2003 - Centro Regionale Studi di Storia Militare Antica e Moderna

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 1 NEL SESSANTESIMO DELLA RICORRENZA
IL C.R.S.S.M.A.M.
“CENTRO REGIONALE STUDI DI STORIA MILITARE ANTICA E MODERNA”
DI TRIESTE
RICORDA
GLI EVENTI MILITARI DELL’OTTO SETTEMBRE 1943
NELLA PROVINCIA DI TRIESTE ED AI SUOI CONFINI
REALIZZANDO
LA MOSTRA STORICA
8 – 14 SETTEMBRE 2003
LA BROCHURE
CHIAVI DI LETTURA - DOCUMENTI - TESTIMONIANZE DI REDUCI TRIESTINI
2 Gli eventi militari dell’otto settembre 1943
in Provincia di Trieste ed ai suoi confini
Presentazione del Presidente Fulvio Barbiani
Alla fine del mio mandato alla presidenza del Centro Regionale Studi di Storia Militare Antica e Moderna, sono estremamente orgoglioso che la volontà dei Soci abbia voluto allestire l’ennesima mostra storico
culturale su un argomento particolarmente delicato della nostra storia patria.
Nel corso dei trenta anni d’istituzione del nostro “Centro”, abbiamo organizzato molte mostre a tema,
trattando argomenti ancora toccanti e sicuramente dolorosi per quanti li hanno vissuti. Nostro intento è di riportare gli eventi per quanti non li hanno vissuti, al fine di tramandare e divulgare la storia attraverso i nostri mezzi
quali, i documenti, le foto, le ricostruzioni modellistiche e quant’altro in possesso dei Soci.
Il tema di questa mostra, una data miliare nella storia della nostra Patria, riguarda le vicende dell’8 settembre 1943 a Trieste in ricorrenza del 60° anniversario di quell’evento; abbiamo volutamente ristretto
l’interesse solamente a quanto avvenuto nella nostra città in quella data, in un arco di giorni ristrettissimo, al
fine di non offrire ad alcuno la possibilità di critica di parte.
Come nostro costume, abbiamo volutamente mostrato i fatti su base storico-scientifica e senza dare
giudizi di merito o di orientamento.
Molto è stato scritto sul tema, sia dalla storiografia ufficiale sia dagli storici revisionisti e noi approfittando soprattutto dell’archivio che conserviamo a Trieste, abbiamo voluto narrare questa vicenda attraverso
immagini fotografiche, documenti e soprattutto testimonianze personali di uomini e donne che vissero sulla
loro pelle quei particolari momenti.
L’Armistizio, per come proclamato, per le clausole imposte e per le reazioni militari conseguenti, gettò
sgomento, angoscia ed anche gioia tra gli italiani e non solo. Ognuno lo visse nel suo dramma, nei suoi sentimenti e poco dopo nella scelta cui tutti furono costretti.
L’Armistizio dell’8 settembre 1943 portò l’Italia a uno stato di guerra del tutto particolare, una nazione
divisa, i vertici decapitati, i dubbi più atroci s’insinuarono nelle menti dei più. Furono fatte delle scelte, vi furono
schieramenti contrapposti, gli schieramenti generarono altri lutti sopra un paese martoriato da anni di guerra.
Purtroppo gli strascichi dell’Armistizio gettarono la nostra Patria in un lungo periodo di oblio morale che
tutt’oggi si percepisce ancora e: la perdita dell’orgoglio di appartenere a una nazione, una Patria. E per Patria
non intendo solo bandiera e fanfare, ma intendo famiglia.
Ciò premesso, confidando che il nostro lavoro sia servito a riflettere e in silenzio trarre delle conclusioni, e oltre a ciò desidero esprimere i miei più sinceri ringraziamenti e gratitudine a quanti generosamente hanno consegnato le loro memorie a queste pagine che noi speriamo possano servire alle generazioni future per
conoscere la storia, storia come maestra di vita.
Trieste, 8 settembre 2003
3 Presentazione del Presidente Onorario Arch. Italo Sommavilla
Il Centro Regionale Studi di Storia Militare Antica e Moderna nel suo 31° anno di associazione e nel
continuo intento di svolgere le sue attività annuali, in questo 2003 vuole ricordare il 60° anniversario di quella
che certamente fu il più triste e drammatico episodio della storia della Nazione cioè i fatti dell’8 settembre
1943 focalizzando l’obiettivo su quanto è accaduto in quelle giornate convulse nella nostra zona e in particolare nella Provincia di Trieste che all’epoca era più estesa e comprendeva anche Monfalcone. Per far meglio
comprendere la portata dell’evento abbiamo sviluppato un programma scientifico su tre direttrici: la prima è
una rassegna d’immagini e documenti riguardanti la zona, la seconda è l’esposizione di cimeli riguardanti le
unità italiane e tedesche e la terza è la “brochure” nella quale abbiamo riportato i testi di documenti originali e
la sintesi degli studi pubblicati sulla zona, ed oltre a ciò cosa più importante sono riportate una serie di testimonianze inedite di triestini che in armi e non hanno vissuto in prima persona le vicende conseguenti
l’evento. Questi brevi racconti proposti dai protagonisti sono senz’altro il contributo più originale a questa
rievocazione. Come nostra consuetudine non abbiamo tratto delle conclusioni o dato giudizi, ma ci siamo
rigorosamente attenuti ai documenti, lasciando a ognuno la propria libera interpretazione, fornendo a tale
scopo le necessarie chiavi di lettura per fornire la possibilità di svolgere autonomamente eventuali approfondimenti.
