Diocesi di Cassano all’Jonio
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per l’Omelia domenicale a cura del Vescovo Mons. Vincenzo Bertolone
Domenica delle Palme
28 marzo 2010
Dall’”Osanna” al “Crucifige”
Introduzione
Secondo una frase celebre, i Vangeli sono “narrazioni della passione con una
estesa introduzione” (M. Kabler). Considerazione questa che trova conferma nel
contenuto delle prime prediche degli apostoli incentrate proprio sull’annuncio della
passione, morte e resurrezione di Cristo.
Dunque, il mistero Pasquale è stato al centro del primo annuncio apostolico, il
cosiddetto kerygma. E proprio a partire da oggi, domenica delle Palme, entriamo nel
vivo del kerygma primitivo, ovvero nell’arco della settimana, che inizia appunto da
oggi, in cui partecipiamo al mistero pasquale. Per tale ragione affermiamo che questa
è la settimana più importante dell’anno liturgico: è la Settimana Santa. In essa
rivivremo tutti i momenti cruciali dello scorcio di vita di Gesù e della storia della
nostra salvezza.
Infatti, se da un lato la passione e la morte di Cristo sono compimento della
Sua missione terrena, dall’altra sono gli strumenti necessari per la redenzione
dell’umanità, azione indispensabile perché dal cielo, squarciato per il dolore del
Figlio, il Padre potesse far piovere sulla terra “quella manciata di rose che noi uomini
chiamiamo cristianesimo” (A. Merini).
Il palcoscenico sul quale si svolge lo spettacolo della crocifissione di Gesù,
Figlio di Dio, è Gerusalemme.
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La tragedia si svolge in più momenti, la cui successione stordisce per il
contrasto stridente del loro contenuto: dapprima l’ “osanna”, l’accoglienza trionfale
di Gesù nel suo ingresso in città, poi il grido impietoso del “crucifige” con il
contributo di insulti e di percosse che accompagnano il re sconfitto e umiliato lungo
la salita del Golgota.
Che cosa succede alla folla? Prima “osanna” colui che aveva acclamato “re”,
messia, e poi lo consegna alla morte? E che succede a questo Re, a questo Figlio di
Dio? È in balia della volubilità degli uomini. Infatti, non reagisce, non manifesta la
sua onnipotenza: accetta e accoglie il giubilo festante dell’ “osanna”, ma accetta e
accoglie anche il grido terrificante del “crucifige”.
In realtà si tratta della stessa folla e dello stesso Figlio di Dio: la prima coerente con
la propria natura incostante, ondivaga tra amore e odio, accoglienza e rifiuto; il
Secondo altrettanto coerente con la propria natura costante, fermamente radicata
nell’obbedienza alla volontà d’amore e perdono del Padre.
L’ “osanna”
Questa difficile settimana a Gerusalemme inizia con l’inno trionfante ed
esultante dell’ “osanna”: la voce della folla in giubilo accompagna l’ingresso di Gesù
nella città. Un ingresso trionfale che in realtà è trionfo passeggero: un barlume di
riconoscimento messianico destinato ben presto a dissolversi.
Per convocare quella folla “festaiola” Gesù non ha fatto nulla: si è autoconvocata,
spontaneamente. Ma del resto accogliere un re è un atto dovuto che non costa nulla.
E, poi, per quanto possa essere un re contestato, tuttavia insieme con altri si ha il
coraggio di fargli festa e di urlare a gran voce: “osanna al figlio di Davide”.
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Ma questo trionfo iniziale è solo il prologo di un altro trionfo, amaro “sì”, ma
autenticamente coerente al Figlio di Dio e, certamente, durante quel trionfo si farà la
vera conta dei presenti. Infatti, lungo il calvario non c’è la folla di prima: molti ora
sono schierati dalla parte del Sinedrio. Si è più sicuri nel coro, anche se il canto può
variare. Solo una parte è rimasta fedele fino in fondo all’ultimo atto dell’avventura
straordinaria di Gesù: l’epilogo sconcertante della croce.
In questa avventura non è più questione di essere presenti, ma di
compromettersi, di decidersi; è questione di lasciarsi avvolgere da quell’atmosfera di
giubilo nonostante il rifiuto palese dell’uomo. È questione di non fuggire davanti
all’apparente disfatta del Re; è questione di continuare a seguirLo anche se al posto di
mantelli e fronde la via sarà coperta del suo sangue e, invece di rami di ulivo,
all’orizzonte si staglia l’ombra desolante della croce. L’osanna è rivolto a questo Re
che va accolto a partire da domani, non da oggi! Si deve accogliere quando inizierà la
Sua passione: non può essere diversamente. Il dio che dichiariamo di amare è un dio
differente: tanto innamorato della sua creatura da partecipare fino infondo al suo
“essere” creatura, ovvero da soffrire e morire come lei e per lei.
Egli, infatti, volendo partecipare alla vita dell’uomo, non solo si fa uomo, ma
dell’uomo vuole e deve conoscere anche il dolore e persino la morte, perché dolore e
morte caratterizzano l’umano.
Dio sale dunque sulla croce perché vuole essere con noi e come noi, ma soprattutto
perché noi possiamo essere con Lui e come Lui. Essere in croce è ciò che Dio, nel
suo amore, deve all’uomo che è in croce.
