanto gli Inglesi (song) che i
Tedeschi (Ton), precisando così che, nonostante la sua musica sia
legata all'espressione verbale, essa deriverebbe comunque da un
principio melodico assolutamente indipendente, che le consente di
pretendere una vita propria.
E' in questo che, in tale periodo, il son si contrappone al cantus il
quale, privato del testo, non è altro che un susseguirsi di intervalli
dotati di un loro senso simbolico solo se messi in relazione con il
testo liturgico principale.
Queste caratteristiche verranno raccolte in un unico genere ricco e
promettente, la chanson, che eserciterà una certa attrazione su
parecchie generazioni di poeti e musicisti2.
In un primo tempo la chanson, diffusa da troubadours e trouvères,
sarà monodica, ma ben presto si aprirà ai tentativi polifonici della
Francia settentrionale e si adatterà facilmente alle nuove tecniche,
inserendosi così alla perfezione nell'ambito di tutte le culture
musicali europee, le quali verranno da essa influenzate ma dalle
quali, a sua volta, la chanson trarrà elementi molto originali.
In realtà i trovatori ed i trovieri, che furono in assoluto i primi poetimusicisti in volgare, non erano altro che nobili che per diletto
componevano e poetavano al modo dei menestrelli, anche se
comunque essi sapevano scrivere la musica ed erano quindi
musicisti colti; furono loro a dar vita al genere poetico
1
Forma poetica originaria della Provenza il cui termine deriva dal fatto che i primi
componimenti di questo genere furono poemetti che un servitore (sirven) cantava in
omaggio al proprio signore. In seguito i contenuti del sirventes furono di carattere
politico, storico, morale, religioso o amoroso. (A.Basso, a cura, D.E.U.M.M., Utet,
Torino, 1985)
2
A. Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985.
5
rispettivamente della canço e della chanson e le loro canzoni
circolarono proprio grazie a giullari e menestrelli, nonché in codici
manoscritti più volte ricopiati.
Mentre l'attività dei trovatori fiorì in Provenza tra la fine del 1000 e
il 1250, i trovieri operarono nella Francia del Nord tra la fine del
XII e la fine del XIII secolo; la lingua utilizzata dai primi era quella
d'oc, mentre i trovieri si esprimevano in lingua oil (oc e oil erano i
due termini per dire "sì"). Sarà dalla lingua trovierica che poi si
svilupperà il francese moderno.
I " troubadours" e i "trouvères" non vanno confusi con gli esecutori
delle loro musiche, i giullari ed i menestrelli (in francese jounglers),
i quali accompagnavano con la viella o con una piccola arpa a sette
o più corde il canto del trovatore o del troviere all'unisono; forse lo
strumentista eseguiva anche brevi preludi, interludi e postludi3. I
loro componimenti, non sempre accompagnati dalla musica, erano
racchiusi in raccolte di liriche dette chansonniers (canzonieri), in
cui i testi erano accompagnati da biografie degli autori (vidas)
largamente romanzate e ricche di elementi fantastici, e da commenti
retorici (razos).
Il giullare poteva essere un semplice giocoliere o un mimo, che
girava di piazza in piazza per divertire il pubblico popolare, ma
poteva anche essere poeta fornito di cultura, accolto nelle corti e
nelle grandi abbazie per intrattenere un pubblico di condizione più
elevata.
La concezione dell'amore che si trova espressa nella letteratura di
questo periodo è singolare e nuova rispetto al passato; ecco quali
furono gli elementi caratterizzanti il cosiddetto amor cortese:
-il culto della donna, vista dall'amante come un essere sublime ed
impareggiabile, in certi casi addirittura divino.
-una posizione di inferiorità dell'uomo rispetto alla donna amata,
della quale egli si presenta come umile servitore.
-nella sua totale devozione, l'amante non chiede nulla in cambio
dei suoi servigi; l'amore quindi è sempre inappagato. Non si trattava
comunque di un amore spirituale, platonico, anzi, spesso esso aveva
3
Con il termine preludio si indica un brano strumentale destinato per lo più agli strumenti
a tastiera o a liuto, con funzione prolusiva o a una composizione strumentale o vocale più
ampia o all'opera teatrale. L'interludio è un brano organistico improvvisato o con carattere
d'improvvisazione, interposto tra le strofe di un corale o di un inno, o tra i versetti di un
salmo; infine il postludio era, originariamente, un brano organistico da eseguirsi alla fine
di un servizio religioso per accompagnare l'uscita dei fedeli dal tempio, ma lo stesso
termine si riferisce anche all'opera teatrale, a composizioni vocali o strumentali, ed è in
questo caso una sorta di coda, con funzione di commento non sempre necessario. (A.
Basso, a cura, D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985).
6
note decisamente sensuali, anche se il possesso della donna era
irraggiungibile.
-l'amore impossibile generava sofferenza, tormento perpetuo, ma
anche gioia, ebbrezza, esaltazione, pienezza vitale.
-l'esercizio di devozione alla donna ingentilisce l'animo, lo nobilita,
lo purifica di ogni viltà o rozzezza; amare era quindi un continuo
esercizio di perfezionamento interiore e si identificava con la
"cortesia": solo chi è cortese poteva amare "finamente", ma a sua
volta l'"amor fino" (fin' amor in provenzale) rendeva cortesi.
-si trattava di un amore adultero, che si svolgeva rigorosamente al
di fuori del vincolo coniugale, anzi si teorizzava che nel matrimonio
non potesse esistere veramente amor "fino".
-l'amore era una passione esclusiva, totale, esaltante, dinanzi a cui
tutto si svalutava, tanto che si parlava appunto di " culto della
donna" ( domnei ) e di "religione dell'amore": nacque così un
conflitto tra amore e religione, tra culto per la donna e culto per
Dio; la dedizione totale per la donna ne escludeva qualsiasi altra.
Per la nascita delle canzoni di gesta si è anche ipotizzato un legame
con i monasteri posti sulle strade dei grandi pellegrinaggi, che
conservavano ricordi degli eroi popolari, e che fornivano ai giullari
i materiali su cui operare per comporre i loro testi. Tracce
dell'influenza del clero si hanno nello spirito di devozione che si
fonde col racconto delle imprese eroiche, ed inoltre nelle stesse
forme metriche, che riprendevano quelle degli inni religiosi.
Data l'imprecisione della notazione del tempo, l'interpretazione e la
trascrizione ritmica delle melodie di trovatori e trovieri è un
problema arduo, tuttora aperto, che ha dato luogo alle più varie
ipotesi e proposte.
7
1.2 I trovatori
La lirica trovadorica può essere considerata come il prodotto di una
società colta e aristocratica che rifiutava la brutalità della vita
circostante e si dedicava totalmente all'adorazione della donna con
artificiose espressioni di omaggio cavalleresco4. Le tematiche
dominanti erano caratterizzate da una sottile ma penetrante
immoralità; non per niente esse erano sempre di tipo eroticoamoroso e contrastavano apertamente con i freddi contenuti del
canto gregoriano latino.
L'adozione della lingua nazionale in ambito musicale modificherà
soprattutto due elementi: il ritmo e la tonalità. Infatti, pur nell'uso
dei modi liturgici, due cominceranno a prevalere in modo sempre
più esplicito, e sono il maggiore ed il minore moderni; quanto al
ritmo, esso potrebbe sembrare apparentemente molto più vincolato
rispetto a quello gregoriano, ma in realtà era molto più ricco di
possibilità espressive.
Il contatto con la danza, stabilito da molte di queste canzoni
profane, ne irrobustì il ritmo e lo rese talmente mordente e incisivo
da essere presto definito volgare. Infatti esso si allontanava sempre
più dall'indifferenza linguistica del latino chiesastico, per
avvicinarsi invece ad un ritmo modellato sulle lingue nazionali,
quindi più frammentato e nervoso, in quanto rompeva l'unità di
misura in tante note di minor valore.
Sarà proprio la melodia profana trovadorica a prefigurare quella
che diventerà la base per l'affermazione progressiva, in Italia, di una
musica che si schiererà contro i valori riconosciuti della musica
aulica e ufficiale, liturgica o cortigiana che fosse: la musica
popolare.
A seconda del contenuto letterario le canzoni trovadoriche presero
diverso nome.
Distinguiamo innanzitutto le chansons courtoises dalle cosiddette
canzoni oggettive. Le prime erano di gusto aristocratico e colto: il
poeta prediligeva un verseggiare oscuro, ricco di allusioni
comprensibili solo per una cerchia ristretta di iniziati o per la dama
alla quale l'omaggio poetico era rivolto; le seconde erano canzoni di
gusto semplice e popolareggiante, nelle quali il poeta, più che
parlare direttamente di sé, poneva in scena dei personaggi.
4
M. Mila, Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 1963.
8
In questo ultimo gruppo rientravano la pastourelle e la chanson
d'aube. La prima rappresentava il corteggiamento di una giovane
contadina da parte di un nobile o di un cavaliere che solitamente
veniva respinto, e in essa si manifestava il nuovo senso della natura
posseduto da questi poeti. La chanson d'aube ( alba in italiano ) era
la canzone dell'amico di una coppia di amanti che li avvertiva che la
notte era finita.
Tra le canzoni trovadoriche abbiamo anche varie forme di canzoni a
ballo, canzoni storico-narrative e drammatiche sui temi tradizionali
della mal maritata, della sposa ad un guerriero lontano e così via.
Da ricordare anche il compianto, canzone di argomento lamentoso,
denominata anche planh dal planctus della monodia profana latina,
nonché quella di contenuto politico e morale, collegata ad un fatto
esterno o contemporaneo, il sirventes (canto del servo). Elenchiamo
infine il plazer (piacere), che era un'enumerazione di cose piacevoli,
ed il suo contrario, l'enueg (noia), lista di cose sgradevoli.
All'interno della produzione trovadorica si delinearono anche
diverse tendenze di stile: soprattutto il trobar clus (poetare chiuso),
di cui l'esponente più significativo fu Arnaut Daniel , che consisteva
in uno stile elaboratissimo, artificioso ed oscuro; ed il trobar leu
(poetare dolce, piano), stile più limpido ed aggraziato di cui
esponente principale fu Bernart de Ventadorn.
Queste canzoni, che ben si adeguavano alla freschezza del gusto
popolare e quindi alle rappresentazioni in piazza, venivano spesso
interpretate dal giullare o menestrello, sorta di cantore e giocoliere
ambulante. Non è credibile invece che venissero condotte sulle
piazze le elevate chansons courtoises, che avevano spesso l'aria di
vere e proprie dichiarazioni d'amore, talvolta in forma di dialogo a
botta e risposta (jeu partì)5.
La forma delle canzoni generalmente era variabile, in quanto
subordinata al contenuto, ma verso l'inizio del Duecento apparvero
componimenti à forme fixe, il cui schema durerà ben oltre la storia
della canzone stessa. Il virelai trovierico ( detto anche chanson
balladée ) ne è un esempio.
Nonostante i contenuti profani della chanson, sarebbe errato
affermare che i trovatori abbandoneranno definitivamente le
tematiche tipiche del canto gregoriano. Infatti essi non furono
insensibili all'ispirazione spirituale, ma al contrario accadeva spesso
che la poesia amorosa assumesse delle connotazioni più profonde,
5
M. Mila, op. cit.
9
questo quando l'idealizzazione della donna si spingeva al punto di
farla oggetto di un culto quasi religioso.
In ogni caso la Chiesa non accettò mai di buon grado queste
manifestazioni considerate volgari, immorali e quindi non degne di
considerazione, così come i suoi esecutori, visti come personaggi
equivoci, se non proprio come dei malfattori; essi non avrebbero
potuto dimorare tranquillamente in un villaggio o in una città: erano
costretti a vagare e in genere si esibivano anche come intrattenitori
e giocolieri.
Le cose cominciarono a cambiare nel basso medioevo. La
trasformazione generale si può capire bene osservando l'evoluzione
dei castelli: da costruzioni prevalentemente di difesa e protezione
cominciarono a diventare vere residenze, sempre più aperte a
manifestazioni di tipo artistico e letterario e quindi anche agli
spettacoli trovadorici.
La forma trovadorica più antica è il vers, derivata dal tropo
melodico-testuale liturgico (il versus), di struttura musicale priva di
ripetizioni (durchkomponiert).
Come é stato già detto, tra le forme trovadoriche la più importante
fu la cansò: il testo era in forma di coppia strofica, mentre la musica
si ripeteva per i primi due gruppi di versi sicché ne risultava uno
schema musicale AAB; la struttura delle rime in versi era invece
ababcd.
Le melodie trovadoriche avevano frasi melodiche brevi,
corrispondenti a 3, 4, o 5 battute nostre; erano cantabili e di facile
memorizzazione, ma allo stesso tempo eleganti, suadenti e ricche di
preziosità melodiche. Esse presentavano una più netta indipendenza
dallo stile gregoriano rispetto ad altre musiche del periodo,
soprattutto per quanto riguardava la modalità.
Dei trovatori rimangono circa 2600 composizioni poetiche e 300
melodie, di cui una trentina su testo religioso.
10
1.3 I trovieri
Il movimento trovierico conobbe un vasto sviluppo con i trovieri
Chrètien de Troyes e Conon de Bèthune (1160-1219 circa); nel
'200, con lo sviluppo della polifonia, operarono anche Gautier
d'Epinal, Thibaut ultimo re di Navarra e Adam de la Halle.
La forma trovierica più importante fu la chanson, di struttura simile
alla cansò trovadorica, tranne che per la melodia che si ripeteva; la
prima volta aveva un finale in sospensione (ouvert) e la seconda un
finale conclusivo (clos). In sintesi la struttura della chanson era la
seguente:
melodia: A (ouvert) A (clos) B
rime dei versi: ababcd.
Altre forme tipicamente trovieriche furono il jeuparti, in cui due
persone cantavano a turno la stessa melodia, e il lai, la struttura del
quale era la seguente:
melodia: A (ouvert) A (clos) B (ouvert) B (clos)
rime dei versi: ababcdcd
Dei componimenti trovierici sono state tramandate quasi 1400
melodie e circa 4000 liriche.
La poesia dei trovieri, in lingua d'oil, presentava di solito minore
ricercatezza ed artificio rispetto alle canzoni trovadoriche; le forme
erano in parte le stesse usate dai trovatori (sirventese, jeu parti,
canzoni a ballo, pastorelle, ecc.), ma i trovieri amavano fare uso
delle lunghe lasse monorime usate nella chanson de geste ( come
quella celebre di Roland ).
Le canzoni di gesta erano lunghi poemi epici e trattavano delle
imprese di eroi del passato; molte di queste canzoni si incentravano
su Carlo Magno e i "conti palatini" del suo seguito.
Questi poemi erano in strofe di un numero irregolare di versi, che
assonavano o rimavano fra loro per ogni strofa, a seconda che il
poema fosse più o meno antico, e che erano generalmente
decasillabi o alessandrini.
La trasmissione di questi testi era orale, non erano cioè destinati alla
lettura, ma venivano cantati dai cantori dinanzi ad un uditorio, su
una semplice melodia, con accompagnamento di uno strumento
musicale.
I versi decasillabi erano raggruppati in strofe di lunghezza
disuguale, le lasse; i versi non avevano rime ma assonanze, cioè
erano legati dal ricorrere, nelle parole finali, delle stesse vocali, a
11
partire
dall'accento
tonico
(ad
esempio:
<<albe>>/<<chevalchet>>/<<Charles>>/<<passages>>/<<reregar
de>>, ecc.).
Il carattere orale di questi poemi si rifletteva nella loro forma, nel
loro linguaggio e nella loro struttura: era frequente il rivolgersi
all'uditorio, ricorrevano spesso formule stereotipate, erano continue
le ripetizioni, indispensabili per incidere nella memoria degli
ascoltatori fatti e personaggi. Poi però le canzoni furono fissate
anche dalla scrittura ed é grazie a questo che sono giunte sino a noi.
La più famosa di queste canzoni è la Chanson de Roland, canzone
di circa 4000 decasillabi in lasse assonanzate di diversa lunghezza;
composta intorno al 1100, narrava principalmente le vicende di
Orlando e degli altri undici paladini del re Carlo Magno in guerra
contro i musulmani in Spagna.
Il fatto che il primo canale di diffusione della Chanson de Roland
sia stato quello orale ne ha determinato una serie di caratteristiche
formali: innanzitutto la scelta delle lasse assonanzate a due a due,
tipiche delle canzone popolare; la sintassi molto semplice,
prevalentemente paratattica, che rivela la destinazione popolare del
testo; la ripresa in ogni lassa di elementi della lassa precedente per
favorire la comprensione della vicenda anche all'ascoltatore
distratto o appena giunto sul luogo del canto; la ripetizione di
formule tipiche della trasmissione orale riferite a Carlo Magno:
<<Carlo, che ha la barba canuta >> (v.2308 ), << Carlo, che or ha
la barba bianca >> ( v.2334 ), << Carlo, che ha la barba fiorita >>
( v.2353 ).
Le canzoni di gesta tendevano a raggrupparsi in cicli intorno ad un
lignaggio, cioè ad una famiglia o discendenza nobiliare; questo
conferma come esse fossero l'espressione di una casta aristocratica,
che attraverso la loro diffusione voleva celebrare la propria
posizione nella società. Più tardi le canzoni persero il loro austero
carattere di poemi guerreschi e religiosi; questo avvenne con
l'introduzione del motivo d'amore.
L'esempio francese produsse in Germania il Minnesinger, anche lui
nobile, dilettante di poesia e di musica, le cui canzoni avevano però
un tono più spirituale ed idealista; verso il 1175 la creazione di
canzoni si diffuse anche tra la borghesia con i Meistersinger,
giullari girovaghi o musici organizzati in scuole6.
Inizialmente i componimenti erano gli stessi francesi adattati con le
parole in tedesco, successivamente assunsero aspetti musicali più
6
Enciclopedia della musica De Agostini, Novara, 1995.
12
caratteristici. Le forme che si svilupparono furono i Minnesang e il
Lied, entrambi di struttura Barform (come la chanson) che veniva
ripetuta per 3, 5 o 7 strofe: le prime due parti ripetute erano dette
Stollen (mutazioni), la terza Abgesang (volta).
La prima spiegazione che si può dare del Lied è certamente di
natura sociologica. Esso deriverebbe dai canti di lavoro, collettivi o
individuali, dallo sfogo dei sentimenti di due amanti, di una madre
per il suo bambino, dei soldati che marciano contro il nemico o
ritornano da una vittoria, l'elogio funebre di un eroe o una
celebrazione di nozze, la preghiera per ringraziare o implorare la
divinità7.
In un primo tempo si affermarono il Volkslied (canto popolare) e il
Kirchenlied (canto di chiesa), poi si sviluppò il genere della
Hofweise (canzone di corte) che, nata come canto monodico, più
tardi, dal 1380 ca., si arricchirà di altre voci, diventando così una
forma polifonica. Il gradino successivo è costituito dalle grandi
raccolte del Quattrocento, come il Lochamer Liederbuch, il
Glogauer Liederbuch ed il canzoniere di Hartmann Schedel nel
quale vengono utilizzate, in polifonie a tre e quattro voci, melodie
di tipo popolare. Si giungerà così ai cantus firmi di Isaac, Finck,
Stoltzer, Adam von Fulda e Senfl.
L'amore cortese celebrato dai Minnesinger era decisamente diverso
rispetto a quello dei provenzali: né così artificioso e manierato, né
soprattutto così esplicitamente sensuale. Riscontriamo invece una
continua ansia di elevazione spirituale, un misticismo serio che si
rifletteva anche sul carattere delle melodie, le quali erano semplici e
popolari ma tuttavia più austere delle vivaci canzoni trovadoriche.
Gli omaggi dei Minnesinger alla donna saranno sempre
caratterizzati da una profonda sacralità.
Il passaggio dalla vita cavalleresca del regime feudale alle nuove
consuetudini dell'età comunale o delle prime signorie modificò
l'intero assetto sociale. I cantori superarono la crisi raggruppati in
solide corporazioni professionali, ma, nel trapasso, si
imborghesirono notevolmente; fu così che ai Minnesinger
subentrarono i Meistersinger e si passò dunque dalla figura
avventurosa del trovatore errante e bellicoso a quella sedentaria e
prosaica del nuovo maestro cantore artigiano.
7
A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985.
13
1.4 Prime influenze della chanson in Italia
La letteratura in lingua d'oc e d'oil vantava già opere eccellenti
quando ancora da noi la letteratura volgare non era sorta, era
naturale quindi che esse si proponesse come modello ai nostri
scrittori volgari delle origini.
La lirica occitanica, resa nota dai trovatori provenzali nelle corti e
negli ambienti colti delle città comunali dell'Italia settentrionale,
poté diffondersi facilmente nel Nord anche per l'affinità del
provenzale con i dialetti piemontesi, liguri e padani; essa si propose
come modello sia per la modernità dei contenuti, sia perché si
riallacciava alla tradizione latina.
Scrittori come Pier della Vigna, Guittone d'Arezzo, Guinizelli,
Dante, Cavalcanti la tennero in gran conto e ne studiarono
attentamente la tecnica formale, mentre alcuni trovatori italiani
come Sordello, Bartolomeo Zorzi, Bonifacio Calvo, scrissero
addirittura in provenzale.
Tracce consistenti dell'impronta linguistica lasciata dal modello
francese le possiamo trovare anche in un episodio del Purgatorio di
Dante dove l'autore, per fare omaggio ad Arnaut Daniel, da lui tanto
ammirato, lo fa parlare nella sua lingua, dimostrando così di saperla
padroneggiare perfettamente (XXVI, vv.140-147).
Questa lirica in lingua d'oc, per i suoi contenuti e i suoi caratteri
formali, rifletté la civiltà, il gusto, la cultura dell'ambiente nel quale
sorse e si sviluppò; così l'amore, rappresentato sempre come
gerarchico, cavalleresco, cortese omaggio del cavaliere alla dama
splendente nella sua bellezza e perfetta nelle sue virtù, divenne
ancora l'argomento principale.
I primi trovatori provenzali, alla fine del XII secolo, calarono alla
corte dei Savoia, dei Malaspina in Lunigiana, dei Carretto a Savona,
dei Marchesi di Monferrato; solo più tardi la poesia occitanica
penetrò nelle corti degli Estensi, dei Signori della Marca Trevigiana
e nelle città, a Venezia, a Bologna, a Genova, a Firenze.
Non poteva restare escluso dall'influenza della lirica provenzale,
così ricca di fascino e prestigio, il centro di cultura più vivo ed
aperto in Italia nei primi decenni del XIII secolo, la corte siciliana
di Federico II. Anche qui, tra il 1230 e il 1250, sorsero imitatori
della poesia trovadorica, ma essi non usavano più la lingua d'oc,
bensì il loro volgare locale, per quanto depurato e nobilitato;
l'importanza di questa scelta fu enorme: i poeti della cosiddetta
14
Scuola siciliana crearono la prima poesia d'arte in volgare italiano,
dando così' inizio alla vera e propria tradizione poetica del nostro
paese, una tradizione aulica e raffinata che, attraverso la
suggestione dei modelli lirici di Dante e soprattutto Petrarca, era
destinata a durare per secoli.
Questa scuola poetica, pur riprendendo fedelmente temi,
procedimenti stilistici, forme metriche dei modelli provenzali,
rivelava comunque caratteristiche formali sue proprie e, in alcune
composizioni, contenuti un po' diversi da quelli dei modelli
francesi, come per esempio certe immagini e similitudini tratte dai
fenomeni naturali.
Esisteva una vistosa differenza tra la canzone trovadorica e la
successiva produzione siciliana. Nella poesia in lingua provenzale,
sia quella originaria sia quella degli imitatori dell'Italia
settentrionale, accanto al motivo centrale dell'amor cortese,
comparve anche una tematica morale, civile, politica, guerresca: si
pensi per esempio ai temi politici del Compianto per ser Blacatz di
Sordello da Goito o ai versi morali di Guiraut de Bornelh, che
Dante definì cantor rectitudinis, cantore della virtù.
I poeti siciliani erano tutti funzionari dello Stato, notai come Iacopo
da Lentini, esperti di arti cancelleresche come Pier delle Vigne,
giudici come Guido delle Colonne; eppure questi uomini, che
quotidianamente si occupavano di politica e amministrazione dello
Stato, nei loro versi non trattavano altro tema che l'amore. Per
questi funzionari di corte l'attività letteraria divenne lo strumento
attraverso il quale poter evadere dalla realtà, oppure un ornamento
elegante e segno di appartenenza ad un'élite, e l'amore, unico tema
dei loro versi, era un puro gioco, aristocratico e raffinato.
Gli argomenti ricorrenti della poesia siciliana erano sempre quelli
tipici dell'amor cortese: l'omaggio feudale alla dama, la speranza di
ottenere una ricompensa alla "servitù" d'amore, il ritegno a rivelare
il proprio amore, il dolore per la lontananza, il rimpianto per le
gioie d'amore perdute. Tutti questi motivi, già codificati dai
trovatori, vennero ulteriormente stilizzati dai siciliani, poi privati di
ogni legame con situazioni psicologiche comuni e concrete ed
infine astratti da ogni preciso riferimento di luogo e di tempo.
Alla stilizzazione dei motivi contribuì certamente il linguaggio,
elaborato e prezioso nel lessico così come nella sintassi,
lontanissimo da ogni modo colloquiale e realistico, teso a
raggiungere un livello stilistico "sublime" mediante l'uso continuo
di artifici concettuali, retorici, metrici.
15
L'esperienza poetica e linguistica siciliana non andò dispersa: fu
continuata da parte di un gruppo di poeti toscani capeggiati da
Guittone d'Arezzo.
Questi rimatori toscani ripresero, nel loro volgare, i temi d'amore e
le convenzioni stilistiche dei poeti della Magna Curia, ma
introdussero un interessante allargamento tematico. L'ambiente
politico e sociale della Toscana non era più costituito da una
monarchia accentratrice come quella di Federico II, ma da liberi
Comuni come Firenze, dove la vita civile era dinamica e percorsa
da conflitti e lotte, tra città, tra classi, tra fazioni.
Il poeta non era più il burocrate ligio ed il cortigiano raffinato, ma
un cittadino inserito nella vita politica della sua città vivendone
intensamente le passioni e riversandole nella sua attività poetica.
Pertanto si vide affiorare, nella lirica toscana, quella tematica civile
e morale che era ignota ai poeti siciliani. L'esempio più evidente fu
la grande canzone politica con cui Guittone d'Arezzo, dopo la
battaglia di Montaperti ( 1260 ), compianse la sconfitta di Firenze
guelfa e ne esaltò la sua passata grandezza.
La lingua di questo maestro era un volgare illustre, che supponeva,
oltre alla conoscenza del linguaggio dei siciliani, quella del
provenzale, del francese e del latino; la sua forma era assai
complessa, latineggiante e provenzaleggiante e rifletteva una
profonda dimestichezza con le poetiche trobadoriche.
Nel suo canzoniere, che comprendeva ben 251 sonetti e 50 canzoni,
egli riprese i motivi dell'amor cortese sulla linea dei poeti siciliani,
però guardò direttamente anche ai poeti provenzali, in particolare a
quella tendenza estremamente elaborata che era il trobar clus
(poetare chiuso ermetico).
Guittone fu pertanto un poeta difficile ed oscuro: da lui vennero
impiegati tutti gli artifici retorici e metrici più complicati, insieme
ad un vocabolario composito, in cui erano mescolati dialettalismi
toscani, sicilianismi, provenzalismi, latinismi. Per questo Dante,
nonostante in giovinezza ne avesse seguito gli insegnamenti, più
tardi, nel De Vulgari Eloquentia8, ne respingerà il modello
linguistico, definendolo troppo rozzo, estraneo al suo vagheggiato
ideale di un <<volgare illustre>>, lontano da ogni particolarismo
dialettale.
La scuola toscana sostituì ai climi rarefatti della poesia siciliana un
gusto logico e discorsivo, un'attenzione concreta ai moti interiori e
8
Fu in quest'opera che Dante espose per primo le leggi della canzone, da lui definita
come il componimento strofico più solenne della lirica d'arte romanza.
16
al mondo esterno. Questa tendenza era già ravvisabile nelle poesie
d'amore, ma toccò il culmine nelle rime ascetiche e morali
composte dopo che Guittone decise di convertirsi a vita religiosa;
l'energia che pervade tale poesia fa già sentire vicina quella di
Dante.
Accanto a Guittone d'Arezzo, in questo gruppo di rimatori toscani
attivi dopo la metà del Duecento, sono da ricordare Chiaro
Davanzati, Monte Andrea Fiorentini, Dante da Maiano di Fiesole e
la misteriosa poetessa che si nascondeva sotto il nome di Compiuta
Donzella. Un particolare rilievo merita anche Bonagiunta
Orbicciani da Lucca, il quale venne descritto da Dante nel
Purgatorio come il rappresentante di una maniera di poetare da lui
ritenuta sorpassata; qui l'autore presentò anche la formula definitiva
della nuova tendenza in corso: <<dolce stil novo>> (Purgatorio,
XXIV, vv.55-57).
L'influenza dei poeti toscani dunque non rimase circoscritta a
Firenze, ma si esercitò anche a Bologna, dove si formò colui che è
ritenuto il fondatore dello Stil Novo: Guido Guinizzelli.
I rimatori dello Stil novo pervennero ad una poesia effettivamente
originale, che interpretava in modo organico la nuova esperienza di
vita, i valori spirituali dell'aristocrazia intellettuale comunale,
giustificandoli su un piano filosofico. Essi diedero vita, rinnovando
la tradizione della lirica amorosa siciliana, provenzale e guittoniana,
ad una poesia nuova sia per la concezione organicamente elaborata
dell'amore, sia per lo stile più stretto al contenuto.
I maggiori esponenti di questa corrente furono i fiorentini Guido
Cavalcanti, Dante Alighieri, Lapo Gianni, Dino Frescobaldi, ai
quali poi si aggiunse anche Cino da Pistoia; ciò che li distinse con
maggiore evidenza fu il rifiuto degli astrusi artifici stilistici cari a
Guittone e ai suoi seguaci, e la scelta di uno stile più limpido e
piano, che venne appunto definito col termine tecnico
<<dolce>>.Volendo trovare un ascendente, se Guittone riprendeva
la maniera del trobar clus provenzale, costoro si possono accostare
alla maniera del trobar leu.
Sul piano dei contenuti, all'omaggio feudale rivolto alla dama, che
era tipico dell'amor cortese, si sostituì una visione più
spiritualizzata della donna, che venne esaltata come angelo in terra
e dispensatrice di salvezza (anche se per questi temi la novità non
era assoluta, in quanto simili spunti si potevano già trovare nella
tradizione precedente).
17
Più evidente fu invece il distacco dalla tradizione in due altri
aspetti: l'attenzione concentrata con più rigore sull'interiorità
dell'amante ed il fervore intellettualistico; inoltre si colse
l'aspirazione a sostituire la corte reale, sfondo della poesia
provenzale e siciliana, con una corte tutta ideale composta da una
cerchia ristretta di spiriti eletti disdegnosi del volgo "villano".
Il precursore dello Stil Novo fu senza dubbio il bolognese Guido
Guinizzelli (appartenente alla generazione precedente a quella di
Dante e Cavalcanti), autore del manifesto della nuova tendenza, la
canzone Al cor gentil rempaira sempre amore. Tale canzone
stabilirà quelli che poi saranno i capisaldi della poesia stilnovistica:
l'identificazione tra amore e <<gentilezza>>, l'equiparazione della
donna ad un angelo proveniente dal regno di Dio, il gusto per il
sottile ragionamento filosofico. La canzone costituì quindi un
esempio tipico di stile <<dolce e leggiadro>>, cioè di uno stile
chiaro in contrapposizione con la contorta ed artificiosa oscurità
guittoniana.
Oltre a Dante, fu Guido Cavalcanti la personalità più rilevante del
gruppo. La sua profonda cultura filosofica venne confermata dalla
sua canzone Donna me prega nella quale, in un linguaggio
estremamente arduo e oscuro, egli espose una concezione
dell'amore come passione sensuale, che esclude ogni controllo
razionale; da tale definizione dell'amore ne deriva una sua
rappresentazione cupa e pessimistica, in quanto esso viene descritto
come fonte inesauribile di paura e dolore.
Guittone e i Siciliani non avevano avuto contenuti talmente nuovi
da imporre un effettivo rinnovamento formale; saranno gli autori
dello Stil novo a realizzare quest'obiettivo.
Grande diffusione ebbe presso di noi anche la letteratura francese in
lingua d'oil. Le canzoni di gesta carolingie entrarono in Italia forse
già alla fine del secolo XII e si diffusero soprattutto nella valle del
Po e nella Marca Trevigiana, dove vennero apprezzate in particolar
modo dalle classi popolari.
Accadde così che scrittori di scarsa e rozza cultura, senza nessuna
conoscenza della tradizione letteraria latina, per rendere i contenuti
di queste canzoni più comprensibili alle folle, ne contaminarono la
lingua d'origine e ne adeguarono i contenuti all'immaginazione e
alla psicologia del popolo.
La penetrazione della poesia trovadorica in Italia è un fenomeno
storico descritto e studiato in tutte le storie letterarie, ma
musicalmente risulta molto più interessante un'altra produzione,
18
quella delle laude, l'esistenza della quale è documentata solo da
pochi anni.
Mentre in Francia, Inghilterra e Germania il dramma sacro nacque
dalla liturgia della messa, in Italia il fenomeno del dramma liturgico
iniziò come negli altri paesi, ma poi intraprese un cammino proprio,
grazie al propagarsi nel nostro paese di un fenomeno di esaltazione
religiosa popolare, dovuto alla nascita degli ordini mendicanti
(francescani, domenicani, disciplinati o flagellanti). La forma di
canto (in volgare) usata all'interno di questi ordini con intento
devozionale fu appunto la lauda.
Questo tipo di componimento veniva cantato anche durante le
processioni e le preghiere delle confraternite laiche sorte in molti
comuni dell'Italia centrale. In un primo tempo cantata ad una sola
voce, si trasformò poi in narrazioni a più voci.
Famoso tra le laude il Cantico delle Creature di San Francesco
d'Assisi, primo documento della poesia volgare italiana, per il quale
lo stesso autore pare avesse scritto la musica, andata purtroppo
perduta.
I due manoscritti a noi giunti (il Laudatario 91 di Cortona e il
Laudatario Maglibechiano) raccolgono un totale di 130 laude con
testi e musica. Le laude sono modellate sulla forma della ballata con
l'alternanza fra ritornello e strofe; la modalità gregorianeggiante si
ravviva in esplosioni festose o drammatiche, anticipando spesso i
moderni modi maggiore e minore: ne risultano componimenti di
grande immediatezza e di spiccato carattere popolare.
19
1.5 Teorizzazione delle regole della canzone
La produzione musicale del 1200 è praticamente sconosciuta, se si
esclude quella appartenente alla fioritura laudistica; però esistono
diversi scritti che ci illustrano la situazione musicale di quel
periodo.
Sarà Dante Alighieri per primo a teorizzare le leggi della canzone,
da lui stesso definita come il componimento strofico più solenne
della lirica d'arte romanza (vulgarium poematum supremum);
l'autore riteneva che la sua costruzione fosse la più atta a cantare
argomenti d'armi, d'amore e morali.