Lo spirito che ci ha indotto a organizzare questa manifestazione lo ribadiamo è dunque privo di una
qualsiasi intenzione di trarre eventuali facili pareri, opinioni e tanto meno giudizi, si vuole solamente proporre
uno dei tanti episodi che hanno fatto parte integrante della storia nazionale e nel rievocarli dare una volta di
più l'occasione di ricordarli, di conoscerli e tramandarli in modo particolare a chi non ha avuto occasione fino
a questo momento di analizzarli. Fausti e infausti che essi siano, certo faranno ponderare e riflettere le generazioni future, facendo auspicabilmente considerare l'importanza del loro valore e di quanto ha inciso sulla
vita e il destino di una nazione e di tanti uomini.
Le componenti che hanno determinato quel fatidico giorno probabilmente vanno ricercate già prima
che queste si manifestassero, sottoponendoci quindi molte doverose domande: si poteva evitarlo, si poteva
gestirlo in un altro modo, quanto ha interferito nel suo esito la capacità umana, c’è stata una certa leggerezza nel prendere quelle decisioni che ha portato una serie di tanti lutti dolori, sacrifici, umiliazioni, ferite morali
e delusioni? Con questa ricerca il nostro intento è stato solamente quello di esporre quanto da noi è stato il
più possibile recuperare nel campo fotografico, grafico, di cronaca e letterario. Le valutazioni e le deduzioni
di parte certamente non semplificano la valutazione di una visione imparziale dell'avvenimento e le domande
che certamente ognuno ancora si porranno pertanto vanno ricercate nei documenti e nelle memorie di chi ha
vissuto sulla propria pelle il peso di tali vicende cioè nel fatto di essersi trovati in un momento nella situazione
assurda di avere un nemico-amico e quello che fino a quel momento era considerato un amico in un nemico.
Con questo nostro impegno speriamo di dare un piccolo contributo alla formazione di un ulteriore piccolo tassello indispensabile e necessario per completare quel grande quadro che è la storia contemporanea.
Trieste, 8 settembre 2003
4 PER COMPRENDERE MEGLIO
A cura di Mauro Depetroni
Come rilevato nell’Introduzione dal Presidente Onorario arch. Italo Sommavilla, la manifestazione si
prefigge di fotografare gli eventi dell’8 settembre 1943 nell’allora Provincia di Trieste ed ai suoi confini, in un
contesto strettamente militare. Ciononostante per chi desiderasse comprendere meglio s’impone il suggerimento di abbracciare lo studio del momento storico in questione allargando gli orizzonti e approfondendo i
contenuti.
Per districarsi dunque nei meandri delle pubblicazioni il primo suggerimento è di iniziare, prendendo
l’insegnamento dai maestri, ad affrontare l’argomento fissato partendo dal fondo, cioè dagli ultimi studi affrontati, come esemplifica Marc Bloch immaginando di riavvolgere una pellicola osservando i fotogrammi partendo
dall’ultimo1. In questo modo si avranno a disposizione gli strumenti più recenti e senz’altro più ricchi di documentazione rispetto a quelli più datati. Con tale spirito anche i fatti dell’8 settembre potrebbero essere affrontati.
Per prima cosa sicuramente è opportuno avere una visione generale dell’impegno italiano nei fatti della Seconda Guerra Mondiale, argomento più volte ripreso dagli storici e dai tecnici: una delle più recenti opere
può essere senz’altro quella del prof. Giorgio Candeloro, nel volume La seconda Guerra Mondiale nella collana Storia dell’Italia moderna2.
Con una lettura di quest’ampio respiro si può senz’altro ricavare per nostra ricerca il quadro del difficile
momento politico, economico, sociale ed anche militare che l’Italia del post 25 luglio stava affrontando. Si
percepisce dunque il contesto nel quale vivevano le truppe dislocate nella nostra zona, che erano composte
perlopiù da unità molto provate durante il conflitto.
Attorno alla nostra Provincia erano presenti alcune di quelle unità che si stavano ricomponendo dopo i
tragici eventi della Russia cioè le Divisioni Torino, Sforzesca e Julia, e oltre a ciò unità che componeva alcuni
Settori di Copertura gestiti dalla Guardia alla Frontiera.
Le Divisioni definite “r”3 rientrate nel territorio nazionale tra aprile e giugno erano composte dai pochi
superstiti riammessi al servizio, i quali in luglio stavano appena rientrando dalla licenza di un mese che era
stata concessa dopo il periodo di contumacia4 e accanto a loro le reclute, i nuovi coscritti, le classi ventitre e
ventiquattro che erano gli ultimi uomini disponibili chiamati al servizio militare, giovani al pari dei “Ragazzi del
99” della Grande Guerra. Queste unità nella campagna di Russia avevano perso gran parte dei mezzi e degli
armamenti pesanti, erano sotto organico ed è comprensibile intuire la scarsa preparazione militare soprattutto
delle reclute ancora in addestramento.