Allora la croce non è mistero di morte, ma mistero d’amore: è il modo scelto da
Dio per manifestare il suo amore per l’uomo. Del resto, quale innamorato non
desidera essere del tutto simile all’amato? Quanto più si ama tanto più si desidera
partecipare alla vita dell’altro, penetrare nel suo mistero per conoscerlo, capirlo,
seguirlo.
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Dunque solo la croce toglie ogni dubbio sull’amore di Dio per l’uomo: essa è l’abisso
nel quale Dio si fa “amante”.
Così le braccia distese di Gesù sul legno breve della croce sono un abbraccio al
quale non si può né fuggire né resistere: esse ci parlano di accoglienza che non
esclude, porte dell’Eden spalancate per sempre, cuore dilatato d’Uomo che si perde e
si confonde nel cuore di Dio. Ed è proprio in questo meraviglioso scambio fra il
cuore del Figlio dell’Uomo e quello di Dio che si compie il destino di ogni uomo:
l’uomo rinasce a vita nuova dall’amore dilatato del suo creatore.
Allora che venga dopo l’ “osanna” il grido del “crucifige”.
Crucifige
Quando pensavamo di aver capito tutto di questo Dio, tutto è stato rimesso in
discussione. Il grido di giubilo dell’ “osanna” sembrava aver concluso trionfalmente
la missione di Gesù: rivelare il volto misericordioso del Padre. Ma, evidentemente,
parole, parabole e miracoli non sono stati sufficienti all’uomo per credere nella verità
di un dio differente, di un dio innamorato. Occorreva perciò un ultimo drammatico
gesto, un segno inequivocabile, indiscutibile del suo amore per l’uomo.
Perciò, quel crucifige, che spazza via il giubilo dell’osanna, non ci deve
inquietare, anzi ci deve stupire e spingere ad amare e contemplare di più il nostro Dio
differente soprattutto nel volto sofferente e umiliato del Figlio, giacché proprio la
croce è e resta l’unità di misura che Egli usa per manifestare il proprio amore infinito.
Il modo migliore per ricambiare questo dono d’amore di Dio è far fiorire la
croce, e, in un certo senso, il ramoscello d’ulivo, che oggi abbiamo ricevuto in tutte le
Chiese, ci ricorda il modo in cui si può far fiorire la Croce. E ciò avviene se ci
impegniamo ad uniformare il nostro stile di vita a quello del Cristo giudicato,
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umiliato e condannato, ovvero diventiamo uomini miti, mansueti e colmi di ogni
dolcezza e tenerezza.
In altri termini, essere come Cristo nel rapporto con gli altri: coltivare la
tenerezza, abbattere tutti gli egoismi che rendono più difficile le nostre relazioni;
amare il perdono e disdegnare la vendetta; pregare per i nemici; essere artefici di
riconciliazione; desiderosi di ricomporre l’unità infranta con Dio e tra noi; capaci,
infine, di sorridere a chi ci mostra una faccia feroce o comunque ostile.
Essere, ancora, come Cristo nell’amore, ovvero capaci di amare coloro per i quali
avremmo buone ragioni per lamentarci; di comprendere le persone che non ci
capiscono; di rispettare quanti non la pensano come noi; e di non escludere dal raggio
della nostra bontà gli “antipatizzanti”. Capaci di convincersi che le cattiverie e le
indelicatezze altrui non possono in nessun modo scalfire la nostra generosità, perché
essa ha come modello e punto di forza il Cristo crocifisso.
Ma, soprattutto, questo ramoscello di ulivo che stringiamo tra le mani ci
ricorda che dipende da noi scegliere ogni giorno se amare come Cristo ha amato,
ovvero “da folle”, gratuitamente senza limiti e condizioni, indipendentemente dai
comportamenti altrui. Di pende da noi, in sostanza, abbandonare Gesù sulla croce o,
invece, amarlo e seguirlo, accettando anche noi la croce.
E decisamente impegnativo questo ramoscello, ma del resto è cresciuto su un tronco
“tormentato” che ha visto il Figlio dell’Uomo soffrire, sudare sangue e morire. Ci
vuole poi molta forza, impegno e fatica perché esso non inaridisca, ma resti sempre
verde, capace di portare i frutti attesi.
Del resto questa è la dinamica della Settimana Santa, fatta di volontà obbediente, di
profonda sofferenza, di tenero amore e di dono gratuito. Di fronte ad essa, infine, non
spaventiamoci né angosciamoci dinnanzi allo “spettacolo” della croce, giacché il
“giorno dopo” la Settimana Santa porterà la Resurrezione, il frutto più atteso e
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prezioso della Pasqua del Signore; mentre “l’urlo della croce non è altro che una
invocazione assoluta dei cieli”(A. Merini).
Conclusioni
Una grande mistica del secolo scorso, Edith Stein, scriveva: “La croce non è
fine a se stessa. Essa si staglia in alto e fa da richiamo verso l’alto. Quindi non è
soltanto un’insegna, ma è anche l’arma potente di Cristo, il simbolo trionfale con cui
egli batte alla porta del cielo e la spalanca”.
Non commettiamo dunque l’errore di fermarci al trionfo di questa domenica,
ma seguiamo il nostro Dio fino al “giorno dopo”, partecipiamo al Suo mistero di vita
e di morte, di amore e di odio, perché solo così potremo prendere parte con Lui e in
Lui anche al mistero glorioso del “giorno dopo” della Resurrezione.
Serena domenica.
? Vincenzo Bertolone
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