La teorizzazione dell’unione organica di musica e versi venne
realizzata da Dante nel suo De Vulgari Eloquentia, in cui diede la
sua definizione di "canzone" come composizione artistica di parole
messe in forma metrica e poi musicate, ma continuava a
contemplare l'idea di canzone come forma poetica autonoma, non
associata alla musica e scritta in volgare, cioè nella lingua che si
avviava a diventare l'italiano. Nell'unione di versi e musica,
quest'ultima continuava ad essere considerata come un elemento
sussidiario, una sorta di ornamento.
La convinzione che la musica rivestisse un ruolo secondario rispetto
al testo era ben radicata; sin dai tempi dell'antica Grecia vigeva il
principio secondo il quale la musica fosse "ancella della parola",
regola ancora sentita all'epoca di Monteverdi. Per assistere
all'adattamento della melodia alle inflessioni del testo si dovrà
attendere la fine del 1500.
Lo stesso Dante esprimerà questo concetto nella Divina
Commedia: <<Cantiones per se totum quod debent efficiunt, quod
ballate non faciunt: indigent enim plausoribus, ad quod edite
sunt>> (II.III.5: <<le canzoni da sé sole effettuano tutto quello che
debbono, cosa che le ballate non fanno, poiché hanno bisogno dei
danzatori, per i quali vengono alla luce>> )9.
La canzone rappresenta la forma più importante e famosa della
lirica italiana antica. Sicuramente furono fondamentali le forme
datele da Dante e da Cino da Pistoia, ma fu Francesco Petrarca a
crearne la struttura fissa.
La canzone petrarchesca era suddivisa in stanze (le coblas dei
trovatori), mediamente tra cinque e sette, con l'aggiunta di un
congedo ( tornada per i trovatori, envoi per i trovieri). I versi sono
9
N.Sapegno (a cura), La Divina Commedia, Milano, 1957.
20
settenari e/o endecasillabi rimati, disposti secondo un determinato
ordine10. E' comune che la canzone si concluda con un distico finale
a rime baciate. Ecco un classico esempio petrarchesco:
1°piede
fronte
2°piede
concatenatio
diesis
1°volta
sirma
2°volta
combinatio
Chiare,fresche e dolci acque
A
ove le belle membra
B
pose colei che solo a me par donna; C
gentil ramo ove piacque
(con sospir mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
A
B
C
erba e fior che la gonna
leggiadra ricoverse
co' l'angelico seno;
aer sacro e sereno,
C
D
E
E
ove Amor co'begli occhi il cor m'aperse F
date udienza insieme
H
a le dolenti mie parole estreme.
H
Seguono altre quattro stanze con la stessa disposizione e il congedo.
L'effetto di scorrevolezza che caratterizza questa canzone
petrarchesca è dato soprattutto dalla prevalenza dei versi brevi, i
settenari (ben nove sui tredici versi di cui è composta la strofa), che
hanno un ritmo più agile e sciolto dei più ampi endecasillabi;
dominano poi le proporzioni perfette e le simmetrie.
In questa prima strofa ad ogni elemento della natura sono dedicati
tre versi, e torna ripetutamente la stessa struttura sintattica, vocativo
seguito da proposizione relativa. La monotonia è evitata con piccole
variazioni sintattiche, col gioco dei versi, ora settenari ora
endecasillabi, con le rime, col variare del ritmo accentuativo.
L'architettura dei piani temporali è costruita secondo uno schema a
chiasmo: se indichiamo con A il passato e con B il futuro, abbiamo
ABBA (non contando il congedo, che è fuori dal discorso lirico
effettivo); il ritmo generale della poesia è dato dunque da un
ondeggiare continuo tra passato e futuro, tra memoria e sogno.
La stanza abbiamo visto che è divisa in fronte e sirma. La divisione
riguarda la sintassi, l'ordine dei versi e delle rime e corrispondeva
nella canzone trovadorica all'articolazione melodica (ABAB CD EF
[...]).
10
B.Gallotta , Manuale di poesia e musica, Rugginenti, Milano, 2001.
21
<<Il verso che sancisce tale divisione è definito diesis, è in rima
(concatenatio) con l'ultimo verso della fronte, e segna l'inizio della
sirma. Chiude la stanza un distico a rima baciata (combinatio).
La fronte è divisa in piedi, con un ordine stabilito di versi e rime
ripetute.
In Petrarca la sirma è per il solito indivisa sintatticamente, e senza
ordine di versi, anche se possono essere individuate delle volte sulla
base delle rime, esclusa però la diesis. Più frequente la divisione
completa in due o più volte negli autori del Duecento>>11.
Il congedo è lungo circa la metà della sirma, quindi una volta, ed è
presente con una certa costanza a partire dal 1300, come formula di
saluto o come apostrofe nei confronti della canzone personificata;
con esso infatti il poeta si rivolge direttamente alla canzone,
<<congedandola >> e affidandole un messaggio.
11
B.Gallotta, op.cit.
22
1.6 L'Ars Nova
Il 1300 è anche il secolo in cui si irradia dalla Francia una scuola
internazionale di compositori che preferiscono applicare
complicatissime procedure compositive dotte alle forme della
canzone e della ballata: è l'Ars nova12.
L'avvento di questo nuovo stile musicale dipese da una serie di
ragioni storico- religiose.
Ai primi del Trecento infatti la sede papale fu trasferita da Roma ad
Avignone, dove rimase per settant'anni, dal 1305 al 1377. Nel 1320
Philippe de Vitry, diplomatico, poeta, musicista, poi vescovo di
Meaux, scrisse un trattato in latino intitolato Ars Nova Musicae (
"La nuova tecnica della musica" ); vi descriveva la nuova notazione
musicale che si stava affermando in Francia e la contrapponeva a
quella delle generazioni precedenti, la cosiddetta Ars Antiqua (
quella che si sviluppò dalla metà del XII secolo fino a tutto il XII
secolo ).
Gli esponenti dell'Ars Nova voltarono le spalle al rigido ed astratto
formalismo della musica sacra di allora e si appassionarono
all'immediatezza espressiva della canzone popolare che accettarono
come modello e arricchirono con la propria sapienza e inventiva.
Caratteristica principale della nuova musica fu la polifonia, si
trattava infatti di un canto a più voci distinte che eseguivano parti
diverse.
Il desiderio dell'uomo di allora di sentirsi protagonista e di
modificare quello che era il suo ruolo nel mondo, emerse nella
decisione di imporre tematiche che si discostassero totalmente da
quelle dominanti; fu così che vennero introdotte argomentazioni
profane: si parlava di amore e di bellezza, di banchetti, mercati e
cacce, ma non mancavano temi politici e sociali. Anche il musicista
sentiva cambiato il suo ruolo: non più servitore del culto e della
Chiesa, ma individuo con una personalità autonoma che voleva
esprimersi ed essere riconosciuta.
Tra i molti compositori significativi dell Ars Nova, accanto a de
Vitry, il più importante fu Guillame de Machaut, del quale ci resta
una vasta produzione: 40 ballate, 20 rondelli, 23 mottetti, 32
virelais (particolare forma di ballata, di palese derivazione
trovadorica), 18 lais (canzone narrativa) e una messa interamente
12
Enciclopedia della musica De Agostini, Novara, 1995.
23
musicata in stile polifonico, composta per l'incoronazione di re
Carlo V, nel 1364.
Sicuramente la forma musicale alla quale gli esponenti di questo
movimento dedicarono più impegno fu il mottetto, una
composizione polifonica in cui ad una voce (il tenor) basata sulla
melodia di un canto gregoriano, si affiancavano una o due voci che
eseguivano una sorta di commento, utilizzando testo e melodie
nuove, a volte anche contrastanti.
Ciò che questa musica riusciva a trasmettere era un sentimento
molto intenso provocato da una profonda sensibilità melodica e da
una cura inconfondibile della vaghezza sonora, indice dei tempi
nuovi.
Della polifonia in Italia non si hanno esempi prima del 1340, ma
questi si presentano talmente maturi e raffinati da indurre a pensare
all'esistenza di una precedente fioritura musicale.
Gli scambi economici e culturali con la Francia erano assai intensi,
specialmente per i fiorentini. Il ritorno della sede papale da
Avignone, nel 1377, dovette certamente condurre nel nostro paese
una schiera di musici e cantori francesi; perciò le innovazioni
dell'Ars Nova vennero subito conosciute e praticate in Italia dove,
del resto, era già stato manifestato un netto rifiuto nei confronti
delle aride astrazioni scolastiche dell'Ars Antiqua.
Non si trattava però di pura ripetizione: in Italia la nuova tecnica
acquistò caratteri originali e si distinse per una maggiore vivacità
delle melodie e una costruzione più fantasiosa, mentre i compositori
francesi preferivano strutture più rigide e rigorose.
La complicazione polifonica delle voci, tipica della musica francese
dell'epoca, venne dunque evitata; si sviluppò una forte tendenza al
predominio di una voce che guidava la melodia principale, mentre
le altre tendevano a subordinarsi a questa e forse venivano spesso
raccolte in un'esecuzione strumentale.
Le forme principali dell'Ars Nova italiana furono tre: il madrigale,
la ballata e la caccia.
1) Il madrigale trecentesco era una breve composizione poetica,
per lo più di otto versi, dei quali i primi sei davano due terzine a
rima varia, conchiuse da un distico a rima baciata detto ritornello.
La scelta della disposizione delle rime era una prerogativa del
poeta; in certi casi tale disposizione variava per ogni terzina.
Gli schemi più utilizzati erano sicuramente ABB CDD EE; ABB
ACC DD; ABA BCB DD; ABC ABC DD; ABB CDD EFF GG,
anche se con molte varianti; infatti dei quattro madrigali di Petrarca,
24
per esempio, soltanto il primo <<Non al suo amante più Diana
piacque>>, rientrava in una delle combinazioni indicate, (la
terza)"13.
D'origine pastorale (probabilmente il nome, mandriale, deriva da
mandria), era una forma arcaica di idillio, somigliante alle
pastourelles e aubes provenzali; l'argomento principale era l'amore
in tutti i suoi aspetti, sia romantici che divertenti, ma, con il passare
del tempo, accolse anche argomenti politici, satirici e musicali.
Il brano era polifonico e si strutturava in due strofe, una musicale
ripetuta per le terzine e una per il distico, talvolta strofico al suo
interno, con una sola melodia che veniva ripetuta per i due versi.
<<La natura prevalentemente intellettuale di questa forma poeticomusicale è confermata anzitutto dalla sua quantità limitata e dalla
presenza di esempi bilingui con strofe alternate in francese ed
italiano, ognuna con le rispettive notazioni. Esiste poi un certo
numero di madrigali canonici>>14.
2) La ballata era una forma poetico-musicale di origine popolare.
Le prime testimonianze comparvero nell'Italia centrale alla metà del
1200; erano diversi i punti di contatto con la dansa o balada
trovadorica e il virelai trovierico ( la cosiddetta chanson balladée ),
ma non con la tarda ballade trovierica messa in polifonia da
Guillame de Machaut, che era una composizione lirica e di forma
più simile alla chanson con refrain o al rondò.
La ballata tipica era composta da versi endecasillabi e/o settenari
che si organizzavano in una ripresa seguita da una o più strofe; tale
ripresa poteva essere strutturata in un numero di versi che variava
da uno a quattro, con rime variamente disposte. La strofa era
suddivisa in tre parti, due mutazioni e una volta: le prime avevano
lo stesso numero e tipo di versi e le stesse rime; la seconda si
rifaceva allo schema della ripresa, con il primo verso che rimava
con l'ultimo della mutazione (concatenatio), e quello di chiusura in
rima con l'ultimo della ripresa (chiave). In certi casi il
componimento era chiuso da altre strofe ancora una volta
intercalate dalla ripresa e spesso il finale era caratterizzato da una
sorta di congedo, simile per schema e rime alla ripresa, detto
replicatio.
13
14
B.Gallotta, op. cit.
B.Gallotta, op.cit.
25
Questo schema di base era variabile: le mutazioni potevano essere
tre, la concatenatio e la chiave potevano mancare e lo schema della
volta e quello della ripresa sovente non corrispondevano15.
La ballata fu la forma principale dopo la metà del Trecento: prima a
due voci, poi a tre, sostituì progressivamente per importanza il
madrigale; una parte era sempre vocale, le altre potevano essere
vocali o strumentali a seconda dei casi.
Il suo scopo era quello di accompagnare il ballo a tondo; vi sono
comunque ballate liriche, cantate senza danza, e letterarie, come le
sette ballate del Canzoniere di Petrarca.
Nel momento in cui la ricca e varia forma della ballata si prestò
all'espressione del sentimento religioso, nacque la lauda, ma anche
questa, nonostante la diversità di contenuto, rivelava quel carattere
popolaresco che era proprio della ballata profana. La struttura di
questa seconda forma musicale era sempre strofica, il brano, cioè,
era costituito da più strofe musicate nello stesso modo e legate da
un ritornello.
3) La caccia, nei primi tempi denominata anche incalzo, nacque nel
tardo medioevo e, a quel tempo, era sinonimo di "canone", cioè di
composizione in cui le voci si inseguono e si riprendono in cerchio,
in modo da trasmettere una sensazione di circolante confusione; in
questo senso era molto simile alla caça spagnola e alla chace
francese.
Diversamente da quest'ultima, costruita con tre voci a canone
circolare, e tutte cantate, la caccia italiana vantava la presenza di
due voci superiori a canone finito (le due voci alla fine si
ritrovavano insieme) e, tranne rare eccezioni, di un tenor
strumentale che fungeva da sostegno. Inoltre, mentre la forma
francese era in un unico episodio, quella italiana era normalmente
divisa in due, il secondo dei quali costruito in contrappunto libero
su un distico finale di endecasillabi a rima baciata, o sull'ultimo
endecasillabo.
Anche il secondo episodio poteva però essere in canone e talvolta vi
era un solo episodio per l'intero brano, con un'imitazione continua16.
Tipica della caccia era la forma polimetrica. Ciò non toglie che
potessero esistere anche ballate, madrigali, rispetti e sonetti con
contenuti simili a quelli della caccia, cioè con varie scene
dialogate, popolaresche, allegre e movimentate; in questo caso le
15
16
B.Gallotta, op.cit.
B.Gallotta, op. cit.
26
espressioni più adatte erano quelle di ballata-caccia, madrigalecaccia, ecc.
Composizione di movimento decisamente molto rapido, dapprima
descriveva veramente una scena di caccia, poi qualunque scena
movimentata e frenetica colta con realistica evidenza descrittiva:
talvolta vi si intrecciavano le caratteristiche grida dei venditori
ambulanti e la vera e propria descrizione sonora di un rumoroso
mercato, di una strada risonante di voci, secondo la tipica vivacità
meridionale.
27
2) Canzoni polifoniche del '400
2.1 Il precursore del genere polifonico: il mottetto profano
Sarà di certo durante il XV secolo che si affermerà definitivamente
il genere polifonico, ma già prima di allora si erano manifestati
degli eventi che presagivano questo importantissimo cambiamento.
Infatti, con il passare del tempo, l'aspetto colto della possibile
giustapposizione di alcune melodie diverse iniziò ad attirare
l'attenzione dei musicisti e dei poeti, ai quali non bastava più il solo
adattamento di una musica ad un testo, essendo state fino ad allora
utilizzate tutte le possibilità offerte.17
La chanson partecipava così all'evoluzione di una polifonia che
cercava un equilibrio simile a quello cui tendevano un tempo il
cantus e il son nel momento in cui si unirono. Ora però tale unione
doveva stabilirsi verticalmente, data la simultaneità delle parti
vocali; si assisterà ad una mescolanza di linguaggi prima di ottenere
dei componimenti totalmente scritti in lingua latina o in volgare.
Questo genere di componimento polifonico prese il nome
dall'elemento base dei primi sons dei troubadours, il mot, e finì per
chiamarsi motet, nonostante l'importanza di un tenor liturgico
avente il ruolo di cantus18.
Negli ultimi anni del 1200 vennero realizzati dei mottetti (questo il
loro nome in italiano) in forma di rondeau19, il cui tenor usava il
linguaggio del popolo; questo è il caso delle composizioni di Adam
de la Halle, i rondeaux del quale si avvalevano di una tecnica che
aveva del mottetto e del conduit. Anche durante il periodo dell'Ars
Nova il carattere della chanson venne conservato nei componimenti
chiamati ballades, rondeaux o virelais e che possono essere
considerati il tramite dagli ultimi componimenti monodici dei
trouvères alla canzone polifonica del 1400, nonostante
17
A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985.
A.Basso (a cura), op.cit.
19
Il rondò musicale, come quello poetico, è basato sulla ripetizione. In un rondò il tema
principale riappare non meno di tre volte, spesso anche di più; ciascuna volta il tema e la
sua riapparizione sono nettamente separati da un episodio contrastante. (O.Karolyi, La
grammatica della musica, Einaudi, Torino, 1969).
18
28
l'interruzione dovuta alla creazione di alcune opere (come quelle di
Guillame de Machault).
29
2.2 La Scuola franco-fiamminga
Gli avvenimenti politici del XIII secolo misero in frequente contatto
i musicisti francesi con quelli inglesi e finirono per togliere alla
Francia il primato musicale, dopo la disfatta militare di Azincourt
(1415). Così, prima che si affermasse compiutamente l'egemonia
musicale dei Fiamminghi, si ebbe un periodo di transazione
riempito da alcuni musicisti inglesi, tra i quali emerse John
Dunstable20.
Nel XV secolo il centro della produzione musicale di maggiore
originalità si spostò verso la zona settentrionale della Francia, la
Borgogna, e nelle Fiandre, corrispondenti alle province meridionali
del Belgio e dell'Olanda moderni. Alleate degli inglesi durante la
guerra dei Cent'anni, queste zone ricevettero un forte impulso alle
loro attività commerciali: Anversa diventò in questo periodo il
porto più importante dell'Europa settentrionale.
Queste regioni furono fra le prime in cui il sistema feudale
scomparve e le città fiorirono con istituzioni che potrebbero essere
definite democratiche. L'istruzione era assai diffusa, anche quella
musicale: le città del nord ebbero così cori preparati, con coristi
abili e in grado di leggere con perizia le nuove notazioni; la loro
fama fece sì che sempre più spesso, nel coro papale, fossero
chiamati i migliori coristi del nord.
Per la loro origine, i musicisti di quest'epoca vengono accomunati
sotto il nome di Scuola franco- fiamminga (o borgognonafiamminga).
<<Parlando di musica fiamminga si dà una determinazione che non
è soltanto di spazio (Belgio, Olanda e Francia del Nord), ma anche
di tempo (circa 1400-1550) e che investe un grandioso fenomeno di
maturazione ed evoluzione stilistica nella storia della musica>>21.
Le composizioni polifoniche di questo periodo si limitarono col
tempo alle due forme della messa e del mottetto.
Nel coro polifonico fiammingo il tenor poteva essere costituito da
una melodia gregoriana o anche da una profana, che davano il nome
alla messa; talvolta poteva essere d'invenzione, e allora la messa
prendeva il nome dal modo in cui era composta (missa primi toni,
ecc.).
20
21
M.Mila, Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 1985.
M.Mila, op.cit.
30
L'uso di argomenti profani non deve meravigliare, se si pensa
<<alla scarsa differenziazione melodica che v'era in quel tempo fra
sacro e profano e alla compassata gravità musicale di certe canzoni
lubriche e vivacissime nel testo>>22.
Il mottetto non era più la composizione dei secoli precedenti
codificata da Guillame de Machaut, ma si era trasformato in una
forma di grande libertà ritmica e complessità contrappuntistica.
Ogni singola parte del mottetto era totalmente indipendente, a tal
punto che ogni melodia era in sé compiuta e rivestiva addirittura un
testo poetico diverso; furono queste le ragioni che sottoporranno
tale genere a rischio di bando dalla pratica liturgica.
Se nella prima metà del 1400 il mottetto era ancora generalmente a
tre voci (una delle quali, il tenor, spesso strumentale), con la
scomparsa dell'uso degli strumenti in chiesa la polifonia sacra si
fece esclusivamente vocale ed il numero delle voci passò da tre a
quattro.
La tecnica dell'imitazione canonica si perfezionò a tal punto tra i
fiamminghi che il numero delle parti reali venne moltiplicato fino a
raggiungere eccessi memorabili, si complicarono incredibilmente i
divieti e le regole che erano alle basi dell'alternanza delle voci, si
abusò di canoni rovesciati (dove la seconda voce era, per esempio,
la prima letta a partire dal fondo) e di ogni specie di artifici. Quindi
il compositore finì per curarsi molto superficialmente del testo
sacro, essendo quest'ultimo, almeno nella maggior parte dei casi,
totalmente incomprensibile, in quanto sommerso dall'intrecciarsi di
ogni singola voce con tutte le altre.
Uno scambio molto fitto di influenze stilistiche avvenne nel
Quattrocento tra le Fiandre e l'Italia. La musica fiamminga si
affermava sempre più non solo nella sede papale, ma anche nelle
principali signorie italiane; intanto la musica dotta italiana, che
apparentemente veniva soppiantata da quella fiamminga, si
sviluppava silenziosamente nelle sue forme più popolari.
Fu in questo contesto che si inserì uno dei più grandi maestri
fiamminghi, Guillame Dufay, che operò molto attivamente nel
nostro paese, prima come cantore della cappella papale, poi al
servizio dei Malatesta di Rimini, poi al servizio dei duchi di Savoia;
tra le sue più belle composizioni ricordiamo la musica alla prima
stanza della canzone petrarchesca "Vergine bella, che di sol
vestita".
22
M.Mila, op.cit.
31
Dufay non fu soltanto un abile cantore, ma un artista di vasta
cultura in grado di riassumere le varie tendenze che si divulgavano
dall'Italia e dalla Francia. Forse più di lui attento alla parola fu il
suo rivale Gilles Binchois, artista di grazia delicata ed elegante, più
portato alla sensibilità che alla profondità del sentimento e che, a
differenza di Dufay, riuscì meglio nella canzone profana23.
I tre grandi maestri che occuparono la prima metà del Quattrocento,
Dunstable, Dufay, Binchois, componevano le loro canzoni di testo
francese a tre parti, in quello stile che è stato definito omofono24, in
cui il concorso degli strumenti richiamava le forme della balade e
del mottetto del Trecento francese.
Tra questi autori comunque il compositore per eccellenza di
canzoni fu Gilles Binchois, chiamato <<padre dell'allegrezza>>.
Come è stato già detto, nel Quattrocento gli scambi culturali tra
l'Italia e le Fiandre si infittirono notevolmente, nonostante la musica
del nostro paese, almeno in apparenza, sembrasse subire una
rarefazione di quantità e di qualità.
La musica dotta e religiosa divenne appannaggio dei cantori e dei
maestri fiamminghi, attirati nella cantoria papale e nelle cappelle
dei principi. Rimase agli italiani la musica profana e
d'intrattenimento, caratterizzata dalla dimessa semplicità
popolaresca; eppure, in un clima di apparente povertà musicale, il
nostro paese svolse un compito d'importanza vitale, conservando
alla musica la sua genuina natura artistica e promuovendo i mezzi
tecnici dell'armonia consonante e tonale, adeguati alla nuova
sensibilità.
23
M.Mila , op. cit.
Dice Karolyi a proposito dell'omofonia:<<La melodia, è la dimensione orizzontale
della musica, l'armonia quella verticale. Quando una melodia viene cantata o suonata
completamente da sola, come nella musica popolare o nel canto gregoriano, l'aspetto
orizzontale è ovviamente predominante. Questo tipo di musica è detta omofonica (dal
greco omos, identico, foné, suono o voce) […]>>. (O.Karolyi, La grammatica della
musica, Einaudi, Torino, 1969)
24
32
2.3 I nuovi generi profani in Italia
Più volte ci si è chiesti se siano esistiti brani effettivamente validi
solo se abbinati ad una determinata struttura musicale. Tutte le
forme musicali nate in questo periodo potrebbero essere inserite in
questa categoria; ci riferiamo alle ballate medievali, ai madrigali
trecenteschi, alle cacce, per arrivare alle frottole e barzellette e alle
canzonette in genere, dalla scuola siciliana in poi. Queste forme già
all'origine erano predisposte per un determinato impianto vocale.
Naturalmente diverse poesie popolari potevano essere divertenti e
spiritose, ma a livello estetico il loro apprezzamento, salvo rare
eccezioni, era riservato all'esecuzione con la struttura musicale,
polifonica o monodica che fosse25.
Le forme in cui si espresse il canto profano d'intrattenimento di
questi anni si innestarono soprattutto sul tronco della canzone a
ballo trecentesca e presero nomi diversi a seconda della zona di
diffusione. Nacquero così numerosi generi locali di canzone
polifonica: le villotte, i canti carnascialeschi, gli strambotti, le
barzellette, le frottole.
La villotta era un componimento musicale vocale generalmente
eseguito in ritmo di danza e di carattere popolaresco; il testo, di
norma cantato a tre o quattro voci, veniva in genere preso
dall'omonima forma poetica. In questo genere musicale si
potrebbero individuare i segni precursori dello stile madrigalesco.
Quasi con certezza si può affermare l'origine friulana di questa
forma da cui deriva anche la tradizionale cantata del Friuli, però la
villotta ebbe grande sviluppo anche in alcune città venete (Venezia,
Padova) e in Lombardia (Mantova) a partire dal 1450 circa. La sua
esecuzione, a tre o quattro voci, era sempre omofonica e si basava
soprattutto su ritmi binari alternati a ritmi ternari; il finale, che si
chiamava nio, era brevissimo.
Nel 1500 la villotta prese anche il nome di villanella o villanesca, in
particolare in ambito partenopeo, dove essa si era diffusa come
"canzonetta alla napoletana"; la musica di quest'ultima si
avvicinava a quella della frottola e si contrapponeva invece a quella
del madrigale, rispetto alla quale si distingueva per la maggior
semplicità della struttura. La sua caratteristica principale era la
prevalente tendenza al comico, al parodistico.
25
B.Gallotta , Manuale di poesia e musica, Rugginenti, Milano, 2001.
33
In altre regioni la villanella era andata assumendo diverse
denominazioni come <<villanella veneziana>>, <<villanella
bergamasca>>, <<villanella ferrarese>> e così via. All'estero venne
anche chiamata, verso la fine del 1500, << villanella francese>>,
<<villanella spagnola>>, ecc.
La struttura metrica era varia.
Delle quindici "Canzoni villanesche alla napolitana" (stampate
appunto a Napoli nel 1537 da Giovanni da Colonia) undici non
erano altro che componimenti in cui ogni strofa era composta da
una mutazione, cioè da un distico (ossia da una strofa formata
dall'unione di due versi) di endecasillabi seguito da una ripresa o un
ritornello formati da versi di diversa lunghezza. Il primo di questi
componimenti (<<Madonna, tu mi fai>>) era strutturato secondo lo
schema ABccd, ABccd, ABccd, EEccd, ma, in generale, esistevano
altri schemi usati molto frequentemente e molto differenti rispetto a
quello citato.
Il numero delle strofe non era fisso e frequenti erano le villanelle di
una sola strofa. Gli argomenti erano amorosi e a volte piuttosto
audaci.
La villotta è sopravvissuta nel Friuli fino ai giorni nostri come
canzone tradizionale, soprattutto nella Carnia, dove si è trasformata
in una sorta di danza cantata da un solista e dal coro.
I canti carnascialeschi erano i canti propri del "carnasciale", cioè
del carnevale ed erano componimenti poetico-musicali creati in
occasione delle sfilate dei carri. Quando la sfilata era ispirata da
divinità o figure mitologiche questi canti venivano chiamati Trionfi,
tra i quali ricordiamo innanzitutto quello di Bacco e Arianna scritto
in forma di frottola-barzelletta da Lorenzo de' Medici:
Quant'è bella giovinezza
che si fugge tuttavia!
RIPRESA
Chi vuol esser lieto sia:
di doman non c'è certezza.
Questo è Bacco e Arianna,
I MUTAZIONE
belli, e l'un dell'altro ardenti:
perché 'l tempo fugge e inganna, II MUTAZIONE
sempre insieme stan contenti.
Queste ninfe ed altre genti
VOLTA
sono allegre tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
INTERCALARE
di doman non c'è certezza.
34
<<Seguono altre sei strofe in versi ottonari, con la stessa struttura
della prima e le stesse parole ripetute (segnate in grassetto).
Inizialmente si può parlare di frottola perché non vi è intercalare
dopo la ripresa. Quest'ultima però viene poi replicata solo
parzialmente, preceduta dalla parola tuttavia, per cui si ritorna al
ritornello intercalare e alla forma della barzelletta. D'altra parte
musicalmente i canti carnascialeschi tendono ad essere bipartiti
come le ballate, usando una melodia per la ripresa e un'altra per la
strofa, compresa la volta>>26.
Alcune varianti formali di questo canto, di carattere più
popolaresco, molto spesso si trasformavano in vere e proprie
mascherate rappresentanti gruppi sociali, goliardici e di mestiere,
talvolta caratterizzati da alcuni interventi dialettali27. Queste
manifestazioni erano promosse dalla corte medicea e si svolgevano
solitamente per le vie e le piazze di Firenze .
Sembra che l'iniziatore sia stato proprio Lorenzo il Magnifico e il
suo esempio fu seguito da molti poeti fiorentini come Iacopo Nardi,
Pier Francesco Giambullari, il Giuggiola, Benedetto Varchi e
Antonfrancesco Grazzini, che ne diede alle stampe la prima raccolta
nel 1559. Il più noto di questi componimenti, come è stato già detto,
è il Trionfo di Bacco ed Arianna del Magnifico, a imitazione del
quale Gabriele d'Annunzio compose il suo Trionfo di Isotta.
Lo strambotto (da estribot= satirico o semplicemente da
"strambo") era un componimento di contenuto amoroso, una sorta
di serenata costituita da un'unica strofa di endecasillabi solitamente
in ottava. La disposizione delle rime avveniva o secondo la struttura
della strofa toscana, ABABABCC, o secondo la cosiddetta
canzuna, la strofa siciliana che seguiva lo schema ABABABAB.
Un componimento molto simile allo strambotto era il Rispetto
toscano, solitamente costruito secondo lo schema ABABCCDD ed
in genere articolato in due quartine, testa e coda, con la seconda che
commentava o approfondiva i concetti della prima; nel caso in cui il
rispetto fosse sprovvisto di tale articolazione esso veniva definito
madrigalesco.
<<Si può parlare di strambotti e rispetti spicciolati quando essi
sono isolati o in raccolte senza alcuna connessione. Sono
continuati, quando in una serie si registrano connessioni strofiche e
tematiche>>28.
26
B.Gallotta , op. cit.
F.Luisi, La musica vocale nel Rinascimento, Torino, 1977.
28
B.Gallotta, Manuale di poesia e musica, Rugginenti, Milano, 2001.
27
35
Lo strambotto-rispetto venne poi ripreso in termini letterari da poeti
come Carducci e Pascoli.
Lo strambotto, talvolta chiamato anche frottola, era musicalmente
intonato con un solo motivo, ripetuto ogni due versi; la sua
esecuzione era affidata a un cantore (spesso un poeta) che si
accompagnava col liuto.
La barzelletta era organizzata in versi molto scanditi, ottonari e
talvolta settenari; venne diffusa tra la seconda metà del '400 e
l'inizio del '500, soprattutto nell'Italia centro-settentrionale. Il
termine trae origine probabilmente da belzeretta, a sua volta
derivata dalla francese bergerette (pastorella, villanella).
La barzelletta derivava dal genere profano più accreditato del
Trecento, ossia la ballata. Quest'ultima, vagamente imparentata con
la ballade trovierica, assunse in Italia, soprattutto a Firenze, una
fisionomia propria: era prevalentemente monodica, ma anche corale
e danzata, la sua struttura era composta da una ripresa (o ritornello)
seguita da due piedi e da una volta; i versi della ripresa erano
cantati da un solista e ripetuti dal coro. I versi dei piedi erano
appannaggio del solista, la volta era corale.
Mentre la ballata propriamente detta, composta di versi
endecasillabi e/o settenari, era quindi caratterizzata dal fatto che la
ripresa fosse seguita da una o più strofe, nella barzelletta parte
della ripresa veniva ripetuta subito dopo la ripresa stessa e dopo le
strofe.
Tra il 1400 ed il 1500 il termine "frottola"( da "frotta", insieme
svariato di argomenti ) venne utilizzato genericamente per indicare
qualsiasi poesia di origine popolare in musica. Ancora oggi la
tendenza principale è quella di sottolinearne il valore strettamente
musicale, inquadrando la forma poetica nell'ambito della
barzelletta, nonostante quest'ultima, come abbiamo visto, abbia una
sua individualità precisa sia nel testo che nella musica.
<<Anche la poesia della frottola rinascimentale può avere
caratteristiche specifiche, che la qualificano come una ballata
irregolare, con una ripresa completa e, a differenza della barzelletta,
senza elementi di rondò. Il linguaggio è sempre più marcatamente
popolare, i versi più irregolari, e talvolta la ripresa è costituita da un
ritornello di canzonetta posposto alla strofa [...]>>29.
In certi casi ciò che identifica la frottola è il suo contenuto
accostabile a quello delle frottole medievali, costituito cioè <<da
una serie di massime, riflessioni, proverbi, osservazioni di carattere
29
B.Gallotta, op.cit.
36
moraleggiante, politico e satirico>>30 disposti in frotta, cioè in
disordine, con enunciati giustapposti.
Diverse forme popolaresche, di cui abbiamo parlato
precedentemente, derivano senz'altro dalla frottola; tra queste la
villotta polifonica, che a seconda dell'area dialettale poteva essere
veneziana, padovana o bergamasca. Un'altra forma molto diffusa,
contemporanea a quella della frottola stessa, fu quella della frottolabarzelletta, particolarmente impiegata nei canti carnascialeschi31.
Molto in auge a Milano, Mantova, Verona, Ferrara, Padova e
Venezia la frottola fu coltivata da Marchetto Cara, Bartolomeo
Tromboncino, Costanzo Porta e altri.
Se la frottola presenta forse il massimo di semplificazione della
scrittura musicale verso un ideale monodico di melodia
armonicamente accompagnata, alcuni storici ritengono che sia la
villotta il genere profano d'intrattenimento che conservò una
relativa ricchezza di polifonia e costituì il ponte verso il madrigale
cinquecentesco.
Dalla chanson à refrain trovadorica a queste forme sviluppatesi a
cavallo tra il '400 e il '500, nascono insomma le basi della formacanzone così come la intendiamo oggi: una forma monodica con
accompagnamento strumentale, strofica, "chiusa", con ampie
ripetizioni melodiche e, generalmente, un vero e proprio ritornello.
C'è da precisare comunque che tutti i termini utilizzati sinora per
indicare le varie canzoni polifoniche sono termini generici utilizzati
in tutta Italia, ai quali non corrisponde una precisa differenziazione
di forme musicali. <<Tra la villanella, la villotta e la frottola non
pare possibile stabilire vere distinzioni, salvo che si voglia, a
posteriori, raggruppare sotto una di queste denominazioni - villotta
per esempio - tutti gli esempi di canto profano a tre o quattro voci
nei quali la sensibilità armonica propria degli Italiani non esclude
l'impiego della tecnica d'imitazione canonica perfezionata dai
Fiamminghi [...]>>32.
