Renzo Carriero BAMBINI Contributi alla sociologia dell'infanzia Prefazione di Maria Carmen Belloni Copyright © MMIX ARACNE editrice S.r.l. www.aracneeditrice.it [email protected] via Raffaele Garofalo, 133 A/B 00173 Roma (06) 93781065 ISBN 978–88–548–2931–2 I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento anche parziale, con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi. Non sono assolutamente consentite le fotocopie senza il permesso scritto dell’Editore. I edizione: dicembre 2009 Indice 7 Prefazione 13 Introduzione 17 Capitolo I Un nuovo paradigma sociologico per l’infanzia 1.1. La sociologia e l’infanzia, 17 – 1.2. La vita quotidiana dei bambini, 28 – 1.3. Uno sguardo sull’infanzia alla luce dei risultati di ricerca, 32 41 Capitolo II Le attività dei bambini 2.1. La ricerca sull’uso del tempo, 41 – 2.2. Le attività dei bambini, 51 – 2.3. Il tempo dopo la scuola: le attività strutturate, 63 – 2.4. Il tempo del gioco: problemi definitori, 70 – 2.5. La fruizione televisiva e il capitale culturale dei genitori, 76 – 2.6. La socializzazione ai ruoli di genere, 86 95 Capitolo III I luoghi dei bambini 3.1. Geografia dei luoghi frequentati, 95 – 3.2. Modelli di frequentazione dei luoghi, 98 – 3.3. Sintesi, 115 5 6 119 Indice Capitolo IV Trasformazioni dell’infanzia: Torino 1979-2003 4.1. Infanzia e mutamento sociale, 119 – 4.2. Torino 1979-2003: base empirica e armonizzazione dati, 123 – 4.3. Cambiamenti nel contesto familiare dei bambini, 127 – 4.4. Tendenze nell’uso del tempo dei bambini, 129 – 4.5. Tendenze delle differenze di genere, 138 – 4.6. Alcuni approfondimenti, 143 – 4.7. Sintesi e conclusioni, 152 157 Capitolo V La vita quotidiana dei bambini in Italia 5.1. Rilevanza sociologica della vita quotidiana dei bambini, 157 – 5.2. L’uso del tempo dei bambini: fattori di variabilità, 161 – 5.3. Riflessioni sulle indagini di uso del tempo per lo studio dell’infanzia, 185 195 Bibliografia Prefazione Fino a non molti anni fa realizzare, in Italia, una ricerca sociologica sull’infanzia poteva far credere di uscire dal campo specifico della sociologia, essendo il bambino considerato oggetto di studio piuttosto in discipline specializzate quali la pedagogia e la psicologia. Per un lungo periodo, infatti, l’interesse per questa fascia di popolazione ha continuato a rispecchiare l’approccio, di derivazione parsonsiana, orientato soprattutto ai processi di socializzazione che ciascuna società realizza al fine di trasformare un essere ancora incompleto in un soggetto pienamente appartenente ad essa. In realtà, mi piace ricordare come già negli anni ’70, all’interno di una riflessione critica sulla famiglia e in particolare sulla famiglia borghese - che si stava sviluppando proprio in quegli anni, Chiara Saraceno (in un saggio dal titolo significativo di “Alla scoperta dell’infanzia”) metteva in discussione il «bambino in sé” ipostatizzato dalla pedagogia e dalla psicologia come essere “extraeconomico ed apolitico … separato dal mondo degli adulti», per proporre invece una definizione dell’infanzia moderna come l’effetto dell’affermazione di un processo di privatizzazione che ne ha sancito l’istituzionalizzazione e si caratterizza come una costruzione della società adulta. Sarebbe interessante analizzare come, nel corso degli anni, su questo tema si siano registrati esiti diversi in campo sociologico. Nei paesi dell’Europa centrale e soprattutto del Nord la ricerca e la riflessione sull’infanzia si sono mantenute e in qualche misura ampliate (pur rappresentando tuttavia un filone abbastanza minoritario), mentre in Italia no, fino alla timida (quantomeno in sociologia) “riscoperta” degli ultimi anni. Provo ad azzardare una spiegazione, che potrebbe ricolle7 8 Prefazione garsi alla diversa impostazione dei modelli di welfare. In un caso il riconoscimento dell’importanza, da parte delle politiche pubbliche, del nucleo familiare e del benessere degli individui al suo interno ha probabilmente favorito l’affermazione della “visibilità” del bambino come soggetto sociale, la sua piena appartenenza alla collettività nelle diverse fasi della sua vita. L’infanzia ha potuto così più facilmente essere considerata una struttura sociale permanente in cui ciascuna generazione entra