Søren Kierkegaard (1813 – 1855)
Opere più significative: Aut-Aut (1843); Timore e tremore (1843); Il concetto dell’angoscia (1844); Briciole di
filosofia (1844); Postilla conclusiva non scientifica (1846); La malattia mortale (1849); l’esercizio del
cristianesimo (1850); Discorsi edificanti (1851-52, l’unica firmata con il vero nome, le altre con pseudonimi).
La centralità dell’esistenza e la critica alla filosofia sistematica
La filosofia di K. muove da una radicale critica a Hegel e più in generale all’Idealismo. Il limite del sistema
hegeliano è quello di trascurare l’esistenza concreta dell’individuo. Per Hegel, infatti, l’uomo non è altro che
un “anello” necessario del divenire dello Spirito, cioè un momento dello sviluppo della razionalità nel
mondo e del ritorno dello Spirito a sé. Per K., invece, la filosofia deve adottare il punto di vista del singolo
ed assumerlo come proprio oggetto; solo a partire dal singolo come categoria la realtà può essere
interpretata. Detto in altri termini, il pensiero oggettivo (così K. chiama la dialettica hegeliana) deve essere
sostituito con il pensiero soggettivo, ovvero la riflessione sull’esistenza. Al contrario del pensiero oggettivo,
che supera le contraddizioni per mezzo della sintesi, il pensiero soggettivo tiene conto della complessità
dell’esistenza e delle contraddizioni che ne fanno parte.
Dire che l’esistenza dell’uomo è fatta di contraddizioni significa dire che l’uomo nella sua vita concreta si
trova di fronte ad alternative inconciliabili (aut-aut) che impongono una scelta radicale. La vita dell’uomo è
possibilità, la quale implica la responsabilità della scelta. La filosofia è lo sforzo di chiarire le possibilità
fondamentali che si offrono all’uomo, ovvero quegli stadi (o meglio stati) della vita che costituiscono le
alternative fondamentali dell’esistenza, tra le quali l’individuo è chiamato a scegliere.
“… il linguaggio dell’astrazione non lascia veramente apparire la difficoltà dell’esistente e dell’esistenza…”
“Stiamo in guardia contro i pensatori astratti che vogliono confinarsi unicamente nell’essere puro
dell’astrazione…”
“… pensare astrattamente è molto più facile che non esistere…”
“Esistere, si pensa di solito, non è una cosa speciale, né tanto meno un’arte: esistere è di tutti, non è vero?.
Mentre pensare astrattamente è privilegio raro! Ma esistere in verità, quindi penetrare con la coscienza la
propria esistenza… questa sì che è una cosa veramente ardua”
(Postilla conclusiva non scientifica)
La filosofia è dunque ricerca interiore o analisi di sé, dalla quale emerge la consapevolezza che vi sono tre
stadi o fasi che rappresentano le possibilità esistenziali dell’uomo nel mondo: lo stadio estetico, quello
etico e quello religioso. Essi costituiscono delle alternative inconciliabili. Possono essere concepiti sia come
stati dell’esistenza, cioè modi d’essere che permangono per tutta la vita dell’individuo, ma anche come
stadi, cioè momenti successivi nella vita del singolo.
In Aut-Aut, sono descritti i primi due stadi. Aut-aut (Enten-Eller nel titolo originale) è firmata con lo
pseudonimo Victor Eremita: nella finzione costui ha trovato per caso, in uno scomparto segreto di un
secrétaire, due pacchi di carte, che chiamerà “carte di A” e “carte di B”. Il primo gruppo contiene scritti di
estetica (tra cui un saggio sul Don Giovanni di Mozart e un diario intitolato Diario di un seduttore); il
secondo invece comprende due saggio di argomento etico.