Nel XV secolo l'Italia fu uno dei pochi paesi in cui si poté assistere
allo spettacolo di una nobilitazione artistica del canto popolare;
altrove, tra la lirica d'arte e i mezzi espressivi utilizzati dal popolo,
rimase un divario profondo. Questo fu il caso della Germania, dove
il Minnegesang e il Meistergesang, ossia il canto d'amore
cavalleresco e il pedante canto scolastico riuscirono a stento a
30
B.Gallotta, op.cit.
B.Gallotta, op.cit.
32
M.Mila, Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 1963.
31
37
sopravvivere sia nelle corti che nelle associazioni borghesi dei
Mastersinger e finirono per perdere tutta la loro ricchezza.
L'arte dei Minnesanger e dei Meistersinger produsse comunque
della canzoni a voce sola dette Volkslieder (canzoni popolari) o
Hoflieder (canzoni di corte).
Intanto anche in Francia la canzone profana continuava ad
arricchire il repertorio della musica polifonica. Essa rimase affidata
alle sapienti mani di artisti fiamminghi come Okeghem e Josquin
Després, i quali cercarono spesso di accostarsi alla vivacità e alla
freschezza espressiva della canzone del popolo; ma fu inevitabile
un'incongruenza tra la semplicità del materiale e la sua complicata
trattazione33.
Bisognerà aspettare il Cinquecento per assistere alla fusione
finalmente equilibrata della nobiltà stilistica della polifonia profana
con le fresche energie del canto popolare.
Forse solo la Spagna, oltre l'Italia, manifestò un certo impegno nel
combinare gli strumenti comunicativi del popolo e quelli dei
musicisti; questo fenomeno si intensificò a tal punto da rendere
quasi indistinguibili la canzone popolare e la canzone d'arte. I
villancicos spagnoli erano canti profani o religiosi, fioriti tra il
Quattrocento ed il Cinquecento, molto simili alle nostre villanelle.
Tra i numerosi autori di villancicos ricordiamo Juan Del Encina (
1469-1537).
33
M.Mila, op.cit.
38
3) L’età del Rinascimento
3.1 La nascita del madrigale cinquecentesco
Se durante il Trecento ed il Quattrocento il termine canzone sembra
non aver avuto accezioni particolari, a partire dal Cinquecento non
sarà più così.
Nel primo decennio del XVI secolo, infatti, il vocabolo appare varie
volte nel frontespizio di stampe vocali italiane, in certi casi da solo,
in altri contrapposto al mottetto per indicare genericamente il
carattere profano della raccolta o di una sua parte, in altri ancora
avvicinato a termini <<profani>> come sonetti, strambotti, frottole,
quasi per denunciare la presenza di composizioni diverse, per
caratteri, da quelle cui alludono gli altri vocaboli del titolo34.
Le canzoni rinascimentali diventeranno oggetto di commercio ed il
criterio di successo consisterà, d'ora in poi, nell'arte del piacere. Il
loro stile subirà sempre di più l'influenza del luogo di diffusione;
anche i criteri di raggruppamento delle canzoni stesse dipese, da
questo momento in poi, dal luogo di origine dell'editore incaricato.
E' perfino possibile individuare delle variazioni nello stile di uno
stesso musicista, secondo l'editore cui sono dirette le sue opere35.
Anche per la musica il Rinascimento fu epoca di grande fioritura e
rinnovamento; lo stimolo venne sia dallo studio dei classici, sia
dallo spirito umanistico, con l'importanza attribuita all'uomo ed alla
sua capacità di pensiero.
In questi anni la musica vocale profana italiana manifestò un forte
desiderio di trasformazione sulla scia di quelli verificatisi in ambito
poetico, nel quale ci si avviava sempre più verso una lirica basata
sui principi <<petrarcheschi>>. E' proprio a questa lirica che spesso
i musicisti incominciarono a rivolgersi, dimostrando così una certa
preferenza per il <<serio>>, per il sentimentale e talvolta per il
patetico; questi artisti si indirizzavano così ad una morbida,
elegante scrittura dove tutte le melodie avessero la stessa
importanza e procedessero in uno spirito essenzialmente vocale.
34
35
A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985.
A.Basso (a cura), op.cit.
39
Nei primi anni del Cinquecento le due grandi forme polifoniche
ancora diffuse erano quelle della messa e del mottetto.
Per quanto riguarda la prima, la costante immutabilità del testo
associata alla coralità del mezzo sonoro, promuoveva una religiosità
alquanto impersonale, dalla quale erano bandite le confessioni e le
confidenze dell'artista in senso romantico. Una certa ricchezza
d'espressione ed una maggiore libertà erano concesse al musicista
dalla minore forma di musica sacra a più voci, il mottetto, più
maneggevole e vario che la messa, un po' meno condizionato dalle
esigenze liturgiche e capace di dar forma ad uno stato d'animo ben
preciso, quello del suo autore.
Il corrispondente profano del mottetto era il madrigale polifonico
che, a partire dal terzo decennio del secolo, dominò in modo
incontrastato tutto il Cinquecento.
Non più legato ad una particolare forma letteraria, come nel
Trecento, il madrigale polifonico era il rivestimento musicale di
qualsiasi breve poesia profana in lingua volgare, con libertà di rime
e di metro; aperto a tutte le tendenze innovatrici, in esso conversero
le opposte tendenze del secolo: stratificazione polifonica e
condensazione omofonica delle voci, tonalità moderna e antica
sensibilità modale, spiegamento melodico e contrazione verticale,
autonoma sintassi musicale e volontà d'espressione poetica e
illustrativa.
Inizialmente a quattro voci come la frottola, forma dalla quale
derivava, si fissò poi, verso la metà del secolo, nel tipo di madrigale
a cinque voci; rispetto alla frottola si spogliò della veste
popolaresca e acquistò una maggiore nobiltà e ricercatezza artistica,
anche se la differenza in fondo non fu sostanziale. Non a caso
infatti, tra le frottole dell'undicesimo libro della raccolta di
Ottaviano Petrucci36 (che fu il primo ad impiegare i caratteri
metallici per la stampa dei testi musicali), molte possedevano un
testo poetico talmente ricco e prezioso da indirizzare verso una
nobiltà di condotta musicale di tipo madrigalesco.
Il madrigale si trasformò nello strumento attraverso il quale
esprimere, in modo aristocratico ed artificioso, spirituali pene
d'amore; in un certo senso divenne dunque il corrispondente
musicale del sempre più diffuso petrarchismo letterario.
Fu così che esso si inscrisse perfettamente nel contesto
rinascimentale italiano: nelle splendide corti dell'epoca la poesia e
36
Il XVI secolo si aprì proprio con la pubblicazione di una sua antologia contenente non
meno di 94 canzoni a tre voci e 222 canzoni a quattro voci.
40
la letteratura acquistavano una crescente convenzionalità e si
allontanavano sempre di più dalla vita di tutti i giorni, per
compiacersi di formule ricercate e di aulici luoghi comuni.
Torquato Tasso, nel 1584, si lamentò del fatto che la musica,
sedotta da questa poesia artificiosa, stesse << degenerando divenuta
molle ed effeminata>>37.
Da un punto di vista più prettamente tecnico, il madrigale
polifonico era una forma aperta, con una successione di episodi
polifonici (strutture contrappuntistiche di linee melodico- testuali)
costruiti su uno o più versi; questi episodi a loro volta potevano
eventualmente costituire degli episodi più vasti (episodi composti),
che coincidevano o facevano parte di sezioni individuate da
chiusure cadenzali precise e marcate. Un madrigale poteva inoltre,
sul piano generale, essere chiaramente suddiviso in parti (più
sezioni per una parte), esattamente come avveniva per i mottetti più
lunghi38.
Il madrigale polifonico veniva definito concertato sia nel caso in cui
fossero presenti cori strumentali, oltre che del basso continuo, o in
presenza di voci solistiche che si alternavano col coro o fra loro, o
anche per la presenza di più cori.
Dal madrigale polifonico si distinguevano il madrigale poetico e il
madrigale poetico- musicale.
Quest'ultimo, oltre ad utilizzare come testo il madrigale poetico,
impiegava anche sonetti, stanze di canzone, ottave liriche ed epiche
e ballate; non a caso, per buona parte del XVI secolo, sarà Petrarca,
con i suoi sonetti e le sue canzoni, il poeta preferito dai musicisti.
Il madrigale poetico, che comunque resterà la forma maggiormente
usata musicalmente, va inteso come poesia per musica in senso lato;
infatti, un testo appartenente a questa categoria, pur essendo inteso
all'atto della sua stesura come potenzialmente musicabile, risulta
comunque dotato di una sua autonomia estetica e letteraria. Esempi
di testi di questo genere vennero offerti da Ariosto, Tasso, Guarini e
Marino, autori di poesie ben presenti nei cataloghi musicali, ma
altrettanto valide e suggestive da un punto di vista poetico39.
Tale forma poetica presentava le seguenti caratteristiche: una sola
strofa la cui lunghezza oscillava dai cinque ai quindici versi; il
metro era in endecasillabi e/o settenari disposti liberamente dal
poeta, così come le rime, organizzate però preferibilmente in un
37
M.Mila , Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 1963.
B.Gallotta , Manuale di poesia e musica, Rugginenti, Milano, 2001.
39
B.Gallotta, op.cit.
38
41
distico finale a rima baciata; potevano esserci sino ad un massimo
di tre versi non rimati. Il poeta poteva scegliere anche degli schemi
più rigidi, come nel caso di << Ecco mormorar l'onde>> del Tasso,
dove si ha una serie continua di distici a rima baciata40.
Nel complesso si trattava di una forma molto libera, coerente con la
corrispondente forma musicale. Il contenuto era di carattere idillicoamoroso, molto pittorico e descrittivo e con un ritmo spesso ampio
e melodico, anche se, nei primi anni del '600, il madrigale poetico
tenderà a diventare più breve (sei-otto versi), molto più realistico,
meno pittorico e maggiormente aspro ed incisivo, senza però
abbandonare l'argomento amoroso.
Nell'Italia del XVI secolo due furono i grandi centri di produzione
di musica sacra, Roma e Venezia, grazie in particolare alla costante
presenza, in queste città, di musicisti provenienti dalle Fiandre.
La scuola romana si mantenne fedele alla pura vocalità, in uno
spirito di intima devozione e secondo le prescrizioni liturgiche,
mentre la scuola veneziana fece posto, anche nella polifonia sacra,
ad elementi più coloriti, tipici del madrigale profano, non
escludendo dalla chiesa nemmeno l'uso degli strumenti.
E' naturale quindi che la scuola romana si sia affermata nella
seconda metà del secolo, fiancheggiata ed appoggiata in tutto e per
tutto dal movimento di ripresa cattolica della Controriforma41; al
contrario la scuola veneziana, più innovatrice ed aperta alle nuove
tendenze riformiste, attirò un numero consistente di musicisti nella
prima metà del 1500, colmando così il bisogno di cambiamento
diffuso dal movimento rinascimentale italiano.
Tra il 1500 ed il 1600 si sviluppò anche un altro genere polifonico
che venne definito "canzonetta": si trattava di una breve
composizione, senza elaborazioni ricercate, da 2 a 8 versi
(soprattutto 3-4), quasi sempre con movenze di danza e di carattere
leggero. Di origine italiana, la canzonetta si affiancò alla forma
evoluta del madrigale e a quella più popolare della villanella; lo
schema era AABCC, la struttura semplice, il ritmo deciso, mentre il
testo non seguiva alcuna forma fissa.
40
B.Gallotta, op.cit.
In questi anni la Chiesa si opponeva infatti alle proposte riformatrici di Lutero.
Quest'ultimo ed i suoi seguaci reclamavano una fusione più stretta di testo e musica e
rifiutavano il canto gregoriano per le difficoltà di ordine ritmico che ne rendevano
difficoltosa l'esecuzione; il riformatore tedesco cercava invece di introdurre nel culto un
canto metrico che derivava la sua forma dal Lied.
41
42
3.2 La scuola veneziana
Tra i primi esponenti della scuola veneziana ci furono diversi
maestri fiamminghi trapiantati in Italia; il più importante tra questi
fu sicuramente Adriano Willaert, che viene considerato, forse
impropriamente, il suo fondatore. Egli divenne maestro di cappella
in San Marco nel 1527, ebbe numerosi allievi, tra cui alcuni dei più
grandi musicisti che in seguito entreranno a far parte della storia
della musica veneta.
Willaert fu autore di diversi madrigali, ancora a quattro voci, in
realtà un po' freddi nella loro eleganza; comunque non disdegnò
mai la forma più modesta e popolaresca delle Canzoni villanesche a
tre o quattro voci (1545).
Questo grande maestro fiammingo non rimase di certo estraneo
all'interesse che la pratica strumentale suscitava allora in Italia e
trascrisse per lo strumento prediletto del '500, il liuto, madrigali e
canzoni di un altro fiammingo emigrato in Italia e poi entrato a far
parte della scuola veneziana, Philippe Verdelot.
Alla scuola veneziana non appartenne materialmente Jakob
Arcadelt, che visse a Firenze e a Roma e fu cantore papale;
nonostante ciò quest'autore venne considerato più volte uno dei
veneziani. "Il bianco e dolce cigno" di Arcadelt fu uno dei pezzi più
famosi nel 1500 e rimase documento delle maggiori altezze
raggiunte dal madrigale.
Allievo di Willaert a Venezia fu invece il fiammingo Cipriano de
Rore, poi suo successore alla direzione della cappella di San Marco;
egli avviò il madrigale sulle vie del cromatismo, cominciò cioè a far
uso delle note alterate da diesis e da bemolli, aumentando così le
possibilità di modulazione armonico-tonale e imponendo una
grande semplificazione del contrappunto42.
Tra gli allievi di Willaert non vanno dimenticati neanche Nicola
Vicentino e Marcantonio Ingegneri, maestro di Monteverdi, anche
se i due geni che più di tutti rappresentarono la scuola veneziana
furono senza dubbio i due Gabrieli, Andrea ed il suo nipote
Giovanni.
La musica dei Gabrieli si situava sia al di là della secca aridità
scolastica del contrappunto fiammingo, sia al di là della dimessa
semplicità delle forme popolari ed era in grado di evocare coi suoni
un'atmosfera, uno stato d'animo, una situazione.
42
M.Mila, Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 1963.
43
Le dissonanze ricomparvero, ma non erano più, come nei primordi
della polifonia, il risultato involontario della somma delle parti,
bensì vennero impiegate come mezzi espressivi corrispondenti ad
una precisa ed approfondita penetrazione psicologica. La grandezza
del suono non impedì un'aderenza al testo poetico attenta ed
espressiva, come non accadrà invece nel caso della scuola romana,
nell'ambito della quale vennero utilizzati spesso strumenti
comunicativi freddi ed impersonali.
Con i Gabrieli l'orchestra acquistò un suo primo ordinamento: i
complessi di strumenti a fiato presenti a Venezia e a Verona
vennero utilizzati per trascrizioni puramente strumentali di canzoni
alla francese; trascrizioni che finirono per rivestire caratteri sempre
più spiccati di libertà ed autonomia, come si vede nella Battaglia di
Andrea Gabrieli, che si staccò completamente dall'omonima
composizione vocale di Janequin.
Queste parafrasi sempre più indipendenti finirono per fare della
canzone francese un genere di vera e propria polifonia strumentale,
che non aveva più niente a che vedere né col canto né con la
Francia.
La fusione timbrica di voci e orchestra, introdotta da Andrea
Gabrieli, venne perfezionata dal nipote Giovanni, autore delle 14
canzoni e 2 sonate a più strumenti e voci, contenute nelle Sacrae
Symphoniae. Furono la spigliatezza ritmica della chanson francese
e la colorita espressione della villanella e del madrigale i modelli
ideali di Giovanni Gabrieli.
Straordinaria era l'unità di queste composizioni pur mutevolissime
nel loro svolgimento, ispirate a contrasti di tempo, di metro, di
scrittura e pervase dal genio dell'autore e dalla sua capacità
comunicativa schietta e personalissima.
In Italia sarà comunque Luca Marenzio, vissuto alla corte estense,
poi a quella del re di Polonia ed infine nella cappella papale, a
portare il genere all'apice del suo splendore. Il suo madrigale
sintetizzò tutti gli esperimenti tecnici dei veneziani, l'uso del
semitono cromatico, delle dissonanze e della modulazione armonica
a fini espressivi; tutto ciò venne impiegato in modo assolutamente
naturale, senza però escludere un'incredibile perfezione formale.
Il madrigale di Marenzio dunque, sottile fusione di parole e musica,
può essere considerato l'esempio ideale di quel petrarchismo sonoro
di cui si è parlato finora. Nella sua arte si ammira << l'espressione
perfetta di un tempo e di una società dall'anima supremamente
raffinata, estrema ascensione dello stile e della tecnica del
44
madrigale del secolo XVI, che presenta la fusione di una lirica
coltivatissima
(petrarchisti)
con
l'arte
della
frase
contrappuntisticamente matura (eredità dei fiamminghi): unione
della parola e del suono in una perfezione unica nel suo genere >>
(Engel)43.
L'esperienza di Marenzio risulta particolarmente interessante anche
perché sembra anticipare la drammaticità di Monteverdi, nonostante
egli la temperi sempre con una certa dose di signorile delicatezza.
Alla fine del 1500 si svilupperà un'altra versione del madrigale,
sempre più distante rispetto alla formalità petrarchesca e sempre più
vicina ad uno stile più colorito ed espressivo: stiamo parlando del
cosiddetto madrigale dialogico.
Alcuni musicisti infatti pensarono di musicare polifonicamente
poemi dialogati in forma drammatica; questa tendenza rimase senza
seguito, anzi, più esattamente, diede vita ad un genere intriso di una
sanguigna comicità e molto vicino quindi all'imminente stile
barocco.
Sicuramente il capolavoro di questo genere fu l'Amfiparnaso del
modenese Orazio Vecchi, vera e propria commedia di maschere in
cui cinque voci interpretano di volta in volta ogni personaggio e
solo di rado si spartiscono e raggruppano variamente44.
43
44
M.Mila, op.cit.
M.Mila, op.cit.
45
3.3 La scuola romana
Se la prima metà del XVI secolo è dominata dai canoni della scuola
veneziana, la seconda è caratterizzata invece dalla fioritura delle
composizioni sacre create dagli autori appartenenti alla cerchia
della scuola romana.
Messa e mottetto furono le due forme nelle quali si incanalò la
produzione religiosa di questa scuola, esclusivamente vocale, a
differenza di come si praticava a Venezia, cioè nel rigoroso stile
<<a cappella>>45.
Ogni parte della composizione polifonica mantenne comunque una
propria autonomia melodica, senza lasciarsi raggruppare con altre
in una funzione subordinata di semplice accompagnamento. Si poté
così assistere all'affermazione spontanea del senso tonale, mirato a
creare dei momentanei punti di riposo; mentre alcune voci
concludevano momentaneamente sulla tonica, ce n'era sempre una
che da questa conclusione staccava il filo di una nuova frase.
L'obiettivo della scuola romana era quello di portare il contrappunto
al più alto grado di chiarezza e di purezza armonica.
La polifonia sacra si allontanò così dalla semplicità diretta del
gregoriano, il quale aveva come unico scopo quello di diffondere
con entusiasmo parole di fede; esso cercava di porsi quindi come
atto materiale di preghiera e non come opera d'arte. Nel '500 invece,
grazie ad un controllo perfetto di una tecnica complicatissima quale
quella del contrappunto fiammingo, diventò possibile situare
l'espressione religiosa nella categoria dell'arte.
Se in passato quindi l'unica funzione della musica era quella di
trasmettere un determinato messaggio spirituale, dopo l'esperienza
rinascimentale l'arte divenne il mezzo attraverso il quale realizzare
l'obiettivo principale di ciascun individuo: l'espressione dei propri
sentimenti e dei propri pensieri. Sicuramente il fatto che i testi da
musicare fossero poco vari rappresentava una vera e propria
mortificazione per certi artisti, i quali avrebbero voluto trasmettere
in modo sincero e sempre nuovo stati d'animo ed emozioni; questo
fu il caso di Palestrina, che musicò 103 volte il testo liturgico della
messa.
Ora però la parola assunse una funzione del tutto particolare: se in
epoca gregoriana essa aveva il compito di fungere da veicolo della
preghiera, nel 1500 divenne perfettamente inintelligibile sommersa
45
M.Mila, op.cit.
46
nel diluvio del contrappunto. Il Concilio di Trento si pose questo
problema e propose così una maggiore comprensibilità del testo,
nonché la soppressione dei temi tratti da canzoni profane che in
qualche modo avrebbero potuto offendere la santità del culto. Non
mancarono cardinali estremamente rigorosi che avrebbero voluto
senz'altro l'abolizione del canto nelle chiese.
La questione si risolse con la riconferma della purezza della
vocalità e con l'abolizione dei temi profani nelle messe; le parole,
nonostante le assicurazioni premesse dai musicisti alle
pubblicazioni musicali, continuarono a non capirsi.
Il più grande e tipico esponente della scuola romana fu senza
dubbio Giovanni Pierluigi da Palestrina (1525-1594). Egli pubblicò
in gioventù un libro di madrigali profani assolutamente perfetti dal
punto di vista formale; più tardi, quasi per riparare, pubblicò alcuni
libri di madrigali spirituali, ma fu nella vitalità dei mottetti e nella
maestosità delle messe che il suo genio si espresse in tutta la sua
ampiezza46.
Anche in Spagna la grande polifonia sacra conobbe uno sviluppo
meraviglioso; essa si differenziò dalla religiosità serena del
Palestrina e descrisse dolorosamente il dramma interiore della
coscienza umana alla ricerca di Dio.
Ovviamente la polifonia non decadde neanche nella patria
fiamminga, dove le qualità di musicisti eccellenti come Nicolas
Gombert e Clemens Non Papa furono offuscate dalla figura
straordinaria di Orlando di Lasso, uno dei più interessanti autori di
canzonette profane. Nelle sue innumerevoli canzoni francesi,
villanesche ecc., su testi spesso licenziosi, fece largo impiego del
canto popolare sia francese che italiano, ed utilizzò gli espedienti
del linguaggio polifonico per dar vita ad un irresistibile effetto
comico.
Orlando era in realtà un'anima in preda al dubbio e all'ansia del
divino, come dimostrò la crisi religiosa che lo colse verso la metà
della sua vita e che si accentuò col tempo, gettandolo in preda ad
una dolorosa malinconia. Più serena invece la consistente
produzione di un altro grande della polifonia fiamminga, Filippo De
Monte, autore di oltre 1100 madrigali, 38 messe 318 mottetti.
Le vicende della canzone profana nel XVI secolo risultano essere
molto interessanti, in quanto essa acquistò delle particolari
caratteristiche che ebbero una larga influenza anche in Italia.
46
M.Mila, op.cit.
47
Il contrappunto a quattro voci della canzone fiamminga del '400 era
troppo pesante per la leggerezza dei temi popolari che nei primi
decenni del nuovo secolo si erano imposti al gusto dei musicisti,
influenzati non poco anche dalla frottola italiana. Le prime raccolte
di canzonette francesi stampate nel 1528 e nel 1529 da Attaignant
(compositore che in Francia raggiunse la fama di Petrucci nel nostro
paese), diedero totalmente sfogo alla vivacità ritmica dei temi
popolari47.
Esistono comunque profondissime differenze tra il modo in cui il
rapporto tra musica e poesia venne vissuto in Francia ed il modo in
cui tale relazione venne trattata in Italia.
Da noi il letterato non si curava minimamente del testo; non era lui
a sceglierlo ma il compositore, che lo sottoponeva ad un'attenta
lettura musicale e che costruiva gli episodi musicali entro gli spazi
delimitati dalla punteggiatura. In sintesi potremmo dire che non
esisteva nessun rapporto di collaborazione tra petrarchisti e
madrigalisti.
Una delle caratteristiche più accentuate del Rinascimento francese
fu invece la strettissima relazione creatasi tra la musica e la poesia,
questo grazie soprattutto all'attività svolta da l'Académie de
Musique et de Poésie, fondata nel 1571 dal poeta Jean-Antoine de
Baif, con la protezione del re Carlo IX e la collaborazione di Jodelle
e Ronsard.
Quest'accademia nacque sulla scia della corrente d'idee diffusasi in
Francia in quegli anni, secondo la quale i poeti avrebbero dovuto
destinare veramente la loro opera al canto e ne avrebbero dovuto
prendere in considerazione ogni sua singola esigenza. Ovviamente
questo sarebbe stato fattibile solo nel caso in cui musicisti e poeti
avessero collaborato tra di loro il più attivamente possibile.
Fu Ronsard per primo nel 1565 ad insistere sulla necessità di
concepire il componimento poetico in funzione della musica che lo
completa:<<pour etre plus propre à la musique et accord des
instruments, en faveur desquels il semble que la poésie soit
née...>>48.
Lo scopo principale dell'Académie divenne quello di ristabilire
l'antica unità tra musica e poesia, spogliando la prima dalle
complicazioni apportate dal contrappunto e riconducendo la
seconda alla metrica quantitativa degli antichi.
47
48
M.Mila, op.cit.
A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985.
48
Baif e gli altri adepti dell'Accademia cercarono infatti di ottenere
un'unità tra <<effetti>> musicali e poetici, proprio mediante
l'introduzione della nozione di quantità in una poesia francese che
fosse ricondotta alle norme antiche49. Fu così che i loro esperimenti
li avvicinarono notevolmente alla chanson e al salmo in rime
francesi, generi molto ammirati a quel tempo.
La causa principale dell'insuccesso parziale di questi tentativi
risiede nella natura stessa del verso francese, nel quale il concetto di
quantità resterà sempre incerto, mentre la successione di sillabe
toniche e atone può conferirgli il ritmo di cui la musica fa uso.
Gli studi portati avanti dall'Académie ebbero comunque importanti
risultati: grandi artisti come Orlando di Lasso, Jacques Maudit e
Claude le Jeune vennero influenzati positivamente dalle
collaborazioni con i poeti dell'epoca.
49
A.Basso (a cura), op.cit.
49
3.4 Il Lied rinascimentale
A partire dal 1500 la storia del Lied tedesco può essere suddivisa in
varie fasi distinte. Infatti, mentre il Lied profano era praticato
dall'alta borghesia o dai cortigiani e si evolveva al di sopra dei
Volkslieder (di cui ama ripetere la struttura a strofe brevi) e delle
più ampie Hofweisen, il Lied di argomento spirituale era praticato
soltanto nell'ambito della comunità religiosa ed era entrato a far
parte del repertorio delle cantorie parrocchiali come un vero e
proprio mottetto50.
La Hofweise, rispetto al Volkslied, era molto più vicina alla
produzione dei secoli precedenti.
Nella Hofweise si fondevano alcuni elementi del Minnesang con lo
spirito inaugurato dall'Umanesimo. Il suo stile si ditingueva dal
realismo dei Volkslieder, essendo decisamente più raffinato ed
elevato, mentre a livello contenutistico era orientata verso tematiche
astratte estrapolate dalla tradizione culturale greco-romana.
Mentre il Volkslied nasce con la melodia, la Hofweise è creata a
tavolino ed è quindi fornita da acrostici, assonanze, artifici poetici,
simili a quelli dei Mastersinger51.
Sicuramente lo sviluppo della polifonia nel secolo precedente
influenzò notevolmente quella che era la natura del Lied, anche se
in realtà il Lied a più voci affonda le radici in una tradizione di
lunga data che possiamo far risalire all'antica tragedia greca, nella
quale il coro era espressione collettiva e non individuale e
rappresentava l'opinione della massa, di tutta l'umanità.
Con lo sviluppo della polifonia la funzione del coro si arricchì
ulteriormente: esso divenne infatti lo strumento attraverso il quale
esprimere il sentimento del poeta espresso dall'unione e fusione di
più voci. Alcuni esempi di come questa pratica venisse attuata sono
la chanson borgognona del '400 ed il madrigale italiano del '500.
A partire dal 1536 si verificò un cambiamento fondamentale per il
Lied: infatti, prima di questa data, esso impiegava il tenor ed il
cantus firmus52 nella forma Bar poteva essere realizzato con
l'appoggio di strumenti; alcune testimonianze dicono addirittura che
50
A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985.
A.Basso (a cura), op.cit.
52
All'inizio del XIII secolo l'espressione cantus firmus indicava il canto liturgico
monodico e si distingueva nettamente dal cantus fractus o mensurabilis. In questa
accezione è sinonimo di musica plana, cantus planus o immensuratus e dei corrispettivi
termini italiani musica piana, canto piano, canto fermo. (A.Basso, a cura, D.E.U.M.M.,
Utet, Torino, 1985)
51
50
talvolta l'esecuzione del doppio cantus firmus poteva essere anche
puramente strumentale. Dal 1536 in poi invece tutte le voci saranno
provviste del testo ed emergerà in questo modo una tendenza verso
la musica a cappella, tutto questo in accordo con l'importanza che il
pensiero dominante, quello umanistico, attribuiva alla parola.
51
3.5 La canzone strumentale
Abbiamo già accennato all'importanza che alcuni strumenti
musicali acquistarono durante il XVI secolo, però sarebbe utile
soffermarsi sulla centralità di due di questi in particolare: il liuto e
l'organo.
E' vero che di musica scritta espressamente per gli strumenti si
hanno nel Medioevo scarsissime tracce, però è altrettanto
importante il ritrovamento, avvenuto nella seconda metà del secolo
XV, di un manoscritto contenente 250 pezzi strumentali, per la
massima parte trascrizioni di mottetti di Dunstable, Dufay, Binchois
ecc.: questo ci dimostra chiaramente che non era possibile separare,
in quest'epoca, la musica strumentale da quella vocale.
Senza dubbio la voce dominava su tutto il resto, ma non doveva
essere facile, nelle riunioni private e profane, trovare sempre
quattro e più voci necessarie all'esecuzione di un madrigale. Fu così
che venne spianata la strada verso la piena affermazione, tra il
Cinquecento ed il Seicento, della canzone per liuto e della canzone
per tastiera.
La canzone per liuto apparve con le trascrizioni liutistiche di
chansons che, elaborate da Francesco Spinaccino, furono edite da
Petrucci nel 1507; pagine di Ockeghem, Hayne, Ghiselin, Brumel e
Agricola vennero qui presentate nel tentativo di adattare i tratti
essenziali del discorso originario alla natura del liuto: soprattutto un
arricchimento con << passaggi >>, cioè con disegni mossi che
presentavano in genere un certo significato polifonico.
In seguito le canzoni per liuto abbonderanno; sempre rifacendosi a
chansons vocali, rimasero nel complesso sul cammino della
trascrizione, dal semplice trasporto sullo strumento giungendo alla
versione <<arricchita>>, intavolata, come veniva definita una
canzone nata per voci che poi veniva ripensata strumentalmente53.
Col quarto decennio del secolo si impose sui liutisti italiani la
giovane chanson parigina, che anche nella nostra penisola otteneva
grande successo grazie al suo brio, alla sua eleganza, alla sua
leggerezza nei toni sentimentali e la sua tendenza al pittoresco.
L'autore più trascritto fu Claudin de Sermisy, seguito dal grande
Janequin e, ad una certa distanza, da molti altri.
Anche nell'ambito della canzone per tastiera vennero raggiunti
risultati interessanti. Nelle canzoni per organo di Marco Antonio
53
A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985.
52
Cavazzoni (1523) la pratica del trascrivere chansons apparve intesa
con spiccata indipendenza; suo figlio Girolamo , nei suoi Ricercari
( 1542 ), si spinse addirittura fino alla libera parafrasi e diede vita a
canzoni caratterizzate da una profonda intimità religiosa.
In seguito si affermò definitivamente la tendenza a "superare" la
trascrizione e a creare in autonomia, senza una base di partenza.
A scopo orientativo possiamo distinguere in tale indirizzo due mete:
da un lato fiorì la canzone alla francese, ossia quella su cui la
chanson agì non più con l'autorità di un modello da rispettare, ma
solo proponendo certi suoi tratti, come per esempio la sua natura
prevalentemente gaia e la costruzione in strofe ben distinte. D'altro
lato venne coltivata una forma di canzone in cui erano allentati al
massimo o addirittura sciolti i legami tematici con la chanson; le
poche caratteristiche comuni, inerenti indole e struttura, vennero
comunque rinnovate.
I primi casi di canzoni strumentali recanti un titolo originale furono
una canzone a 5 di Vicentino, "La bella", stampata nel 1572 e due
leggiadre Arie di canzon francese a 4 di Ingegneri, pubblicate nel
1579.
Al divulgarsi di questa forma contribuì in particolar modo Fiorenzo
Maschera col suo primo Libro de canzon da sonar che, apparso nel
1582, ebbe molte ristampe, una delle quali destinata ai suonatori
d'organo; queste musiche a volte si mantenevano in un clima assai
unitario, a volte allineavano episodi contrastanti e vi prevaleva un
tono d'eleganza senza spiccati rilievi.
Con la fine del '500 le canzoni per gruppi di strumenti iniziarono ad
apparire numerose in libri destinati ad autori singoli ed in antologie.
Naturalmente alcuni autori arricchirono il repertorio della canzone
strumentale molto più di altri; tra questi ricordiamo il già citato
Andrea Gabrieli, le canzoni del quale, conservate in stampe del
1605, non erano semplici << trasporti >> sulla tastiera, bensì
offrivano un discorso trasformato da magistrali << passaggi >> in
uno stile da tasto diretto. Una sua canzone del 1596 venne da lui
definita ariosa: si trattò di una creazione molto originale nel senso
che la fantasia del musicista vi operò senza seguire alcun modello, e
da una chanson prese tutt'al più le mosse; forse questa fu tra le
prime canzoni " indipendenti".
Gabrieli lasciò inoltre composizioni svolte nel carattere della
canzone, ma denominate ricercari, probabilmente perché originali
nel significato di cui si è detto; altri suoi ricercari condotti su
53
materiale tematico di chansons fanno credere che l'autore avesse in
mente alcuni ripensamenti di esse in veste di canzoni54.
In Germania fi Hans Leo Hassler (1564-1612), allievo di Andrea e
condiscepolo di Giovanni Gabrieli, ad introdurre lo stile del maestro
italiano, arricchendolo però della vivacità tipica del canto popolare
tedesco.
Nel Quattrocento e nel Cinquecento la Francia rimase quasi
estranea alla creazione della musica strumentale, mentre in Spagna
la vihuela, varietà iberica del liuto, contò valenti autori di canzoni e
danze, come Luis Milan.
In Inghilterra invece, il madrigale italiano darà vita ad una
produzione originale di grande eleganza, ma allo stesso tempo
semplice e diretta, liberata dal peso della tradizione petrarchista. Il
liuto ebbe un brillante successo, o come strumento
d'accompagnamento a canti profani, o come strumento solista,
impiegato nella trascrizione di arie e danze, riunite in forma di
suite, cioè di una composizione strumentale consistente in un
seguito di danze stilizzate: si distinse soprattutto John Dowland,
autore di una raccolta di <<pavane appassionate>> per viola e liuto,
intitolate Lachrimae.