ed esce e che merita pertanto un’attenzione specifica di studio. Nell’altro caso un sistema di welfare scarsamente orientato al sostegno alle famiglie ha contribuito a “far sparire” il bambino, assorbito all’interno del nucleo familiare, che ne viene considerato il principale responsabile al fine della sua immissione nella vita adulta (il momento della raggiunta maturità sociale) e sostanzialmente il titolare e garante della sua integrità (si pensi, ad esempio, alla sussistenza del principio della patria potestà). Il proseguire dell’analisi sull’infanzia come struttura sociale, in particolare nei paesi del nord Europa, ha portato poi a sviluppare la riflessione su alcune caratteristiche considerate costitutive di essa nelle società occidentali ad alto sviluppo economico: da un lato la crescente istituzionalizzazione e dall’altro la progressiva perdita di autonomia dei soggetti. Il concetto di istituzionalizzazione si è tuttavia allargato rispetto alla sua prima delimitazione, che faceva capo all’analisi di Ariès sull’affermazione della famiglia borghese, che la riconduceva al processo di distinzione della sfera privata da quella pubblica. Esso si è focalizzato piuttosto, attingendo ad un’impostazione riconducibile a Foucault, sull’estensione degli ambiti di sorveglianza e di controllo resi necessari, o quantomeno considerati come tali, dalle organizzazioni quotidiane degli adulti, dalle trasformazioni urbane, dalle relazioni incerte tra le generazioni, dalle esigenze di sempre maggiore anticipazione formativa. E’ all’interno di queste considerazioni che si sviluppa la registrazione di una sostanziale perdita di autonomia dell’infanzia o, in parallelo, la scoperta della sussistenza di culture dell’infanzia che, all’interno dei contesti dati, affermano spazi di espressione del sé, dimostrando quelle caratteristiche di agency che l’approccio della psicologia evolutiva aveva negato. L’avvio tardivo alla riscoperta dell’infanzia, nella sociologia italiana, nonostante, come abbiamo visto, un precoce sguardo d’interesse Prefazione 9 rivolto ad essa, si colloca accanto a uno sviluppo di attenzione da parte di discipline che sembrerebbero meno coinvolgibili in questo tipo di studi, quale ad esempio l’economia. In realtà il percorso che porta gli economisti a questo campo di ricerca è facilmente spiegabile collegandolo alle analisi sulla famiglia condotte all’interno del filone della cosiddetta New Home Economics. E’ interessante in questo caso notare come l’emergere del bambino come soggetto di ricerca nasce dalla considerazione del “valore”, anche economico, del bambino, deducibile dal fatto che su di esso si incentrano gli investimenti della famiglia e della società nel suo complesso. E’ in quest’ottica che si possono collocare gli studi sugli outcomes relativi all’infanzia, nonché quelli sulla creazione di capitale umano, come effetti delle politiche, della collocazione sociale della famiglie e delle scelte genitoriali. Un approccio che, dall’ambito delle scienze economiche, si sta estendendo anche a quello delle scienze psicologiche. Per quanto riguarda in particolare la sociologia italiana, l’attenzione più ampia riservata all’infanzia (intesa in senso ampio, fino alla pre-adolescenza) si è sviluppata nel campo della sociologia del diritto. In essa il bambino viene collocato nella sfera dei diritti umani, in linea con l’affermazione del movimento di pensiero europeo che ha portato, dall’affermazione del dovere di salvaguardia, di tutela e di protezione nei confronti del bambino (iniziato già con la Dichiarazione di Ginevra del 1924) al riconoscimento di una vera e propria carta dei diritti del fanciullo, di cui ricorre proprio ora il ventennale, via via poi acquisiti dai vari Paesi. L’affermazione di questo campo di ricerca si spiega inoltre con la diffusione, anche in ambito sociologico, di posizioni teoriche (alla Nussbaum, ad esempio) ed etiche che affermano la inevitabilità del conferimento di rispetto nei confronti di tutti gli esseri umani in quanto persone, giungendo fino (alla Naess, ad esempio) ad estenderlo a tutti gli esseri viventi. Meno spiegabile è invece una certa sordità, riscontrabile negli studi sociologici, nei confronti dell’infanzia all’interno delle