La Guardia alla Frontiera per contro già era composta da unità prevalentemente di Fanteria leggera
armata soprattutto per compiti territoriali rinforzata da un reggimento di Artiglieria con pezzi che difficilmente
sarebbero stati utilizzati dalle Divisioni operative in zone come la Grecia o la Bosnia, inoltre erano organizzate
in modo diverso e numericamente più contenuto dalle stesse Divisioni “r” che ricordiamo nell’organico completo previsto per le Divisioni Tipo 43 potevano contare anche più di 12.000 uomini l’una, ma quelle “r” tanti soldati dovevano ancora trovarli.
1
“NELLA PELLICOLA CHE SI PRENDE IN ESAME, SOLO L’ULTIMO FOTOGRAMMA È INTATTO. PER RICOSTRUIRE I TRATTI SFOCATI DEGLI ALTRI, È
STATO NECESSARIO ANZITUTTO SVOLGERE LA BOBINA IN SENSO INVERSO A QUELLO DELLA RIPRESA.”. P.38, Marc BLOCH, Apologia della
storia o Mestiere di storico, (Ed. Einaudi, tr.it. Giuseppe Gouthier, Torino 1998);
2
Giorgio CANDELORO, Storia dell’Italia moderna: La seconda Guerra Mondiale; Il crollo del fascismo; La Resistenza; 1939-1945,
(Ed. Feltrinelli, Milano 1984);
3
in ricostituzione;
4
periodo di quarantena di circa quindici giorni che le truppe provenienti dall’estero dovevano trascorrere prima di essere inviate in
licenza e alle caserme, nel quale oltre il ricondizionamento dovevano essere sottoposte a un trattamento di disinfezione e profilassi;
5 Un altro approfondimento andrebbe senz’altro rivolto alla situazione politica e diplomatica che è stata
vissuta nel periodo antecedente i fatti dell’8 settembre. A questo proposito lo studio più accreditato è senz’altro
quello della prof. Elena Aga Rossi Ordinario di Storia contemporanea nell’Università dell’Aquila intitolato Una
nazione allo sbando: l’Armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze5, ove si riesce a comprendere in modo certamente esaustivo l’atteggiamento del Governo Italiano degli Alleati e dei Tedeschi. In questo
pregevole studio corredato da oltre cento pagine di fonti archivistiche, diventa molto chiaro il fatto che il Foreign Office aveva già predisposto un testo di “Resa incondizionata” per l’Italia già dal dicembre 19426, rielaborandolo a volte non in sintonia con il Governo Americano fino alla missione di Lisbona del Generale Castellano
quando il 12 agosto all’emissario del Governo Italiano fu trasmesso sia il testo dell’Armistizio Breve sia
l’Allegato di Quebec.
Da questo si evince che il Governo Italiano alla fine del mese aveva già in mano gli strumenti necessari per informare le proprie Forze Armate del nuovo assetto. Si approfondisce pertanto che contrariamente a
quanto comunemente è riportato, furono diramati dei documenti ai Comandi Militari italiani con delle precise
contromisure per prepararli ed eventuali atteggiamenti aggressivi delle truppe germaniche, infatti, già il 10 Agosto prima della missione di Lisbona fu diramato l’ordine “111 C.T.” e successivamente con le indicazioni
dell’allegato di Quebec vennero purtroppo tardivamente diramate le “Memoria 44 Op.” e “Memoria 45
Op.”7,rispettivamente il 2 e 6 settembre.
Di questi ordini si riporta il titolo nei documenti che saranno citati nella nostra Brochure per la cronaca
degli accadimenti dell’8 settembre 1943 nello scacchiere Nord Orientale.
L’armistizio di Cassibile fu firmato il 3 settembre, giorno dell’operazione “Baytown” nella quale gli Alleati sbarcarono in Calabria, cinque giorni prima dell’annuncio ufficiale: in questo periodo italiani e tedeschi continuarono a combattere fianco a fianco per contrastare l’invasione alleata!
Oltre agli studi approfonditi di cui sopra, ci sono delle semplici ma esaustive monografie corredate da
una grafica estremamente comunicativa inerente alle operazioni Avalanche8 e Giant 2, cioè lo sbarco a Salerno e il mancato aviosbarco a Roma dell’82a Div. Aviotrasportata americana, come la Collana Soldati & Battaglie Della Seconda Guerra Mondiale, (Ed. Hobby & Work, Torino 1999).
Per meglio comprendere l’atteggiamento delle forze germaniche, lo studio recente più accreditato è
senz’altro quello di Gehrard Schreiberer, I militari italiani nei campi di concentramento del terzo Reich 19431945 – Traditi – Disprezzati – Dimenticati, (Ed. Stato Maggiore dell’Esercito Ufficio Storico, tr. it. Friedrun Mazza e Giulio Primicerj, Roma 1997)9, che oltre ad essere pubblicato ufficialmente in Italia proprio dal massimo
organo dell’Esercito, ci teniamo a sottolineare, è stato curato e tradotto per la versione in lingua italiana dal
nostro Socio Fondatore Gen. Giulio Primicerj, recentemente scomparso.