Ma la maggior gloria musicale inglese sta nella scuola dei
virginalisti, che seppero individuare il carattere leggero e profano
del virginale e distinguerlo da quello religioso dell'organo; canti
profani e danze formarono in gran parte la materia della loro
produzione contrappuntistica, notevole per la sua natura
strumentale.
Fu così che la polifonia, ormai sconfitta in ambito vocale, ricevette
un forte impulso in quello strumentale, dove prosperò per un secolo,
traendo un'incredibile vitalità e freschezza dai problemi di
adattamento alle tecniche esecutive. Anche la scrittura a quattro
parti per coro, che sembrava aver esaurito tutti i suoi motivi
d'interesse, venne in questo periodo rivalutata grazie alle infinite
possibilità offerte dalle dita sulla tastiera.
Le varie forme nelle quali si esplicava la pratica organistica erano
contraddistinte da uno stile fugato assai libero ed erano
principalmente due: ricercare e toccata, la prima più rigorosamente
contrappuntistica, la seconda più virtuosistica e brillante.
Queste forme si svilupparono anche nell'ambito della letteratura per
liuto; infatti nomi come fantasia, canzone, capriccio, intonazione,
ecc., designavano forme molto simili nella sostanza a quelle per
54
A.Basso (a cura), op.cit.
54
tastiera. Comunque il liuto, col passare del tempo, si appropriò
sempre più dell'esecuzione di canzoni profane e di danze,
dall'unione delle quali (pavana, saltarello e piva; oppure pass'e
mezzo, gagliarda e pavana) venne a poco a poco organizzandosi il
genere strumentale della suite.
Agli inizi del Seicento, col decadere della pratica liutistica, la
produzione di canzoni da tasto si infittì ulteriormente.
Secondo alcuni storici, il gusto di comporre canzoni strumentali
d'assieme <<originali>>, non sarebbe nato dalla pratica del
trascrivere chansons per gruppi di strumenti (come avvenne invece
nel caso della canzone da tasto); nessun documento testimonia
infatti il fatto che questa nuova tendenza abbia avuto per humus
l'esperienza dell'intavolare55, anche se comunque tale eventualità
non potrebbe essere esclusa con assoluta certezza.
Esiste però una ragione che, più di qualsiasi altra, ci potrebbe
indurre a pensare che la canzone per gruppi di strumenti fosse una
creazione "originale": nel caso di una chanson su liuto o su tastiera,
l'intavolatura costituiva una premessa grafica indispensabile, in
quanto all'esecutore di quegli strumenti occorreva un testo dove
fossero verticalmente riunite le parti originariamente notate sui
libretti singoli. Per suonare invece una chanson con un gruppo di
strumenti <<monodici>> potevano servire i libretti stessi della
lezione vocale, per cui nel senso grafico la trascrizione non era
necessaria.
Se fino agli inizi del XVII secolo la canzone d'assieme si svolse
essenzialmente in un discorso polifonico a imitazioni, dal Seicento
in poi verranno accolte alcune tendenze che in seguito
riscuoteranno un notevole successo prendendo a insegna il termine
di <<sonata>>.
Ai primi del XVII secolo alcune grandi figure di musicisti isolati
portarono al massimo sviluppo quest'arte di comporre fantasie
strumentali basate su canzoni; tra questi ricordiamo Girolamo
Frescobaldi, autore del Capriccio sopra la Girolmeta.
Ma ormai avevano preso il sopravvento i generi monodici come
l'aria, l'opera, l'oratorio, la cantata e la sonata strumentale.
55
A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985.
55
4) Classicismo e romanticismo
4.1 L'opera del Settecento in Europa
Durante l'età di Bach e Handel, che operarono a cavallo tra il XVII
ed il XVIII secolo, la musica colta si era trasformata in un
linguaggio estremamente elaborato, destinato alle corti o a fastosi
allestimenti teatrali.
I libretti dell'opera seria, che si sforzavano di portare sulla scena le
grandi passioni ed i fatti memorabili dell'antichità, erano dominati
dalla retorica più convenzionale ed artificiosa. Inoltre, con
l'abolizione dei personaggi comici dell'opera seicentesca, l'opera
seria aveva perso anche le ultime tracce di naturalezza.
A prevalere erano numerosi elementi extramusicali come il famoso
bel canto, stile interpretativo tipico dell'opera italiana, che tenderà a
mettere in secondo piano gli aspetti testuali e drammatici del teatro
musicale, a vantaggio di un'emancipazione della vocalità (e dunque
del melodismo) in sé e per sé. Ma bel canto fu anche sinonimo di
divismo: deformazioni dei cantanti, capricci di prime donne,
idolatrie di tenori, scenografie spettacolari e così via.
Musicalmente, la falsità dell'opera seria si manifestò con la
scomparsa quasi definitiva dei cori e con l'impoverimento delle
funzioni orchestrali; in sintesi l'opera divenne un alternarsi
monotono di recitativi sempre uguali che nessuno ascoltava e di arie
incuranti dei valori espressivi del testo56. La librettistica di
Metastasio rispecchiava perfettamente questa scissione estrema tra
aria e recitativo.
Fino al Settecento l'interesse per forme e stili vocali popolari da
parte della musica "d'arte" si era espresso più che altro attraverso
stilizzazioni e falsificazioni: il "popolareggiante" era un genere
d'autore. Solo a partire da Haydn e Beethoven le melodie popolari
furono utilizzate, in modo più sistematico, dai compositori classicoromantici quali materiali meritevoli di attenzione e vennero talvolta
affrontati con lo stesso spirito che sarebbe stato riservato ad un
tema originale.
56
M.Mila, Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 1963.
56
Ma, verso la metà del Settecento, vi fu un'importante inversione di
tendenza, che portò alla nascita dello stile galante e quindi alla
diffusione di una forma e di un'espressione più semplici.
<<Per distrarre l'attenzione dello spettatore dai tragici casi
dell'opera seria s'era cominciato ad inserire fra un atto e l'altro
intermezzi di carattere sempre più deliberatamente allegro e
ridanciano [...]. La conquistata naturalezza negli argomenti e nella
recitazione aveva il più benefico effetto sull'ispirazione del
musicista che, tra l'altro, poteva ora compiacersi d'intrecciare le
voci, specialmente per i finali, nei più vari e dinamici concertati,
cosa che mal consentiva la gravità dell'opera seria>>57.
Il merito di questo progresso dell'opera seria italiana andò ai
musicisti usciti da quella scuola napoletana che fino ad allora si era
impegnata nell'ambito dell'opera seria più convenzionale e retorica;
fu sempre in tale contesto che si fece strada colui che, in questi
anni, svolse veramente un ruolo di primo piano, Carlo Goldoni.
Fu proprio grazie a cambiamenti di tale portata che si iniziò ad
incamminarsi verso uno stile più semplice e meno artificioso che in
passato, uno stile che fino ad allora era stato categoricamente
scartato e che evolverà poi nel classicismo e si imporrà ovunque,
attenuando i confini tra arte ed intrattenimento.
Si scriverà molta musica facile, da suonare in famiglia ed anche i
massimi compositori decideranno di cimentarsi con questi generi
leggeri: Haydn compose canzonette e Mozart creerà ballabili alla
moda per i carnevali. Quest'ultimo, pur attenendosi alle formule
esteriori del melodramma all'italiana e quindi a quelle del Singspiel
tedesco, riuscì a sviluppare in modo insospettato il contenuto
poetico e drammatico.
Alcune sue considerazioni, espresse in una lettera che egli scrisse al
padre nel 1781, sulla natura dell'opera, ci aiutano a capire come
venisse concepito allora il rapporto tra musica e testo. Egli affermò,
infatti, a proposito del Ratto dal Serraglio: <<Io non so, ma in
un'opera la poesia deve esser assolutamente la devota figlia della
musica. Perché le opere comiche italiane piacciono sempre
dappertutto? E anche con le miserie del testo? [...] Perché tutta la
musica domina e il resto si dimentica>>58.
Certo è che, in questi anni a cavallo tra XVIII e XIX secolo, la
questione inerente la relazione fra suono e parola era ancora molto
dibattuta.
57
58
M.Mila, op.cit.
G. Pestelli, L'età di Mozart e Beethoven, in "Storia della musica",6, Torino, 1979.
57
In realtà da sempre i compositori, a seconda delle esigenze e delle
circostanze storiche, sociali e culturali, fecero del testo poetico ciò
che ritenevano più opportuno, a dimostrazione che tecnicamente ciò
fosse possibile; quindi, quando fu il caso, non esitarono ad
abbassare drasticamente il livello d'interazione verbale della poesia,
essendo consapevoli del fatto che le ragioni di successo dei loro
lavori fossero musicali e non letterarie59. A questo discorso si
potrebbe facilmente ricollegare la precedente affermazione di
Mozart, che implicava chiaramente la convinzione della necessità di
una sottomissione delle parole al suono.
In Italia il predominio vocale continuò a manifestarsi obbedendo, in
fondo, alla natura spontanea della musicalità nazionale, ma si
evolse in forme nuove anche se legate a quelle del Settecento.
Il recitativo secco resistette ancora per pochi anni; l'aria si fece più
concentrata e modificò alquanto il tipo della melodia, sostituendo
ad andamenti quasi decantati e gentilmente patetici un fraseggiare
più nervoso, interrotto, a scatti, dal tono infuocato fino all'invettiva.
L'Ottocento fu, per l'Italia, il periodo più fulgido del melodramma,
che non sarà più un semplice svago mondano; d'ora in poi si andrà
al teatro d'opera per partecipare intensamente alle appassionate
vicende della scena, per mettersi nei panni dei personaggi e per
soffrire con loro, confrontare le loro sventure con le proprie per
imparare da loro una vita più intensa, nobile ed appassionata60.
Il romanticismo musicale italiano si concentrò intorno alla figura
della persona umana, ne toccò da vicino gli interessi e le esperienze;
il tema dominante dei grandi capolavori di questi anni sarà quasi
sempre l'amore, considerato l'unica sola verità della vita, l'unico
elemento positivo.
59
60
B.Gallotta, Manuale di poesia e musica, Rugginenti, Milano, 2001.
M. Mila, Breve storia della musica, Einaudi, Torino, 1963.
58
4.2 Le origini della canzone moderna
Le influenze della melodia popolare si fecero sentire anche nel Lied
romantico e nel song inglese, e in parte anche nel melodramma
italiano
ottocentesco,
contemporaneamente
al
risveglio
dell'interesse verso i cosiddetti "pezzi chiusi" o "forme chiuse
solistiche": non solo le arie, ma anche duetti, concertati, finali e
simili. Da tali forme derivò, per ulteriore semplificazione, la
romanza da salotto con accompagnamento di basso continuo (
chitarra, pianoforte o arpa ), che apparve in Francia già alla fine del
XVIII secolo, diffondendosi velocemente in Italia e che perseguì un
ideale di naturalezza, a metà strada tra il melodramma e il canto
popolare, con un carattere spiccatamente sentimentale e spesso
patetico.
Tutte queste forme rappresentarono gli antenati più prossimi della
canzone moderna, non solo perché le trasmisero una concezione
vocale melodrammatica e una serie di temi e di retoriche, ma anche
perché la gente comune, il popolo, vi si riconobbe, cullandosi nella
familiarità di elementi che appartenevano alla sua memoria, alla sua
tradizione.
Tutto ciò ridiventò canzone quando cominciò ad adattarsi alle
esigenze dei locali pubblici, a nuovi circuiti di diffusione e continua
rielaborazione delle forme strofiche, colte e popolari, della musica
vocale.
E' proprio la Francia che viene considerata la patria della canzone
moderna.
Fu in questo paese infatti che la vivacità della satira politica
incrementò, fin dalla fine del '600, una produzione di canzonette ed
epigrammi che non si era mai interrotta dal medioevo in poi, ma
che sul finire del Settecento, ritornando in gran voga, trovò anche la
sede adatta per farsi ascoltare dal pubblico più vasto: il caffèconcerto, nato nel 1770 a Parigi al Cafè des musicos, sul Boulevard
du Temple, un piccolo locale dove si cominciava ad offrire agli
avventori, perché vi si trattenessero più volentieri, uno spettacolino
musicale di scenette e canzoni. I suoi fasti, comunque, verranno
celebrati più tardi, nella Parigi del Secondo Impero, simbolo della
Belle Epoque61.
61
G.Borgna, Storia della canzone italiana, Mondadori, Milano, 1992.
59
Il repertorio attingeva direttamente alla tradizione del Caveau,
fondato dal Gallet nel 1729, dove si riunivano numerosi artisti per
dar vita ad un festival di canzonette.
Intanto la canzone rivelava in modo sempre più esplicito la sua
duplice natura: da una parte quella di intrattenere con argomenti di
tipo bacchico e amoroso, dall'altra la sua importanza in quanto
strumento di satira e di commento politico. A diffondere questi
contenuti furono soprattutto gli esponenti della cosiddetta <<Societé
de gens de lettres>>, nata a Parigi proprio in questi anni.
Questa tradizione si prolungò nell'Ottocento, dopo aver ricevuto
nuovo impulso dalla rivoluzione del 1789. Infatti, poco dopo la
Rivoluzione Francese, la chanson, intesa nel suo aspetto popolare di
melodia spontanea, venne riscoperta dai romantici nel momento in
cui si misero alla ricerca di un caratteristico nazionale62.
Nacque allora il teatro detto di vaudeville (da <<voix de ville>>,
voci della città). Celebre, tra i nuovi autori di versi, fu soprattutto
Pierre Jean de Beranger ( 1780-1857 ), creatore della famosissima
Le roy d'Yvetot e di altre centinaia di canzoni satiriche, sentimentali
e patriottiche, che oltre a dargli una larghissima popolarità, gli
procurarono varie condanne.
Un altro genere di spettacolo molto importante per la storia della
canzone fu in quegli anni l'operetta; la Belle époque si potrebbe anzi
far nascere proprio con le prime operette firmate da Jacques
Offenbach63, animato dalla voglia della satira in musica. Tra i suoi
capolavori ci furono Les deux aveugles e soprattutto Orfeo
all'inferno, autentico trionfo dell'ironia in musica.
A Parigi nacque anche un altro genere destinato ad un largo
successo nell'ambito cittadino: la canzone <<nera>>, detta
<<canaille>>, che celebrava gli eroi negativi, gli spettri della notte
e dei bassifondi e rappresenterà, per almeno una generazione, il
risvolto maledetto della Belle époque.
Il protagonista principale di questo genere fu Aristide Bruant (18511925), creatore di personaggi patetici e corrotti, ma sempre pieni di
forza umana, talvolta tragicamente grandi che impressero il sigillo
ad un'epoca. Dopo Bruant vanno ricordati anche Mayol, il cantante
in frac, padre della <<chanson chantée>>; Dranem, fondatore del
genere grottesco; e Yvette Guilbert, che portò al successo la famosa
Madame Arthur.
62
63
A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985.
G.Borgna, Storia della canzone italiana, Mondadori, Milano, 1992
60
4.3 La canzone italiana nel secondo Ottocento
E' con la composizione di "Santa Lucia" che ha inizio la storia della
canzone italiana vera e propria; questo brano nacque dalla fantasia
di Enrico Cossovich e Teodoro Cottrau; fu scritta nel 1848, ma
pubblicata solo due anni più tardi. Recitava così:
Sul mare luccica
l'astro d'argento,
placida è l'onda,
prospero il vento.
Venite all'agile
barchetta mia...
Santa Lucia!
Santa Lucia!
Come possiamo vedere la lingua utilizzata fu l'italiano, un italiano
letterario, ma comunque molto vicino ai modi del parlato.
Tranne rare eccezioni, tra cui Addio a Napoli del 1868 sempre di
Cottrau, sarà solo alla fine dell'Ottocento che la canzone italiana in
lingua riuscirà definitivamente ad affermarsi ed a spodestare così la
canzone dialettale, soprattutto quella napoletana.
LA CANZONE NAPOLETANA- Le origini della canzone
napoletana risalgono addirittura al 1200, periodo in cui verrà
composto uno dei più antichi canti popolari partenopei, il Canto
delle lavandaie del Vomero.
Il genere di canto tipico di questa fase era la villanella, che come
sappiamo era una sorta di canzone agreste, che diede vita ad un
fenomeno musicale fra i più interessanti della storia della canzone
europea. Su versi in dialetto scrissero villanelle alla napoletana
famosi compositori come Orlando di Lasso, Claudio Monteverdi,
Giulio Caccini, quindi alcuni tra i nomi più illustri della musica
polifonica italiana.
Più tardi le villanelle cederanno il posto a composizioni meno dotte,
meno polifoniche e nascerà così la canzone monodica, ad una sola
voce, con accompagnamento di strumenti: cioè la moderna canzone
napoletana64.
Altro famoso antico canto popolare fu Michelemmà, scritto nel
1650 circa; si trattava di una canzone a ballo in tempo sei ottavi,
allegro, in cui già si scorgevano i segni della futura tarantella. Fu
64
G.Borgna, op.cit.
61
attribuita al pittore-poeta Salvator Rosa, ma non esistono validi
elementi a conferma di questa supposta paternità.
Sempre alla seconda metà del Seicento dovrebbe risalire la nascita
della tarantella; è incontestabile l'origine pugliese di questa danza,
così come è fuori discussione il fatto che la sua terra di adozione
diventerà ben presto Napoli. A essa, nell'Ottocento, si ispireranno i
maggiori compositori, da Auber a Chopin, da Liszt a Mendelssohn,
da Bellini a Donizetti.
A Giulio Genoino e sempre a Cottrau venne attribuito il rifacimento
della celebre Fenesta ca lucive. I versi di questa canzone vennero
definiti "altissimi" da Pasolini nel suo saggio sulla poesia popolare
italiana65; splendida era anche la melodia che ricordava motivi del
Mosè in Egitto di Rossini e della Sonnambula di Bellini (non a caso
la paternità di questa composizione gli sarà a lungo attribuita).
Ma il passaggio dalla canzone popolare alla canzone d'amore di
oggi fu segnato da Te voglio bene assaje, i versi della quale erano
stati scritti da Raffaele Sacco, secondo alcuni nel 1835, secondo
altri nel 1839; la musica è stata spesso attribuita a Gaetano
Donizetti e sembra che a dar credito a questa voce fu inizialmente
lo stesso autore dei versi66. Questa canzone, a quei tempi, conquistò
l'intera Napoli a tal punto da diventare ossessionante.
Molti saranno i successi musicali nella Napoli di fine Ottocento, tra
i quali emerse sicuramente Funiculì funiculà, scritta nel 1880 dal
giornalista Giuseppe Turco e da Luigi Denza. Questo brano si
rifaceva al canto popolare, prendeva le mosse dall'improvvisata e
dallo Zoccolaro che a metà '800 Cottrau aveva strappato alla voce
di un venditore ambulante; comunque esso si differenziava da tale
canto, perché mostrava una nuova possibilità di relazione tra il far
poesia, sia pure di propaganda, e il fare musica, sia pure
d'occasione; insomma, recava il segno di un rapporto, innovativo e
strettissimo, tra il poeta ed il musicista.
Dello spartito di Funiculì funicula si vendettero nel giro di un anno
un milione di copie, dando così inizio al duraturo successo
internazionale della canzone napoletana.
L'influenza di questo repertorio è stata talmente grande che,
nonostante l'uso del dialetto ed il carattere musicale "esotico"
(intinto di arabismi e di riflessi zingareschi), questo genere è
considerato nel mondo, a un secolo di distanza, parte della cultura
egemone. La compiutezza della forma strofa-ritornello, l'incredibile
65
66
P.P.Pasolini, La poesia popolare italiana, Milano, 1960.
G.Borgna, Storia della canzone italiana, Mondadori, Milano, 1992.
62
efficacia narrativa, i legami con la tradizione operistica, costituirono
da subito un modello, un vero e proprio canone per molti dei
repertori di canzone che si sarebbero formati in seguito in altre parti
del mondo.
Tra gli altri grandi esponenti della canzone napoletana ricordiamo
anche Di Capua, de Curtis, Denza, Costa e tra i verseggiatori
soprattutto Salvatore di Giacomo.
CANZONE ROMANA- Oltre alla canzone napoletana, in questo
periodo altri due generi di canzone dialettale svolsero un'importante
funzione: la canzone romana e quella milanese.
I canti romaneschi molto spesso venivano chiamati "sonetti" e, non
a caso, la prima canzone appartenente a questo genere aveva per
titolo Sonetto (<<bella quanno te fece mamma tua>>).
La canzone romana moderna nacque nel 1890 in occasione del
ventennale della presa di Porta Pia; per la circostanza, infatti, Giggi
Zanazzo aveva scritto Feste di maggio, una canzone che poi venne
musicata da Antonio Cosattini.
Il fulcro della canzone romana non poteva che essere la "serenata",
canto prettamente romanesco esaltato oltre cinquant'anni fa prima
da Giuseppe Gioachino Belli con un sonetto intitolato appunto La
serenata, forse scritto per Maria Corti.
CANZONE MILANESE- Secondo molti studiosi una canzone
popolare milanese distinta dalla canzone lombarda e intesa come
una struttura musicale e poetica non elementare, non è mai esistita.
Si cantavano a Milano motivi che giravano per tutta la regione e che
spesso provenivano dalle regioni vicine, anche se poi venivano
rivestiti da versi nel dialetto locale; più che canzoni erano strofette,
filastrocche, cantilene e solitamente provenivano dalla campagna.
Il nostro paese, a fine '800, si fece fortemente influenzare dalla
principale tendenza francese di quegli anni: il café chantant; esso
riuscì comunque a dar vita ad una versione originalissima di caffèconcerto.
In Italia se ne aprirono un po' dovunque, aiutando la canzone ad
uscire dai salotti e dai teatri lirici e ad alleggerirsi del suo passato
melodrammatico: il primo fu il Caffè Margherita di Napoli,
inaugurato nel 1890; quello di Roma sarà aperto invece molto più
tardi, nel 1908.
La sera dell'inaugurazione del Caffè Margherita di Napoli il
programma non prevedeva cantanti italiane, in quanto il cafè
chantant non aveva prodotto da noi personalità degne di occasioni
così eccezionali; così cantarono l'ungherese Rosa Dorner e la
63
viennese Dora Parner. Per molto tempo ancora continuarono a
calcare le scene dei più famosi locali e a mietere successi solo o
soprattutto artiste straniere67.
Fu così che le cantanti italiane aspiranti ad una fama internazionale,
dovettero adottare nomi francesizzanti in omaggio all'attività di
chanteuse.
Il caffè concerto, simbolo all'estero sia del divertimento ma anche
di una certa intelligenza ed eleganza, da noi venne proposto quasi
unicamente su un'immagine peccaminosa della bellezza femminile.
La grande stella del cafè chantant italiano fu Lina Cavalieri, che
dovette lottare a lungo per farsi notare, ma che infine riuscì a
diventare, a Parigi, vedette della canzone italo-napoletana; la
Cavalieri riuscì ad affermarsi anche come soprano lirico e attrice di
cinema, ma la sua carriera più interessante restò legata ai testi di
autori come Costa, Tosti, Gambardella, Tirindelli.
In sintonia con il clima volgare e insano dei nostri caffè-concerto,
quasi tutte le canzoni nate in tale contesto erano sboccate ed audaci:
le battute pesanti non si contavano ed il doppio senso era all'ordine
del giorno; il linguaggio, non di certo aulico e letterario, era, il più
delle volte, molto vicino ai modi diretti della lingua parlata.
Nonostante ciò, osservando con attenzione i loro versi e la loro
struttura musicale, queste possono essere considerate, a tutti gli
effetti, le prime vere canzoni italiane.
Se è vero, come abbiamo detto, che in Italia venne ereditata dai
francesi la grande passione per il cafè chantant, è altrettanto vero
che, nel nostro paese, si affermò, negli stessi anni, un genere
assolutamente originale, quello delle romanze che alcuni autori, più
o meno illustri, composero con vena lirica ed effusiva e che
costituirono spesso il repertorio di cantanti come la stessa Lina
Cavalieri.
Avvenne che, nell'Ottocento, si iniziò a cantare le arie delle opere
più famose come brani a sé stanti e su di esse i musicisti
cominciarono a modellare brevi romanze da intonare al pianoforte.
Le cosiddette "romanze da salotto", nelle quali eccelsero artisti
come i già citati Costa, Denza, Gambardella, Leoncavallo e Tosti,
permisero anche alla piccola e media borghesia il lusso aristocratico
del concerto in casa, ma ad un modico prezzo; per cantarle era
sufficiente qualche amico di famiglia anche dilettante, ma con una
voce ben impostata, mentre strutturalmente erano composizioni
molto complesse.
67
G.Borgna, op.cit.
64
Nate come lavoro di operisti quali Mercadante, Donizetti,
Ponchielli e, in Francia, Gounod e Bizet, le romanze seppero, anche
in seguito, mantenere un tono che stava tra l'aria d'opera e la
canzone, soprattutto quella di gusto patetico, e che finiva quindi per
accontentare tutti68.
Oltre che per i suoi stretti rapporti con il melodramma e con la
musica dell'Ottocento e del Novecento, la romanza da salotto fu
importante perché fu l'anticamera della canzone di gusto moderno.
La definizione del termine romance che Jean Jacques Rousseau
diede nel suo Dictionnaire de Musique del 1767 descrive in maniera
molto precisa le caratteristiche linguistiche e formali di questo
genere nella fase iniziale del suo sviluppo: <<Air sur lequel on
chante un petit poeme du meme nom, divisé par couplets, duquel le
sujet est pour l'ordinaire quelque histoire amoureuse, et souvent
tragique. Comme la romance doit etre écrir d'un style simple,
touchant, et d'un gout un peu antique, l'air doit répondre au
caractère de paroles; point d'ornement, rien de maniéré, une
mélodie douce, naturelle, champetre, et qui produise son effet par
elle-meme, indépendamment de la manière de la chanter; il n'est
pas nécessaire que le chant soit piquant, il suffit qu'il soit naif, qu'il
n'offusque point la parole, qu'il la fasse bien entendre, et qu'il
n'exige pas une grande étendue de voix [...]>>69.
Alla fine del Settecento la romanza era ancora legata agli schemi
originari tardo-settecenteschi, non tanto nei temi trattati, abbastanza
vicini ai mutamenti in atto nella società, quanto nella struttura
musicale: la melodia, adagiata nelle misure della phrase carrée
(battute 2+2, 4+4, 8+8) si dipana con tranquille modulazioni
maggiore-minore-maggiore nel couplet, che può venire ripetuto nel
caso di tesi più lunghi del consueto70.
Sarà solo nel 1830 che nascerà la romanza romantica vera e propria,
quando si instaurerà un nuovo rapporto tra testo e musica: le liriche
di autori come Louis Niedermeyer e di Hyppolite Monpou non si
appoggeranno più su versi melensi di oscuri parolieri, bensì si
ispireranno alla poesia suggestiva di Lamartine, de Musset o Victor
Hugo.
La romanza godette di un incredibile successo anche in Italia; come
in Francia si trattò di una produzione abbondantissima, ma ordinata
su alcuni filoni principali dotati di una certa autonomia.
68
G.Borgna, op.cit.
A.Basso (a cura), D.E.U.M.M., Utet, Torino, 1985.
70
A.Basso (a cura), op.cit.
69
65
Distinguiamo innanzitutto un filone <<arcadico>> che intona
romanze su versi di Metastasio o chiarisce le proprie intenzioni nel
sottotitolo, che tende a mantenere in vita temi e modi di canto cari a
coloro che guardano con sospetto alle mode <<romantiche>>71. A
questo filone si potrebbe ricollegare la produzione di tipo lirico che
rappresenta il fulcro di tutto il repertorio italiano; a volte questi
brani venivano pubblicati singolarmente, altre volte facevano parte
di raccolte di un solo autore o antologiche.
Appartenevano decisamente ad un altro filone le romanze che
raccontavano delle storie, protagonisti delle quali erano solitamente
individui innocenti vittime del proprio destino.
Nella narrazione il linguaggio musicale si anima rispetto alla
condotta largamente prevedibile della produzione <<lirica>>; la
linea melodica può essere interrotta da parole non intonate o da un
breve recitativo, mentre l'armonia sottolinea le durezze dei casi
narrati con abbondanti settime diminuite, scale cromatiche e
inquiete modulazioni72.
Lo sviluppo di questo genere raggiunse il culmine in Italia con
Francesco Paolo Tosti, cantante e compositore la produzione e lo
stile del quale costituirono l'anello di congiunzione della maniera
ottocentesca tardoromantica con la canzone all'italiana
contemporanea. Egli si cimentò anche con testi molto impegnativi,
musicando numerose poesie di D'Annunzio, alcune tratte dal poema
paradisiaco.
Con il passare del tempo vennero divulgate non solo le trascrizioni
per canto e pianoforte delle romanze da salotto, ma anche le
riduzioni per mandolino e magari per violino; in questo modo esse
penetrarono sia in ambito borghese che in quello popolare,
diventando una sorta di prodotto commerciale e aprendo la strada
alla canzone moderna.
Tutte queste composizioni, così come Santa Lucia, erano in lingua e
segnarono per certi aspetti la nascita della canzone italiana, anche
se, talvolta, si stenterebbe a definirle "canzoni italiane" a tutti gli
effetti, vista l'accentuata letterarietà dei loro testi. Per esempio:
Io ti seguii,
come un'amica face,
della notte nel velo...
71
72
A.Basso (a cura), op.cit.
A.Basso (a cura), op.cit.
66
oppure
Vieni meco, t'aspetta la bruna,
fida barca del tuo marinar...
Un altro elemento che non le permetterebbe di rientrare a pieno
titolo nella categoria di "canzone italiana" era la sua struttura
musicale, sempre in bilico tra la romanza e la canzone stessa. Ma a
parte questi aspetti discordanti, è incontestabile il fatto che la
romanza da salotto di questi anni fosse strettamente collegata a
quella che noi, comunemente, definiamo canzone.
In ogni caso la romanza da salotto italiana si distinse sempre dal
Lied e dalla mélodie, soprattutto per quanto riguardava il suo
rapporto con il testo: la maggior parte delle romanze nostrane,
infatti, affidava anche le elaborazioni musicali più interessanti a
versi occasionali nei quali erano completamente assenti le tensioni
tipiche del romanticismo letterario. Alla <<facilità musicale>>
tipica del genere si affiancava dunque la poca eleganza di testi
convenzionali e questo non faceva altro che ridurre ulteriormente la
romanza ad un genere di consumo, a musica da intrattenimento di
pessimo gusto.
Sicuramente alcune produzioni si distinsero rispetto ad altre,
soprattutto quelle realizzate tra la fine dell'Ottocento e i primi del
Novecento, quando la romanza italiana raggiungerà le altezze della
più raffinata letteratura europea e la sua immagine verrà
decisamente riscattata dall'attività del già nominato Francesco Paolo
Tosti.
67
4.4 La canzone ottocentesca nel resto del mondo
Soprattutto nella seconda metà del XIX secolo contributi notevoli
nell'ambito del genere canzonettistico vennero dalla Spagna,
specialmente col teatro musicale di Joaquin Valverde.
Sempre in Spagna nacque una forma di tango detto flamenco, da
non confondere con l'omonima danza argentina. Il tango argentino,
nato probabilmente in Francia, si affermò nei sobborghi di Buenos
Aires e venne importato nel 1890 in Europa dove riscosse un
incredibile successo; il nuovo genere fondeva i modi della canzone
<<nera>> parigina con la sensualità latino-americana.
Corrispondente al flamenco in Spagna e al tango in Argentina fu il
fado portoghese, anch'esso, come il tango, canzone e danza: basato
su un argomento sentimentale, si manifestava in una sorta di
lamento contro il destino avverso.
Contemporaneamente nell'Europa orientale nasceva la polka, che
verso il 1835 si irradiò da Praga in tutta l'Europa.
In molte nazioni periferiche, come la Boemia e la Russia, si era
verificato un risveglio dello spirito nazionale e si era affermata
l'idea che l'arte in genere, quindi anche la musica, avesse l'obbligo
di accogliere certe aspirazioni e certe manifestazioni della coscienza
popolare. Tale convinzione si propagò anche nel campo dell'opera e
nacquero così lavori dove vennero accolti numerosi frammenti di
melodie popolari.
Qualche anno più tardi in Germania si imponeva, grazie anche ad
autori come Brecht, una forma di cabaret politico destinato a
lasciare un segno profondo nel genere canzonettistico.
Intanto in Inghilterra e soprattutto negli Stati Uniti venivano ideate
ballate epico-liriche con protagonisti eroi e fuorilegge, i cui
modelli derivavano dalla tradizione scozzese ed irlandese seisettecentesca; a tale categoria appartengono i minstrel-shows
americani, creati da un gran numero di musicisti, fra cui Foster è il
più importante.
Alla fine dell'Ottocento la canzone inglese verrà accolta nelle forme
proprie del music-hall, genere che presto sarebbe sbarcato anche
negli Stati Uniti, dove si fonderà con un tipo di ballata sentimentale
(sentimental ballad); in seguito lo stile sincopato, diffuso dal jazz, si
affermerà nella canzone di tutto il mondo occidentale.
68
5) La nascita della canzone moderna
5.1 La canzone italiana nella prima metà del '900
Per tutto l'Ottocento e nei primi anni del Novecento, fino allo
scoppio della Grande Guerra, ebbero un ruolo assai importante i
canti patriottici e politici in genere.
Per i primi basti pensare a quello che poi diventerà il nostro inno
nazionale, il Canto degli italiani del 1847, scritto da Novaro e
Mameli, o all'Inno a Giuseppe Garibaldi, composto da Luigi
Mercantini e musicato da Alessio Olivieri; o ancora ad Addio mia
bella addio, la <<più popolare gentile canzone che sia stata scritta e
cantata da coloro che combatterono le guerre dell'Indipendenza dal
1848 al 1878>>, secondo la definizione del Canzoniere nazionale
di Pietro Gori.
E' proprio di quest'ultimo invece uno dei più noti canti politici di
questi anni, Addio a Lugano, scritta in carcere nel 1894.
Le canzoni composte durante la Grande Guerra erano imbevute di
retorica risorgimentale; ne è un classico esempio La leggenda del
Piave, scritta da Giovanni Gaeta nel 1918 sotto lo pseudonimo di E.
A. Mario e che venne cantata per la prima volta al Rossini di
Napoli. Tutte le canzoni di questo periodo testimoniano il passaggio
dall'italiano aulico o dai dialetti all'italiano popolare unitario (ricco
di regionalismi e gergalismi, ma non regionale) che la guerra favorì
e accelerò straordinariamente73.
Il linguaggio delle canzoni del primo dopoguerra era un linguaggio
colto ispirato allo stile del più grande poeta-scrittore di quegli anni,
Gabriele D'Annunzio. In questi brani i valori tradizionali venivano
spesso soppiantati dal culto dell'istinto, dell'azione, del coraggio,
dell'amore tempestoso e della passione.
Dopo la guerra l'aristocrazia e l'alta borghesia del vecchio café
chantant vennero sostituite da una nuova borghesia più
irrequieta,vogliosa di successo e decisa a differenziarsi ancora di
più dalla classe operaia e dalla semplicità del mondo contadino. Era
questo nuovo ceto sociale che popolava, animava e trasformava in
73
G.Borgna, Storia della canzone italiana, Mondadori, Milano, 1992.