La scelta della vita estetica
La vita estetica è propria dell’uomo che vive nell’istante e nella ricerca continua del piacere, ovvero di ciò
che è bello e attraente, rifuggendo tutto ciò che appare noioso, ripetitivo, monotono. L’esteta è quindi colui
che non sceglie, che rifiuta di assumere ruoli e responsabilità sociali, che passa di esperienza in
esperienza, senza mai, quindi, definirsi come identità (non costruisce il proprio io, è privo di continuità e
durata).
Per spiegare il suo pensiero K. descrive delle figure concrete di uomini che vivono la propria vita
esclusivamente sul piano estetico, come quelle di Johannes, il protagonista del Diario di un seduttore, e
Don Giovanni, il personaggio del melodramma mozartiano. Mentre quest’ultimo è l’incarnazione della
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sensualità allo stato puro, colui che gode del piacere fisico, del possesso e della conquista materiale delle
donne, Johannes è il seduttore intellettuale, che vuole godere “spiritualmente” dei momenti in cui la sua
partner cede e si abbandona all’amore. Il seduttore intellettuale tende a soggiogare la propria “vittima” con
il fascino esercitato dalla cultura e un accorto uso delle parole. Innamorato delle sensazioni e delle
emozioni, Johannes lascia cadere il rapporto quando la ragazza si è perdutamente innamorata di lui, perché
il suo scopo non è l’amore per una persona, ma l’innamoramento in generale, le sensazioni che dà, il
vivere nel momento. Giovanni (Johannes) e Cordelia (la ragazza sedicenne che viene sedotta) si incontrano
casualmente per strada e la loro relazione nasce da poche parole e sguardi. Poi gli incontri casuali si
ripetono, fino a giungere a una conoscenza diretta, grazie all’amicizia che Giovanni stringe con il fidanzato
di Cordelia. Il racconto illustra i progressi della seduzione, i gesti compiuti per suscitare specifiche reazioni,
gli stati d’animo. Dopo un lungo corteggiamento, Giovanni riesce a far innamorare perdutamente di sé
Cordelia e a possederla per una notte. A questo punto il suo interesse e il suo amore vengono meno. “Bello
è l’amore solo finché duran contrasto e desiderio, dopo tutto diviene abitudine e debolezza. Ed ora del mio
amore con Cordelia non voglio più neppure il ricordo”.
“Com’è bello essere innamorati, e com’è interessante sapere d’esserlo!... Io potrei impazzire al pensiero
che per la seconda volta ella m’è sfuggita, e tuttavia in un certo senso un tal pensiero mi rallegra.
L’immagine che serbo di lei oscilla vagamente tra la sua figura vera e quella ideale… il suo fascino consiste
nella possibilità che essa ha di essere la realtà stessa”.
Johannes supera la realtà con l’immaginazione. Ciò che gli dà diletto non è l’atto con cui consuma il piacere
sensuale, ma la prefigurazione, l’anticipazione mentale dei momenti in cui le difese della fanciulla
cadranno. A quel punto egli abbandonerà la ragazza, in cerca di altre esperienze. Nel momento iniziale della
seduzione vi deve essere il fascino dell’incertezza del gioco, in cui tutte le possibilità sono aperte, in questa
fase la figura dell’amata oscilla tra il reale e l’ideale, in quanto la sua immagine concreta è come arricchita e
rivestita dalle aspettative e dalle fantasie dell’amante, ed è in questo che risiede il vero piacere del
seduttore. L’occasione dell’innamoramento è un dato straordinario ma non sufficiente: l’amore deve essere
alimentato con cura dal seduttore, che non ha merito nel trovare la preda, bensì nel custodire e nutrire la
sua figura amplificandone il desiderio con il pensiero. Gli strumenti di cui si serve il seduttore per rafforzare
ed enfatizzare l’emozione dell’innamoramento sono la fantasia, il ricordo, l’anticipazione.
Al contrario di Johannes, il Don Giovanni mozartiano non è un vero seduttore. “Per essere un seduttore
occorre sempre una certa riflessione e una certa coscienza, e solo quando son presenti, può essere
opportuno parlare di astuzie, artifizi e raggiri. A Don Giovanni questa coscienza manca. Perciò non seduce.