relazioni macro-micro, al centro dell’approccio della sociologia analitica. In realtà, proprio se intendiamo l’infanzia come struttura, vediamo come le trasformazioni sociali riconducibili al livello macro si traducono in profonde trasformazioni delle caratteristiche dell’infanzia. Pensiamo come processi quali ad esempio la denatalità, l’urbanizzazione diffusa, le 10 Prefazione trasformazioni del mercato del lavoro (sia con l’ingresso delle donne sia con il passaggio dal modello fordista a quello post-industriale), la diffusione della comunicazione di massa e telematica, o delle tecnologie in genere, i massicci flussi migratori e così via, si ripercuotano in trasformazioni di vario tipo riscontrabili nelle relazioni genitori-figli, nel patrimonio cognitivo acquisito, nella pratica degli spazi di vita, nelle relazioni tra pari, negli ambiti di responsabilità relativi ai bambini, tanto per fare qualche esempio. E come tutto ciò a sua volta non possa essere trascurato nell’individuazione dei meccanismi che permettono di spiegare le caratteristiche complessive delle nostre società. Possiamo quindi affermare che sembra sia ancora poco sviluppata la riflessione, proprio da parte delle correnti attualmente più interessanti della sociologia, su questo nuovo soggetto (attore?) sociale rappresentato dai bambini. Questo si accompagna ad una sostanziale scarsa conoscenza della vita quotidiana dei bambini, oggi, in un determinato contesto storico-sociale. Anche su questa base di sostanziale ignoranza si fondano le rappresentazioni veicolate dai sistemi della comunicazione di massa che, prendendo spunti da episodi più o meno diffusi o attingendo largamente al senso comune, tracciano immagini dell’infanzia semplificate e che vengono poi acquisite come reali. I saggi raccolti in questo libro forniscono un contributo d’indubbio interesse al fine di capire meglio le caratteristiche dell’infanzia e i modi di essere bambini oggi, aumentando le informazioni che possono permettere di spiegare la specifica collocazione dell’infanzia all’interno delle nostre società. I materiali qui raccolti sono frutto di ricerche finalizzate alla rilevazione di comportamenti, con tutte le caratteristiche che ne conseguono. Da un lato, come nelle indagini condotte su campioni estesi, permettono di ottenere risultati ad ampia generalizzabilità. Dall’altro, come nelle indagini che rilevano le attività svolte, non consentono di cogliere le attribuzioni di senso o le valutazioni che i soggetti accompagnano ai loro comportamenti quotidiani. Procedimenti di analisi quantitativa più complessi - come l’analisi multivariata qui spesso utilizzata – permettono tuttavia di superare il livello della descrizione elementare dei fenomeni e di cogliere invece le correlazioni esistenti, in questo caso, tra i comportamenti dei bambini e il loro contesto d’azione. Ciò che è importante sottolineare è il fatto che il quadro della quotidianità infantile così delineato non passa Prefazione 11 attraverso la ricostruzione che ne viene fatta dagli adulti, siano essi un genitore o un altro adulto (come generalmente avviene), ma si definisce direttamente in base alle indicazioni date dai bambini stessi. Si tratta, come è facile capire, di un vero e proprio capovolgimento rispetto alla maggior parte degli studi sull’infanzia, collocabile pienamente nell’ambito del paradigma che intende il bambino come soggetto sociale e che prescrive lo studio dei bambini dando voce ai bambini stessi. Prima di concludere, mi preme ancora sottolineare altri due aspetti di originalità riscontrabili nei saggi qui raccolti. Uno riguarda l’analisi della relazione del bambino con il territorio. Sappiamo, fin dagli studi di Piaget, che l’acquisizione del dominio dello spazio rappresenta un elemento importante per la possibilità di estrinsecazione della personalità e per la realizzazione dell’autonomia individuale. Verificare, attraverso la rilevazione dei luoghi praticati dai bambini, che la città è sostanzialmente preclusa alle pratiche spaziali infantili, costituisce indubbiamente non solo un elemento di riflessione sociologica, ma anche un’indicazione per il policy maker. Un altro elemento di originalità (che rappresenta un fatto più unico che raro nel panorama