Nello studio del prof. Schreiberer, emergono gli atteggiamenti e contromisure dei tedeschi nei confronti del Governo Italiano e delle sue FF.AA. ben prima dell’8 settembre, tanto che un altro autore tedesco “Kugy”
nel suo Ferrat auf Deutsch10 (pagina 295 e succ.) ipotizza un tradimento dei tedeschi nei confronti degli italiani
ben prima del tradimento all’italiana, oltre a ciò sono riportati in questo vastissimo studio particolari e precisi
5
ROSSI Elena Aga, Una nazione allo sbando: l’Armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze (Ed. Il Mulino, Bologna
2003); Gehrard SCHREIBERER, I militari italiani nei campi di concentramento del terzo reich 1943-1945 – Traditi – Disprezzati –
Dimenticati, (Ed. Stato
6
P.53 e seguenti, ROSSI Elena Aga, Una nazione allo sbando: l’Armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze (Ed. Il
Mulino, Bologna 2003);
7
pp.62 e successive, STATO MAGGIORE DELL’ESERCITO, UFFICIO STORICO, Le operazioni delle Unità italiane nel Settembre
Ottobre 1943 (Ministero della Difesa, Roma 1975);
8
tr.it. “Valanga”;
9
tr.it. “Valanga”;
10
tr.it.”Tradimento alla tedesca”
6 dettagli sulla poi successiva situazione degli I.M.I.11 che coinvolse ben 18.713 Ufficiali e 739.575 sottufficiali e
truppa12 su un’insieme di più di 3.000.000 uomini in armi: in quest’opera sono prodotte ben cento pagine di
Bibliografia.
Achse 13 , Student 14 , Eiche 15 e Schewartz 16 erano i piani predisposti già a suo tempo dai tedeschi
nell’ambito dell’operazione Alarich, per la quale il Comando Superiore della Wermacht predispose il dislocamento delle truppe già dal 1° agosto. La parola d’ordine per la simultanea applicazione di tutte e quattro le
fasi era “Achse” che tradotto in italiano, significa “Asse” a indicare l’alleato o ex - tale17, operazioni predisposte
da Rommel e Kesserling con le precise e purtroppo crudeli disposizioni di Hitler, cioè trattare chi avrebbe eventualmente resistito all’ordine di deporre le armi con estrema durezza, prevedendo la fucilazione per gli ufficiali e la deportazione per la truppa.
Quando “Achse” fu diramato anche il Friuli Venezia Giulia, fu investito dalle operazioni “Achse” e
“Schwartz”, con le precise disposizioni alla radio fatte alle 22.45 dell’8 settembre dallo stesso Kesserlig: “(…)
le truppe italiane dovranno essere invitate a proseguire la lotta al nostro fianco appellandosi al loro onore, altrimenti dovranno essere disarmate senza alcun riguardo. Per il resto no vi è clemenza per i traditori!“18 dunque disarmo a sorpresa con ogni mezzo e senza il minimo scrupolo delle truppe italiane.
Fortunatamente oggi si può affermare che l’ordine preso alla lettera da molti ufficiali della Wermacht
della Kriegs Marine e delle Waffen S.S. cioè di non avere pietà per quegli Ufficiali italiani che avessero posto
resistenza, non fu attuato nel goriziano, nella Provincia di Trieste e nelle località limitrofe, mentre le stesse
direttive fecero pagare caro agli uomini dell’Acqui a Cefalonia e della Perugia a Santi Quaranta19 il prezzo di
non accettare le proposte dei tedeschi opponendosi loro con le armi.
La reazione di vendetta estrema non avvenne, anche se scontri a fuoco cruenti e numerose vittime si
ebbero in tutta la Regione, come gli episodi di Tarvisio (con settantasei morti) e quelli di Postumia (quarantanove morti)20 e quelli nel Porto di Trieste ove fu affondata la Cv Berenice21 dalle unità della Kriegs Marine. In
questa zona dunque la rappresaglia non fu attuata, segno che l’essere umano anche se inferocito e accecato
dalla vendetta, se uomo si ricorda a volte di essere tale. “ …bella, horrida bella!”22.
I Documenti
Anche se particolarmente datate, le pubblicazioni con gli atti e i documenti ufficiali prodotti dagli Uffici
Storici della Marina e dell’Esercito a cura dello Stato Maggiore della Difesa sulle operazioni delle unità italiane
11
Internati Militari Italiani;
12
p.638, STATO MAGGIORE DELL’ESERCITO, UFFICIO STORICO, Le operazioni delle Unità italiane nel Settembre Ottobre 1943
(Ministero della Difesa, Roma 1975);
13
Piano per la cattura della flotta Italiana;
14
Piano dal nome del gen.Student, prevedeva l’occupazione di Roma e la ricostituzione del governo fascista;
15
Piano che prevedeva la liberazione di Mussolini attuato poi il 12 settembre dei paracadutisti del Magg. O.Skortzeny;
16
Piano che prevedeva l’eliminazione dell’Esercito italiano;
17
p. 86, COMITATO STORICO “FORZE ARMATE E GUERRA DI LIBERAZIONE”, OTTO SETTEMBRE 1943 L’ARMISTIZIO ITALIANO 40 ANNI DOPO (Ministero della Difesa, Roma,1985);
18
p.125, Gehrard SCHREIBERER, I militari italiani nei campi di concentramento del terzo Reich 1943-1945 – Traditi – Disprezzati –
Dimenticati, (Ed. Stato Maggiore dell’Esercito Ufficio Storico, tr.it. Friedrun Mazza e Giulio Primicerj, Roma 1997);
19
Giovanni BONOMI, ALBANIA 1943, (Ed. Bietti, Milano 1971);
20
pp.257-259, STATO MAGGIORE DELL’ESERCITO, UFFICIO STORICO, Le operazioni delle Unità italiane nel Settembre Ottobre
1943 (Ministero della Difesa, Roma 1975);
21
p.184, UFFICIO STORICO DELLA MARINA MILITARE, Collana La Marina Italiana Nella Seconda Guerra Mondiale, VOL. XV: La
Marina dall’ 8 Settembre 1943 alla fine del Conflitto (Ministero della Difesa, Roma 1971);
22
Virgilio, Eneide, lib.IV, 86;
7 durante gli accadimenti dell’8 settembre, sono al momento ancora i documenti più completi per quanto concerne le operazioni militari. Queste due voluminose pubblicazioni sono state curate quando si erano ormai
esauriti gli echi degli ultimi processi per le responsabilità durante i fatti in questione, per i qual motivi nelle aule
dei tribunali militari si dovettero ricostruire scientificamente le vicende dei reparti e delle squadre e oltre a ciò a
propria difesa molti imputati produssero numerose opere memorialistiche e relazioni.