69
spettacolo quasi di massa il tabarin, e che tentava di imitare lo stile
di vita parigino.
Un altro genere di spettacolo canoro si impose nel periodo
immediatamente successivo alla fine della guerra: la "sceneggiata
napoletana", espressione con cui si indicava uno spettacolo teatrale
il cui soggetto era estrapolato dal testo di una canzone. Si trattava,
nella maggior parte dei casi, di storie d'amore e di tradimento; la
donna era sempre rappresentata come un essere perfido, infido e
infedele, tale da meritare le peggiori punizioni, e persino la morte74.
Il periodo compreso tra il 1926 e quello dello scoppio della Seconda
Guerra Mondiale fu molto fortunato per la canzone romana. Infatti
nel 1926 vennero composti a Roma due brani che faranno la storia
della musica italiana: L'eco der core di Oberdan Petrini e Barcarolo
romano di Pio Pizzicaria, entrambe musicate da Romolo Balzani,
vero e proprio cantautore romano che poi avrebbe raggiunto una
vastissima popolarità anche grazie alle sue doti di attore.
Nel frattempo un importantissimo cambiamento si era verificato a
livello sociale: l'avvento della radio negli anni '20 ed in generale lo
sviluppo dei moderni mass-media e del cinema soprattutto che, a
partire dal 1930, poté avvalersi anche dell'uso del sonoro.
In realtà sulla radio, così come su tutti gli altri mezzi di
comunicazione di massa, verrà imposto dal fascismo un severissimo
controllo. Nel 1924 una circolare del Partito Nazionale Fascista
recava l'ordine di presentare tutte le canzoni straniere con parole
<<comunque tradotte>>; incappò nella censura anche La leggenda
del Piave (divenuta ormai popolarissima) perché conteneva
espressioni sconvenienti come <<tradimento>> o <<onta
consumata a Caporetto>>.
Comunque il fascismo prestò molta attenzione alla musica leggera,
allo scopo di utilizzare a proprio vantaggio il nuovo e potentissimo
mezzo di comunicazione di massa.
Tra le canzoni di questo periodo ricordiamo quelle dichiaratamente
politiche (tra queste la più importante fu Giovinezza) ma anche
canzoni di impianto più tradizionale, che trattavano argomenti più
quotidiani che eroici: i valori della casa e della famiglia soprattutto.
La seconda guerra mondiale non produsse un nuovo genere o nuove
tematiche musicali.
Anche i due brani di quegli anni in assoluto più conosciuti, Fischia
il vento e Bella ciao, non erano altro che riadattamenti di vecchie
canzoni: la prima era stata composta sull'aria di una canzone russa,
74
G.Borgna, op.cit.
70
Katiuscia, il cui testo era stato riadattato pare da Felice Cascione,
comandante garibaldino; la seconda, indubbiamente una delle più
famose, affondava le radici addirittura in una ballata francese del
Cinquecento, assorbita prima dalla tradizione piemontese e passata
poi nel Trentino, nel Veneto, nel repertorio infantile, nei canti della
guerra del 1915-18, nel repertorio delle mondariso ed infine in
quello dei partigiani75.
L'estraneità di questi canti da quelli del repertorio leggero italiano
spiega in parte perché dalla guerra non nascerà una nuova canzone.
75
G.Borgna, op.cit.
71
5.2 Nascita della canzone moderna
I nuovi media dunque trasformarono completamente la canzone.
In Italia saranno il caffè concerto, il tabarin e poi appunto la radio a
creare quel circolo di domanda ed offerta che faranno della canzone
il genere musicale più diffuso e più amato nel ventesimo secolo76; la
radio inoltre aiuterà la canzone, debitrice sia al folklore che al
melodramma, a liberarsi da questi vincoli ottocenteschi.
Inoltre, per poterne rievocare la bellezza, non era più necessario
canticchiare per conto proprio le canzoni che casualmente si erano
udite per strada, dai cantastorie o nelle grandi feste popolari, poiché
ora ci si poteva concedere il lusso di ascoltarle ogni qualvolta lo si
avesse voluto: questa era la grande possibilità che veniva offerta dai
dischi, dalla radio e dalla televisione.
Se però, da una parte, i new media apportarono cambiamenti di tale
portata alla canzone, è altrettanto vero che ne fecero un genere di
consumo primario, collettivo, di massa appunto. Il loro potere di
penetrazione trasformava ogni canzone in un bene comune, un
patrimonio culturale condiviso da tutti gli italiani: fu a questo punto
che la canzone diventerà ciò che conosciamo noi oggi, la canzone
moderna.
Come abbiamo sottolineato precedentemente, nella prima metà del
secolo la canzone italiana era "in lingua".
Già nel corso dell'Ottocento la poesia italiana aveva manifestato il
suo notevole sforzo di rinnovamento linguistico, liberandosi pian
piano dal lungo dominio del petrarchismo e dallo stile aulico ed
artefatto che esso aveva imposto; ma in ambito musicale passerà
tutta la prima metà del Novecento prima che la canzone si riesca ad
inserire pienamente nell'ambito dell'italiano più vivo, quello del
quotidiano.
Fino agli anni '50 il lessico utilizzato dai parolieri era molto
limitato, legato ad una serie di convenzioni e di restrizioni; ma,
dalla seconda metà del secolo in poi, forse grazie alla diffusione di
un certo rock n'roll all'italiana, ai primi successi di Domenico
Modugno e all'impegno dei cantautori, l'immaginario della canzone
italiana ed il suo lessico verranno incredibilmente arricchiti.
Emergeranno così l'uso di una lingua più colloquiale, l'interesse per
la poesia moderna ed una nuova concezione dell'amore. Questi
cambiamenti furono sicuramente importanti, anche se non
76
G.Salvatore, Mogol-Battisti. L'alchimia del verso cantato, Castelvecchi, Roma, 1997.
72
riusciranno a cancellare i legami con il passato: il lessico
canzonettistico era ancora condizionato fortemente, oltre che dal
perdurante petrarchismo, dall'invadenza di una tematica amorosa
ancora legata a schemi prestabiliti, ad una vera e propria "retorica
del cuore".
Insomma, vennero ereditati dalla canzone italiana di questi anni
alcuni luoghi comuni insiti nel genere. Il tema dell'innamorato
timoroso, supplichevole, talvolta vincente, altre volte lacrimoso o
geloso della canzone trovadorica, era ancora presente, ma questi
argomenti, all'inizio degli anni '60, divennero veramente
intollerabili e la necessità di una riforma radicale in ambito
musicale diventava sempre più evidente.
Se, dunque, in campo poetico si stavano verificando mutamenti
molto rilevanti, soprattutto grazie alle innovazioni apportate da
Montale ed in generale dagli ermetici, ciò non avveniva nel campo
della canzone, essendo ancora intrappolata quest'ultima nella
"retorica del cuore". Solo a partire dagli anni '60 alcuni cantautori,
primi fra tutti quelli appartenenti all Scuola di Genova, avrebbero
cominciato ad indirizzarsi in direzioni differenti, decisamente più
innovative.
E' anche vero che, in un certo senso, la lingua italiana ha sempre
offerto meno possibilità, per quanto riguarda le rime, rispetto a
molte altre. Sicuramente, soprattutto nel primo Novecento, molte
rime banali (pensiamo al diffusissimo accostamento dei termini
moon e june per gli inglesi) dominarono nell'ambito musicale
internazionale; ma per la canzone italiana la situazione era ancora
più critica, in quanto l'abbinamento dei termini amore/cuore, in un
primo tempo affascinante in quanto avvicinava l'idea del sentimento
a quella dell'organo ad esso preposto, divenne ad un certo punto
onnipresente, ossessionante. Nacquero così rime banalissime,
<<strofe coniate con lo stampino, e canzoni tutte uguali, tutte
ugualmente insulse>>77.
L'abbondanza di luoghi comuni nel lessico e nelle rime non era
l'unico problema che la canzone italiana di questi anni dovette
affrontare; era infatti la struttura stessa del verso cantato ad aver
bisogno di un profondo e radicale rinnovamento.
Anche a tale proposito la poesia si era mostrata molto più attenta e
consapevole. Gozzano, già nel 1907, ironizzava sulle <<rime
rozze>> ereditate dal melodramma e poi confluite nella romanza.
77
G.Salvatore, op.cit.
73
Solamente negli anni '50 inizierà ad alzarsi qualche voce di protesta
anche in ambito musicale, anche se, nella canzone, l'impresa di
estirpare la "retorica del cuore" si presentava molto più complessa
che in campo poetico. C'era bisogno di una rivoluzione del verso
cantato, un'intera tradizione metrica doveva essere messa in
discussione e, affinché questo potesse avvenire, era necessario
rinnovare sia le soluzioni testuali che quelle musicali.
Il problema consisteva infatti nel rapporto tra accenti musicali e
accenti prosodici, cioè nell'incontro fra gli impulsi ritmici della
melodia e quelli del verso.
Se all'epoca del canto gregoriano tale relazione era conciliata da
una sorta di regola interna, in quanto i suoi schemi erano anche di
tipo grammaticale, nella musica vocale moderna ogni lingua
presenta caratteristiche sue proprie. In tedesco, ad esempio,
l'avvicinamento del ritmo prosodico a quello musicale è più
semplice, vista la natura fortemente timbrata, sillabica ed
accentuativa della lingua; i capolavori del Lied romantico, genere
molto vicino a quello della canzone, nacquero anche dalla duttilità
ritmica del linguaggio poetico tedesco78.
Per quanto riguarda la lingua italiana, finché dovette misurarsi con
l'ambito operistico, essa fu capace di esprimere la più ampia libertà
ritmica, grazie alla sua notevole articolazione. I suoi accenti
rivelavano una naturale musicalità e la lunghezza dei polisillabi
permetteva una vasta adattabilità metrica del verso cantato.
In italiano inoltre il numero delle sillabe di una frase può essere
utilizzato in mille modi differenti, dando così vita ad una serie di
figure metriche: <<ad esempio facendo cadere una vocale alla fine
di una parola (con un troncamento, o apocope); metricamente, poi,
anche le parole sdrucciole possono funzionare come fossero
tronche. Quando due vocali s'incontrano in successione nel corpo di
una parola, o fra due parole consecutive, le si può fondere,
contraendo uno iato (per sineresi) o semplicemente contando due
sillabe come una sola (sinalefe); e si può anche fare l'inverso. In
generale, si possono contare liberamente sia un dittongo che uno
iato, e perfino spostare l'accento tonico di una parola per farlo
coincidere con l'accento ritmico del verso (sistole e diastole)>>79.
Negli anni '60 la rima venne messa in discussione da autori come
Gino Paoli e Luigi Tenco, che la elimineranno completamente. Altri
la esalteranno nella ricerca di soluzioni raffinatissime; tra coloro
78
79
G.Salvatore, op.cit.
G.Salvatore, op.cit.
74
che scelsero questa strada ci fu anche Francesco Guccini, che
comincerà a piegare al suo volere lessici aulici e popolari, termini
antiquati e cognomi famosi.
La rima ricca ed inconsueta si adatta meglio invece alla canzone
umoristica, prima almeno dell'avvento sulle scene di Mogol.
La diffusione anche in Italia del rock n'roll e del rhythm&blues
comincerà a far pesare l'importanza dei fraseggi melodici
afroamericani. L'inglese sembrava essere l'unica lingua adatta al
fraseggio della "musica nera": così la canzone moderna incontrerà
l'esigenza di accorciare o allungare le sillabe a proprio piacimento;
anche le melodie, oltre che al ritmo, dovettero imparare ad essere
più scandite e fu in questo modo che cominciò a trasformarsi la
natura stessa della canzone ed iniziava a prevalere la sua struttura
metrica.
La fluidità del canto andava spezzettata e divenne necessario
comporre a partire da spunti ritmici anziché da idee melodiche. Con
il passare del tempo l'interesse per la metrica divenne collettivo ed
obbligato e tutta la produzione musicale italiana, anche quella
sanremese, ne venne influenzata.
Questa parziale americanizzazione delle metriche italiane influirà
negativamente sul testo delle canzoni: la scarsità di monosillabi
(limitati solo, o quasi, ad avverbi e pronomi personali) e di parole
tronche (c'erano voluti più di cinquant'anni per liberarsi di apocopi
e troncamenti) rappresentava un serio problema per i parolieri
italiani, che si trovarono costretti ad una serie limitata di mosse
obbligate e spesso forzate, come un uso esagerato di prime e terze
persone singolari del futuro.
La questione poteva essere risolta solo con un atto di coraggio nel
senso della discontinuità, con una rottura definitiva con la
tradizione. Ciò avvenne nella prima metà degli anni '70, quando la
melodia della canzone cominciò a cercare un fraseggio più vicino al
"parlato" e riuscì in questo intento grazie a due collaborazioni
eccellenti: quella di Mogol con Battisti e quella di Dalla con
Roberto Roversi.
<<Nel primo caso, la rivoluzione fu il frutto della libertà di
manipolare sillabe e metri delle melodie, che Battisti concedeva a
Mogol; nel secondo, della costrizione a cui Dalla volutamente si
sottopose componendo melodie su poesie in versi liberi, dalle
metriche cangianti e dalle lunghezze insolite>>80. Si arrivò così,
attraverso due percorsi molto diversi, all'adeguamento del melos
80
G.Salvatore, op.cit.
75
alla parlata e ai suoi propri ritmi interni e ad una trasformazione che
modificherà per sempre la canzone italiana.
In questo modo si capovolgeva la precisa gerarchia estetica che si
era affermata fin dal melodramma, in cui si assegnava più
importanza agli episodi vocali nei quali la melodia poteva
dispiegarsi.
76
5.3 La forma strofica della canzone moderna
Il punto di contatto tra i diversi esempi e tipi di canzone, oltre alla
relativa brevità, è sicuramente il fatto che tutte possiedono una
struttura ripetitiva, cioè contengono elementi testuali e/o musicali
che si ripetono, spesso basati sulla stessa successione di metri e
versi, che corrisponde alla nozione letteraria di strofa.
Molto spesso si è cercato di definire la canzone senza ricorrere alla
nozione di strofa; cercheremo di evitare tale atteggiamento, molto
rischioso in quanto sembrerebbe sottintendere un primato del testo
sugli elementi musicali. Dice Franco Fabbri a tale proposito: <<In
altre parole, è vero che quando viene musicato un testo preesistente
la sua struttura strofica influenza la stesura della musica; è vero che
quando un compositore crea due ò più sezioni uguali (nel caso che
la musica venga invece creata prima del testo) sottintende
comunque uno schema strofico per l'autore del testo che interverrà
successivamente; ed è altrettanto vero che la regolarità del verso è
importante sia nel suo sviluppo compositivo (filogeneticamente e
ontogeneticamente, insomma); ma ciò che conta, ciò che "fa
funzionare" le canzoni che la contengono, è la ripetizione in sé, non
che questa si articoli a partire dal testo>>81.
Cerchiamo di capire adesso, in modo più preciso, cosa si intenda
per forma strofica. Essa è la forma di una composizione vocale in
cui tutte le strofe del testo, come è stato già detto, sono intonate
sulla stessa melodia oppure con una stessa melodia per una data
sezione e le sue eventuali ripetizioni (che chiamiamo A) e un'altra
melodia per una sezione contrastante che chiamiamo B.
Esistono poi ulteriori distinzioni e definizioni per indicare i
meccanismi di articolazione e ripetizione strofica. Si parlerà di
forma bipartita se il brano vocale consta di due strofe
melodicamente diverse (schema AB), o se una stessa strofa si ripete
due volte, la seconda con eventuali varianti (schema AA o AA'); si
parla invece di forma tripartita se consta di tre strofe, che talvolta
possono essere tutte diverse (schema ABC), anche se più spesso lo
schema va a coincidere con quello dell'"aria col da capo", dove la
prima parte viene ripetuta dopo l'episodio contrastante (ABA o
ABA')82.
81
82
J.J.Nattiez (a cura), Enciclopedia della musica I. Il Novecento, Einaudi, Torino, 2001.
G.Salvatore, Mogol-Battisti. L'alchimia del verso cantato, Castelvecchi, Roma, 1997.
77
Tutte queste varianti si riscontrano nel più importante genere vocale
"strofico" dell'Ottocento, il Lied, assieme alla forma più elementare,
quella basata su un'unica strofa ed unica melodia che si ripetono
(col testo che si modifica da una strofa all'altra); tale forma
elementare, con cosiddetto schema "monostrofico", è tipica del
canto popolare (Volkslied), anche se compositori come Schubert ne
fecero ampio uso.
Le forme bipartite e tripartite furono codificate nel Kunstlied, il
canto "artistico", tipico soprattutto del romanticismo tedesco ma
sorto in ambito viennese intorno alla metà del '600. Trattandosi
della messa in musica di un componimento poetico, solitamente nel
Lied romantico nessuna parte del testo si ripeteva, a meno che il
carattere di "canzone" non fosse già implicito nella poesia originale;
salvo qualche rara eccezione, il Lied tendeva a presentarsi come una
forma strofica senza ritornello.
Tutti questi schemi sono sopravvissuti nel contesto della musica
"colta" europea, ma solo alcuni caratterizzano ancora la canzone
moderna. Tra questi abbiamo lo schema bipartito detto "strofaritornello" (SR), AB (con varie possibili ripetizioni delle sezioni A
e B), molto vicino alle tradizioni popolari italiane, francesi e
spagnole; in secondo luogo abbiamo lo schema AABA, definito
"chorus-bridge"(CB), diventata tipica della ballad americana.
Esistono alcuni casi di canzoni che si offrono già "segmentate",
quindi ciò fa in modo che vengano evitate lunghe polemiche ed
indagini tra studiosi. Questo è il caso per esempio del blues: in
questo genere afroamericano, infatti, l'articolazione formale è data
come norma, sia perché un blues è formato quasi sempre da una
successione di sezioni di dodici battute, ma anche perché esso
fornisce per la sezione modulare una successione armonica
standard.
Comunque l'esempio del blues non è l'unico esistente; molte
canzoni, anche passando ad altri generi, prevedono la ripetizione di
un'intera sezione, identica nelle parole e nella musica, che quasi
sempre contiene il titolo: è la parte che in italiano si chiama
ritornello, in francese refrain, in inglese chorus. La diversa
nomenclatura segnala anche un diverso modo di intendere la
struttura della canzone, come vedremo in seguito.
Quella che per noi italiani è la strofa, data come sappiamo dalla
ripetizione di una sezione nella parte musicale, in inglese viene
definita verse.
78
Talvolta, a causa di alcune varianti motivate dalle esigenze del
testo, l'identità della parte musicale viene in qualche modo
modificata. Per esempio, le strofe di Mr. Tambourine man di Bob
Dylan (1965, dall'album "Bringing it all back home"), sono di
lunghezza diversa e contengono numerose varianti nella scansione
metrica, ma questo non impedisce che la canzone venga percepita
come una forma regolare determinata dall'alternanza di strofe e
ritornelli.
Tutte queste varianti sono state ereditate direttamente dalla canzone
popolare e sottolineano l'importanza della funzione narrativa della
strofa. Quest'ultima svolge un ruolo particolare nella ballata, forma
di canzone in cui le strofe stesse si susseguono con l'eventuale
interposizione di ritornelli che riassumono, esprimono un concetto a
sfondo moraleggiante e commentano il discorso sostenuto in
precedenza.
Sia il brano di Dylan citato precedentemente, che la sua Like a
rolling stone, sempre del 1965, appartengono alla categoria della
ballata; la seconda in modo particolare ne è una dimostrazione
esemplare: il chorus è memorabile, anche per come mette a nudo
una successione di accordi semplicissima (I-IV-V), inquadrandola
fra le ricorrenze dell'inciso melodico destinato a catturare la nostra
attenzione (hook per gli inglesi), che si svolge quasi tutto sulla
dominante per ritornare sulla tonica, e sulla fondamentale83.
L'inserimento del ritornello nella struttura della ballata accentua il
finalismo insito nel racconto, a tal punto da rendere quasi superflua
una vera tensione narrativa: in effetti moltissime canzoni, forse la
maggior parte di quelle romantico-sentimentali, utilizzano lo
schema strofa-ritornello per accentuare la natura del testo. In queste
canzoni il climax finale è spesso sottolineato dalla reiterazione del
ritornello, arricchito con ogni possibile artificio musicale.
Ma non sempre questo avviene, anzi, in certi casi, viene utilizzato il
procedimento esattamente opposto a quello qua sopra
esemplificato; stiamo parlando di quelle canzoni orientate verso
l'inizio piuttosto che verso la fine, secondo un meccanismo di
progressiva sottrazione del piacere piuttosto che di una crescente
sollecitazione. Questo è lo schema tipico di molte canzoni del XX
secolo, tra le quali la maggior parte di quelle che John Lennon e
Paul McCartney scrissero per i Beatles.
83
J.J.Nattiez (a cura), Enciclopedia della musica I. Il Novecento, Einaudi, Torino, 2001.
79
Fino ad ora abbiamo solo nominato i due schemi principali diffusi
in tutto il mondo, il modello SR ed il modello CB; abbiamo parlato
ampiamente del primo, ma non a sufficienza del secondo.
Questo secondo modello è caratterizzato dalla presenza quasi
costante di una strofa introduttiva, il verse; essa ha la funzione di
preparare la scena, spesso con un andamento di recitativo e con un
carattere che può essere anche molto diverso da quello di tutto ciò
che segue. Il verse comunque non è sempre presente.
Il chorus è più lungo ed articolato di quello delle canzoni strofaritornello del modello finalistico di canzone di cui abbiamo parlato
precedentemente e soprattutto il suo testo non viene ripetuto
integralmente; questo chorus contiene molto spesso il titolo, che si
appoggia all'hook, ma contiene anche altro testo, che varia da
chorus a chorus. Inoltre esso si ripete all'inizio della canzone, senza
che vengano interposte altre sezioni; quindi, mentre nello schema
strofa-ritornello quest'ultimo può trovarsi ripetuto senza
interposizioni proprio alla fine della canzone, nello schema che
stiamo esaminando il chorus si ripete senza interposizioni all'inizio.
Dopo questa doppia esposizione del chorus segue una sezione
intermedia caratterizzata da un elemento di contrasto costituito da
una riduzione degli elementi di interesse: questo inciso viene
chiamato bridge o middle-eight (otto e mezzo, sottintendendo il
numero di battute, anche se, in certi casi, la lunghezza della sezione
è diversa). Il bridge separa i primi due chorus dal successivo ed è
ripetuto nel caso in cui si dovesse presentare un'ulteriore istanza del
chorus.
Sintetizziamo gli schemi dei due modelli descritti:
SR (strofa-ritornello): strofa, ritornello, strofa, ritornello, (strofa,
ritornello) ritornello.
CB (chorus-bridge) : (verse), chorus, chorus, bridge, chorus,
(bridge, chorus).
Quelle indicate tra parentesi sono le sezioni facoltative.
Se consideriamo il diverso peso delle ripetizioni dell'elemento
principale (due chorus all'inizio in un caso, due ritornelli alla fine
dell'altro), ci renderemo subito conto che questi due modelli di
canzone mettono in atto strategie dell'attenzione e della
fascinazione veramente differenti.
Dice Fabbri: <<Lo schema SR è discorsivo, additivo, coinvolgente,
finalistico; il piacere (la bella melodia, l'inciso accattivante, i versi
indimenticabili) è la conseguenza di un percorso, giunge al termine
di una fase preliminare, è un premio, il risultato di una
80
dimostrazione, la conclusione di una vicenda appassionante [...]. Lo
schema CB è esclamativo, distaccato, sottrattivo, orientato
all'inizio, piuttosto che alla fine; il piacere è immediato, ma la sua
fonte, dopo essere stata presentata, rivelata in tutti i suoi aspetti,
ripetuta per una migliore assimilazione, viene sottratta e sostituita
dal grigiore, dalla disciplina asservita alla geometria e alla logica
dell'inciso intermedio. Non è una narrazione, ma una messa in
scena. [...] La struttura CB è chiusa, senza evoluzione: la sua
condizione di esistenza è il restringimento, l'implosione, il ridursi
allo hook del chorus che si rimpicciolisce fino a diventare un punto,
come l'immagine di un televisore spento; la struttura SR può
gonfiarsi, accumulare nuovi elementi, esplodere. Basata com'è sulla
crescita, la struttura SR assolve alla sua funzione se testo e musica
sviluppano al meglio le loro capacità narrative; viceversa perché la
struttura CB funzioni è sufficiente che vengano presentate
situazioni efficaci: la struttura CB è una macchina scenica in
sé>>84.
Proprio per questi motivi, il modello CB, sviluppatosi in ambito
teatrale, sopravviverà anche alla separazione dal palcoscenico,
perdendo per strada il verse introduttivo. Intorno agli anni '30 del
XX secolo si adatterà perfettamente alle esigenze del "tutto e
subito" manifestate dai nuovi mass-media: l'introduzione del
concetto di format radio, una programmazione orientata ad un target
di ascoltatori omogeneo per gusti e consumi, al quale non deve
essere lasciato il tempo di annoiarsi e di cercare un'altra stazione,
imporrà lo sviluppo e la diffusione della canzone basata sulla
struttura CB, canzone mirata ad attirare da subito, con il suo exploit
iniziale, l'attenzione degli ascoltatori.
84
J.J.Nattiez (a cura), op.cit.
81
5.4 La monodia accompagnata e il suo linguaggio: armonia,
melodia e vocalità
Ancora oggi la canzone si presenta come monodia accompagnata,
cioè nella forma in cui si era manifestata fin dalle lontane origini
trobadoriche, ma, nonostante questo, sono molte le differenze
rispetto al passato: innanzitutto la melodia e l'armonia, assieme alle
rispettive prassi, cioè la vocalità da una parte e le tecniche di
elaborazione dell'accompagnamento dall'altra.
Parleremo prima dei parametri armonici, cioè della sequenza di
accordi che sostiene e orienta le melodia.
Tranne rare eccezioni, la canzone rimane oggi l'espressione per
eccellenza della musica tonale; il più delle volte i suoi accordi
rientrano in una casistica abbastanza ristretta e tale limite deriva un
po' da convenzioni popolari, un po' da una certa pigrizia da parte di
molti autori, in parte motivata, quest'ultima, dalla convinzione che
il pubblico di massa voglia ascoltare sempre soluzioni "familiari".
Eppure l'armonia della canzone è molto importante, è lei che
determina il senso della melodia, elemento essenziale della canzone
stessa. Un giro d'accordi banale, o realizzato in modo banale
nell'accompagnamento, può privare una melodia del suo effettivo
valore, mentre certi allontanamenti dagli schemi più consueti sono
spesso in grado, se bella, di valorizzarla o, se è debole, di
rafforzarla85.
E' stato rilevato che, in alcune forme moderne, l'impianto melodico
è spesso più modale che tonale; è questo per esempio il caso del
genere rock86.
Durante il corso del Novecento è emerso un certo interesse nei
confronti della modalità, prima da parte dei musicisti colti, poi da
parte di esponenti di nuovi generi musicali sviluppatisi nel corso del
secolo.
Intorno agli anni '60 la concezione modale venne rafforzata anche
grazie alla diffusione della musica indiana e, negli ultimi trent'anni,
dal crescente interesse verso la musica popolare, molto vicina, a
livello tecnico, alla semplicità della concezione melodica.
85
G.Salvatore, Mogol-Battisti. L'alchimia del verso cantato, Castelvecchi, Roma, 1997.
Nella musica tonale tutte le note della scala gravitano attorno alla tonica, ovvero alla
nota chiave che definisce la tonalità di una scala; ogni nota quindi è in posizione
gerarchica rispetto ad essa. Alcuni compositori moderni, per emanciparsi dall'eredità della
musica tonale, hanno riscoperto un sistema di scale risalente all'antica Grecia, basato sui
cosiddetti modi. La caratteristica di tali scale era la loro disposizione in ordine
discendente. (O.Karolyi, La musica moderna, Mondadori, Milano, 1998)
86
82
Nel campo della musica modale è molto frequente l'uso del
bordone, cioè di una nota fissa suonata da un basso o da altri
strumenti; su questa base un modo funziona in tutto e per tutto
come una scala melodica svincolata dagli accordi e dalla loro
concatenazione, mentre, al contrario, nella musica tonale una scala
non ha nessun significato se non in relazione ad un accordo.
La differenza pratica consiste nel fatto che una melodia modale
ripropone costantemente il suo modo di riferimento: il canto,
anziché divagare in modo fantasioso, si concentra in un suo
universo
melodico,
confermandolo
e
ripercorrendolo
continuamente, anche nei suoi significati culturali. Questo, insieme
alla ripetitività dei bordoni, contribuisce a conferire ai modi una
qualità filosofica e mistica87.
La canzone moderna, oltre che essere stata influenzata fortemente
dalla modalità, ha assunto, in questi ultimi decenni, anche un certo
carattere ritmico, dovuto al contatto ed al confronto, dagli anni '50
in poi, con generi come il rock n'roll, poi il rhythm&blues e la soul
music, infine dal funky e dalla fusion music.
Occupiamoci adesso della vocalità, le questioni inerenti la quale,
nella musica pop e leggera, non sono mai state considerate con
attenzione sistematica.
Intorno agli anni '60 e '70, artisti di grande rilievo come Bob Dylan
e Mick Jagger iniziarono ad allontanarsi dalle levigatezze vocali
della musica leggera americana precedente gli anni '60;
contemporaneamente in Italia lo stesso processo veniva avviato da
Celentano e dagli "urlatori" in generale, ma anche da altri
cantautori più eccentrici come Jannacci, senza escludere coloro che,
come Modugno, apportarono intonazioni regionali alla nostra
canzone.
Più in generale potremmo dire che, in questi anni, si manifestò la
necessità generalizzata di un ritorno al recitativo, cioè ad
un'articolazione vocale più ridotta nell'escursione melodica e più
libera nella prosodia, perché simile a quella della lingua parlata.
Sicuramente qualche timido tentativo di riavvicinamento al
recitativo si era verificato anche nella prima metà del secolo, ma fu
nella seconda metà che, sotto l'influsso della musica afroamericana
e, in alcuni casi come quelli di Dalla e Mogol-Battisti, da un
desiderio di maggiore libertà metrica, che questa tendenza esplose e
produsse effetti importantissimi.
87
G.Salvatore, Mogol-Battisti. L'alchimia del verso cantato, Castelvecchi, Roma, 1997.
83
Un altro fatto che contribuì enormemente al riaffermarsi della
vocalità "cantata" e "parlata" fu l'uso sempre più frequente di
espressioni vocali puramente emotive; si diffuse, infatti, la
consuetudine di inserire, nel testo da cantare, grida, singhiozzi,
sospiri, grugniti, consuetudine ereditata ancora una volta dai generi
musicali prima citati.
Talvolta accadeva anche che una sillaba venisse trascinata a lungo
in fioriture e vocalizzi, o in commistione con recitativi ritmici del
rap. Furono sempre Dalla e Battisti a mostrarsi incredibilmente
innovativi anche in questa direzione.
La voce, e quindi l'interpretazione, veniva sicuramente in questo
modo valorizzata, in quanto la potenzialità più profonda di chi
cantava veniva portata alle estreme conseguenze.
La giusta valorizzazione delle qualità vocali del cantante è
fondamentale, se consideriamo che l'interpretazione si pone
esattamente a metà strada tra quello che la melodia ed il testo
rappresentano di per sé. Infatti la profonda carica erotica della voce
funge da tramite tra musica e parole ed è per questo che non va
assolutamente svalutata.
Concludiamo dicendo che, in una canzone, non si può affermare
che esista a priori una superiorità da parte del testo nei confronti
della musica, così come non si dovrebbe verificare il fenomeno
opposto, cioè un dominio del suono sulla parola.
84
6) L'evoluzione della canzone moderna
6.1 La "canzone d'autore"
Dovendo stabilire una data simbolica per indicare la nascita della
moderna canzone italiana d'autore, ci dovremmo concentrare
sicuramente sul 31 gennaio 1958, giorno in cui, la storia musicale
nostrana, verrà rivoluzionata dalle seguenti parole:
"Penso che un sogno così non ritorni mai più
mi dipingevo le mani e la faccia di blu
poi d'improvviso venivo dal vento rapito
e incominciavo a volare nel cielo infinito
volare oh oh
cantare oh oh oh oh"
Ovviamente ci riferiamo alla canzone "Nel blu, dipinto di blu" di
Domenico Modugno e Migliacci, presentata al Festival di Sanremo
alla fine degli anni '60.
Il brano vincerà il Festival, venderà un milione di copie e spezzerà
l'egemonia che un certo tipo di canzone melodica e "all'italiana"
aveva imposto fino ad allora88. Prima degli anni '50, infatti,
l'atmosfera della canzone italiana era caratterizzata, da un lato, da
un perenne tono enfatico e melodrammatico, da un altro, da una
serie di contenuti irreali ed artificiosi: <<abbondavano bianche
mammine, femmine maliarde e perverse, insieme a vecchi scarponi
militari, e poi fiori e campane, un bric-à-brac sospeso tra Liala e
Pitigrilli>> (Paolo Jachia, 1998).
La "favola" presentata da Modugno nel '58 è raccontata invece con
brevi parole, precise ed efficaci, libere e piene di entusiasmo,
interpretate con intensità e credibilità.
Ricordiamo che la più grande innovazione di questa edizione
sanremese fu che, per la prima volta, un autore interpretava una
propria canzone, mentre la norma festivaliera prevedeva che le
funzioni di interprete e autore fossero distinte e che alcuni cantanti
importanti presentassero addirittura più di una canzone.
88
P.Jachia, La canzone d'autore italiana 1958-1997, Feltrinelli, Milano, 1998.
85
La grande capacità interpretativa di Modugno era senza dubbio
legata al fatto che egli provenisse dal mondo teatrale, ed era quindi,
prima che cantautore, "cantattore"; nelle sue canzoni era la voce,
impostata teatralmente, a trascinare la musica ed era quindi
l'impostazione attoriale a dare un senso, un ritmo, una velocità alle
parole e alla musica. Così, grazie ad una personalissima
interpretazione, egli riuscì ad oscurare la consunta retorica
sanremese: emergeva in questo modo, per la prima volta, l'unità di
testo, musica e interprete, caratteristica principale della moderna
canzone d'autore.
Certo, se si volessero riassumere gli elementi fondanti di
quest'ultima, sarebbe un compito molto arduo. Infatti, con il passare
degli anni, la canzone d'autore è stata definita in molti modi diversi
e talvolta contrastanti tra loro: basti pensare a coloro che
sostengono che i cantautori di oggi siano i poeti del nostro tempo,
posizione rifiutata decisamente da altri esperti, secondo i quali il
testo della canzone d'autore, per quanto ricco ed espressivo, non
potrà mai essere paragonato all'eleganza di un testo poetico.
Questa questione è, ancora oggi, molto dibattuta.
Le parole di Roberto Vecchioni a proposito ben esemplificano la
confusione che gravita tuttora intorno a questo concetto:<<
"Canzone d'autore" è un termine infelice e ambiguo, derivante
dall'ancor più infelice eponimo "cantautore". Un termine dovrebbe
per sua natura circoscrivere e quindi segnare del limiti: qui invece i
confini restano aleatori e indefiniti. Autore di che? Di canzoni belle,
serie, colte, impegnate, sociali, stilisticamente nobili. E chi lo dice?
