Cassano all`Jonio, 22 gennaio 2011 Sig

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Il Vescovo di Cassano all’Jonio
CONVEGNO 1“MEZZOGIORNO, SOLIDARIETÀ E SVILUPPO
150 ANNI DOPO L’UNITÀ D’ITALIA”
Cassano all’Jonio, 22 gennaio 2011
Signor Presidente, Eccellenza, signor sindaco, amici,
è per
me un piacere e, al tempo stesso, un motivo d’orgoglio, poter
concludere questo interessantissimo convegno in cui tra l’altro
ritrovo il presidente emerito della Corte Costituzionale, il
professor Cesare Mirabelli, che già qualche tempo addietro era
stato ospite della nostra Cassano in occasione di un incontro sui
temi della legalità promosso dalla nostra diocesi. Nel salutarlo
con affetto, lo stesso col quale accolgo il nuovo Prefetto di Cosenza alla sua prima
visita in diocesi, rivolgo sinceri elogi agli organizzatori, agli illustri relatori qui
convenuti ed a voi tutti che, con la vostra presenza, avete testimoniato l’interesse
all’argomento trattato, che è poi l’interesse e l’ansia per le sorti del nostro Paese, ed in
particolare del suo Meridione, giacché a tali aspetti, anche nell’imminenza della
ricorrenza che ci accingiamo a celebrare degnamente, né globalmente, né settorialmente
è stata data una risposta esaustiva.
Non da oggi mi occupo di questa spinosa e per molti versi drammatica tematica,
già affrontata entrando nel vivo della vita, dell’apostolato, dell’azione sociale del
sacerdote calabrese Carlo De Cardona (Morano Calabro, 1871-1958), di cui si è aperto
circa due mesi fa il processo di beatificazione propter virtutibus. Sempre di recente, ho
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“Domani a Mezzogiorno” è il libro che fa da sfondo all’appuntamento odierno È un testo di brevi saggi curatore ed autore
di uno di essi é l’on. Gianni Pittella, deputato europeo;. altri autori: nell’ordine, Marco Esposito, economista napoletano;
Dario Scalella e Franco Adamo Balestrieri, già presidente di Confapi il primo, anche lui napoletano, giuslavorista irpino il
secondo; Francesco Ronchi, politologo.
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partecipato sia all’accoglienza del Santo Padre nella sua consolante visita a Palermo, sia
alla 46ª Settimana di studi sociali a Reggio Calabria , dove pochi giorni prima avevo
svolto un intervento in veste di relatore al Convegno su “Classe dirigente, bene comune
e sviluppo”.
In quella sede, ho ribadito un concetto impossibile da smentire: a 150 anni
dall’unità d’Italia, la questione meridionale permane in tutta la sua drammaticità,
riconosciuta dalla stessa Conferenza episcopale italiana, che nel documento “Per un
Paese solidale. Chiesa italiana, e Mezzogiorno” ha espresso, senza infingimenti, «la
constatazione del perdurare del problema meridionale […], la consapevolezza della
travagliata fase economica […], il richiamo alla necessaria solidarietà nazionale, alla
critica coraggiosa delle deficienze […] all’urgenza di superare le inadeguatezze presenti
nelle classi dirigenti».
Al riguardo, faccio mio il pensiero di Rosario Villari, il quale, quando nel 1961
(nel centenario della nascita del nostro Stato) presentò la “Antologia della questione
meridionale”, diceva che “quando si parla di carattere permanente della questione
meridionale si intende affermare che essa era insolubile nell’ambito della costruzione
liberale dello Stato, giacché – pur nell’avvicendamento dei governi ed addirittura della
forma istituzionale dello Stato (da monarchica a repubblicana) - la classe egemone è
rimasta in pratica sempre la stessa”.