sociologico italiano) è costituito dal confronto tra le caratteristiche della vita quotidiana dei bambini a distanza di circa un quarto di secolo. Da essa si deducono molte informazioni interessanti, che vanno ben oltre la stretta descrizione della vita quotidiana dei bambini, e rimandano alla funzione dei servizi, in primis dell’offerta scolastica, alle organizzazioni familiari, alle relazioni e ai ruoli all’interno della famiglia, e così via. Un altro esempio, come si diceva prima, del continuo rimando tra macro e micro che ricerche di questo tipo possono permettere. Dato l’indubbio interesse che presenta questo testo per l’incremento delle conoscenze sull’infanzia, non ci rimane che sperare che l’autore delle analisi condotte sull’ampio capitale di dati di ricerca a cui i saggi qui raccolti attingono continui nel suo lavoro e nella sua riflessione, contribuendo così a rafforzare gli studi sociologici in questo campo nel nostro paese. Maria Carmen Belloni Dipartimento di Scienze Sociali Introduzione In questo libro ho cercato di fornire un contributo alla sociologia dell’infanzia attraverso varie analisi empiriche della vita quotidiana dei bambini. In sociologia i bambini raramente sono oggetto di analisi in sé, essendo solitamente considerati elementi più o meno passivi del processo di socializzazione che parte dagli adulti e si indirizza verso di loro. Alternativamente i bambini sono intesi come “fattore di rischio” per la caduta in povertà delle famiglie o per l’esclusione delle donne dal mercato del lavoro. In definitiva non vengono quasi mai studiati per ciò che essi sono e rappresentano: attori sociali, membri di una categoria sociale – l’infanzia – che esiste in ogni società, pur essendo definita in modi diversi secondo il contesto. Data questa impostazione prevalente, non sappiamo molto su come vivono i bambini, che cosa fanno, dove stanno. Da un punto di vista sociologico sono quasi invisibili. Lo sviluppo di un filone di studi noto come “Nuova Sociologia dell’Infanzia” ha dato dignità teorica al bambino quale attore sociale e all’infanzia quale parte della struttura sociale. Questo libro si pone dunque come un contributo allo studio empirico dei modi di vita dei bambini.1 Il primo capitolo traccia le coordinate generali del nuovo paradigma sociologico per lo studio dell’infanzia, attraverso il quale interpreto i principali risultati della mia ricerca che qui riassumo in maniera concisa. I due capitoli seguenti sono incentrati sull’analisi dei dati dell’indagine torinese sui bambini, condotta nella primavera 2003. Nel capitolo due traccio una panoramica generale sull’uso del tempo in1 I testi qui presentati riprendono contributi elaborati in momenti diversi, a partire dalla mia tesi di dottorato, discussa nel febbraio 2005 presso il Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università di Torino. 13 14 Introduzione fantile, cui seguono approfondimenti relativi ad attività specifiche: corsi organizzati, sport, piccoli lavori di casa, fruizione televisiva. È uno studio con finalità prevalentemente descrittivo-documentale, trattandosi della prima ricognizione della vita quotidiana dei bambini effettuata tramite la metodologia del diario. Nel terzo capitolo il centro dell’attenzione è la frequentazione dei luoghi, ricostruita a partire dall’informazione sul dove sono state effettuate le attività dei bambini. È un dato in genere scarsamente utilizzato nelle indagini di uso del tempo. Oltre alle consuete analisi descrittive ho applicato una cluster analysis per individuare pattern ricorrenti di frequentazione dei luoghi. Delineando il profilo socio-demografico dei bambini appartenenti ai vari gruppi si scoprono interessanti paralleli tra la geografia urbana e sociale dell’infanzia, aprendo la riflessione al tema della segregazione spaziale dei bambini immigrati rispetto agli italiani. Nel quarto capitolo riprendo un mio contributo uscito sui Quaderni di Sociologia, riguardante le trasformazioni dell’infanzia a Torino in un quarto di secolo.2 La possibilità di confrontare due basi dati comparabili è stata data dal recupero dei dati originali dell’indagine sull’uso del tempo condotta a Torino nel 1979. Nel campione di quella ricerca era compreso un sufficiente