Da queste pubblicazioni si evince chiaramente che già alla fine di agosto erano state recepite le direttive della C.T.111 e successivamente la Memoria 44 Op., infatti come si potrà leggere, uno stato di allerta con
dei significativi confronti con le unità tedesche in transito si era già verificato ben prima della dichiarazione di
armistizio. Bisogna affermare il concetto della modesta capacità offensiva delle unità italiane presenti nella
nostra zona, che reagirono comunque con fermezza alle intimidazioni tedesche, ma non avendo armamenti
idonei non poterono contrapporre un’efficace resistenza.
La Regia Marina nei porti disponeva sia di difese a terra che di piccole unità militari operative, e oltre a
ciò si potevano contare numerose navi civili militarizzate e soprattutto molto naviglio militare danneggiato e in
fase di riparazione. Il documento diramato con gli ordini per il trasferimento delle unità nei porti alleati fu redatto sulla base del Promemoria Dick studiato assieme al Gen. Castellano dall’omonimo Ufficiale della Royal
Navy a Cassibile appena il 2 settembre23, ciononostante la Marina non subì il crollo dell’Esercito soltanto per
la maggior compattezza e spirito di corpo dell’Arma e per circostanze molto più favorevoli in cui poteva operare, non avendo un diretto contatto con i tedeschi24, commenta la prof. Elena Aga Rossi, ciononostante proprio
nel porto di Trieste si verificherà il cruento scontro a fuoco tra unità delle marine contrapposte che di conseguenza porterà all’affondamento della Cv. Berenice con la perdita di numerosi uomini dell’equipaggio.
Da questi due volumi dunque gli atti dei documenti sugli accadimenti nella nostra zona, che come si
vedrà non fece passare l’8 settembre in modo indolore e con rassegnazione anzi, gli uomini che vi si trovarono
coinvolti fecero quello che poterono fare e molti pagarono duramente questi primi atti di resistenza.
Accanto agli atti ufficiali dei due Uffici Storici, riportiamo con alcuni commenti, i testi dell’Armistizio
Corto, dell’allegato di Quebec e i comunicati radio di Badoglio e di Eisenhower. La Memoria 44 Op. più volte
citata non è riportata poiché non esistono più i testi dei documenti trasmessi, giacché tali comunicati, portati a
mano da ufficiali di Stato Maggiore ai Generali di Corpo d’Armata, dovevano essere distrutti dopo la lettura: di
questi documenti nelle memorie di alcuni alti ufficiali e negli atti di alcun processi, sono stati ricostruiti i contenuti, che si possono consultare nei testi degli Uffici Storici assieme all’altro documento 111 C.T.25.
Le Testimonianze
Per completare la visione d’insieme di quanto sopra abbiamo suggerito, sarebbe opportuno dopo aver
approfondito con dati, numeri e documenti sentire i commenti di chi ha vissuto sulla propria pelle queste vicende. Negli anni successivi la fine del conflitto, furono presentate molte opere memorialistiche e di autodifesa
come quelle di Badoglio, Castellano, Roatta, Zanussi, ma accanto a questi nomi particolarmente risonanti vi
sono le opere di quelli che subirono gli eventi e li dovettero fronteggiare: così sono state prodotte numerose
opere di testimonianza sparse in pubblicazioni locali ormai a volte introvabili.
Molto si è parlato di Cefalonia, ma di fatti tragici ne sono accaduti moltissimi tanto che vale la pena ricordare che l’8 settembre fu pagato con la vita di circa 20.000 militari italiani e la deportazione di quasi
750.000 internati. Non avendo particolari opere di testimonianza sulla nostra zona, si è deciso di rivolgersi a
chi con memoria ricorda ancora i fatti perché vissuti in prima persona: i reduci.
23
Commodoro Dick della Royal Navy Capo di St. Maggiore della Mediterranean Fleet: Gino GALUPPINI, Pennello nero, Storia Militare n°47 anno V, ago.1977, (Ed. Albertelli, Parma 1997);
24
p.123, ROSSI Elena Aga, Una nazione allo sbando: l’Armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze (Ed. Il Mulino,
Bologna 2003);
25
STATO MAGGIORE DELL’ESERCITO, UFFICIO STORICO, Le operazioni delle Unità italiane nel Settembre Ottobre 1943 (Ministero della Difesa, Roma 1975);
8 Sinceramente si deve affermare che non tutto è andato come si sperava, anzi soltanto pochi hanno
concesso la narrazione delle loro memorie, mentre molti hanno comprensibilmente giustificato la volontà a non
contribuire affermando che quei giorni sono sessant’anni che li vogliono dimenticare. Essendo poche le testimonianze che ci sono state concesse sui fatti accaduti a Trieste, abbiamo pensato pertanto di rivolgerci a quei
triestini che hanno vissuto in armi l’8 settembre in altre zone, ed è stata una scoperta entusiasmante di tante
storie che mai sarebbero state narrate se non ai propri nipoti.