In generale, però, ritengo, ritengo che l’approccio giusto per misurarsi con la
complessità e l’eterogeneità del problema in tutti i suoi aspetti – a parte una rigorosa
metodologia ed un lavoro multidisciplinare (che è compito, ovviamente, degli
specialisti e dei professionisti delle singole discipline) - sia quello che sul piano etico ci
viene suggerito dalla filosofia della prassi, da abbinare, sotto il profilo esistenziale, ad
un atteggiamento di fiduciosa ed attiva speranza. Perché, vedete, le idee, quando sono
forti, e belle, e coraggiose, e per giunta accompagnate da un cambiamento di mentalità e
di cultura, riescono a vincere persino i fantasmi dell’angoscia e le nebbie del dubbio,
della rassegnazione e dello sconforto, fino a favorire una maturazione di tante,
tantissime individualità che un po’ alla volta diventano comunità, una collettività che
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agendo in sinergia e con intenti solidaristici contribuisce alla formazione del bene
comune e, quindi, anche di una coscienza comune, di un comune sentire, di un comune
orgoglio di essere concittadini, e non sudditi, di un grande Paese come il nostro.
Non so quanti di voi sabato 1° gennaio abbiano seguito sulla 1ª rete RAI il
“Concerto di capodanno”. Ad ogni modo, a parte l’eccezionalità del Teatro (“La
Fenice”, di Venezia), dell’orchestra, del coro e dei cantanti, tutti impeccabili, due cose
mi hanno colpito. La prima: a differenza degli anni precedenti, stavolta era un nostro
grande teatro lirico ad ospitare il prestigioso ed ormai classico concerto augurale. La
seconda: le parole del Maestro Harding, inglese, il quale alla fine, rivolto al pubblico
plaudente ha detto: “Siamo tutti in debito verso l’Italia per la cultura che ha dato a tutto
il mondo!”. In quel momento si sentiva italiano anche lui, anzi era orgoglioso di avere
sussunto nella propria identità personale una parte del patrimonio artistico-culturale che
la nostra Italia ha sprigionato nei secoli, facendone dono al mondo!
Così dicendo non è mia intenzione cedere alla tentazione della retorica. Cerco
solo di collegare questo avvenimento alle premesse del mio intervento: la speranza e
l’atteggiamento fattivo. Che poi, a ben vedere, sono un tutt’uno con lo spirito unitario
che accomunava, affratellava e animava i “professorini” di quelle indimenticabili, per la
nostra storia democratica e repubblicana, “Giornate di Camaldoli”, nelle quali alcuni tra
le più belle coscienze nate nei primi del Novecento (beninteso, quelle sopravvissute alla
mannaia del nazifascismo) nei famosi “99 articoli” elaborati a mo’ di programma
costituente gettarono le basi di uno Stato nuovo, con una nuova e superba Carta
costituzionale.
Perdonate la digressione, ma – vedete – il comitato promotore di questo
convegno prende il nome proprio da uno di quei “camaldolesi”, il professor Giorgio La
Pira, il “Sindaco della pace”, conosciuto e apprezzato ovunque per il suo operare nel
nome della dignità, del rispetto dei diritti umani, della difesa dei più deboli (non
importa se bambini orfani, sfollati, profughi, operai sfruttati, rifugiati) dovunque e
comunque.
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La Pira, mai come oggi, è un esempio luminoso ed un modello talmente bello da
seguire e da apparire il personaggio di un romanzo risorgimentale, tanto sono diversi
tanti, troppi, degli uomini politici contemporanei, al punto che persino il Santo Padre in
più di un’occasione ha esternato la sua amarezza per la carenza di una classe alta di
uomini politici e delle Istituzioni.
Qual è il segreto di La Pira (e potrei citarne altri: De Gasperi, ad esempio)? Avere
interpretato il Vangelo, che contiene non solo parole di vita eterna, ma anche precisi
precetti di vita quotidiana, con in primo piano la relazione cittadino-poteri (“Date a
Cesare quel che è di Cesare”).
Il Vangelo, dunque, ci dà indicazioni circa la prassi. Voi mi direte: e va bene,
però Gesù finisce in croce. Già, ma la sua morte è il presupposto della sconfitta della
morte per sempre; della vittoria della luce sulle tenebre, o, in altri termini, del trionfo
del Bene sul male. Certo, agire con il Vangelo non solo nel cuore e nella mente, ma
soprattutto in mano, ben sollevato in alto, sí che ciascuno lo veda, non è facile, anzi!
Tuttavia, provate a immaginare a quanto sarebbe più degno il mondo senza bugie, senza
infingimenti, trappole, congiure, cricche, se tutti andassero alla ricerca di un’intesa sul
bene comune che superasse le contrapposizioni e i reciproci sospetti.