numero di diari dei bambini dello stesso gruppo di età dell’indagine condotta 24 anni dopo. Dopo l’armonizzazione delle categorie di attività ho potuto analizzare i principali cambiamenti intervenuti nella vita quotidiana dei bambini in un arco di tempo che comprende importanti mutamenti nella struttura socio-economica della società locale. Ho cercato quindi di svolgere un esercizio di analisi che, considerando l’infanzia un pezzo della struttura sociale, studia le trasformazioni intervenute su di essa in corrispondenza di mutamenti che hanno investito la società nel suo complesso.3 Infine nel quinto e ultimo capitolo presento i risultati delle analisi condotte sui dati dell’indagine italiana sull’uso del tempo, realizzata dall’Istat tra il 2002 e il 2003.4 È l’occasione per allargare lo sguardo 2 Il tempo dei bambini a Torino: 1979-2003, uscito sul numero 42 del 2006. I dati elementari di questa ricerca sono scaricabili dagli utenti sul sito www.torinosociallab.org che mette a disposizione varie basi dati di indagini condotte dal Dipartimento di Scienze Sociali di Torino. 4 Una prima versione di questo capitolo è apparsa nel volume a cura dell’Istat “I tempi della vita quotidiana” (2007), disponibile sul sito dell’istituto (www.istat.it). 3 Introduzione 15 da Torino a tutta l’Italia. Oltre alla possibilità di vedere come cambiano le attività dei bambini in varie parti d’Italia, c’è l’opportunità di capire come varia l’organizzazione del tempo infantile in relazione agli orari di lavoro dei genitori, grazie alla presenza di quest’ultima informazione nei dati disponibili. Inoltre è presente un’esplorazione dei principali fattori di variabilità rispetto all’allocazione del tempo nei bambini. Concludo il capitolo con alcune riflessioni sul potenziale analitico dei diari di uso del tempo per lo studio della condizione infantile e le necessarie integrazioni da effettuare per sfruttare appieno il materiale documentale sui comportamenti quotidiani, mettendo in luce alcune criticità. Capitolo I Un nuovo paradigma sociologico per l’infanzia 1.1. La sociologia e l’infanzia L’infanzia è stata tradizionalmente studiata dalle discipline filosofiche, pedagogiche e psicologiche il cui approccio è stato prevalentemente orientato allo studio del bambino come essere in divenire verso l’età adulta. I concetti fondamentali riguardanti l’infanzia secondo gli approcci tradizionali sono due: sviluppo e socializzazione. Il concetto di sviluppo è caratteristico della pedagogia e della psicologia. Implica un’idea evolutiva – cioè legata ai cambiamenti nel tempo – più o meno lineare dell’acquisizione di abilità cognitive e comportamentali (Miller, 1983). L’infanzia sarebbe uno stadio evolutivo naturale al termine del quale il soggetto ha acquisito le capacità tipiche dell’adulto: autonomia e razionalità. Piaget è il più autorevole esponente delle teorie dello sviluppo cognitivo in chiave costruttivista. Egli infatti concepisce il bambino come un essere attivo che organizza le informazioni provenienti dall’ambiente per costruire una propria interpretazione della realtà. Altri modelli di sviluppo sono stati elaborati dagli psicologi di impronta comportamentista (cfr. ad es. Bandura, 1977) e dagli psicanalisti di scuola freudiana (Erikson, 1950). I primi hanno posto l’enfasi sull’apprendimento di abilità sociali e cognitive per via di incentivi, sanzioni e processi imitativi, i secondi hanno incentrato l’attenzione sullo sviluppo psico-sessuale attraverso cui il bambino giunge a dominare gli istinti sessuali e aggressivi. 17 Capitolo I 18 È in particolare su questi ultimi due modelli di sviluppo che si sono basati i sociologi per i loro studi sulla socializzazione.1 In sociologia infatti il correlato dello sviluppo è la socializzazione, processo attraverso cui il bambino (socializzazione primaria) impara le regole dell’interazione sociale, interiorizza le norme e i valori dominanti nella società e si conforma ai ruoli adulti e di genere appropriati. La sociologia – in particolare quella funzionalista con Parsons (cfr. Parsons, 1951; Parsons e Bales, 1955) – ha rivolto lo sguardo al bambino per studiare le modalità di azione delle agenzie di socializzazione (la famiglia, la scuola, le organizzazioni