Abbiamo deciso pertanto di dare spazio e voce, come nei racconti di quell’opera commovente di Giuseppe Grazzini, comparsa nel 1967 e ormai introvabile intitolata “Questi bravi ragazzi”26,ove in una serie di
racconti sembrava che i padri raccontassero ai propri figli cosa per loro è stata la Seconda Guerra Mondiale
dopo averla vissuta con l’uniforme delle Forze Armate italiane.
“Molti avvenimenti storici non hanno potuto essere osservati se non in momenti di violento turbamento emotivo…”27 afferma Mach Bloch, infatti per i nostri testimoni i fatti dell’8 settembre si sono fissati nella memoria in modo preciso e indelebile, al punto che nemmeno sessant’anni di tempo trascorso ne ha permesso di
alterare la percezione. Parlare con loro di questi fatti è come aver commentato un evento della settimana
scorsa, ecco perché si vuole porre l’accento sull’originalità di quanto il Centro Studi ha deciso di pubblicare.
Le testimonianze raccolte sono fondamentalmente di quattro tipi: quelle scritte di pugno dal testimone,
quelle dettate a un parente, le memorie raccolte da appunti e la ultima il diario. I nostri testimoni oggi hanno
dai settantotto agli ottantotto anni e dopo i fatti dell’8 settembre all’epoca hanno tutti preso strade diverse. Per
questo motivo riteniamo che questa raccolta sia particolarmente obiettiva, perché comprende storie di chi poi
ha combattuto con la Repubblica Sociale, di chi è stato internato per venti mesi in Germania, di chi ha combattuto nell’Esercito di Liberazione, di chi non ha collaborato con gli Alleati, di chi ha abbracciato la guerra partigiana e di chi semplicemente è ritornato a casa.
Sono tutte storie vere, sincere e toccanti, tra queste citiamo il diario del Carabiniere Scelto Carlo Pocecco, sia perché queste pagine ci sono state affidate dopo la sua scomparsa, sia perché senza saperlo egli si
è trovato in un inferno che la storia non ha concesso la meritata memoria, quella della Divisione Perugia, che
a Santi Quaranta subì sorte analoga all’Acqui, ma tranne la memoria di Giovanni Bonomi in Albania 194328,
poco si sa. Di questo piccolo taccuino d’appunti del quale abbiamo riportato le giornate successive
all’armistizio, vogliamo ancora strappare alcune righe, per concludere questa serie di riflessioni lasciando a chi
legge le proprie conclusioni.
È il momento del suo ritorno in Italia: “Sbarcavo a Brindisi l’11.6.44 alle quattordici pomeridiane. La
popolazione nel vederci in quelle condizioni si rattristò e a qualcuno cadevano le lacrime dagli occhi.”
LA SITUAZIONE MILITARE DEL REGIO ESERCITO ITALIANO NEI GIORNI ANTECENDENTI L’8 SETTEMBRE 1943 NELLA ZONA DELL’ITALIA NORD ORIENTALE
L’8^ ARMATA retta dal Generale Italo Gariboldi era dislocata nel Veneto e nella Venezia Giulia e disponeva dei Corpi XXIII con la Divisione di fanteria “Sforzesca” «r»29, XXIV con la Divisione di fanteria “Torino” «r» e la Divisione alpina “Julia “ «r», e XXXV con la Divisione alpina “Tridentina” «r».
Nel frattempo, all'inizio di settembre, la 71^ Divisione germanica (XVI Corpo), proveniente dai valichi
di Piedicolle-Postumia, era entrata nel goriziano e vi si era insediata avviando anche distaccamenti verso le
più importanti opere d'arte rotabili e ferroviarie nell'intento secondo le giustificazioni addotte da quel Comandante di cooperare con gli italiani nel presidio delle vie di comunicazione.
26
Giuseppe GRAZZINI, QUESTI BRAVI RAGAZZI, (Ed. Mondadori, Milano 1967);
27
p.79, Marc BLOCH, Apologia della storia o Mestiere di storico, (Ed.Einaudi, tr.it. Giuseppe Gouthier, Torino 1998);
28
Giovanni BONOMI, ALBANIA 1943, (Ed. Bietti, Milano 1971);
29
"r" : divisione in corso di ricostruzione provenienti dal fronte russo
9 L'atteggiamento energico e ordinato dallo Stato Maggiore impedì a quelle truppe di occupare Trieste,
Udine e Gorizia. A sua volta, dopo alcune ore, giunse notizia che il XVI Corpo tedesco (del quale la 71^ Divisione faceva parte) era in corso di affluenza nella conca di Klagenfurt con tre divisioni. Tale situazione indusse lo Stato Maggiore dell'Esercito a predisporre una reazione recuperando nel contempo le maggiori forze
possibili dalla Slovenia per avvicinarle alla frontiera, costituendo una massa di forze tratte dalle migliori divisioni dislocate in Jugoslavia. Si sarebbero dovute concentrare le Divisioni appartenenti alle Armate 2^ e 8^: “Torino”, “Sforzesca” “Cacciatori delle Alpi” “Isonzo” “Murge” “Macerata” “Lombardia” “Julia” “Messina”
e “Ia Celere”.