Lavoriamo allora alla costruzione del federalismo, ma disegniamolo solidale e,
soprattutto, facciamoci dire, da chi può e sa, i suoi costi a carico del Mezzogiorno, che
vive uno dei momenti più difficili della sua storia, fiaccato da politiche nazionali che sul
piano finanziario e su quello delle scelte economiche e istituzionali sono nettamente
ostili, e indebolito da carenze e limiti gravi, propri della sua classe dirigente, intesa in
senso lato, e della sua Comunità.
Questa valutazione, che potrebbe essere ridotta a personale opinione, è suffragata
dal riscontro oggettivo dell’ultimo studio SVIMEZ, secondo il quale “la società e
l’economia del Nord e del Sud, lungi dal convergere, segnano una progressiva
disarticolazione che, in un quadro di arretramento generale, vede il Meridione in
crescente difficoltà”, aggravata da una immagine di negatività che ormai va oltre i
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confini d’Europa e penalizza l’economia meridionale, già di per sé indebolita dalle
storiche criticità e dalla ripresa dell’emigrazione, di cervelli e di braccia.
Debbo a quest’analisi aggiungere anche quella del CENSIS (Rapporto sull’Italia
del 2010), che non si limita a riprendere, come usualmente è accaduto, grandezze e dati
oggettivi. Stavolta il ritratto dell’Italia che ne vien fuori è quello di un popolo che ha
perso la capacità di sognare e quasi non nutre più speranze in una prossima inversione
di tendenza.
A questa constatazione ne faccio seguire un’altra, tratta dal medesimo rapporto:
“Decine di miliardi di investimenti nazionali ed europei inseriti nel periodo di
programmazione 2007-2013 per le aree più svantaggiate [anche dall’UE] sono state
dirottate per abolire l’ICI a ville e castelli, pagare le multe delle quote latte non
rispettate dagli allevatori di alcune stalle del Nord, finanziare ammortizzatori, pur
necessari, per i lavoratori in cassa integrazione, ma che per un paese industrializzato a
metà vuole dire ancora spostamento di risorse dal Sud al Nord […]. In totale il governo
ha attinto come da un bancomat 21,6 miliardi di euro di Fondi Fas […] e 2,6 miliardi di
euro di risorse del Fondo Sociale Europeo”.
Questa precisazione va letta, ritengo, non in chiave antinordista (e, quindi,
antifederalista), ma piuttosto per chiarire, una volta per tutte, che il Mezzogiorno non è
una zavorra al rimorchio del resto dell’Italia che lavora, produce e paga le tasse, e che la
visione federalista è utile e salvifica se si traduce in una pura mediazione che tenta di
dare risposta non traumatica e per molti versi furbesca alle pulsioni separatiste di una
maggioranza che persegue (come vagheggiato in Lombardia) una soluzione prettamente
confederale e si acconcia ad accettare un compromesso tattico, come prima risposta alle
paure del declino.
La situazione economica, certo, incide, ma ciò che inquieta è la constatazione del
livello morale della “top class” che si abbassa sempre più. Sembra di rivivere,
parafrasando il Martin Luther King di “La forza di amare”, una di quelle situazioni di
vario degrado ed offesa allo spirito di eguaglianza che è la ragione di essere del
cristianesimo, riaffermata dal Vangelo. «È mezzanotte nell’ordine sociale», scriveva il
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pastore protestante americano. «[…] La mezzanotte nella vita esteriore collettiva
dell’uomo ha come suo parallelo la mezzanotte nella vita interiore individuale. È
mezzanotte nell’ordine psicologico […]. È mezzanotte anche nell’ordine morale. I
principi morali hanno perso i loro caratteri distintivi […]».
Dobbiamo arrenderci e dire che è mezzanotte specialmente nel Sud? Beh,
considerando che è “mezzanotte” in una società che non riesce a percorrere sino in
fondo la strada dell’integrazione a causa delle contrapposizioni tra il “Nord” industriale
ed un “Sud” agricolo o, ancor meglio, alla disperata ricerca di una vocazione che valga
a scioglierlo da antiche catene, allora dovremo concludere rispondendo “Sì”!