Quando possiamo veramente esser certi che tutto ciò si verifichi? E
si verifica poi sempre? E' lo stesso Modugno quello di Vecchio frac
e di Piange il telefono?[...] Cos'è infine che dà la patente di
"cantautore", il diritto al titolo? E' l'esclusività della creazione? E'
la costanza temporale dell'impegno? E' quella serie di capolavori
oscuri e sconosciuti al grosso pubblico? E' la capacità di far
coincidere "colto" e "popolare", realtà e simbolo nello stesso
percorso?>>89.
Nel caso della canzone d'autore italiana, soprattutto degli anni '60 e
'70, la situazione era ancora più disordinata, in quanto i nostri
cantautori subivano, da una parte, l'influenza di grandi artisti
francesi come Brel, Ferré, Aznavour, Becaud e Brassens; dall'altra,
89
L.Coveri (a cura), Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d'autore italiana,
Interlinea, Novara, 1996.
86
si sviluppava con prepotenza il filone delle ballate americane da
Guthrie a Dylan.
L'Italia quindi ereditò sia l'amore, tipico della canzone d'autore
francese, per le tematiche esistenzialistiche, sia l'interesse per la
tematica sociale che, nei brani degli autori americani, aveva ormai
soppiantato le argomentazioni di tipo amoroso. Ma ereditò anche
due stili completamente differenti: da una parte un
accompagnamento lento, stretto, chiuso in se stesso (quello
francese); dall'altra, un accompagnamento vasto, incalzante e fino
ad allora totalmente ignoto (quello americano).
I cantautori italiani, indubbiamente arricchiti da queste tradizioni, si
trovarono di fronte ad una dicotomia, con la prospettiva di una
scelta o di una contaminazione. Fu da qui che iniziò il viaggio verso
la ricerca di uno stile proprio, più italiano appunto.
Dice ancora Vecchioni: <<Ma quale che sia a tutt'oggi il risultato di
questo itinerario, con la canzone d'autore è nato un nuovo genere
letterario che ha l'aspetto della poesia "classicamente" intesa e della
canzone melodicamente popolare, ma è, al chiudersi dei due
circuiti, diverso dall'una e dall'altra e non si definisce dalla
giustapposizione delle parti, ma è struttura autonoma inscindibile di
lirica e melica>>90.
In realtà esiste una sostanziale differenza tra la poesia e la canzone:
nella prima è la parola l'unico significante, mentre nella seconda i
significanti sono almeno tre, la parola, il suono (o meglio
l'accostamento dei suoni) e l'espressione vocale di chi comunica.
Nella canzone, l'espressività di chi canta e l'abbordabilità dei
concetti, fanno dell'immediatezza la sua principale caratteristica,
cosa che non avviene invece nel caso della poesia.
Ma perché il confronto tra la canzone d'autore ed il testo poetico è
diventata una questione talmente spinosa? Forse perché il termine
cantautore ha finito, col tempo, per far coincidere l'autorevolezza
d'autore con la qualità letteraria del testo e per cancellare le capacità
di musicista del cantautore stesso91.
La tendenza principale quindi è quella di avvalorare il poeta, di
sottolineare la forza del linguaggio, l'originalità del verso ed il
coraggio del messaggio.
Di certo questa tendenza non è completamente immotivata: alla fine
degli anni '50, da Modugno in poi, la parola acquisterà
90
91
L.Coveri (a cura), op.cit.
P.Jachia, La canzone d'autore italiana 1958-1997, Feltrinelli, Milano, 1998.
87
un'importanza fondamentale, ma, in ogni caso, questo non giustifica
la tendenza a svalutare le qualità compositive dell'autore.
Sicuramente è difficile stabilire se la canzone d'autore possa essere
"letta" come poesia o no, o se i testi delle canzoni siano o meno la
vera poesia contemporanea, però possiamo dire con certezza che la
canzone d'autore italiana ha contribuito alla formazione di almeno
due generazioni, questo anche grazie alla complicità della "cultura
rock" di qualche decennio fa e alla diffusione della canzone
sudamericana.
Tra l'altro non dimentichiamo che la canzone d'autore italiana si
distinse totalmente dalle cosiddette canzonette popolari e
commerciali, cercando significati ben al di là dello stereotipo. Con
essa il "letterario" subentra in scena in modo prepotente: non più la
semplice equazione proposta dalle canzonette (libertà=popolo,
distacco=dolore, donna=amore), ma una visione più profonda
dell'esistenza umana; il cantautore inserisce varianti, sfumature,
umorismi, assurdità logiche, riferimenti storici, favolistici e
letterari92.
E' in questo modo che la canzone d'autore si è costruita un universo
metaforico tutto suo, ben distinto da quello della poesia. La canzone
è un'opera di qualche minuto, l'ascoltatore deve poter trarre le sue
conclusioni sin dal primo ascolto, non è concessa l'incomprensione
ed è per tale ragione che essa ha necessariamente dovuto costruirsi
gli strumenti che fanno in modo che ciò avvenga.
92
L.Coveri (a cura), Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d'autore italiana,
Interlinea, Novara, 1996.
88
6.2 L'esperienza di Cantacronache e la scuola di Genova
L'esperienza di Cantacronache venne avviata a Torino nel 1957 dal
musicista Sergio Liberovici, che raccolse intorno a sé interpreti,
ricercatori, studiosi come Fausto Amodei, Michele Luciano
Straniero, Emilio Jona, Giorgio de Maria, Italo Calvino; con
Cantacronache si affermò anche una delle nostre prime cantautrici,
Margot, pseudonimo di Margherita Galante Garrone.
I Cantacronache tentarono una canzone polemica e
anticonformista, calata nella cronaca delle vicende e del costume
italiano; i suoi esponenti avevano come riferimento la tradizione
contadina, la canzone partigiana, i canti anarchici, ma vennero
largamente influenzati anche dai chansonniers francesi, soprattutto
da Brassens.
Al clima di Cantacronache è legata quella che fu probabilmente la
più bella canzone politica del secondo dopoguerra, Per i morti di
Reggio Emilia, di Fausto Amodei, composta all'indomani dei motti
popolari del 1960 e che recitava così:
Compagno cittadino,
fratello partigiano,
teniamoci per mano
in questi giorni tristi.
Di nuovo a Reggio Emilia,
di nuovo là in Sicilia
son morti dei compagni
per mano dei fascisti.
Di nuovo, come un tempo,
sopra l'Italia intera
urla il vento e soffia la bufera...
In quello stesso periodo, a Milano, Gianni Bosio e Roberto Leydi si
erano fatti promotori alle Edizioni Avanti! di un vivace lavoro di
ricerca sul canto e sulle tradizioni popolari. Nel 1961 avvenne la
prima collaborazione tra costoro ed il gruppo del Cantacronache,
per poi decidere, tra il '62 ed il '63, di fondersi, dando vita così al
Nuovo canzoniere italiano.
A quest'ultimo va il merito principale di aver formulato una
canzone politicamente impegnata, capace di riprendere codici e
moduli espressivi della musica popolare, in un processo a metà
strada tra l'imitazione e la vera e propria reinvenzione.
89
La canzone del Nuovo canzoniere italiano voleva essere in
opposizione non solo nei confronti del potere dominante, ma anche
verso la canzone comune, quella prodotta in seno alla "musica
leggera". Questo sentimento venne espresso in un libro sarcastico e
critico intitolato Le canzoni della cattiva coscienza, contenente
interventi di Straniero, Liberovici, Jona e de Maria e pubblicato da
Bompiani: storia, musica e testi della canzone italiana venivano
attentamente analizzati con lo scopo di mostrare, in sostanza, come
la funzione della canzone fosse consolatoria e ingannevole, la sua
qualità mediocre perché tendente alla massificazione del gusto, la
sua retorica ipocrita perché disimpegnata e la sua natura
profondamente mercantile, perché non rivolta alla valorizzazione
del talento, bensì indirizzata dal fiuto commerciale93.
Il libro va apprezzato indubbiamente per l'impegno collettivo nel
considerare il fenomeno in tutte le sue sfaccettature, però risalta,
inevitabilmente, il pregiudizio di fondo su cui si basano le critiche,
talvolta per questo poco credibili. Il limite artistico , oltre che
musicale, sta nel non aver cercato di uscire dalla contingenza
politica e di essere rimasti prigionieri di un eccesso di retorica e di
intellettualismo.
I rappresentanti del Cantacronache avrebbero voluto ricreare il
clima dominante in Francia, dove erano fiorite prima una fortissima
amicizia e poi una importante collaborazione tra Sartre, Aznavour,
Prévert e Brassens; ma i Cantacronache italiani, rispetto ai
chansonniers francesi, non furono in grado di imporsi come artisti
autonomi e non subalterni.
Dall'esperienza
del
Cantacronache
furono
influenzati
profondamente i cantautori della cosiddetta scuola genovese.
Una precisazione iniziale: una Scuola di Genova in senso stretto
non è mai esistita. Tutto avvenne per caso, quando tra 1959 ed il
1960 la casa editrice Ricordi decise di dar vita anche ad una
etichetta discografica; il compito di selezionare i nuovi talenti
venne affidato a Nanni Ricordi e Franco Crepax, i quali, dopo aver
individuato alcune canzoni interessanti (molto diverse da quelle
dominavano il mercato di allora), decisero che, novità per novità,
avrebbero proposto agli autori stessi delle canzoni di improvvisarsi
interpreti dei loro brani. Fu così che, dal nulla, emersero Paoli,
Bindi, Tenco, De Andrè, Lauzi, Endrigo.
La Francia, con la sua tradizione sotterranea che traccia un percorso
discontinuo ma preciso che va da François Villon a Boris Vian, fu
93
G.Salvatore, Mogol-Battisti. L'alchimia del verso cantato, Castelvecchi, Roma, 1997.
90
ancora una volta molto influente sui cantautori genovesi, sensibili
anche ai testi di Jacques Prévert. Importante punto di riferimento
era anche la produzione americana, a partire dai testi politicamente
impegnati di Pete Seeger e Woody Guthrie, fino ad arrivare ai brani
della controcultura di Dylan.
Non bisogna però pensare che queste influenze siano state le dirette
responsabili del cambiamento della canzone italiana di questi anni;
la questione di fondo era che aulicismi e linguaggio ottocentesco,
retorica del cuore e rime stereotipate, avevano stancato, erano ormai
diventate fortemente anacronistiche.
L'Italia di quegli anni era profondamente provinciale, e non solo
nelle canzone; bigottismo e conformismo dominavano in tutti i
campi, scalfiti, talvolta, solo dal dilagante mito del benessere e del
consumo. A quell'Italia questi primi cantautori trasmisero una
carica di anticonformismo e di spregiudicatezza; loro esprimevano
la loro obbedienza a diversi valori e modelli di vita, aspiravano ad
un <<mondo diverso, diverso da qui>>, come cantava Paoli in
Sapore di sale, lanciata al Cantagiro del 196394.
Questi ragazzi davano voce ad un sentimento differente, al
malessere di allora diffuso tra i giovani. I loro testi, come la loro
vita d'altronde, erano pieni di dolore autentico; non dimentichiamo,
infatti, che Gino Paoli nel 1963 tentò di togliersi la vita, Luigi
Tenco nel 1967 mise fine ai suoi giorni al festival di Sanremo.
La morte di Tenco segnò il cammino di tutti quelli che avevano
condiviso con lui idee e sentimenti. A distanza di poco tempo De
André scrisse Preghiera in gennaio, un'accorata invocazione a Dio
affinché accogliesse in Paradiso l'amico, ignorando per una volta il
divieto che ne esclude i suicidi. Sia il testo che la forma della
canzone sono semplici, nonostante le parole siano rivolte a Dio; ma,
il Dio a cui l'autore si rivolge non è quello dei benpensanti, bensì
quello che conforta i sofferenti e gli umili95.
De André, nel corso della sua lunga carriera, ha costantemente
rielaborato in forma personalissima materiali attinti da diversi poeti,
a partire dall'opera di Edgar Lee Masters, fino ad arrivare alla
poesia di Umberto Saba; di quest'ultimo in particolare il cantautore
genovese ha ripreso Città vecchia nella canzone omonima. Scrive
Saba:
94
95
G.Borgna, Storia della canzone italiana, Mondadori, Milano, 1992.
Accademia degli Scrausi, Versi rock, Rizzoli, Milano, 1996.
91
Qui tra la gente che viene che va
dall'osteria alla casa o al lupanare
dove son merci ed uomini il detrito
di un gran porto di mare,
io ritrovo passando l'infinito della povertà.
Qui prostituta e marinaio, il vecchio
che bestemmia, la femmina che bega[...]
Qui degli uomini sento in compagnia
il mio pensiero farsi
più puro dove più turpe è la via
Nella canzone di De André si respira la stessa atmosfera.
Nell'<<aria spesso carica di sale,/gonfia di odori>> (efficace
suggestione sinestetica96) si muovono figure di intensa umanità,
come la bimba che impara il "mestiere", o i pensionati all'osteria
che cercano <<la felicità dentro a un bicchiere>>:
Li troverai là, col tempo che fa
estate e inverno,
a stratracannare, a stramaledir
le donne, il tempo ed il governo.
Loro cercan là la felicità dentro a un bicchiere
per dimenticar d'esser stati presi
per il sedere
Lo schema metrico è quello della ballata, forma usata molto
frequentemente dall'autore.
E' sempre la ballata, scandita da rime baciate e alternate, quella
utilizzata da De André ne "La guerra di Piero"; la struttura è molto
complessa: il "cantastorie" si rivolge a Piero con la seconda persona
ed alla sua voce si alterna quella di Piero stesso, in prima persona
ed in forma colloquiale.
Il testo è poi impreziosito da una serie di immagini metaforiche
(<<marciavi con l'anima in spalle>>, per esempio) e come la
prosopopea97 <<il grano ti stava a sentire>>. Nella canzone è molto
frequente l'uso del passato remoto, tempo verbale in declino
nell'italiano comune e molto raro nei testi musicati, tranne in quelli
96
La sinestesia è quel tipo di metafora che consiste nel trasferimento di un significato
dall'una all'altra percezione sensoriale, per esempio <<un colore caldo>>. (Accademia
degli Scrausi, Versi rock, Rizzoli, Milano, 1996)
97
La prosopopea è quella figura retorica che consiste nella personificazione di esseri
inanimati o concetti astratti, a cui viene attribuita la facoltà di parola. (Accademia degli
Scrausi, Versi rock, Rizzoli, Milano, 1996)
92
di Dalla e di Battiato; da rilevare infine l'anastrofe98 <<dei morti in
battaglia ti porti la voce>>, in cui viene alterato l'ordine normale
delle parole (ci aspetteremmo infatti <<la voce dei morti in
battaglia>>).
Non si può negare che i cantautori della scuola genovese
manifestarono uno spiccato interesse poetico, alimentato forse dal
fatto che avessero un amico in Arnaldo Bagnasco, che ai loro
concerti talvolta leggeva poesie di Montale, Sbarbaro, Caproni,
Campana. Inoltre i riferimenti letterari, da parte di alcuni autori,
erano talvolta espliciti, come nel caso già citato di De André, o in
quello di Endrigo, che intraprese vere e proprie collaborazioni con
Pasolini, Rafael Alberti, Gianni Rodari, Vinicius De Moraes e
persino Ungaretti.
Fuori dalla scena genovese , anche Francesco Guccini si era
interessato all'attività dei chansonniers francesi e a quella di Dylan;
coi suoi riferimenti letterari però egli aveva un rapporto molto
pratico e gli piaceva "rifare": nei suoi album si ispirò da Folgòre da
San Gemignano e François Villon, a Carducci e Brel, e soprattutto a
Gozzano.
Francesco De Gregori, anche lui grande patito di Dylan, avrebbe,
qualche anno dopo, attinto a riferimenti "alti" di varie letterature del
Novecento: Eliot e Joyce per quella inglese, Hemingway e
Ferlinghetti per l'americana, Penna e Caproni per la poesia italiana.
Anche Roberto Vecchioni, tra riecheggiamenti, citazioni e parafrasi,
userà Ariosto, Pascoli, Penna e nell'86 Branduardi metterà in
musica i versi di Yeats99.
98
Per anastrofe o inversione si intende il cambiamento dell'ordine abituale di una
sequenza di parole. (Accademia degli Scrausi, Versi rock, Rizzoli, Milano, 1996)
99
G.Salvatore, Mogol-Battisti. L'alchinia del verso cantato, Castelvecchi, Roma, 1997.
93
6.3 L'epopea del "beat"
Alla fine degli anni '60 i Beatles e i Rolling Stones, i due storici
complessi britannici, vivevano il loro momento magico, unitamente
a due grandi cantautori statunitensi, Joan Baez e Bob Dylan; la loro
influenza cominciava ad essere sentita anche in Italia, promuovendo
innovazioni sia nella musica che nei testi delle canzoni.
Proprio dagli Stati Uniti giunsero così i messaggi della Beat
Generation; "beat" equivaleva a "sconfitto", "battuto". Se però lo
leggiamo come abbreviazione di beatus il termine corrisponde,
secondo quanto suggerito da Kerouac, sia a "sconfitto" che a
"santo"; questa identificazione della santità con la sconfitta fu il
tratto caratteristico dei beat, che possedevano una mistica della
povertà volontaria100.
<<La Beat Generation prima, poi il movimento hippy e la
contestazione studentesca, introdussero nuovi argomenti, valori e
obiettivi polemici nel pensiero giovanile internazionale: la critica
alla civiltà delle macchine e dei consumi, al perbenismo e alla
burocrazia, al dogmatismo delle religioni e degli stati; gli ideali del
pacifismo, dell'uguaglianza sociale e razziale, dell'ecologia; le
utopie della vita comunitaria, del solidarismo, di una società senza
denaro fondata sul baratto e sulla produzione alternativa, del
viaggio e della musica come fattori di esperienza e di
comunicazione>>101.
Ovviamente tutte queste argomentazioni giunsero ben presto ad
influenzare la canzone di quegli anni. Così scrive Francesco
Guccini nel 1965, nel brano "Dio è morto", portato poi al successo
dai Nomadi:
Ho visto la gente della mia età andare via
lungo le strade che non portano mai a niente
cercare il sogno che conduce alla pazzia
nella ricerca di qualcosa che non trovano nel mondo
[...]
e un Dio che è morto
ai bordi delle strade Dio è morto
nelle auto prese a rate Dio è morto
nei miti dell'estate Dio è morto...
100
101
G.Borgna, Storia della canzone italiana, Mondadori, Milano, 1992.
G.Salvatore, Mogol-Battisti. L'alchimia del verso cantato, Castelvecchi, Roma, 1997.
94
Fu in particolare a partire dal 1966 che, in Italia, il termine "beat"
entrerà nell'uso corrente del lessico giovanile: in un primo tempo
circoscritto alla pura identificazione di una musica elettrificata e
ritmicamente accentuata, poi esteso a tutto ciò che rappresentava il
nuovo modo di esprimersi lontano dagli schemi del passato102.
Il livello di consapevolezza con cui la cultura beat americana venne
abbracciata in Italia non appare certo omogeneo: il vero movimento
beat italiano rimase un fenomeno underground, con le sue riviste
ciclostilate, bollettini arrangiati diffusi alla meglio. Nel '66 nacque a
Milano "Mondo beat" e una rivista minore, "Urlo beat"; fu questa la
vera avanguardia del movimento, ma venne perseguitata: i redattori
delle riviste venivano arrestati per aver contravvenuto alle leggi sul
"buon costume" o per oltraggio alle forze armate.
Fu in questo clima che si sviluppò la canzone beat italiana, che
rimase però sempre sganciata dal movimento centrale e sempre
ignorata dalle riviste, che la consideravano un tentativo di
strumentalizzare i giovani.
102
G.Borgna, Storia della canzone italiana, Mondadori, Milano, 1992.
95
6.4 La collaborazione Mogol-Battisti
Mogol e Battisti hanno composto insieme centoquaranta canzoni
nell'arco di tempo che va dal 1966 al 1980.
Se nelle loro prime canzoni è facile rinvenire un forte legame tra
loro e il "mondo beat" italiano e straniero, va subito precisato che
questi due artisti seppero reinterpretare il mutamento epocale degli
anni '60 inglesi e americani in termini molto personali e originali.
Battisti mostra sin da subito di conoscere il modo in cui i Beatles
componevano e infatti le sue strategie compositive erano assai
simili a quelle utilizzate dal gruppo inglese.
Proprio come quelle dei Beatles, le canzoni di Battisti cercavano di
sfuggire alla quadratura tradizionale del periodare melodico, cioè
alle otto o sedici battute di ogni sezione strofica, puntualmente
suddivise in frasi melodiche dalle lunghezze e simmetrie piò o
meno costanti. Quest'innovazione può essere paragonata al
passaggio dalle "stanze" della tradizione poetica al "verso libero"
della poesia del Novecento, dove il pensiero è guidato
semplicemente dalla pura urgenza espressiva e dai suoi ritmi più
intimi103.
I Beatles furono sicuramente i primi a sperimentare, nella formacanzone, schemi diversi da quelli canonici. Il lavoro ebbe inizio nel
1964 con la registrazione dell'album "A hard day's night", dove il
brano I'll be back aveva la sezione B di sette battute, con notevole
effetto sulle attese dell'ascoltatore, abituato ad aspettarsi un
periodare in otto misure. Queste varianti consentivano una
maggiore elasticità, in quanto contribuivano a sottolineare effetti
emotivi, narrativi o drammaturgici del testo della canzone.
Battisti era ben predisposto a raccogliere simili spunti per farne una
caratteristica saliente del suo stile. I tagli in 2/4 compaiono già in
uno dei suoi primi capolavori, 29 settembre, probabilmente
composta nel '66 e che subì forse l'influsso sia dei Beatles che dei
Byrds; seguiranno ben presto anche le irregolarità della quadratura
strofica, della continuità ritmica e del periodare melodico: sarà in
questo modo che Battisti rinnoverà il linguaggio della canzone
italiana.
Questo interesse per le forme nuove sin trova sin dal primo singolo
(Per una lira/Dolce di giorno), pubblicato a luglio nel '66. Battisti
vi utilizza in modo alternato le due strutture strofiche principali
103
G.Salvatore, Mogol-Battisti. L'alchimia del verso cantato, Castelvecchi, Roma, 1997.
96
della forma-canzone: lo schema della ballad americana e lo schema
italiano (ma anche francese) a strofa e ritornello.
Dice Gianfranco Salvatore: <<Il lato B, Dolce di giorno, propone la
forma a ballad (AABA, qui con un'ulteriore sezione A conclusiva),
poi raramente ripresa da Battisti nella produzione successiva. Le
sezioni A, comunque, ritornellano una porzione del testo (<<ho già
deciso/che questa è/l'ultima volta che esco con te>>) alle battute 916. I tratti della canzone rimangono semplici: metrica regolare, a
quinari, per motivi di due battute (tutti tranne l'ultimo). Il tempo è
ternario, in 6/8. Lo schema strofico è esposto un'unica volta, con la
ripresa finale della sezione A. Anche l'arrangiamento appare
estremamente lineare[…]
Per una lira, sul lato A, segue invece lo schema strofa-ritornello,
adottando una struttura strofica abbastanza regolare.
Questa struttura strofica è tra le più elementari del primo Battisti:
uno schema AB con ciascun membro di otto battute, preceduto dal
comune giro armonico I/VIm/IV/V ripetuto due volte su quattro
battute a mò di introduzione. Nel secondo chorus, in B, si evita la
cadenza perfetta rallentando e aggiungendo due battute coronate per
andare a modulare due toni sopra. Il terzo chorus è di nuovo nelle
sedici battute canoniche, molto dinamizzato dalla modulazione
lontana([...]). La cadenza è d'inganno, sul VI grado, (la relativa
minore), e porta un ad libitum IV/Vim di dieci battute, con l'organo
rinforzato da una figura reiterata al pianoforte, e una conclusione ex
abrupto, di grande effetto, in una scia d'eco che ribatte l'ultimo
accordo dell'organo>>104.
Per quanto riguarda le innovazioni tematiche apportate da Mogol e
da Battisti, la più importante riguarda sicuramente il fatto che essi
rivoluzionarono la canzone italiana con la descrizione di un
rapporto assolutamente paritario tra uomo e donna, tanto paritario
che con una donna si può parlare d'amicizia: occorre sottolinearlo,
questa era un'esperienza quasi del tutto nuova per il costume e la
musica italiana.
Estremamente importante fu anche la presenza di Battisti al centro
della stagione del cosiddetto "rock progressivo" dei primi anni '70,
che seguì la fine della stagione beat. Il disco che interpreta questa
stagione musicale è Anima latina, uno dei primi concept-album
italiani, ossia uno dei primi lp che non fossero una compilation di
104
G.Salvatore, op.cit.
97
successi ma un'opera in cui le varie canzoni seguivano un filo
logico, poetico e musicale, unitario105.
105
P.Jachia, Storia della canzone italiana 1958-1997, Feltrinelli, Milano, 1998.
98
6.5 L'italiano del rock
Alla fine degli anni '60 il rock ha rappresentato un vero e proprio
fenomeno di costume, è diventato l'urlo di protesta dei giovani
contestatari ed ha portato con sé una nuova cultura di massa, con i
suoi miti (la trasgressione, l'eccesso, il pacifismo e l'egualitarismo)
ed i suoi riti (i grandi raduno-concerti come quelli dell'Isola di
Wight e soprattutto di Woodstock)106.
Nel nostro paese il fenomeno si sviluppò solo dieci anni dopo,
contrapponendosi alla tipica canzonetta sanremese e allo stile
dominante dei cantautori. Nella sua Musica ribelle del 1978,
Eugenio Finardi inveiva contro <<le strofe languide di tutti quei
cantanti/con le loro facce da bambini e con i loro cuori infranti>>.
Il linguaggio rock, nato come intimamente antitradizionale, si
riconosce oggi in una precisa tradizione.
Per farci un'idea di cosa sia il rock inteso classicamente,
cominceremo a dare uno sguardo a quello che, a lungo, ne è stato
considerato il manifesto, Vita spericolata di Vasco Rossi:
Voglio una vita maleducata, di quelle vite fatte così
Voglio una vita che se ne frega,che se frega di tutto si
voglio una vita che non è mai tardi, di quelle che non dormi mai
voglio una vita di quelle che non si sa mai.
E poi ci troveremo come le star
a bere del whisky al Roxy Bar
o forse non ci incontreremo mai
ognuno a rincorrere i suoi guai
ognuno col suo viaggio, ognuno diverso
ognuno in fondo perso dentro ai fatti suoi
Ciò che colpisce è innanzitutto la regolarità della struttura, basata su
minime variazioni rispetto ad uno schema fisso, non diversamente
quindi da come accade nella canzone tradizionale.
Se prendiamo come punto di partenza l'anafora107 voglio una vita, ci
renderemo subito conto che i versi sono sempre completati da
aggettivi con lo stesso numero di sillabe e con la stessa sequenza
fonica finale (maleducata, e poi spericolata, esagerata) o, in
106
Accademia degli Scrausi, Versi rock, Rizzoli, Milano, 1996.
L'anafora è una figura retorica molto usata sia in prosa che in poesia che consiste nella
ripetiziono di una o più parole all'inizio di frasi o versi successivi. (Accademia degli
Scrausi, Versi Rock, Rizzoli, Milano, 1996).
107
99
alternativa, da sintagmi108 appositivi introdotti dal che. Il ritornello,
ripetuto sempre uguale dopo ogni strofa, è formato da due coppie
omologhe di versi, secondo lo schema: quarta persona del futuro (ci
troveremo, ci incontreremo) seguita da una proposizione implicita
(a + infinito) e da una coda giocata sull'anafora di ognuno109.
Possiamo notare anche la presenza del tanto amato "noi
generazionale" dei testi rock; basta pensare a titoli come Siamo solo
noi dello stesso Vasco Rossi, Non è tempo per noi di Luciano
Ligabue, Non siamo solo noi dei Timoria, Noi sì che vivremo dei
Rats. L'antecedente di queste canzoni va cercato nella musica
anglosassone: in My generation del '65 gli Who cantavano
<<People try to put us down/just because we get around>>.
Molto frequente anche l'uso di rime baciate, con una netta
predilezione per quelle tronche, ottenute facendo ricorso alla rima
identica (mai:mai); a una zeppa, cioè ad una espressione o parte del
discorso che ha la funzione di far tornare la misura del verso
altrimenti mancante di sillabe (per esempio sì in rima con così); a
due parole straniere (star:bar).
Un altro classico della canzone rock italiana è Salviamoci la
pelle!!!! di Ligabue:
Lei ha la foto di sua madre,
un giorno o l'altro la guarderà
che così non vuole diventare,
che così, giura, mai non sarà.
Lui la foto di suo padre l'ha dentro,
impressa a fuoco nell'anima,
impressa ad alcool, botte e insulti:
<<andiamo via, andiamo dai, andiamo va>>
La strofa è divisa in due parti secondo un perfetto parallelismo tra i
quattro versi dedicati a lei e i quattro dedicati a lui; abbondano le
simmetrie (la foto di sua madre/la foto di suo padre; che così non
vuole/che così giura; impressa a fuoco/impressa ad alcool) e le
altre figure di ripetizione: oltre alle anafore verticali appena citate
compare anche un'anafora orizzontale (andiamo[...] andiamo[...]
andiamo).
108
Il sintagma, unità sintattica minima formata da due o più parole che hanno un'unica
funzione nella frase, può essere nominale (per esempio articolo + sostantivo: <<il
bambino>>) o verbale (per esempio verbo + verbo:<<sta dormendo>>). (Accademia degli
Scrausi, Versi rock, Rizzoli, Milano, 1996)
109
Accademia degli Scrausi, Versi rock, Rizzoli, Milano, 1996.
100
A prescindere dai singoli esempi, possiamo dire più in generale che,
nell'ambito della musica rock italiana, nasce spesso l'esigenza di
utilizzare strumenti che le permettano di distinguersi nettamente
dalla tradizione canzonettistica precedente. La necessità di far
rimare versi che finiscono con parole tronche però rappresenta un
riavvicinamento, anche se non volontario, alle caratteristiche della
canzone tradizionale.
Quindi sono esigenze di tipo pratico che spiegano la tendenza a
collocare in clausola parole monosillabiche semanticamente deboli
(in ambito rock soprattutto le più vicine alla lingua parlata), che
permettono di chiudere la curva prosodica del verso (cioè quella
determinata dagli accenti della frase) con un movimento
ascendente. E' per questo che i pochi monosillabi della lingua
italiana ricorrono così spesso nei testi delle nostre canzoni e non di
certo in abbinamenti ritmici originali, ma al contrario in un numero
di combinazioni molto limitato e prevedibile a partire dalla vocale
prescelta.
A livello contenutistico i testi rock si mostrano decisamente
innovativi.
Prevalgono campi semantici legati alla natura, intesa nei suoi aspetti
più selvaggi e primitivi; la maggior parte delle volte la figura
animale equivale a quella umana (basta pensare a Bambolina
barracuda, Lo zoo è qui, Figlio di un cane di Ligabue o Cane e La
preda dei Litfiba, per citare qualche esempio).
Ma i riferimenti alla natura sono presenti anche in quelle canzoni
che considerano il lato mitico dei quattro elementi primari (aria,
fuoco, acqua, terra) come fonte di energia positiva. Pensiamo a
canzoni come Aria dei Flor, Il vento dei Litfiba o Io sono dei
Negrita (<<mentre canto sono il tempo, sono il vento, sono
Dio/sono l'acqua, sono il fuoco, sono io>>).
Qualcosa di animalesco lo si può riscontrare anche nell'aggressività
che caratterizza alcuni testi rock, aggressività che ha la funzione di
scuotere l'ascoltatore e che si concentra in tre principali aree
semantiche: il lessico, i riferimenti alla violenza fisica, una serie di
vocaboli ed espressioni tesi a suscitare fastidio. Della prima
categoria fanno parte canzoni come Vita in un pacifico mondo
nuovo dei Fluxus (<<Devi essere tu ad annientare lo stato/a
distruggere il mondo dove tutto sarà controllato>>) o come Caldo
dei Diaframma (<<poi un pensiero esplode>>). Al secondo gruppo
appartengono canzoni come Ti taglio la gola di Vasco Rossi o
Fuoco su di te dei Marlene Kuntz, che recita:<<io voglio fare fuoco
101
su di te, fuoco su di te/sarebbe bello vedere i tuoi contorni
svanire/nel rogo delle mie brame>>. Nella terza categoria rientrano
invece brani come Del mondo dei CSI (<<il nostro mondo è
adesso/debole e vecchio/puzza il sangue versato e infetto>>);
oppure Pace frog dei Negrita, traduzione del noto brano dei Doors,
che dice:<<Sangue sulle strade che mi arriva alle caviglie/sangue
sulle strade che mi arriva alle ginocchia/sangue che si espande,
melma su dal fondo/sangue sulle strade nei cunicoli del mondo>>.
Nell'ambito della musica rock anche il rapporto con i mezzi di
comunicazione di massa è spesso conflittuale. Dicono i Negrita in
War: <<ma qual è il ruolo dell'informazione/e chi pilota
quest'aberrazione/chi dirige questo gioco bestiale, virtuale>>. Nei
confronti della radio il sentimento varia a seconda dei casi; Finardi
nella Radio afferma:<<amo la radio perché arriva dalla
gente/entra nelle case e ci parla direttamente>>, mentre Ligabue
in Radio radianti fa il verso alla lingua patinata dei
DJ:<<radiofelici/radiocontenti/radiosorrisi e baci smack/radio
radianti>>110.
A partire dagli anni '80/'90 in poi i testi abbandonano la concretezza
e la durezza tipiche del genere rock per abbracciare l'astrazione di
atmosfere rarefatte, come ci dimostrano i testi di Resta dei Litfiba
(<<resta una parte di me/quella più quella più vicino al nulla>>),
oppure di Antimateria dei Ritmo tribale (<<vorrei un corpo/fatto di
antimateria/con dentro un cuore/che si stacchi dalla terra>>).
Inoltre i testi si liberano dagli schemi e dalle costrizioni della rima
ed acquistano un certo surrealismo, come avviene in Caldo dei
Diaframma (<<l'autostrada è una serpe che striscia>>), e per
arricchirsi
di
sinestesie,
dicono
infatti
sempre
i
Diaframma:<<coprirò il peso di queste distanze>> (dal brano In
perfetta solitudine), oppure i Timoria in Milano:<<e i ricordi non
bastano ad asciugare i pensieri>>. Ed ancora i Negrita in Sono
io:<<Chagall/su una nuvola di fiori/suona musica a colori per
me>>.
Come abbiamo potuto vedere in questi ultimi anni è emersa una
evidente ricchezza metaforica dei testi, insolita per la tradizione
rock e sembra che l'espressività di queste canzoni sia decisamente
destinata a crescere.
110
Accademia degli Scrausi, op.cit.