Il 4 settembre fu dato ordine al Comando della 2^ ARMATA di disimpegnare subito la Divisione “Isonzo” dislocata in Slovenia per avvicinarla alla zona di probabile impiego. Al comando di tale massa di manovra fu destinato il Generale Gambara, Comandante del XI Corpo. Entro il giorno undici tutte le misure si sarebbero dovute completare, cioè nei termini di tempo noti, relativi alla data di probabile annuncio dell'armistizio
(12 settembre). Il Generale Gambara giunse a Roma il mattino del 5 settembre.
Avuti i necessari orientamenti, chiese alcune assegnazioni di mezzi e personale ed ebbe anche la direttiva di prendere contatti con i partigiani sloveni per un’azione in comune, e il preavviso che, in un secondo
tempo, si sarebbe passati ad un’azione organizzata su vasta scala. Si trattenne a Roma, per organizzare il
suo comando, riunire i mezzi e attendere le disposizioni definitive, scritte, che gli furono consegnate soltanto il
pomeriggio dell'8 (ordine n 36415) dopo l'approvazione da parte del Generale Ambrosio, rientrato il mattino.
Lasciò la Capitale in auto poco prima dell'annuncio dell’'armistizio, tentando con ogni mezzo di raggiungere
Lubiana, ma non vi riuscì.
La missione Gambara era pertanto già fallita in partenza. A ciò contribuirono in modo determinante,
non soltanto il ritardo nell'emanazione scritta dell'ordine, ma anche l'omessa informazione, almeno verbale al
Generale Gambara circa l'avvenuta conclusione dell'armistizio e il suo probabile imminente annuncio, nonché
il mancato ricorso a preavvisi telefonici o radio alle Grandi Unità interessate a così notevoli cambiamenti. Erano stati inoltre impartiti in precedenza gli ordini per la difesa di Roma.
Nel complesso quadro delle contromisure italiane vanno anche ricordati alcuni episodi, energiche prese di posizione contro la tracotanza delle forze germaniche.
Nella Venezia Giulia, come si è visto, quando la 71^ Divisione tedesca penetrò nel territorio italiano,
le truppe ivi stanziate assunsero un dispositivo di sicurezza e di difesa dinanzi ad Udine, Gorizia e Trieste per
impedirvi l'accesso ai tedeschi. Questi, pur dilagando in vari punti, specie in corrispondenza delle opere stradali e ferroviarie, giunti a contatto col nostro schieramento avanzato, si arrestarono e non fecero ricorso alla
forza.
Testo estratto dai documenti riportati nelle pagine 20 e successive della seguente relazione ufficiale:
STATO MAGGIORE DELL’ESERCITO - UFFICIO STORICO
“LE OPERAZIONI DELLE UNITA’ ITALIANE NEL SETTEMBRE OTTOBRE 1943”
Ministero della Difesa, Roma 1975
10 11 ARMISTIZIO “CORTO”30
Sicilia, 3 settembre 194331
Le seguenti condizioni di armistizio sono presentate dal Generale Dwight D. Eisenhower Generale
Comandante delle Forze armate alleate, il quale agisce per delega dei Governi degli Stati Uniti e della Gran
Bretagna, e nell'interesse delle Nazioni Unite, e sono accettate dal Maresciallo Badoglio, Capo del Governo
italiano.
1)
Immediata cessazione di ogni attività ostile da parte delle Forze Armate Italiane.
2)
L'Italia farà ogni sforzo per sottrarre ai tedeschi tutti i mezzi che potrebbero essere adoperati contro le
Nazioni Unite.
3)
Tutti i prigionieri e gli internati delle Nazioni Unite saranno rilasciati immediatamente nelle mani del Comandante in Capo alleato e nessuno di essi dovrà essere trasferito in territorio tedesco.
4)
Trasferimento immediato in quelle località che saranno designate dal Comandante in Capo alleato, della
Flotta e dell'Aviazione italiane con i dettagli del disarmo che saranno fissati da lui.
5)
Il Comandante in Capo alleato potrà requisire la marina mercantile italiana e usarla per le necessità del
suo programma militare navale.
6)
Resa immediata agli Alleati della Corsica e di tutto il territorio italiano sia delle isole che del Continente
per quell'uso come basi di operazioni e per altri scopi che gli Alleati riterranno necessari.
7)
Immediata garanzia del libero uso di tutti i campi di aviazione e dei porti navali in territorio italiano senza
tener conto del progresso dell'evacuazione delle forze tedesche dal territorio italiano. Questi porti navali
e campi di aviazione dovranno essere protetti dalle forze armate italiane finché questa funzione non sarà assunta dagli Alleati.
8)
Tutte le forze armate italiane saranno richiamate e ritirate su territorio italiano da ogni partecipazione
alla guerra da qualsiasi zona in cui siano attualmente impegnate.
9)
Garanzia da parte del Governo italiano che, se necessario, impiegherà le sue forze armate per assicurare con celerità e precisione l'adempimento di tutte le condizioni di quest’armistizio.