“Questione meridionale ed emigrazione nascono sostanzialmente assieme. Risale infatti
al 1876 la prima rilevazione ufficiale dell’emigrazione italiana, mentre esistono solo
stime per il periodo precedente”. Sta di fatto che in un secolo circa, dall’Italia
emigrarono quasi 28 milioni di persone, in buona parte del Mezzogiorno2. “L’esodo
raggiunge la massima intensità negli anni ‘60 [del 1900], quando sino a 240 mila
persone l’anno lasciano il Mezzogiorno per altre destinazioni nazionali”). Notate che le
emigrazioni dal Sud della nostra patria a mo’ di contrasto a quanti vogliono vedere una
cessione di ricchezza – in termini di PIL – dal Nord verso il Sud per il fatto di avere
assorbito tanta mano d’opera, secondo un’analisi di Manlio Rossi-Doria, uno dei padri
del pensiero politico meridionale: che “Se si tiene conto del fatto che a partire sono stati
per lo più uomini giovani […], il capitale ceduto può essere valutato tra i 20 e i 30
miliardi di lire, equivalenti al doppio di quanto lo Stato ha speso nel Mezzogiorno dal
1950 in poi”, cioè fino al termine degli anni ‘70”.
Tuttavia, non voglio perdere la speranza. Scriveva Sant’Agostino: «Sono tempi
cattivi, tempi penosi, si dice. Ma cerchiamo di viverli bene e i tempi saranno buoni»3.
Egli voleva così esprimere non solo la speranza, ma l’ottimismo dell’intelligenza. Ciò
deve richiamare in servizio la questione del Sud e del bene comune, ma anche sollevare
importanti interrogativi: l’individuo oltre ai diritti, ha doveri di solidarietà verso gli
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Con questo termine si intende l’insieme di queste Regioni: Molise, Abruzzo, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria,
Sicilia e Sardegna. L’area complessiva è di 123 mila Kmq e di 25 milioni di abitanti.
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AGOSTINO, Discorso 80, 8.
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altri, scaturenti da obblighi morali, da ritenersi obbliganti? Esistono o meno beni che
non è possibile comprare e vendere, che hanno una dignità e non un prezzo?
Oggi è necessario trovare una più compiuta filosofia politica che ridia calore,
scopi e virtù civili alla sfera pubblica, con idee di giustizia e di bene comune più
articolate e ricche di quelle del cosiddetto liberalismo moderno. E questo proprio a
partire dal Meridione, dove quel che preoccupa maggiormente è la rassegnazione, la
mancata indignazione della gente comune, come profetizzava Vittorio Bachelet quando
sosteneva che «oggi il rischio è che la gente sta comodamente nella sua poltrona o nelle
sue pantofole per non impegnarsi a fondo, e questo magari dicendo che la politica è una
cosa sporca».
La speranza diventa, in questa visione, un metodo in vista del bene comune.
Andrea Trebeschi aveva scritto poco prima di essere deportato a Dachau, dove morì:
«Se il mondo fosse monopolio dei pessimisti sarebbe da tempo sommerso da un nuovo
diluvio; e se oggi la tragedia sembra inghiottirci, lo si deve alla malvagità di alcuni, ma
soprattutto all’indifferenza della maggioranza. Il simbolo di troppa gente non ebbe, fin
qui, che due articoli: “non vi è nulla da fare”, “tutto ciò che si fa non serve a nulla”.
Quel che importa è che ognuno, secondo le proprie possibilità e facoltà, contribuisca di
persona alle molte iniziative di bene, spirituale, intellettuale e morale. Un mondo nuovo
si elabora. Che sia migliore o ancor peggio, dipende da noi».
Un invito significativo, che può valere per tutti, è quello di Dom Helder Camara,
vescovo di Recife in Brasile, che negli anni ’60 e ’70 ha richiamato in modo pressante
l’Occidente progredito a interrogarsi sulla qualità e sul significato dello sviluppo,
sociale e economico, perché fosse “giusto”per l’uomo: “Benedetto sia tu, Padre per la
sete che ci fai sentire; per i piani coraggiosi che ci ispiri; per la fiamma – e sei tu stesso
- che arde in noi… Cosa importa che la sete rimanga in gran parte bruciante? (guai a
quelli che non hanno più sete!). Cosa importa che i progetti rimangano di più sulla carta
di quanto passino nella realtà? Chi meglio di te sa che il risultato non dipende da noi e
che tu ci chiedi soltanto un massimo di abbandono e di buona volontà?”