ricreative ecc.). La psicologia sociale di Mead invece ha studiato il processo attraverso cui il bambino sviluppa un’identità sociale nell’interazione con gli altri significativi (adulti). Il bambino, nei modelli funzionalisti, è visto come una minaccia per l’ordine sociale, “un barbaro”, finché non impara ad essere membro disciplinato della società. È una concezione passiva dello sviluppo sociale: le istituzioni della socializzazione, votate quasi unicamente a tale compito, modellano la personalità del bambino. Il processo è a senso unico: dagli adulti verso i bambini. Le teorie riproduttive della socializzazione, come quelle di Bourdieu e Passeron (1970), vedono in questo processo un meccanismo di controllo sociale volto a mantenere inalterata la stratificazione. I bambini sono socializzati secondo modelli culturali educativi di classe che li portano, grazie all’interiorizzazione di specifici habitus di classe, ad agire e a vedere la realtà in un certo modo. Il difetto di entrambi i modelli è quello di sottostimare le capacità innovative e di adattamento creativo dei bambini che, al contrario di quanto presupposto da queste teorie, sono in grado di modificare e innovare i modelli culturali loro trasmessi (Corsaro, 1997). Vale per la socializzazione dei bambini quanto vale più in generale per la socializzazione tradizionalmente intesa come condizionamento: spiega come certi valori e modelli di comportamen1 Dubar (2004) mostra che in Piaget, oltre alla teoria dello sviluppo psicologico, c’è un approccio sociologico alla socializzazione intesa come processo discontinuo di costruzione individuale e collettiva delle condotte sociali, articolato in tre aspetti: cognitivo (riguardante le regole di condotta), affettivo (riguardante i valori) ed espressivo (riguardante i significati simbolizzati in segni). Tuttavia Piaget, contrariamente a quanto fatto per la teoria dello sviluppo psicologico, non è andato oltre la formulazione teorica e non ha fornito una traduzione operativa di questi tre processi. Sulla socializzazione cfr. anche Heinz (1998). Un nuovo paradigma sociologico per l’infanzia 19 to sono trasmessi e interiorizzati, ma non spiega adeguatamente perché vengono mantenuti o al contrario vengono cambiati dai soggetti, finendo per assumere implicitamente che le persone siano completamente assuefatte a un cultural dope (Wrong, 1961). La maggior parte dei sociologi ha quindi accolto l’idea di una sorta di divisione del lavoro tra le diverse scienze sociali, secondo la quale i bambini appartengono fondamentalmente alla sfera della psicologia, della pedagogia e della pediatria (Alanen, 1990).2 Un approccio radicalmente diverso, frutto di contributi sociologici degli ultimi vent’anni – preceduti da un importante lavoro storico (Ariès, 1960) – ha fatto emergere due filoni principali nello studio dell’infanzia, riassumibili sotto le etichette di infanzia come costruzione sociale e infanzia come componente strutturale della società (Qvortrup, 1987, 1991, 1994; Jenks, 1996; Corsaro, 1997; James, Jenks e Prout, 1998; Montandon, 1998; Sirota, 1998). Entrambi i filoni possono essere ricompresi sotto un’unica etichetta nota come New Childhood Sociology (Belloni, 2006). Il primo filone ha un’impostazione costruttivista-interpretativa e ne sono esponenti influenti Corsaro, autore di ricerche etnografiche sui bambini delle scuole dell’infanzia negli Stati Uniti e in Italia, James, Jenks e Prout, autori di ricerche in Inghilterra e teorizzatori principali di questo approccio. Non mancano le differenze tra il gruppo inglese, animato da spirito iconoclasta verso l’opera degli psicologi e pedagogisti più noti e sostenitore di un relativismo piuttosto discutibile3, e l’autore italo-americano che, viceversa, propone una lettura della 2 In queste discipline esiste anche una sorta di propensione a studiare i bambini in particolari situazioni critiche, mentre la nuova prospettiva teorica sociologica si distingue per la scelta di rendere oggetto dello studio le condizioni “normali” e comuni alla maggioranza dei bambini, senza con ciò voler sminuire la gravità delle situazioni di abuso e violenza a cui in certi casi sono sottoposti. 