Egli desidera, e questo desiderio ha un effetto seduttore… Gode il soddisfacimento del desiderio; non
appena l’ha goduto, cerca un altro oggetto, e così all’infinito… si tratta di una specie di Nemesi… Per essere
un vero seduttore gli manca il tempo: non ha tempo prima, per fare il suo progetto, non ha tempo dopo,
per divenire cosciente della sua azione. Un seduttore deve possedere un potere che Don Giovanni non ha…
la potenza cioè della parola… Ma qual è la forza con la quale Don Giovanni seduce? È la forza del desiderio,
del desiderio sensuale”.
Don Giovanni è l’incarnazione della pura sensualità (non a caso Don Giovanni è il personaggio di un
dramma musicale e la musica è passione senza mediazione del pensiero). Egli è spinto a conquistare non
tanto una donna singola, quanto tutte le donne come immagine simbolica della femminilità.
K. è convinto che la vita estetica sia insufficiente. Chi si dedica solo al piacere disperde la propria
personalità nelle mille esperienze, passando da una possibilità all’altra, e infine cadendo inevitabilmente
nella noia e nella disperazione (cfr. Schopenhauer).
La scelta della vita etica
La disperazione della vita estetica, porta l’uomo di fronte alla necessità della scelta. La vita estetica non è
frutto della decisione: in essa l’individuo si lascia vivere, è in balia dell’attimo. Lo stadio etico, invece, è
caratterizzato dalla scelta e dalla responsabilità.
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Vivere eticamente vuol dire essere cittadini, padri, mariti, assumere e far propri tutti quei compiti e quelle
responsabilità che fanno di noi un preciso tassello della struttura sociale, ma anche una persona
determinata, con una propria identità.
Chi vive eticamente sceglie la propria vita, afferma la propria identità (durata) nella ripetizione dei compiti.
Nell’agire etico il soggetto sottomette la propria individualità alle regole della famiglia e della società,
l’uomo sceglie se stesso come compito, rende proprio un dovere generale. L’uomo si sottopone a una
forma, si adegua all’universale e rinuncia all’eccezione.
La descrizione della vita etica è la rappresentazione del modello di vita borghese, incentrato sulle figure del
matrimonio, della famiglia e del lavoro. Come la vita estetica è incarnata dal seduttore, la vita etica è
rappresentata dalla figura del marito. Nel matrimonio viene a mancare l’eccezionalità dell’amore, quella
forma di sentimento estremo e intenso, ma l’amore acquista spessore e profondità, proprio grazie alla
normalità del dovere e dell’impegno quotidiano. Mentre nella concezione estetica dell’amore due persone
possono essere felici in forza dell’eccezionalità del loro legame, nella concezione etica del matrimonio può
raggiungere la felicità ogni coppia di sposi.
Nonostante l’apparente serenità, neppure lo stadio etico è pienamente soddisfacente, perché minacciato
dal conformismo. L’insoddisfazione torna a farsi sentire. Nella vita etica l’uomo costruisce una personalità,
una durata e quindi arriva al riconoscimento di sé. Il riconoscimento di sé porta anche al riconoscimento
della propria limitatezza e inadeguatezza (di fronte a Dio), e ciò porta a provare un sentimento di
pentimento e un oscuro senso di colpa. L’uomo etico, che si sa inadeguato di fronte a Dio, non può
accettarsi e non può rifiutarsi: l’individuo si sa finito, ma aspira all’infinito.
La scelta della vita religiosa
La vita etica conduce l’uomo a rendersi conto di quanto sia insignificante la vita ordinaria e del profondo
squilibrio tra le cose effimere, che caratterizzano la quotidianità, e la dimensione dell’eterno.
Pochi mesi dopo Aut-Aut, K. pubblica Timore e tremore (1843), in cui emerge la convinzione che il fine
ultimo dell’uomo consiste nella realizzazione della vita religiosa. Riconoscere la propria misera di fronte a
Dio prepara l’uomo per il “salto” della fede.