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Diciamo, allora, che non si deve dipingere né un mondo rosa, né uno totalmente
nero, ma, semplicemente, che dobbiamo mostrare a noi stessi e soprattutto ai giovani
che vale la pena di lottare per poterlo migliorare questo nostro Meridione. Il resto lo
faranno da sè, da uomini adulti, perché, diceva bene Giorgio La Pira, “i giovani sono
come le rondini, vanno verso la primavera”.
In questa nuova primavera potrà radicarsi la rinascita di un’economia che ha un
disperato bisogno di tecnici preparati. E non solo nelle tradizionali professioni
industriali, ma anche nelle attività di servizio: elettricista, idraulico, giardiniere, esperto
di impianti di sicurezza, cuoco e pasticciere, infermiere o tecnico di infissi. Anzi, oggi
servirebbe un sapere teorico-pratico anche per fare il semplice commesso: in un negozio
di fiori dovrebbe conoscere fiori e piante, in uno di prodotti tessili le fibre e le
manifatture, in una libreria i libri che vende e, nel campo dei computer, conoscere i
diversi sistemi operativi e saper dare una vera assistenza ai clienti. Invece questi tecnici
specializzati mancano: le imprese li cercano e non li trovano. Molte famiglie e molti
giovani vanno ancora all'università per avere il “pezzo di carta” e sognano un lavoro
intellettuale, magari di diventare subito scrittore, avvocato, giornalista, conduttore
televisivo. E poi si trovano in diecimila a un concorso per cinque posti da vigile urbano
o da impiegato statale.
La riscoperta del valore della persona umana, e di conseguenze dei suoi valori,
insomma, può rappresentare un ottimo inizio. Si potrebbe considerare l’odierno Stato
sociale come l’assunzione di alcuni bisogni della persona, tanto da farli riconoscere
come diritti propri della dignità umana, e quindi come compito proprio, per la loro
promozione e tutela, dell’autorità politica, come auspicato dal Santo Padre all’Angelus
di domenica 28 novembre scorso: «L’uomo è vivo finché attende, finché nel suo cuore
vive la speranza […]; la nostra statura morale e spirituale si può misurare da ciò che
attendiamo, da ciò in cui speriamo» (L’OSS. ROM., 3/12/2010, p. 5).
In questa luce, il politico agisce secondo una visione etica che si ispira ai valori
alti e nobili e lo fa per servire i concittadini, proprio come Cristo Gesù servì i suoi
discepoli, con amore, disinteresse. Egli deve pensare in grande, deve nutrire nobili
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ideali ed avvertire quanto sia faticoso pensare ed agire mettendo sempre la persona
umana al centro di tutto. Di questi politici abbiamo bisogno: gente che abbia il coraggio
di guardare in faccia la realtà, che imposti la vita in modo serio ed onesto e che faccia
politica senza alcun compromesso morale, con alto senso dello Stato e che, nella difesa
dell’identità cristiana, lavori sempre per raccordare, per unire.
Concludendo, sento di poter dire che i Vescovi, ed io tra loro, non hanno ricette
risolutive, ma non v’è chi non veda come l’inversione di rotta passi attraverso sentieri
ben determinati ed obbligati, sovente indicati dai Presuli nella loro azione e nei loro atti
concreti: una maggiore equità sociale; il miglioramento delle condizioni di vita; il
potenziamento delle infrastrutture; una maggiore presenza dello Stato che si concretizzi
nello snellimento delle formalità burocratiche e nella lotta all’illegalità ed alle mafie;
una fiscalità giusta; un investimento sulla formazione e sull’educazione; un’attenta
vigilanza sui meccanismi del decentramento e del futuro federalismo; una rinnovata e
capace classe dirigente.
Probabilmente, nulla di nuovo. Eppure, è proprio quel che da sempre manca al
Meridione per divenire regione d’Europa.
Grazie.
 Vincenzo Bertolone
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