3 È francamente problematico sostenere quanto affermato da James, Jenks e Prout (1998, trad. it. 2002, p. 28): «Questo approccio all’infanzia è decisamente ermeneutico e mette in discussione anche le categorie convenzionali del giudizio e della verità. Perciò se, per esempio, la violenza sui bambini era diffusa in altre epoche come caratteristica del tutto accettabile nei rapporti adulto-bambino, come hanno suggerito molti commentatori, come possiamo affermare che essa fosse negativa, dannosa e finalizzata allo sfruttamento?» È evidente che l’accettazione di un comportamento violento su soggetti deboli da parte dei membri di una certa cultura o anche la percezione di tale comportamento come “naturale”, “giusto”, “utile” ecc. non implica in alcun modo la sua giustificabilità etica agli occhi di un osservatore esterno imparziale. 20 Capitolo I socializzazione alternativa e parallela (tramite il concetto di riproduzione interpretativa), ma non incompatibile con la tradizione psicosociologica. I capisaldi di questo primo filone sono due: il bambino è un attore sociale, attivo e competente, e l’infanzia è una costruzione sociale, cioè un fenomeno non naturale, variabile nel tempo e nello spazio, a seconda delle società in cui si manifesta. Il secondo filone di studi, che vede il capofila nel sociologo norvegese Jens Qvortrup, si può definire strutturalista perché guarda all’infanzia come a una componente strutturale della società, i cui membri cambiano di continuo, ma che esiste sempre, allo stesso modo in cui esiste la categoria dei disoccupati, delle minoranze etniche, delle élite, delle donne ecc. Lo sguardo è dunque verso i bambini come categoria generazionale omogenea e distinta da quella degli adulti e degli anziani, con le quali può essere messa a confronto in termini, ad esempio, di risorse dedicate. Guardare all’infanzia come a una componente strutturale della società significa dunque osservare l’effetto dei fattori socio-economici e macro-strutturali su di essa, allo stesso modo in cui questi fattori agiscono su altre componenti sociali: gli adulti, gli anziani, le famiglie, per esempio. L’attenzione allora deve puntarsi più sulle somiglianze che sulle differenze tra i bambini, perlomeno entro una data società, il che non preclude il confronto – anzi lo incoraggia – tra infanzie diverse da paese a paese o tra periodi storici successivi. È un approccio che invita a fare dei bambini l’unità di analisi, cosa che se può essere scontata nelle ricerche attribuibili al primo filone, non lo è altrettanto in quelle, più di impostazione quantitativa, che hanno studiato la condizione dell’infanzia appoggiandosi sui dati raccolti dalle famiglie. Fare dei bambini l’unità di analisi ha conseguenze importanti non solo sulla metodologia di indagine, ma soprattutto sulle statistiche che rivelano così risultati inattesi e sorprendenti (cfr. oltre). I due filoni non si sovrappongono del tutto, ma entrambi comportano l’idea che l’infanzia sia una struttura permanente della società, anche se i suoi membri cambiano di continuo. La forma di tale struttura è soggetta a una variabilità storica e culturale e ciò significa che l’infanzia, come aveva già sostenuto Ariès (1960), non è sempre la stessa in ogni società, sia dal punto di vista degli adulti, vale a dire delle rappresentazioni sociali che guidano il modo di rapportarsi Un nuovo paradigma sociologico per l’infanzia 21 all’infanzia, sia dal punto di vista dei bambini stessi, che non vivono l’infanzia dappertutto allo stesso modo.4 Studiare i bambini come componente societaria stabile è quasi come studiare una qualsiasi altra categoria che normalmente si può studiare in sociologia: i disoccupati, le élite, le donne, le minoranze etniche ecc. L’impresa più difficile da compiere in questo caso è evitare l’adozione di punti di vista e angolature adulte. Non è facile studiare seriamente i bambini per quello che sono alla loro età invece che per quello che saranno. Questo per diversi motivi, uno dei quali è che i bambini sono un gruppo tanto vicino fisicamente quanto distante socialmente (Fine e Sandstrom, 1988): spesso pensiamo di conoscerli perché vivono in mezzo a noi e perché noi tutti siamo stati bambini a nostra volta. I bambini sono oggi una minoranza considerata bisognosa di protezione dalla