102
6.6 L'hip-hop italiano
Sotto le denominazioni di hip-hop, reggae, raggamuffin, posse si
raccolgono numerosi generi musicali che, partendo da scenari
abbastanza nascosti, sono riusciti a farsi spazio nella scena musicale
nazionale. In Italia ha guadagnato sempre più terreno uno di questi
generi in particolare, le posse: una posse è una coalizione di
individui unita da una causa comune; l'originalità del termine
coincide con il fatto che questi gruppi hanno da sempre evidenziato
la differenza tra la loro formazione e quella dei tradizionali "gruppi"
o "complessi".
Dice Alberto Campo a proposito del linguaggio utilizzato dalle
posse:<<Non era la solita solfa e occorrevano parole che segnassero
la diversità, la rottura rispetto al passato. Ma c'era dell'altro, oltre
alla riforma stilistica imposta da ritmi e metriche del rap:
trattandosi di musica "parlata", che cioè nella parola ha la propria
ragion d'essere, i versi delle canzoni non erano più elementi
ornamentali, ma soggetti principali delle stesse>>111.
In Italia l'esplosione del fenomeno risale al 1990, anno di uscita di
Batti il tuo tempo, dei romani Onda Rosse Posse. La loro musica
fece da colonna sonora al movimento di protesta studentesco della
Pantera e rappresentava la volontà di dare contenuti nuovi alla
canzone politica. Al giorno d'oggi sono numerosissimi i gruppi che
hanno scelto, come mezzo di espressione, questo genere musicale,
ma tra questi emergono le formazioni storiche dei 99 Posse, dei
Bisca, degli Almamegretta e dei Sud Sound System.
Ovviamente tra gli elementi di novità rispetto alla canzone
tradizionale spicca il ritmo; in questo contesto il rapper gode di una
libertà compositiva maggiore di quella di cui dispongono i
cantautori o i parolieri, in quanto nella costruzione di un testo rap ci
si ispira ai moduli della discorsività parlata. Infatti il cantautore
deve fare i conti con la cosiddetta mascherina, uno schema sillabico
precostituito che, per ragioni di melodia, impone la presenza, alla
fine del verso, o di una parola tronca o di un monosillabo.
Nel rap invece la parola è assolutamente svincolata dalla melodia
(praticamente inesistente) ed a dettare legge è un ritmo molto
ferreo. Quest'ultimo è in quattro quarti, interrotto solo dallo scratch
(il suono prodotto dallo sfregamento della puntina sul disco di
vinile mosso avanti e indietro manualmente) e dal cutting (una
111
A.Campo, Nuovo? Rock?! Italiano!, Giunti, Firenze, 1995.
103
forma di miscelazione di due dischi per cui si ripete molte volte la
stessa porzione sonora); l'esito è quello di una prosa ritmata, non
cantata, secondo la musica, in cui la forte scansione delle sillabe
vuole rendere l'effetto di un'energia repressa.
Anche la velocità di pronuncia è condizionata dalla ritmica, che
costringe ad accelerazioni e sincopi oppure, viceversa, a
riempimenti con formule fisse, di solito tratte dal parlato
quotidiano112.
Se da una parte il rap si sottrae allo schema limitativo imposto dalla
mascherina, da un'altra esso è strettamente legato ad un suo
schema, nel quale la rima svolge una funzione centrale. Essa infatti,
che non ha lo stesso valore metrico che ha nella canzone e nella
lirica tradizionale, risponde a due esigenze precise. La prima è di
natura stilistica: nella rima deve confluire la carica aggressiva del
testo; la seconda è di natura testuale: il brano rap deve risultare
come una sorta di poema in prosa, l'orecchio non deve percepire il
momento "in cui si va a capo". E' per questo che spesso, nella
stesura del brano, i versi vengono scritti tutti di seguito, a volte
anche senza punteggiatura, in modo da rendere difficile la scansione
metrica; è la rima che garantisce il giusto livello di poeticità, ma
soprattutto essa svolga una funzione connettiva, compatta le varie
parti del testo.
Gli autori dei testi rap non cercano però la classica rima, cioè quella
situata alla fine del verso, bensì utilizzano la rimalmezzo (nel caso
in cui la parola si trovi alla fine della prima metà del verso), la rima
interna (quando almeno uno dei due termini è posto all'interno del
verso), l'assonanza (cioè la rima imperfetta fondata sull'identità
delle sole vocali di due parole) e la consonanza (rima imperfetta
fondata sull'identità fonica tra le consonanti di due parole).
Talvolta l'uso di insistere sugli stessi suoni spinge gli autori a creare
dei veri e propri scioglilingua, l'effetto dei quali è quello di dar vita
ad una reazione a catena.
La medesima funzione unificante svolta dalla rima e dallo
scioglilingua è propria anche di quegli artifici che in retorica
vengono definiti figure di ripetizione, tra le quali senza dubbio
emerge, per la sua frequenza, l'anafora. Esemplare fin dal titolo un
brano dei 99 Posse, Ripetutamente, in cui ricorre per ben sedici
volte la parola qualcuno ed in cui domina la rima in mezzo.
112
L.Coveri (a cura), Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d'autore italiana,
Interlinea, Novara, 1996.
104
Lo stesso uso ritmico dell'anafora si ha in Rappresaglia, sempre dei
99 Posse; qui il pronome ti viene pronunciato con intensità
crescente:<<ti possono arrestare, la casa perquisire/da quello che
ti è caro ti possono strappare/ ti possono picchiare, ti possono
umiliare>>.
Un'altra figura di ripetizione è l'anadiplosi, ossia la ripresa all'inizio
di una frase o di un verso o di uno o più elementi che chiudono la
frase o il verso precedenti. Tale figura funge da collante tra i versi e
può sostituirsi alla rima o collaborare con essa.
A livello lessicale, non dobbiamo dimenticare che, la maggior parte
delle formazioni italiane che produce questo genere musicale,
proviene dal sud; così si verifica spesso che espressioni dialettali
tipicamente meridionali vengano inserite nel testo della canzone. Se
ci addentriamo invece nel campo dei contenuti di queste canzoni ci
accorgeremo che i loro tratti distintivi sono il rifiuto delle ideologie,
il senso di marginalità rispetto ad un sistema deludente, uno
spiccato antagonismo sociale e una scelta pacifista,
antiproibizionista e libertaria con forti venature anarchiche.
105
7) Le forme della canzone
7.1 Forme di canzone a strofe uguali
Sino ad ora abbiamo giusto accennato al fatto che esistano diverse
forme di canzone, senza però entrare nello specifico. Cercheremo
ora di capire quante e quali forme di canzone possano essere
identificate.
La canzone si classifica in forme mono-bi e tripartite.
La forma monopartita deve considerarsi come la più piccola forma
musicale autonoma esistente e si basa su di una sola idea, che
quindi si identifica col tema. In questo caso quindi accade che il
periodo musicale, modellato sulla strofa ritmica della strofa del
testo, si ripete immutato per tutte le strofe. L'andamento ritmico
dev'essere sempre chiaro; quello melodico è tanto migliore quanto
più il canto si intende anche da solo, senza nessun aiuto
armonico114.
Il giro armonico, in generale, è rappresentato da una semplice
cadenza (T-D-T); di solito serve come tema per variazioni benché si
incontri anche quale forma autonoma come lo sono i Preludi n.7 e
20 dell'opera 28 di Chopin e la Bagatella n.10 dell'opera 119 di
Beethoven (quest'ultima, a causa della dilatazione di quattro misure
che subisce nella ripetizione, si può essere indotti a considerarla
bipartita)115.
114
115
Bas, Trattato di forma musicale, Ricordi, Milano, 1913.
R.Nielsen, Le forme musicali, Edizioni Bongiovanni, Bologna, 1961.
106
7.2 Forma binaria di canzone
Consideriamo ora il caso di una canzone o di un inno con due o tre
strofe da musicare. Da questi semplici gruppi binari o ternari
scaturiscono le forme più ricche e complesse. Il concatenamento di
due periodi o strofe musicali può avvenire in due modi che,
indicando i periodi o strofe con lettere maiuscole, rispondono a
questi due schemi:
I. A-A'
II. A-B
Nella prima combinazione la seconda parte o periodo o strofa
musicale A' è uguale o simile alla prima A, invece nella seconda
combinazione la seconda parte o strofa B è diversa dalla prima A116
. Sia il tipo A-A' che quello A-B presentano delle varietà; vediamo
di analizzarle separatamente.
Tipo A-A'. Varietà I:
La forma più semplice di questo genere si può considerare un caso
del tipo di canzone o d'inno a strofe uguali e si ha con la ripetizione
di uno stesso periodo musicale; ciò avviene per esempio in canti
con due strofe di testo, oppure in composizioni strumentali fatte di
periodo più o meno ampio.
Varietà II:
La sostanza di questa forma semplicissima rimane immutata se, per
esempio, in una canzone la prima strofa viene cantata da un solo o
da poche voci, e la seconda invece del coro intero. E' una forma di
cui non mancano esempi nell'arte popolare, con la disposizione a
strofe alternate d'inni e di canzoni, e in campo strumentale.
Se il pezzo è breve questo tipo si confonde con un periodo binario
semplice o doppio, di cui la prima metà o strofa è data ad un solo
strumento o ad una sola parte, mentre la seconda metà o strofa
viene ripetuta da tutti. Se invece il pezzo raggiunge una certa
ampiezza, le due metà occupano ognuna un periodo intero, magari
doppio e triplo. La prima metà del pezzo è una preparazione, la
seconda metà è un periodo solido e conclusivo; in queste condizioni
le due strofe o i due periodi sono nello stesso tono. Difatti la
seconda parte non è altro che una replica della prima.
Ma è proprio il fatto che esista questa replica che potrebbe
diminuire il valore e l'interesse suscitato dalla seconda parte,
facendo desiderare all'ascoltatore qualcosa di differente rispetto a
ciò che ha già udito. Il bisogno di varietà infatti è uno degli
116
Bas, Trattato di forma musicale, Ricordi, Milano, 1913.
107
elementi principali del senso estetico e dunque della forma ed è per
questo che ogni composizione va costantemente alimentata con
elementi nuovi e vivi. Dice Bas a tale proposito :<<[...] il
complesso d'ogni composizione dev'essere un continuo aumento
d'interesse, di vita, e talvolta anche di rapidità di movimento. La
forza, in certo modo, d'incremento, d'ascensione, dei periodi
musicali, è uno dei capisaldi della forma e dell'arte di comporre in
genere. Quando questa forza manca, è inutile ogni più accorta
applicazione di buone regole>> 117.
In questo caso, per soddisfare il bisogno di varietà, ci sono i
seguenti modi.
Varietà III:
Modificare od ornare più o meno largamente la ripresa con forme
melodiche addizionali, in modo da rinfrescare e ravvivare l'interesse
suscitato dalla strofa o dalla parte che si replica.
Varietà IV:
Questo modo è molto più efficace ed importante dell'altro ed ha
come base lo spostamento tonale della ripresa A':
Esposizione A
|tono principale|
Ripresa A'
|tono affine|
Ma, in quanto "il senso tonale ottiene il completo riposo solo
quando si ritorna colla chiusa definitiva là d'onde si son prese le
mosse" 118, si potrà dire in generale che "la condotta fondamentale
della modulazione rispetto al periodo musicale e ad ogni forma si
può riassumere in questo schema":
tono principale tono affine
ritorno al tono principale
Tale schema, una volta applicato allo schema binario che ci
interessa in questo momento , diventa:
Esposizione A
|tono principale tono affine|
Ripresa A'
|tono affine ritorno al tono principale|
La scelta del tono affine è libera e viene fatta in base a quello che è
il gusto dei compositori a seconda del carattere del pezzo e delle
tendenze personali.
Nell'ambito della teoria armonica risultano evidenti due cose: se il
pezzo è di modo Maggiore, A si presenta in tono principale, ed A'
117
118
Bas, op.cit.
Bas, op.cit.
108
in tono di dominante; se il pezzo è di modo minore, A si presenta in
tono principale ed A' nel relativo Maggiore quando il tema vi si
presta, o in tono di sottodominante. Inoltre, nei pezzi di modo
Maggiore, il tono di Sottodominante va usato con ogni cautela,
anzi, solitamente viene evitato.
E' importante avanzare, in tale contesto, una precisazione
fondamentale riguardante la struttura interna dei due periodi A e A'.
Essi non hanno mai in questa forma il tipo ternario a-b-a'; ciò
esercita un'influenza notevole sul senso complessivo d'unità del
pezzo, ed è quindi un importante elemento di forma. Infatti, la
ripresa della frase iniziale (come nel tipo a-b-a') rende il periodo
poco adatto a concatenarsi col sopraggiungere di un periodo nuovo,
che comincia anch'esso con lo stesso suo motivo iniziale e finale.
Solitamente le due parti A e A' si ripetono, prima l'una e poi l'altra e
questo viene indicato col segno di ritornello, così ||: A :||: A' :||
La forma, la struttura che stiamo trattando in questo momento
domina tutte le composizioni strumentali prima della fine del secolo
XVIII e rappresenta in un certo senso un primo stadio, ancora non
del tutto maturo, di quella forma musicale che, partendo dalla
semplice ripetizione di una strofa, sta evolvendo e maturando verso
il tipo ternario a.b-a', che è la base della forma moderna.
Tipo II: A-B.
Il tipo A-B è meno organico del precedente e bisogna aver cura di
condurre la forma in modo che le due parti o strofe diventino
un'unità sola, pur essendo tra loro diverse.
Varietà V:
Uno dei modi più sicuri di raggiungere l'unità è indicata dallo
schema seguente:
A
Periodo indeciso, quasi
introduzione modulante.
B
tema deciso, chiaramente
tonale.
In questo modo il periodo B ha una preponderanza su A, che
assicura l'unità della forma.
Ma a questo punto bisogna intendersi sul significato
dell'espressione tema: quest'ultimo è il pensiero, l'idea da cui
scaturisce in tutto o in parte una composizione ed è dunque
inevitabile che questo pensiero, quest'idea comprenda, nel periodo
musicale che l'esprime, un insieme più o meno ampio e complesso
di elementi, di motivi che contribuiscono al suo carattere, al suo
valore ed al suo significato. Non si confonderà dunque il tema né
109
con il motivo né con lo spunto, che è solo un principio di tema: cioè
non si confonderà il tutto né con le sue parti, né con il suo inizio.
Il tema così concepito dev'essere un periodo, sia pur doppio o triplo,
ma sempre concreto, efficace, così da affermarsi nella mente e
nell'animo di chi ascolta come qualche cosa di vitale e di più o
meno completo.
Rispetto alla tonalità, il tema è sempre legato al tono suo proprio, o
ad una data modulazione; questi due elementi, tono e modulazione
appunto, sono caratteristici del tema stesso quanto le formule
ritmiche, melodiche, armoniche da cui è composto.
Dal punto di vista tonale Bas afferma che <<lo schema ora proposto
esprime già come la prima parte A debba essere più o meno vaga,
modulante, per lasciare la decisione anche tonale alla parte seconda
B. Ma a tale proposito bisogna tener presente che la maniera di
modulare, e l'usar molte modulazioni o poche, è un fatto
strettamente legato alle tendenze ed ai caratteri propri d'ogni tempo
e d'ogni singolo compositore>>119.
Varietà VI:
Tale varietà è detta anche forma binaria di canzone ed è fatta su
questi schemi:
N°1
______A______
|__a__| |__a'__|
tono
_____
principale
______B______
|__b__| |__a''__|
tono ripresa
affine del tono princip.
N°2
______A______
______B______
|__a__| |__b__|
|__c__| |__b'__|
tono I.tono affine
II.tono affine ripresa del
principale
tono princip.
Poiché indichiamo con lettere maiuscole (A e B) le due grandi parti
della
forma, e con lettere minuscole (a, b, c) le frasi od i periodi semplici
che le compongono, è chiaro che ognuna delle parti o strofe
musicali A e B è di tipo binario, cioè consta a sua volta di due
elementi: ma B ha la sua prima metà diversa e la seconda uguale o
simile alla corrispondente in A. Questa forma offre il vantaggio
119
Bas, op.cit.
110
della varietà recata dalla prima metà di B, mentre il ritorno della
seconda metà di A alla fine del pezzo garantisce l'unità e l'efficace
conclusione.
Varietà VII:
Quando le due parti A e B sono totalmente diverse l'una dall'altra e
magari contrastanti, è chiaro che questa varietà appartiene alle
forme a periodi semplici diversi. In questi casi bisogna attenersi al
principio secondo il quale le due parti devono presentare un
aumento di vitalità e di interesse musicale l'una rispetto all'altra, in
maniera che la seconda sia più viva, più mossa ed attraente della
prima. Solo così il senso estetico unifica i due periodi o strofe
musicali in una sola linea ascendente.
Dal lato tonale la migliore garanzia di condotta logica e d'unità vien
data da uno schema in cui A va dal tono principale ad un suo affine,
B ritorna dall'affine al principale.
111
7.3 I tipi ternari
Il concatenamento di tre parti o periodi o strofe musicali presenta
cinque diverse combinazioni:
1. Tipo A-A’-A’’
2. Tipo A-A’-B
3. Tipo A-B-B’
4. Tipo A-B-A’
5. Tipo A-B-C
Tutte queste combinazioni sono soggette alle seguenti leggi:
I. Il periodo o parte intermedia d’ogni forma ternaria tende ad
essere breve, mentre il periodo o parte finale tende ad essere
lungo120.
Infatti la parte o strofa centrale è presa fra la prima che che ha
l’importanza dell’affermazione iniziale, e l’ultima che contiene il
peso, l’ampiezza, la decisione della chiusa; quindi, trovandosi tra
due periodi più significativi di lei, tende alla brevità. La tendenza al
prolungamento nei periodi finali è legata alle basi stesse del ritmo.
II. Ogni forma d’almeno tre periodi ha l’ultima nel tono principale.
Il fatto che il senso tonale trovi completo riposo solo quando si
conclude nel tono iniziale, è uno dei cardini dei rapporti di tonalità;
se così non fosse le relazioni tra i diversi toni non avrebbero più
valore. D’altra parte il periodo finale è il grande elemento musicale
e ritmico che racchiude la decisione ultima, la conclusione
definitiva del pezzo.
Passiamo ora all’analisi di ogni singolo tipo.
Tipo I: A-A’-A’’.
E’ fondato come il suo analogo binario A-A’ sulla ripetizione di un
periodo o strofa musicale. Lo schema tonale di questa forma è il
seguente:
A
Tono principale
A’
I.Tono affine
A’’
II.Tono affine
<<Tutti e tre i periodi hanno andamento modulante: il primo
periodo A, parte dal tono principale e va al primo tono affine; il
secondo periodo A’, va dal primo tono affine al secondo tono
affine; il terzo periodo A’’, parte da questo secondo tono affine e
ritorna al tono principale. Saggi di questa forma non sono rari in
G.S. Bach [...]>>121.
120
121
Bas, op.cit.
Bas, op.cit.
112
Tipo II: A-A’-B.
Pùo essere considerata un’amplificazione di quella binaria A-B, di
cui si ripete il primo periodo A, in questo modo:
A
I.Tema
Tono principale
A’
Ripresa
Tono principale
B
II.Tema con senso conclusivo
Tono principale
In questo caso il primo periodo o strofa musicale, dovendosi
riprendere, non può essere un’ampia introduzione più o meno
indecisa, ma anzi deve avere una chiara fisionomia tematica.
Dal lato tonale si noti come nel nostro schema tutti e tre i periodi
sono in tono principale. La spiegazione sta nel fatto che, se da un
lato è vero che nelle forme di almeno tre periodi l’ultimo va sempre
in tono principale, è altrettanto vero che ogni tema che ritorna va
anch’esso nel tono principale.
Tipo III: A-B-B’.
Anche questo può essere considerato un’amplificazione di A-B. Se
ne possono dare due varietà:
1. Il periodo A ha carattere indeciso di introduzione modulante:
A
B
Periodo indeciso, Tema chiaramente
d’introduzione
tonale.
modulante.
B’
Ripresa del tema.
In questa forma esiste un solo vero tema, quello che si presenta in
B, con la prima affermazione tonale; la ripresa in B avverrà
anch’essa nel tono principale.
2. Il periodo A è un vero periodo tematico:
A
B
B’
I.Tema
II.Tema
Ripresa del II. Tema
Tono principale » tono affine » ritorno del tono principale
In questo caso il II. Tema in B ha il suo tono proprio.
<<In tutt’e due queste forme la tendenza al prolungamento già
riconosciuta nei periodi finali può sì sviluppare la terza parte, ma
non dà mai luogo ad una vera coda, cioè ad una riconoscibile
appendice. La rende superflua la natura del periodo B’, ch’è già
un’immediata ripresa, quindi una particolarmente percettibile
ripetizione od un’amplificazione di B>>122.
122
Bas, op.cit.
113
Tipo IV: A-B-A’.
Questo tipo, detto addirittura in certi casi forma ternaria di
canzone, od anche forma di rondò, è cartterizzato dal ritorno di A in
A’, dopo di B.
A
B
Esposizione oI.Tema Intermezzo o II.Tema
Tono principale
Tono affine
A’
Ripresa del I.Tema
Ripresa del tono principale
In tutte le altre forme binarie e trnarieil passaggio dal tono di una
parte o periodo o strofa musicale al tono di un’altra viene sempre
preparato; in questo modo ogni periodo o strofa compie un
movimento modulatorio dal tono proprio a quello della parte o
strofa che sta per seguire, oppure verso il tono principale in cui si
chiude. Questo può avvenire anche in tale forma, ma può anche
accadere che, in una particolare connessione tonale, ogni periodo
termini nel suo proprio tono.
Per quanto riguarda invece il carattere tematico della parte centrale,
si possono verificare due situazioni: o la seconda parte o strofa B è
un vero tema più o meno contrastante, oppure è un intermezzo privo
di personalità tematica e tonale, relativamente indipendente dalla
prima parte A.
Tipo V: A-B-C.
Questo ultimo tipo di forma ternaria è fatto di tre parti o strofe
diverse tra loro. In questo caso diventa necessario un continuo
aumento di vitalità e spesso di moto ed è sempre vigente la regola
secondo la quale ogni forma ternaria ha l’ultimo periodo nel tono
principale.
114
7.4 Il Lied
<<Il Lied, nella sua accezione più pura, è l’espressione poetica e
musicale manifestantesi in una forma semplice di un sentimento
soggettivo con l’esclusione d’ogni elemento epico e drammatico.
Forma semplice in quanto d’origine popolare e prediligente la
struttura strofica regolare: alla quartina in poesia corrisponde, di
regola, in musica il periodo di otto (o sedici) misure. Se alla prima
quartina si aggiunge una seconda con una nuova melodia si ottiene
la forma della Canzone (Lied) bipartita che, così in sé compiuta,
può essere ripetuta per un numero illimitato di strofe.[…]>>123.
Questa è la forma più comune del Lied a partire dalla metà del
1700, quando venne creato il nuovo stile monodico con
accompagnamento strumentale; si tratta di una forma strofica in cui
la strofa dallo schema di canzone bi- o tripartita può essere
preceduta e seguita da un breve pre- e postludio affidati allo
strumento.
Possiamo facilmente intuire che è la forma poetica del testo a
determinare quella musicale del Lied, quindi, se per esempio la
poesia non ha forma strofica, allo stesso modo non la potrà avere la
musica. In realtà però questo non sempre avviene: in certi casi “se il
metro della poesia e l’accento della parola influiscono sulla
struttura del periodo musicale e sull’andamento della linea del
canto, la volontà (del compositore) di compenetrazione intensiva
del testo porta, certe volte, alla creazione d’una forma musicale la
quale non è la conseguenza di quella poetica, ma vuol essere
l’espressione dello stato d’animo equivalente a quello della poesia.
Avviene così che, per esempio, la forma strofica della poesia non
venga rispettata dalla musica, sia in parte, sia completamente>>124
Possiamo distinguere tre forme tipiche di Lied:
invariata; in questo tipo la forma poetica determina la semplice
canzone strofica in cui la melodia per ciscuna strofa del testo
rimane quella musicale. Oltre al Lied strofico semplice in cui cioè le
strofe sono tutte uguali esiste anche quello variato.
Il secondo tipo di Lied è più complesso ed è caratterizzato da una
parte strumentale che ha funzione di nesso, detta
<<durchkomponiert>>. Questo tipo segue il senso della poesia
piuttosto che la sua forma, creando così un’atmosfera generica;
123
124
R.Nielsen, Le forme musicali, Edizioni Bongiovanni, Bologna, 1961.
R.Nielsen, op.cit.
115
inoltre esso è in grado di valorizzare la parola, per cui ogni strofa
riceve la sua propria melodia e, se per ragioni di equilibrio formale
la melodia iniziale viene ripresa, questa appare modificata.
Ovviamente questo tipo, concentrandosi sulla caratterizzazione e
l’illustrazione del testo, sacrifica in certi casi la forma musicale
intesa in senso assoluto a favore di una sottolineatura più efficace
della parola, seguita in tutte le sue sfumature espressive.
Il terzo tipo è libero e serve per canzoni di contenuto narrativo e
declamatorio (ballata).
Tra il primo ed il secondo tipo esistono comunque delle forme
intermedie in cui una parte della poesia è trattata in forma strofica e
l’altra come <<durchkomponiert>> oppure in cui l’inizio di ogni
singola strofa è sempre uguale o per lo meno simile variando invece
il seguito.
116
8) Tematiche dominanti nella produzione musicale dei
Timoria
"Non siamo arrivati, ma nessuno fino ad ora
ci ha comprati".
"Mork" (El topo grand hotel, 2001)
8.1 Chi sono i Timoria
I Timoria nascono nel 1985 come Precious Time, nome con il quale
nel 1986 parteciperanno alla manifestazione Deskomusic
organizzata dal Giornale di Brescia. Sarà la vittoria riportata in
quest'occasione che permetterà loro di accedere alle selezioni di
Rock Targato Italia; grazie alla seconda importante vittoria ottenuta
anche in tale contesto i Timoria, il più giovane gruppo partecipante,
avrà la possibilità di effettuare un provino con la Polygram.
E' solo nel 1988 che però avrà ufficialmente inizio la produzione
discografica del gruppo: a marzo viene pubblicato il primo singolo,
"Signornò", brano dal contenuto fortemente antimilitarista dedicato
ad Amnesty International. La partecipazione alla manifestazione
Rock Targato Italia porterà poi alla pubblicazione del mini-album
"Macchine e dollari", due brani del quale (la title-track e "Ma
perché non mi vuoi?") riusciranno a riscuotere un certo successo
anche in radio. In questo stesso anno i Timoria partecipano anche
alla compilation "Scorribande", presentando un brano dedicato al
40° anniversario della Dichiarazione Universale dei Diritti
dell'Uomo, intitolato "L'altra via".
Nell' '88 la formazione non è ancora quella definitiva: mancano
Enrico Ghedi e Carlo Alberto Pellegrini (detto Illorca), che arriverà
nel gruppo l'anno successivo al posto di Davide Cavallaro.
Intanto i consensi che i Timoria ottengono dal vivo sono sempre più
frequenti ed appassionati.
Nel giugno del 1989 esce il 45 giri composto dal brano "Non sei più
tu" e "Pugni chiusi", cover del brano dei Ribelli, nonché sentito
omaggio, nel decennale della sua scomparsa, a Demetrio Stratos, il
cantante degli Area.
Il 13 giugno il gruppo debutta a Firenze nella sua formazione
definitiva, con un concerto di solidarietà dedicato agli studenti di
117
Piazza Tien An men. I Timoria sono composti ora da Omar Pedrini,
Enrico Ghedi, Carlo Alberto Pellegrini, Diego Galeri e Francesco
Renga.
A novembre esce "Walking my way", nato dalla collaborazione tra i
Timoria e Gianni Maroccolo, allora bassista dei Litfiba nonché
produttore sia di questo singolo che dell'album del '90 "Colori che
esplodono", il quale riscuoterà un notevole successo, tanto da
classificarsi sesto nel referendum annuale della critica musicale. Il
singolo "Milano (non è l'America)", corredato da immagini di Wim
Wenders, ottiene una buona rotazione sia sulle radio che su
Videomusic. Quest'anno si concluderà con l'esibizione a Parigi in
occasione dell'annuale festa della musica.
Il 1991 si apre con la partecipazione dei Timoria al Festival di
Sanremo col brano "L'uomo che ride", basato sull'omonimo
romanzo di Victor Hugo; il gruppo verrà eliminato dalle giurie nel
corso della prima serata, ma appositamente per loro verrà istituito il
premio della critica. Il brano sanremese entrerà a fare parte
dell'album "Ritmo e dolore", uscito a marzo e prodotto sempre da
Gianni Maroccolo, la collaborazione con il quale avrà fine proprio
l'anno successivo.
Il 1992 è l'anno di "Storie per vivere", album che, nonostante la
presenza di brani come "Sacrificio", "Atti osceni" e "Non siamo
solo noi", dedicato a Freddie Mercury, non soddisfa molto né il
gruppo né il pubblico. La seconda pubblicazione del disco vanterà
l'aggiunta di "Male non farà", canzone firmata da Ligabue; i
Timoria intanto collezionano concerti con un pubblico sempre più
numeroso e aprono undici date del tour di Ligabue Lambrusco e
Popcorn.
E' del 1993 l'album "Viaggio senza vento", uno dei più importanti
concept album alla realizzazione del quale partecipano artisti come
Eugenio Finardi, Mauro Pagani e Candelo Cabezas; sarà proprio
questo lavoro, prodotto in proprio, a permettere ai Timoria di
aggiudicarsi il loro primo disco d'oro. Seguirà un tour lunghissimo
di 90 date in 10 mesi. Tra le numerosissime esibizioni di questo
periodo particolarmente importante fu quella avvenuta in occasione
dell'edizione '94 di Sonoria, festival rock italiano dal cast eccellente
che li vede sul palco con Aerosmith, Sepultura, Whitesnake e
Helmet.
Nel marzo del '95 esce "2020 speedball", anch'esso realizzato ed
arrangiato dagli stessi Timoria. Questo è anche l'anno in cui il
118
gruppo viene invitato a collaborare al tributo ad Augusto Daolio,
per il quale verrà incisa "Io vagabondo" insieme a Gianna Nannini.
Nel febbraio del 1997 esce "Eta beta", disco ancora più composito
dei precedenti e che vede la collaborazione con Leon Mobley, Dave
Fuczinsky e Luca Zulu Persico dei 99 Posse; l'album comprende
inoltre una cover di "Zobie la mouche" dei Negresses Vertes,
rappresentativa dell'amore del gruppo nei confronti della Francia e
della lingua francese. Questo lavoro segnerà l'ingresso nel gruppo
del percussionista Filippo Ummarino.
Intanto le collaborazioni tra i Timoria e altri artisti, tra i quali
Antonella Ruggiero e Marco Lodola, proseguono ininterrottamente.
Il 1998 è l'anno in cui il cantante Francesco Renga esce dal gruppo,
dopo aver con esso realizzato un'antologia che celebra i dieci anni
di carriera dei Timoria, intitolata "Senza tempo".
Proprio in questo periodo si sviluppa l'interesse, da parte di Omar
Pedrini, per il Brescia Music art, festival artistico all'insegna della
collaborazione tra i diversi generi artistici: tre giorni di musica,
pittura, scrittura, poesia, installazioni video e molto di più, che
attirano artisti come 883, Jovanotti, Alberto Fortis, Marco Lodola,
Marc Kostabi, Emidio Clementi, Enrico Ruggeri, Madaski, Daniele
Silvestri e tanti altri.
Il festival è caratterizzato da insolite ed interessanti esibizioni
"interdisciplinari". E ' proprio in quest'occasione che i Timoria
presentano ufficialmente i nuovi componenti del gruppo, Filippo
Ummarino (percussioni) e Sasha Torrisi (voce e chitarra ritmica) e
rafforza ancora di più il suo rapporto con Lodola, nell'atelier
artistico del quale, Lodolandia, realizza gran parte del nuovo album,
"Timoria 1999". In questo disco verrà inserito il brano "L'amore è
un drago dormiente", su testo di Aldo Busi e musica di Omar
Pedrini; ed è sempre in tale occasione che debutta il Gruppo '98,
riunione di artisti provenienti dai campi più disparati avente come
obiettivo la rivalutazione del bello che vuole operare sulla realtà
provando a trasformarla.
Il 2001 è l'anno di "El topo grand hotel", decimo album dei
Timoria che riuscirà ad aggiudicarsi il titolo di terzo miglior album
dell'anno nel referendum indetto da Musica & Dischi e che
permetterà al gruppo di collaborare con artisti quali Ferlinghetti,
Jodorowsky, Eddie Henderson, James Thompson, David Fuczinski,
Leon Mobley e Articolo 31.
Nel 2002 i Timoria partecipano per la seconda volta al Festival di
Sanremo con il brano "Casa mia", che poi verrà inserito nell'album
119
che uscirà il 5 aprile, "Un Aldo qualunque sul treno magico",
colonna sonora del film di Dario Migliardi "Un Aldo qualunque",
che vede tra i protagonisti lo stesso Omar Pedrini nelle vesti di un
prete rock, don Luigi. L'atmosfera evocata dall'album è la stessa che
si respira nel film, ambientato negli anni '70.
I Timoria oggi sono:
Diego Galeri: batteria, voce
Enrico Ghedi: tastiere, voce
Omar Pedrini: chitarre, voce
Carlo Alberto Pellegrini: basso, voce
Sasha Torrisi: chitarre, voce
Filippo Ummarino: percussioni
Discografia:
The precious time (1986)
Macchine e dollari (1988)
Colori che esplodono (1990)
Ritmo e dolore (1991)
Storie per vivere (1992)
Viaggio senza vento (1993)
2020 speedball (1995)
Eta Beta (1997)
Senza tempo (1998)
Timoria 1999 (1999)
El topo grand hotel (2001)
Un Aldo qualunque sul treno magico (2002)
120
"Qualcosa di mio lo lascerò in questo mio tempo,
saltando nel vuoto aspetterò il nostro momento"
"Senza vento" ( Viaggio senza vento, 1993)
"Devo vincere la colpa che oggi è esser giovani"
"Non siamo solo noi" (Storie per vivere, 1992)
8.2 Il rapporto intergenerazionale
Credo sia impossibile rilevare, nel repertorio musicale dei Timoria,
dei filoni veri e propri, delle tematiche ben definite, innanzitutto
perché ogni canzone è il frutto di una serie di interessi talvolta
anche molto eterogenei tra loro ed in secondo luogo perché alcune
di esse propongono tematiche assolutamente a sé stanti e quindi
difficilmente "catalogabili".
Nonostante questo, al fine di rendere tale analisi più chiara ed
ordinata possibile, è stato necessario selezionare alcuni dei temi
proposti dal gruppo nel corso della loro carriera, iniziata quando
ogni suo componente era appena diciottenne.
E' proprio per sottolineare il modo in cui i contenuti dei Timoria si
siano evoluti col tempo che ho voluto inserire, tra le varie
tematiche, quella del rapporto intergenerazionale, così da poter
evidenziare come tale relazione abbia assunto delle connotazioni
diverse, anche se comunque coerenti, con il trascorrere degli anni.