Il simbolo della vita religiosa è Abramo, il quale vissuto fino all’età di settant’anni nel rispetto dei propri
doveri, all’improvviso riceve da Dio l’ordine di uccidere suo figlio Isacco, in netto contrasto con ogni legge
morale e sociale. Abramo è posto di fronte all’alternativa radicale: obbedire o non obbedire al comando di
Dio, un comando incomprensibile per la ragione umana. Compiere il salto della fede significa scegliere Dio,
ma si tratta di una scelta irrazionale e assurdo, che va al di là della ragione e del senso comune. La fede è
paradosso perché è contraria all’opinione degli uomini e implica un rapporto individuale tra l’uomo e Dio.
Quando si sceglie Dio si è assolutamente soli. La fede non ammette nessuna giustificazione morale e non
concede la pace all’uomo, ma crea inquietudine in lui: essa è un salto nel buio, “paradosso e scandalo”.
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L’uomo come progettualità e possibilità
L’uomo è ex-sistenza, vale a dire un essere che può “uscire da sé”, trascendere la propria condizione e
proiettarsi nel futuro; egli è progettualità e possibilità, è quello che decide di diventare. “La possibilità è la
più pesante delle categorie” (Il concetto dell’angoscia - 1844), perché tutto è egualmente possibile: il bene
come il male. La possibilità è qualcosa di indefinito, come una vertigine del vuoto e del nulla, genera
angoscia. L’angoscia è il sentimento fondamentale dell’uomo di fronte alla propria situazione nel mondo.
A differenza di altri stati, come la paura o il timore, che si generano sempre in riferimento a qualcosa di
determinato, l’angoscia non si riferisce a nulla di preciso: è il puro sentimento della possibilità, un dolore
che sembra nascere dal semplice esistere (vedi Munch).
L’angoscia è la consapevolezza della propria infinita libertà, è “sentimento del possibile”, tra cui anche del
peccato. Ogni scelta è irreversibile e non si iscrive in un ordine razionale, come voleva Hegel: l’individuo è
responsabile della propria determinazione, è solo di fronte alla scelta. Secondo Kierkegaard l’uomo diventa
tale, cioè individuo, quando il peccato entra nel mondo, prima l’uomo non è peccatore, perché non può
scegliere, quindi non è libero e non è individuo. In quanto è libero, l’uomo può peccare, ed è quindi preda
dell’angoscia: l’angoscia è la vertigine che ci prende guardando un abisso. La possibilità del peccato è
quanto di più terribile possa essere immaginato, eppure è indispensabile per diventare individui.
La disperazione e la fede
In La malattia mortale (1849), K. passa ad esaminare la disperazione. Mentre l’angoscia riguarda il rapporto
dell’uomo con il mondo e nasce di fronte alle infinite possibilità dell’esperienza, compresa quella del
peccato; la disperazione riguarda il rapporto dell’uomo con se stesso e nasce dal non saper accettare se
stessi in rapporto a Dio, dal prendere coscienza da un lato di essere insufficienti a se stessi, dall’altro
dall’impossibilità di andare oltre se stessi.
Dalla disperazione si esce solo tramite il salto nella fede, ovvero il riconoscimento della propria
dipendenza da Dio, l’affidarsi alla potenza da cui l’uomo stesso è posto. Ogni uomo, dal più potente della
terra allo schiavo, è solo di fronte a Dio.
Tuttavia la fede è un aiuto che non aiuta, non si configura come un cammino prestabilito, non è una
precettistica che solleva l’uomo dall’onere della scelta.
La fede è dunque paradosso e scandalo, porta l’uomo al di là della ragione e della comprensione. Tutte le
categorie del pensiero religioso sono impensabili: come la trascendenza di Dio, il peccato, e soprattutto
l’idea di un Dio che si fa carne e muore per l’uomo. Ma in definitiva la fede è il capovolgimento paradossale
dell’esistenza, di fronte all’instabilità radicale dell’esistenza, la fede si appella alla stabilità del principio di
ogni possibilità.