cultura dominante adulta, anche se nel prendere le misure di protezione che li riguardano i bambini non sono consultati e, di fatto, la loro protezione non di rado si confonde con la loro esclusione dalla società (cfr. Maggioni e Baraldi, 1997).5 La loro protezione/esclusione è praticata in virtù del loro essere minori, cioè “non-ancora-adulti”; ad essi si richiede di diventare autonomi non di essere autonomi (Qvortrup, 1991). La considerazione dei bambini come parte strutturale della società – proposta con convinzione da Qvortrup (1991, 1994, 1999) – richiede di prestare più attenzione alle somiglianze che alle differenze tra essi, altrimenti il rischio è di nuovo quello di guardarli da un punto di vista adulto, mentre sarebbe necessario sviluppare concetti formati sul loro punto di vista. Le caratteristiche della condizione infantile – variabili nel tempo e nello spazio – andrebbero semmai confrontate con quelle di altri gruppi generazionali della società, in particolare gli adulti. Adottare prospettive, come la stratificazione sociale o la divisione in classi, anche per l’infanzia, pur essendo una via assolutamente rispettabile e scientificamente feconda, rimane una superimposizione sui 4 La tesi principale di Ariès è che nella società medievale l’infanzia come categoria sociale non esisteva perché non si percepiva una differenza radicale tra bambini e adulti. La sua tesi è stata discussa e confutata da studi successivi (cfr. Corsaro, 1997), ma a lui resta il merito di aver introdotto l’idea di un’infanzia come costruzione sociale. 5 Il controllo sociale costituisce il rovescio della medaglia di quelle istanze di tutela e protezione dei minori espresse nella carta dei diritti dell’infanzia (Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, approvata dall’ONU nel 1989 e ratificata dall’Italia nel 1991 con la legge 176/1991). Capitolo I 22 bambini di categorie che appartengono e sono definite dai loro guardiani adulti.6 Una delle implicazioni metodologiche del considerare i bambini come gruppo in sé è quella di non osservarli attraverso il filtro della loro appartenenza familiare, il che deve tradursi nel fare dei bambini l’unità di analisi. Molto spesso infatti la “voce” dei bambini si ascolta attraverso quella dei loro genitori che compaiono nelle indagini, nelle statistiche, nei dibattiti pubblici.7 Si discute di bambini poveri e si sa quanti adulti maschi disoccupati hanno figli, ma non quanti bambini hanno un padre disoccupato. Si parla del decremento della natalità e si conoscono i tassi di fertilità per ogni classe di età della madre, ma non si conosce l’età media dei genitori dei bambini di determinate coorti. Non è solo un problema di mancanza di informazioni, è anche il chiaro segno di una prospettiva adulta data talmente per scontata da passare inosservata. Un esempio illuminante di come il rovesciamento della prospettiva porterebbe a risultati sorprendenti riguarda i dati sulle strutture familiari. Per quanto possa essere chiaro in principio che i bambini non possono essere adeguatamente rappresentati e descritti nelle statistiche delle famiglie, di fatto spesso accade che si considerino i dati sulle famiglie come indicatori della condizione dei bambini. Così la proporzione relativamente alta di nuclei familiari con un solo figlio piccolo dà l’impressione che sia molto elevata la percentuale di bambini senza fratelli o sorelle. Ma questo non è affatto vero, le cifre sono almeno fortemente ridimensionate se prendiamo il bambino come unità di osservazione.8 Facciamo un esempio ipotizzando una popolazione di 100 famiglie così distribuite secondo il numero di figli. n. figli n. famiglie 6 0 20 Famiglie secondo il numero di figli 1 2 3 40 30 10 Ciò vale come invito a studiare i bambini secondo categorie nuove, non adultocentriche. Non si vuole negare l’importanza di studiare le condizioni di vita dei bambini secondo la posizione della loro famiglia nella stratificazione sociale. 7 Queste considerazioni non hanno solo una valenza etica (Qvortrup, 1990), ma, come apparirà meglio nel seguito, anche concettuale e metodologica. 8 Questo spunto, come i due precedenti, è di Qvortrup (1991, pp. 23-24), l’esempio che propongo io serve a rendere più chiaramente l’idea.