Quella del rapporto tra differenti generazioni è sempre stata una
problematica viva e presente, a partire dai primi album ed in modo
particolare dall'album "Colori che esplodono", considerato dal
gruppo il primo disco vero e proprio e contenente una delle canzoni
che forse testimonia più di tutte le altre la difficoltà di porsi in
relazione con un genitore. "Albero" rappresenta, attraverso una
efficacissima allegoria naturalistica, il rapporto tra un padre ed un
figlio:
Albero, la vita è dentro di te
crescerò senza capire perché
per quanto tempo ho vissuto
nascosto tra le tue foglie
per quanto tempo ho giocato
tra le tue braccia più forti
e soffro vedendo le tue foglie cadere
non posso sentire l'inverno arrivare
perché?
121
Albero, la vita è dentro di te
crescerò son forte ormai come te
e finalmente ti guardo
tu hai radici più forti
e finalmente ti ascolto
senza paura, senza paura
e soffro vedendo le tue foglie cadere
non posso sentire l'inverno arrivare
perché?
Come si evince dal testo l'albero rappresenta la continuità, ciò che
c'è sempre stato prima di noi, è dunque un punto di riferimento
costante per colui che deve ancora crescere, che deve costruirsi
delle radici "forti". Se la prima parte della canzone sembrerebbe il
frutto di una mente ancora adolescente, la seconda risulta invece
essere un resoconto più lucido di quello che l'albero, quindi la
figura paterna, ha rappresentato nella vita dell'autore.
L'albero è quindi il simbolo della stabilità. La grandezza di questa
canzone, scritta nel 1990, consiste anche nel fatto che essa
rappresenta un germe, il germe di quel simbolismo che poi
acquisterà un'importanza sempre più crescente nella produzione
artistica dei Timoria e che riuscirà ad esprimersi totalmente
nell'album pubblicato nel 2001, "El topo grand hotel".
Ma, trattando la tematica del rapporto intergenerazionale, sarebbe
impossibile non nominare due pilastri della produzione del gruppo,
"Sacrificio" del '92 e "Senza vento" del '93.
"Sacrificio" è un'analisi molto intima, sentita e personale di quella
che è la propria condizione di figlio, analisi permeata da una
particolare sensibilità che spinge l'autore ad affrontare prima quello
che è il proprio rapporto con la madre e ad esprimere quindi la
necessità di essere ancora una volta accompagnato e guidato nel
cammino della sua esistenza; poi egli si rivolge al padre, con una
lucidità tale che gli permette di realizzare istantaneamente quella
che è stata la sua vita, sofferta e dignitosa.
"Sacrificio" può essere considerata un'autoanalisi, una riflessione su
sé stessi, in essa è assolutamente assente il desiderio di esprimere
disprezzo e ribellione nei confronti di una generazione in cui non ci
si riconosce, desiderio che spesso caratterizza i testi delle canzoni
giovanili.
Di questa canzone, scritta da Omar Pedrini e contenuta nell'album
"Storie per vivere", riportiamo prima il testo e poi gli spartiti:
122
Mentre scivola il week-end
e mi faccio male a modo mio
torno a casa e tu sei lì
stai sognando cose semplici.
Nell'oscuro specchio che
impietosamente giudica
vedo ciò che resta in me
tra gli sfregi della vita mia.
Madre, tuo figlio è cieco e non lo sai
forti le sue mani ma tu non lasciarle mai
e quando il mio nemico vinto tu vedrai
ti porterò lontano e poi
sarò il tuo amante se lo vuoi.
Forte uomo resta qui
ciò che resta sono immagini
se ricordi quando tu
combattevi per qualcosa in più.
Figlio della povertà
di un onesto uomo andato via
prima di vedere che
ora bevi vini nobili.
Padre, non piangere ora tu sai
che se ti tradiranno ancora, ancora vincerai
e se mancherà qualcosa agli anni tuoi
te ne regalo un po’ dei miei
prendili tutti se li vuoi.
123
"Senza vento" fa parte dell'album "Viaggio senza vento", primo
concept album dei Timoria che gli ha permesso tra l'altro di
aggiudicarsi il loro primo disco d'oro.
Nonostante la tematica proposta sia ancora quella del rapporto
talvolta assai problematico tra le diverse generazioni, in questo caso
la questione viene affrontata in modo decisamente diverso,
sicuramente più critico; inoltre in questa canzone viene offerta
un'interpretazione personale di quella che è la situazione sociale e
soprattutto ideologica all'inizio degli anni '90.
La generazione "senza vento" è la generazione di oggi, quella che
viene continuamente contrapposta ai giovani di trent'anni fa, a
coloro che grazie alla loro fermezza ideologica sono riusciti in parte
a cambiare il mondo. Questa canzone è lo strumento attraverso il
quale la nuova generazione rivendica quello che è il proprio ruolo
all'interno della società, stanca di essere confrontata
ininterrottamente con una realtà che ormai non le appartiene più,
ma consapevole anche dell'importanza degli avvenimenti storici e
sociali di tre decenni fa.
E' vero quindi che gli anni '90 sono stati anni confusi, anni in cui
forse sarebbe stato necessario essere guidati da un vento più
preciso, così come era accaduto negli anni '60 e '70, cioè quando la
direzione da seguire era chiara più o meno per tutti e gli obiettivi da
perseguire erano espliciti e di una certa "consistenza". Ma è anche
vero che la nuova generazione appartiene ad una realtà
completamente diversa e che quindi anche il suo modo di porsi nei
confronti di essa sia altrettanto differente.
Anche in questo caso riportiamo il testo della canzone seguito dai
suoi spartiti:
124
E son qui, non c'è niente
strade, bar: comunque mi difendo, non mi arrendo
la mia età è un fuoco freddo
nato qui, vivo e non credo in niente, credo in niente.
Mi dici che voi trent'anni fa fermaste un po’ il mondo
mi dicono che vent'anni fa era tutto diverso
ma son pronto per volare senza vento.
Come me anche tu
resti qui e vedi le giornate già vissute
dentro me il risveglio
ciao a voi perché domani parto, sweet reaction.
Qualcosa di mio lo lascerò in questo mio tempo
saltando nel vuoto aspetterò il nostro momento
ma son pronto per volare senza vento
125
"Povero e fiero sarò, nel nome dell'arte anch'io"
"Nel nome dell'arte" (Storie per vivere, 1992)
"C'è un lungo fiume di dolore che attraversa il
tempo. Nel suo letto scorrono il fuoco dell'arte e i
cadaveri dei suoi figli maledetti"
Omar Pedrini (da Eta Beta, 1997)
8.3 Contaminazioni artistiche
Il Brescia Music Art, primo festival italiano delle contaminazioni, è
nato nel 1998 per volontà di Omar Pedrini (leader dei Timoria),
secondo il quale l'arte è un fiume incontaminato che ad un certo
punto del suo percorso si sviluppa in tanti piccoli rigagnoli dando
vita alle sue diverse espressioni, cioè la musica, la pittura, la poesia,
il cinema, la danza e così via. Partendo da tale presupposto si
intuisce che esista un legame indissolubile tra i diversi strumenti di
comunicazione artistica, legame dovuto al fatto che l'obiettivo di
base di ciascuno di essi resta comunque quello di esprimere un
contenuto molto intimo e personale. La musica dei Timoria cerca di
rimettere insieme quei mezzi espressivi che talvolta vengono
considerati nella loro singolarità, mentre ne viene ignorata la
strettissima interconnessione.
Nei brani dei Timoria convergono gli interessi di ogni suo singolo
componente, da quelli strettamente musicali fino ad arrivare alle
preferenze poetiche, letterarie e cinematografiche. Compaiono così
citazioni di Pablo Neruda, di Dino Campana, di Lawrence
Ferlinghetti, di Italo Calvino, di Victor Hugo, di Sergio Leone, di
Alejandro Jodorowskji e così via.
La passione letteraria in modo particolare è sempre emersa nei
dischi dei Timoria, soprattutto quella nei confronti degli autori della
Beat Generation, di Hermann Hesse e dei classici della letteratura
mondiale, come Kerouac, Dostoevskji, Castaneda, Camus, i poeti
maledetti.
Alla base del background culturale dei Timoria c'è una solida
preparazione classica, a partire dal nome stesso del gruppo, di
origine greca. In passato si è assistito anche a incursioni della lingua
latina, avvenute nell'album "Ritmo e dolore" del 1991, contenente il
brano "Gloria fluxa est".
"Colori che esplodono" è considerato dal gruppo il primo album a
tutti gli effetti, ma è anche il primo lavoro in cui emerge
126
violentemente questo spiccato amore per l'interdisciplinarietà. Il
disco è un omaggio ai grandi artisti che hanno arricchito la storia
della pittura e a tutti coloro che in passato hanno evidenziato i
numerosi nessi esistenti tra essa e la musica; compaiono così
riferimenti a grandi esponenti del mondo artistico come Van Gogh,
che affermava di dipingere le note, Kandinsky, secondo il quale i
suoi quadri non erano altro che "improvvisazioni musicali",
Mussorgsky, grande compositore russo particolarmente sensibile
alla magia delle diverse arti. Sempre di questo album fa parte il
singolo "Milano (non è l'America)", arricchito dalle immagini di
Wim Wenders.
Ma il significato di "Colori che esplodono" è ancora più profondo:
la copertina ritrae un bambino, simbolo del candore e della
disillusione e quindi della speranza che, all'inizio di un nuovo
decennio (l'album uscì nel 1991), qualcosa sarebbe cambiato in
meglio; il bambino è anche colui che abbraccia, come primissimo
mezzo espressivo e comunicativo, il disegno, cioè la pittura nella
sua forma più semplice, istintiva e naturale. I testi e le musiche si
inscrivono perfettamente in questo contesto, essendo molto eterei,
delicati e poetici.
L'amore per la poesia emerge già in questo disco, contenente il
brano "Siempre nacer", liberamente ispirato all'omonimo testo di
Pablo Neruda. E' proprio questa grande passione a spingere i
Timoria a recitare poesie durante i concerti, con la convinzione che,
al giorno d'oggi, sia molto più provocatorio dal palco invitare i
giovani alla lettura piuttosto che incitarli ad una "ribellione" spesso
ingiustificata e forzata.
A partire da questo momento in poi i riferimenti poetici e letterari
diventeranno sempre più frequenti.
Nell'album successivo, "Ritmo e dolore", viene invece riadattata la
poesia di Hermann Hesse "Jugendflucht" e viene proposto un brano
ispirato al romanzo di Victor Hugo "L'uomo che ride", canzone con
la quale i Timoria parteciperanno al Festival di Sanremo, durante il
quale verrà istituito appositamente per loro il premio della critica,
previsto ancora oggi ed assegnato a chi propone un testo, una
musica o dei contenuti particolarmente originali ed innovativi.
"L'uomo che ride" narra, in modo più o meno esplicito, le vicende
di Gwynplaine, personaggio creato da Victor Hugo. Ciò che
caratterizza il protagonista del libro, e quindi della canzone, è la sua
diversità fisica, che poi lo porterà a sentirsi differente da tutti gli
altri in qualsiasi contesto; anche il suo modo di vivere l'amore,
127
nonché le sue vicende personali, si distinguono da quelle di
chiunque altro.
In Gwynplaine si possono riconoscere tutti coloro che, almeno in un
momento della loro vita, hanno percepito la sensazione di essere
"diversi", non omologati al resto della società. E forse anche i
Timoria, che in ambito musicale sono sempre stati considerati
"anomali" sia per la particolarità dei temi proposti che per la loro
estraneità alle imposizioni dello show-business, si sono
perfettamente immedesimati in tale condizione.
Riportiamo il testo e le note del brano "L'uomo che ride":
Come la gloria può uccidere un Re
e l'amore un forte uomo
l'uomo che ieri correva per te puoi dimenticarlo ormai.
Non tornerà mai più
l'ho visto andare via
nessuno sa perché
non tornerà mai più.
Han bevuto il suo bicchiere
raccontava un vecchio ieri
il suo orgoglio l'ha guidato per avere dignità.
Non tornerà mai più
l'ho visto andare via
nessuno sa perché
non tornerà mai più.
Ricordati di me
sono l'uomo che ride
tiepide lacrime le nasconde il mio viso
perdonami se puoi per averti amato
se un giorno tornerò sarà solo per te.
Ricordati di me
quando volerai in alto
il resto è merda sai.
E se qualcuno parlando di lui
e del suo eterno sorriso
tu non scordare che dentro di sé
c'era un forte uomo sai.
128
La diversità, intesa in tutte le sue forme, ha sempre colpito i
Timoria e ne ha influenzato le letture; a prescindere dai gusti
assolutamente personali e quindi dalle correnti letterarie amate da
ogni suo singolo componente, il gruppo ha sempre cercato di
concentrarsi su quei personaggi che destavano stupore a causa del
loro essere al di fuori della massa, all'esterno di una società che
condanna tutto ciò che ad essa non si adegua. Nasce in questo modo
anche il testo di "Boccadoro", brano contenuto nel disco del '95
"2020 speedball" e ispirato all'opera di Hermann Hesse "Narciso e
Boccadoro":
Uomo
corri più che puoi,
i gendarmi stan cercando te.
Ora
non temere che
verdi valli e prati rivedrai.
Corri come il vento
corri vagabondo via.
Uomo
forte e giovane
a quante donne hai sorriso già.
Ridi
non aver paura
il castello è lontano ormai.
Bacia il tuo destriero, ridi Boccadoro che
la foresta è tua.
Forse lei dorme già
nella notte pregherà per te
ma tu non piangere.
Ridono spiriti
le anime del bosco sanno che
si scorderà di te.
Non sai dove il viaggio porterà
questo è il tuo destino
non sarai più uomo ma
figlio tornerai.
129
Il desiderio di contaminare la propria musica con quella di altri
grandi esponenti appartenenti ai campi più disparati ha spinto il
gruppo a cercare collaborazioni con artisti come Marco Lodola,
famoso in tutto il mondo per i suoi originali lavori realizzati con
materiali poveri quali perspex e anamel, e Aldo Busi, creatore del
testo del brano "L'amore è un drago dormiente" contenuto in
"Timoria 1999" e musicato da Omar Pedrini.
Un altro campo che ha sempre attirato l'interesse dei Timoria è
quello cinematografico.
Nonostante sia ovviamente impossibile stabilire una gerarchia tra le
differenti espressioni artistiche, la poesia viene vista dal gruppo
come l'arte più efficace, quella più immediata ma anche la più
povera in quanto per essere realizzata necessita di pochi strumenti;
il cinema invece, essendo in grado di racchiudere tutte le altre,
viene considerata l'arte più completa.
Questa passione esplose già ai tempi di "Viaggio senza vento",
primo concept album e quindi primo lavoro che implica una
scenografia, che ha un filo conduttore; quest'album, prodotto dai
Timoria, può essere quindi paragonato ad un film, avendo esso una
trama ben definita, un protagonista e un'ambientazione più o meno
reale. Tale scia verrà poi ripresa nei dischi successivi, soprattutto in
"2020 speedball" e "El topo grand hotel", anche se l'album che
rappresenta a pieno titolo l'avvicinamento del gruppo al mezzo
cinematografico è "Un Aldo qualunque sul treno magico", uscito
nell'aprile del 2002 come colonna sonora del film di Dario
Migliardi "Un Aldo qualunque".
Le musiche e i testi delle canzoni rispecchiano quella che è
l'atmosfera descritta nella pellicola, ambientata nella Torino degli
anni '70. Il suono deve molto a gruppi storici di quegli anni, e non è
un caso che proprio in quest'album venga ripreso un concetto al
quale tre decenni fa si era molto affezionati, quello del "magic bus",
introdotto dagli Who e poi divenuto il simbolo di un'epoca.
130
"Partirò restando qui…"
Febbre" (El topo grand hotel, 2001)
" Hai attraversato cento nuove città,
tra poco il viaggio dolce meta sarà…"
"Il mercante dei sogni" (Viaggio senza vento, 1993)
8.4 Il viaggio filosofico e spirituale
La vita dell'uomo è un continuo viaggio, costellato da una serie di
difficoltà, ma anche da soddisfazioni che danno la forza ed il
coraggio di andare avanti e di continuare a sperare: questo sembra
essere il messaggio che i Timoria da sempre hanno cercato di
trasmettere.
Il tema del viaggio, non un viaggio materiale ma interiore e
filosofico, è presente in modo più pregnante in due dischi , "Viaggio
senza vento" del 1993 e "El topo grand hotel" del 2001. Si tratta di
due album, ispirati ai concept degli anni '70, protagonista del quale
è Joe, guerriero alla ricerca di sé stesso, nonché alter ego di Omar
Pedrini.
"Viaggio senza vento" illustra quello che è il percorso del suo
protagonista che, dopo il suo arresto e la sua fuga, riuscirà a
riscoprirsi, non senza conoscere anche l'amore; il malessere che lo
accompagna è lo stesso che affligge tutta la generazione senza
vento, è un malessere che lo spinge a fuggire dalla quotidianità e
dalla sua superficialità e andare alla ricerca di una realtà suprema,
dell'Om, della perfezione.
Il tragitto di Joe è dunque un tragitto spirituale, un viaggio che può
essere realizzato anche da fermi e che va oltre qualsiasi concezione
e restrizione di tipo spazio-temporale.
I riferimenti alla filosofia orientale non sono assolutamente casuali.
Il viaggio di Joe potrebbe essere paragonato infatti al percorso di
Siddharta e non per niente l'esperienza del suo creatore, Hermann
Hesse, rispecchia in parte quelle che sono le concezioni che l'album
vuole trasmettere: l'autore tedesco ha infatti descritto l'India pur non
essendoci mai stato, l'ha descritta da un punto di vista prettamente
occidentale, ma è riuscito comunque a coglierne l'essenza. Il tipo di
viaggio di cui egli parla è soprattutto "entronautico", intimo e
spirituale. La conclusione è che la vita è un percorso che ci
arricchisce ogni giorno di più e che ci permette di ampliare il
131
bagaglio delle nostre conoscenze e delle nostre emozioni; è un
viaggio ininterrotto, senza tempo e senza età, che non ha niente a
che fare con le condizioni esterne materiali dell'ambiente in cui vive
la persona che lo compie , ma è da esso astratto.
A sintetizzare lo stato d'animo del protagonista è un brano in
particolare, "Piove", completamente incentrato sulla descrizione del
viaggio e sulle sensazioni procurate dalla pioggia e dall'insieme
degli elementi naturali che lo circondano. Questa canzone assume
una funzione decisiva in quanto descrive molto efficacemente i
paesaggi incontrati e le percezioni tattili e visive dello stesso Joe.
Ma "Piove" è fondamentale soprattutto perché l'idea della pioggia
richiama il concetto di purificazione tanto caro alla filosofia e alla
religione orientale:
Certi giorni questo viaggio
sembra non finire mai
ma se guardo alle mie spalle
non ho perso molto sai.
Non c'è tempo per pentirsi
tutto appartiene a ieri
quanti ladri, quanti amanti
tropi santi, troppi eroi.
Non si può tornare là.
Ma se guardi l'orizzonte
sei a metà del viaggio ormai
non t'importa della gente
cerchi l'immortalità.
Ad un tratto il tuono e il lampo
squarcia il cielo sopra me
tutti nelle loro tane
muore l'elettricità.
Giace inferma la città.
Mentre piove, piove
son felice perché
lava queste strade
entra dentro di me.
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E tu uomo intelligente
non puoi farci niente sai
la sua forza in un istante
può schiacciarti se vorrà.
E l'odore dell'asfalto
l'erba, i fiori, il vento che
mi vien voglia di spogliarmi
voglio che entri dentro me.
E distrugga ciò che può.
Mentre piove, piove
son felice perché
lava queste strade
entra dentro di me.
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L'album "Viaggio senza vento" è introdotto da una sorta di
"racconto" che ne riassume il contenuto e che racchiude le
tematiche trattate in ogni singola canzone. Riportiamo tale
premessa, abbinando ad ogni sua parte i brani che le corrispondono:
Dopo una notte avida di emozioni Joe
chiude gli occhi alla partita domenicale
del quartiere
vinto dal sonno e dai dubbi.
Joe
Sangue impazzito
Viene svegliato dai calci
dell'accalappiacani che lo costringe
nell'incubo di un canile-prigione
lobotomia per uniformarlo.
Lasciami in down
Il guardiano di cani
La cura giusta
Joe, trovata una pistola dai tre colpi
d'oro, uccide il suo guardiano.
Comincia così la fuga
consapevole di ciò che si lascia alle spalle.
La fuga
Verso Oriente
Da lontano il veggente segue il suo
cammino e prevede il loro incontro
grazie al quale Joe vivrà le sue visioni
e i sogni che lo aiuteranno a diventare guerriero
per conquistare la libertà totale.
Il mercante dei sogni
Il sogno
La nuova forza gli permette di ripartire
verso la città del Sole
dove conosce anche l'amore.
La città del Sole
Piove
Come serpenti in amore
Ora un desiderio più forte lo conduce
sulla via del ritorno, alla realtà
armato del suo sorriso e della sua esperienza.
Per gente degna di lui.
La città di Eva
Il guerriero
Il viaggio di Joe inizia quindi dopo la partita domenicale, che verrà
seguita da una notte di riflessione, durante la quale il protagonista
potrà confrontarsi con Dio ed affrontare così le problematiche
legate alla sua religiosità. "Sangue impazzito" descrive il rapporto
tra l'individuo e qualcosa di metafisico, in parte conosciuto e in
parte no, qualcosa che attira e spaventa, ma che risulta
indispensabile nei momenti cruciali o di sconforto. Il protagonista
della canzone è un tossicodipendente che dopo una notte tormentata
si ritrova seduto sui gradini di una chiesa, luogo da cui avrà inizio il
134
suo viaggio e presagio della spiritualità dalla quale quest'ultimo sarà
permeato:
Uomini, domenica
gente che allegra va
risveglia la città
dormono le fabbriche
in giro ancora io
vivo, non lo so…
E incontro anche te
che corri a pregare un po’ Dio
la strada la so
e penso che un tempo quel tempio era mio
e mi chiedo perché un giorno ho detto addio.
Corro via, ma non so se
fuggire o rincorrere
qualcosa, forse chi
sono qui e dentro me
sangue impazzito che
mi spinge fino a voi
correte di più
sognando un futuro così
vi guardo da qui
e penso che un tempo quel campo era mio
e mi chiedo perché un giorno ho detto addio.
135
Il viaggio di Joe terminerà con il suo ritorno al mondo dal quale è
partito, con una forza e con tante esperienze in più, ma soprattutto
con la consapevolezza di aver scoperto una parte di sé stesso.
Nonostante questo il percorso del guerriero non è ancora terminato
e verrà ripreso in un altro importante concept album, realizzato dai
Timoria nel 2001, "El topo grand hotel": Joe questa volta andrà
verso un nuovo mondo, conoscerà nuove città, nuovi continenti,
nuovi pianeti.
"El topo grand hotel" è il resoconto di un sogno allucinatorio, che
vede Joe prima a Roma, poi ad Amsterdam, infine in Messico. Il
percorso che lo porterà fino ad Europa 3, meta tanto agognata, è
denso di incontri interessanti (Castaneda, i Velvet Underground di
Nico, Lawrence Ferlinghetti, Ugo Tognazzi, i Doors di Jim
Morrison, Vincent Gallo, Mork) e gli consentirà di visitare luoghi
geografici realmente esistenti ma anche luoghi interiori, nuovi
mondi. Il suo percorso, anche questa volta soprattutto spirituale, gli
permetterà di volare, di trasformarsi da serpente ad aquila e di
conquistare così la propria libertà, ma anche la capacità di schivare
la tendenza alla superficialità e all'omologazione presente nella
società.
L'amore per le contaminazioni esplode in questo ricchissimo album,
nel quale i Timoria collaborano con Eddie Henderson, che suona la
tromba in "Vincent Gallo blues", con James Thompson, cori e wha
wha sax in "Joe", con gli Articolo 31 in "Mexico". Inoltre nel disco
sono contenuti il reading, da parte dello stesso Ferlinghetti, di un
suo brano tratto da "What is poetry?" e quello di un brano di
Alejandro Jodorowskji, tratto da "No basta decir". Lo stesso titolo
dell'album è ispirato al film del regista "La talpa", ambientato negli
anni '70.
"El topo grand hotel" è il manifesto di quel simbolismo che da
sempre ha caratterizzato la produzione artistica del gruppo; in
questo disco convergono i vari interessi di ogni singolo
componente, da quelli letterari quindi a quelli cinematografici, da
Ferlinghetti a Jodorowskji.
L'atmosfera evocata dai suoni e dai testi delle canzoni è
assolutamente onirica; il tema del sogno quindi, molto caro ai
Timoria e già presente in "Viaggio senza vento", viene ripreso e
arricchito dalla magia di Jodorowskji, grande regista ma anche
attento studioso delle credenze, dei rituali, della simbologia onirica
comune a tutte le popolazioni del mondo.
136
Questo album vede Joe rimettersi in cammino, questa volta molto
più irritato dalla leggerezza e dalla falsità che lo circondano,
talmente sofferente da decidere di ripartire, cosciente però anche del
fatto che il suo sarà un viaggio senza ritorno che gli permetterà di
scoprire una nuova realtà in cui il tempo acquisterà una certa
relatività e il passato, il presente o il futuro diventeranno concetti
assolutamente effimeri. Meta di questo viaggio sarà questa volta un
pianeta lontano, Europa 3, sul quale verrà guidato dall'alieno Mork.
Anche in questo caso la presenza dell'alieno all'interno dell'album
non è per niente casuale: egli rappresenta tutte le cose che l'uomo
non potrà mai sapere, è il simbolo del dubbio più grande,
l'interrogativo che da sempre tormenta l'animo umano, quello cioè
legato ad una ipotetica vita ultraterrena. In "El topo grand hotel"
vengono così riproposti la tematica religiosa e quella legata
all'esistenza e alla caducità delle cose.
Sarà proprio Mork a guidare Joe sul pianeta Europa 3 in cerca di un
mondo migliore e alla conquista della propria libertà.
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"Quel vecchio che sputa rabbia e verità non è pazzo,
ma è il tempo reale. Dice che qui moriremo di schiavitù
in velocità artificiale".
"Speedball" (2020 speedball, 1995)
8.5 La critica al virtuale
"2020 speedball" viene pubblicato a due anni di distanza da
"Viaggio senza vento" e rappresenta, rispetto a quest'ultimo, un
passo in avanti, nonostante l'impostazione sia decisamente molto
più critica e molto più legata a quelli che sono i problemi che
affliggono la società di oggi. In "2020 speedball" il guerriero, dopo
essersi purificato tramite il viaggio in Oriente, è pronto a guardare
al futuro; riesce così a intravedere anche i pericoli ai quali l'uomo
sta andando incontro, tra i quali quelli legati all'uso indiscriminato
dei nuovi mezzi tecnologici.
Il 1995, anno in cui quest'album verrà pubblicato, è un anno molto
confuso in quanto il "virtuale" (termine del quale allora non si
conosceva esattamente il significato) era ancora un'incognita, un
mondo da scoprire ma anche un'arma pericolosa se usata in modo
inadeguato. I Timoria con questo lavoro hanno voluto sottolineare
proprio tale duplice natura: da una parte i vantaggi che i moderni
strumenti tecnologici potrebbero procurare se utilizzati con
intelligenza, dall'altra il pericolo che essi rappresentano, pericolo di
astrazione dalla realtà alla quale apparteniamo. Ciò che quest'album
esprime maggiormente è proprio la paura che l'immersione in una
realtà virtuale possa comportare la perdita totale del senso del vero,
perdita che non necessariamente si dovrà verificare, ma che
comunque rappresenta un'eventualità nel caso in cui i moderni
strumenti tecnologici venissero usati senza nessuna conoscenza di
base.
"2020 speedball" non condanna dunque coloro che aprono la loro
mente alla nuova tecnologia; esso è piuttosto una critica all'abuso, e
non all'uso, del computer e di Internet in particolare.
Ancora oggi questo album risulta più attuale che mai, basti pensare
a quella parte dei ragazzi che familiarizzano con il computer prima
ancora che con i mezzi di comunicazione più tradizionali. In questo
senso "2020 speedball" non ha fatto altro che presagire una
ipotetica situazione futura.
138
Il titolo del disco è particolarmente significativo. L'anno a cui si
allude rappresenta una data relativamente lontana, un periodo in cui
la velocità, la simulazione e l'astrazione tipici del virtuale
potrebbero impossessarsi di ogni cosa; il termine "speedball" invece
si riferisce al fatto che molti strumenti offerti dall'alta tecnologia
potrebbero con una facilità estrema trasformarsi in droghe
potentissime. L'interrogativo posto dai Timoria è quindi il seguente:
quali saranno le droghe del futuro? Cosa ci aspetta?
Anche in questo caso riportiamo la premessa dei Timoria al disco,
affiancata dai brani che corrispondono ad ogni sua parte:
2020:
hai mai provato a fare l'amore con un cyberpirata
incontrato in autostop
2020
su un'autostrada informatica?
2020:
i governi, oggi proibizionisti,
combatteranno le droghe virtuali?
Sarà così pericoloso
lo sballo del futuro?
2020:
la società ha sempre più bisogno
di predicatori. Li avrai,
naturalmente a casa tua,
sul tuo canale preferito.
2020:
cerchiamo l'astronauta che guiderà
la missione Europa III
in cerca di nuovi pianeti da colonizzare.
2020:
sarai capace di conservare
l'amore per la terra e per i suoi doni?
Avrai tempo,
"piccolo punto veloce",
di amare te stesso con le tue imperfezioni?
Buon viaggio, uomo.
Speedball
Dancin' queen
Week-end
Mi manca l'aria
Guru
Europa III
Boccadoro
Fino in fondo
Come possiamo vedere, in questo disco confluisce da un lato il
desiderio di mettere in guardia l'ascoltatore da quelli che potrebbero
essere gli effetti indesiderati causati dall'abuso dei moderni mezzi di
comunicazione, da un altro la volontà di sottolineare l'importanza
139
ed il valore delle cose vere, della loro fisicità e concretezza.
L'ultimo brano dell'album non per niente è intitolato "Fino in
fondo" ed è un invito ad abbracciare la genuinità della vita.
Le conclusioni che potremmo addurre sono quindi le seguenti:
l'uomo da sempre, ad un certo punto della sua vita, si è dovuto
confrontare con l'ignoto, con qualcosa di cui fino a quel momento
non aveva neanche immaginato l'esistenza; la sua saggezza consiste
nel cercare di capirne il funzionamento e nel non abusare di questa
sua nuova conoscenza.
"Speedball" è il brano in cui l'atteggiamento allarmistico e il timore
del vuoto e del superficiale sono più evidenti:
Se finirò un altro giorno seduto qui
a impazzire di televisione
muore così la speranza voce di chi
non si arrende mai: rivoluzione.
Vivere,
morire in fretta,
datemi
la via d'uscita.
Speed-Speedball
corri veloce
speedball.
Quel vecchio che sputa rabbia e verità
non è pazzo, ma è il tempo reale,
dice che qui moriremo di schiavitù
in velocità artificiale.
Soffoca
il mio pianeta
guidano
la nostra vita.
Speed-speedball
voglio sognare
speedball.
Speed-speedball
Sei tu il futuro?
140
Ma, in questo album, viene espressa anche l'esigenza di fuggire da
un mondo falso e "alleggerito" dalle cose vere. E dove si può
scappare se non il più lontano possibile, in un'altra dimensione, su
un altro pianeta? Tale pianeta è Europa III, simbolo della salvezza
dell'uomo, ma anche della sua sofferenza, in quanto ogni partenza
prevede anche l'abbandono di cose e persone amate:
Partirà nella notte qui
l'han chiamata Europa III
nello spazio infinito che
fa sentire vicino a Dio.
Cercherò il futuro là
nasceranno altre civiltà.
Certo che mi mancherà
questa vecchia gente che
mi saluta, spera solo in me
che ho paura da nascondere.
Su una stella nuova per
ritrovare quello che
qui non c'è.
Mai più vita
mai più amore.
141
Conclusioni
A partire dal 1200, periodo in cui il genere della chanson si affermò
in Francia, il rapporto tra musica e testo si è modificato
continuamente.
Se durante il XII e il XIII secolo tale relazione è stata arricchita
dalla produzione di trovatori e trovieri, considerati in assoluto i
primi poeti-musicisti in volgare, dal 1400 in poi il legame esistente
tra suono e parola si è indebolito sempre più, questo soprattutto a
causa dell’avvento delle canzoni polifoniche, di canzoni cioè che
tendevano a rendere il testo incomprensibile, in quanto sommerso
dalla grandiosità delle musiche. E anche in epoca rinascimentale la
polifonia, pur essendo strumentale più che vocale, continuava a far
da padrona.
Durante il 1700 ed il 1800 la musica e il testo, intesi come strumenti
espressivi e comunicativi, si incamminarono in direzioni totalmente
diverse, a causa dello sviluppo dell’orchestra e dell’attenzione posta
sulle questioni più prettamente tecniche.
In questi anni il rapporto tra musica e poesia era sicuramente molto
forte in ambito melodrammatico, ma spesso il testo, per adeguarsi
alle esigenze strettamente musicali, veniva svalutato ed impoverito.
Nonostante ciò in tutti questi secoli è stato impossibile rompere
definitivamente un rapporto, quello tra suono e parola, che per sua
natura non può essere spezzato, essendo questi due elementi nati
per essere affiancati. Collaborazioni relativamente recenti, come
quelle tra Debussy e D’Annunzio o Debussy e Mallarmé, ci
dimostrano che tale relazione è più viva e passionale che mai.
Oggi il rapporto tra musica e testo è in certi casi molto profondo.
Nel caso specifico dei Timoria la musica viene composta a partire
dal testo e non viceversa ed ha come funzione quella di valorizzarne
il contenuto, anche se in realtà musica e testo si completano a
vicenda.
Le conclusioni a cui sono giunta, grazie all’analisi storica del
genere della canzone ed alla preziosissima conversazione con
Enrico Ghedi, componente storico dei Timoria, è che è forse
impossibile cercare di stabilire se gli elementi testuali debbano
prevalere su quelli musicali o viceversa; infatti quando un testo ed
una musica di alta qualità si incontrano, è per dar vita ad un nuovo
“prodotto”, ricco in quanto frutto di differenti spunti artistici, ma
ormai inscindibile nella sua unità e compattezza.
142
Bibliografia
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Versi rock
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Storia della canzone italiana
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Nuovo? Rock?! Italiano!
Giunti, Firenze, 1995
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Parole in musica. Lingua e poesia nella canzone d’autore italiana
Interlinea, Novara, 1996
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Musica e mito in Luciano Sampaoli
Il Cerchio, Rimini, 1998
-Gallotta Bruno
Manuale di poesia e musica
Rugginenti, Milano, 2001
-Jachia Paolo
Storia della canzone italiana 1958-1997
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La grammatica della musica
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-Karolyi Otto
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Il tempo tra poesia e musica
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Torre delle ore
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Breve storia della musica
Einaudi, Torino, 1963
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-Pasolini Pier Paolo
La poesia popolare italiana
Milano, 1960
-Salvatore Gianfranco
Mogol-Battisti. L’alchimia del verso cantato
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La Divina Commedia
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Getar Edizioni musicali, Milano, 1995
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Carisch, Milano, 1992
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145
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