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Kierkegaard e Munch
Il pittore norvegese Edvard Munch (1863-1944) è profondamente ispirato dalla filosofia esistenzialistica di
Kierkegaard. Emblematico è il fatto che la ricerca filosofica dell’uno e la creazione artistica dell’altro sono
entrambe la risposta a un’esistenza dolorosa, vissuta come segno misterioso di un tragico destino. K. nelle
pagine del suo Diario parla di un “grande terremoto” che sconvolse la sua esistenza e di un “castigo di Dio”
abbattutosi sulla sua anima; Munch a sua volta scrive: “La mia arte ha le sue radici nelle riflessioni sul
perché non sono uguale agli altri, sul perché ci fu una maledizione sulla mia culla, sul perché sono stato
gettato nel mondo senza poter scegliere”. Oltre a ciò, emergono molte assonanze tra i temi dell’angoscia e
della disperazione come sono trattati da K. e le opere di Munch.
Lo smarrimento di fronte al mondo
I cromatismi violenti e le linee sinuose e dense di questo quadro, intitolato
Angoscia (1894) esprimono lo stesso tono emotivo delle pagine di K.: “La mia
anima è così pesante che nessun pensiero è capace di portarla, nessun colpo
d’ala può sollevarla verso l’etere. Se essa si muove, non riesce che a sfiorare la
terra, come il volo basso degli uccelli quando minaccia l’uragano. Sulla mia
anima incombe un’oppressione greve, un’angoscia che fa presentire il
terremoto” (da Aut-Aut).
I volti lividi raffigurati da Munch esprimono instabilità, smarrimento, dubbio di
fronte al mondo. Questo stato d’animo non ha niente a che vedere con la
paura, la quale si riferisce piuttosto a qualcosa di determinato e puntuale.
L’angoscia è sofferenza non tanto per ciò che accade, quanto per qualcosa che
può accadere, è vertigine per quella dimensione della possibilità che
caratterizza l’essere umano. E non è un caso che l’angoscia di Munch sia un
sentimento in un certo senso “collettivo”, che accomuna un corteo di
personaggi dagli sguardi fissi e allucinati.
Il vuoto interiore
Questo quadro si intitola Disperazione (1892). La scena è dominata da un
individuo solitario, dal profilo indefinito, come dissolto e diluito sulla tela a
sottolineare la preponderanza del contenuto interiore su quello esteriore. La
disperazione è infatti un’angoscia “interna” all’anima, cioè un’angoscia
individuale, psicologica: per questo le altre persone sono ritratte sullo sfondo,
lontane e di spalle, nella loro indifferenza.
Anche per K. la disperazione riguarda la relazione dell’uomo con se stesso.
Essa è “malattia mortale”, che consiste nel “vivere la morte dell’io”, il quale,
nel tentativo di essere autonomamente e autenticamente se stesso, si scopre
inevitabilmente prigioniero della propria finitezza e non autosufficienza.
L’urlo della disperazione
L’Urlo (1893) richiama la situazione solitaria e intimistica di Disperazione. Anche
nell’Urlo, infatti, non c’è nulla di esterno che sembri indurre il protagonista
della scena a urlare. La “vittima” della disperazione è presa da un terrore che
lo assale da dentro e che si esprime nell’ossimoro di un urlo “muto”, perso e
inutile in una realtà lontana (rappresentata dai viandanti sullo sfondo, dal
fiordo con le due barche e dal campanile che si intravede sulla destra). Le mani
premute sulle orecchie e il lungo steccato che percorre la tela, quasi a
delineare il confine invalicabile tra l’individuo e il mondo, danno l’idea di un
movimento interiore a cui non è concesso di esprimersi al di là dei confini
dell’anima.
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