10) Il Comandante in Capo delle forze alleate si riserva il diritto di prendere qualsiasi provvedimento che
egli riterrà necessario per proteggere gli interessi delle forze alleate per il proseguimento della guerra; e
il Governo italiano s'impegna a prendere quelle misure amministrative e di altro carattere che il Comandante in Capo richiederà, e in particolare il Comandante in Capo stabilirà un Governo militare alleato su
quelle parti del territorio italiano che egli giudicherà necessario nell'interesse delle Nazioni alleate.
11) Il Comandante in Capo delle forze armate alleate avrà il pieno diritto d'imporre misure di disarmo, smobilitazione e demilitarizzazione.
12) Altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario cui l'Italia dovrà conformarsi saranno trasmesse più tardi.
Le condizioni di quest’armistizio non saranno rese pubbliche senza l’approvazione del Comandante
in Capo alleato. Il testo inglese sarà considerato testo ufficiale.
Per il Maresciallo Pietro Badoglio Capo del Governo Italiano, Giuseppe Castellano Generale di Brigata addetto al Comando Supremo Italiano.
30
Testo del documento dell’Armistizio ricordato come Corto, Breve o di Cassibile, tratto dagli atti del COMITATO STORICO “FORZE
ARMATE E GUERRA DI LIBERAZIONE”, OTTO SETTEMBRE 1943 L’ARMISTIZIO ITALIANO 40 ANNI DOPO (Ministero della
Difesa, Roma 1985);
31
L’atto venne firmato alle 17,15 del 3 settembre 1943 presso la Tenuta San Michele nelle vicinanze di Cassibile, località situata
sulla provinciale Avola - Siracusa vicino a Cassibile. Rif. Storia Militare n°96 anno IX sett.2001 nell’articolo di Riccardo Rossotto
“Cassibile, 3 settembre 1943”;
12 Per Dwight Eisenhower Generale dell’Esercito degli Statti Uniti d’America Comandante in Capo delle Forze
Alleate, Walter Bedell Smith Maggiore Generale dell’Esercito degli Stati Uniti d’America, Capo di Stato Maggiore.
DICHIARAZIONE DI QUÉBEC32
Le condizioni di armistizio non contemplano l'assistenza attiva dell'Italia nel combattere i tedeschi. La
misura nella quale le condizioni saranno modificate in favore dell'Italia dipenderà dall'entità dell'apporto dato
dal Governo e dal popolo italiano alle Nazioni Unite contro la Germania durante il resto della guerra. Le Nazioni Unite dichiarano tuttavia senza riserve che ovunque le forze italiane e gli italiani combatteranno i tedeschi, o
distruggeranno proprietà tedesche, o ostacoleranno i movimenti tedeschi, essi riceveranno tutto l'aiuto possibile dalle forze delle Nazioni Unite. Nel frattempo, se informazioni sul nemico saranno fornite immediatamente e
regolarmente, i bombardamenti degli Alleati saranno effettuati, nei limiti del possibile, su obiettivi che influiranno sui movimenti e sulle operazioni delle forze tedesche.
La cessazione delle ostilità fra le Nazioni Unite e l'Italia entrerà in vigore a partire dalla data e dall'ora
che verrà comunicata dal generale Eisenhower.
II Governo italiano deve impegnarsi a proclamare l'armistizio non appena esso verrà annunciato dal
generale Eisenhower e a ordinare alle sue forze e al suo popolo di collaborare da quell'ora con gli Alleati e di
resistere ai tedeschi.
II Governo italiano deve, al momento dell'armistizio, dare ordine che tutti i prigionieri delle Nazioni Unite in pericolo di cattura da parte dei tedeschi siano immediatamente rilasciati.
II Governo italiano deve al momento dell'armistizio dare ordini alla flotta italiana e alla maggior parte
possibile della Marina mercantile di partire per i porti alleati. II maggior numero possibile di aerei militari dovrà
recarsi in volo alle basi alleate.
Qualsiasi aereo in pericolo di cattura da parte dei tedeschi deve essere distrutto.
Nel frattempo vi sono molte cose che il maresciallo Badoglio può fare senza che i tedeschi si accorgano di quello che si sta preparando. La natura precisa e l'entità della sua azione saranno lasciate al suo giudizio, ma si suggeriscono le seguenti linee generali:
1 - resistenza generale passiva in tutto il paese, se quest'ordine può essere trasmesso alle autorità locali
senza che i tedeschi lo sappiano;
2 - piccole azioni di sabotaggio in tutto il paese, specialmente delle comunicazioni e degli aeroporti usati dai
tedeschi;
3 - salvaguardia dei prigionieri di guerra alleati. Se la pressione tedesca per farli consegnare diventa troppo
forte, essi dovrebbero essere rilasciati;
4 - nessuna nave da guerra deve essere lasciata cadere in mano tedesca. Disposizioni dovranno essere
date per assicurarsi che tutte queste navi possano salpare per i porti designati dal generale Eisenhower,
non appena egli ne darà l'ordine. I sottomarini italiani non devono sospendere le missioni, dato che ció rivelerebbe al nemico il nostro scopo comune;
5 - nessuna nave mercantile dovrà cadere in mano tedesca. Le navi nei porti del Nord dovranno, se possibile, recarsi nei porti a sud della linea Venezia - Livorno. In caso disperato dovrebbero essere affondate.
Tutti i piroscafi dovranno tenersi pronti a salpare per i porti designati dal generale Eisenhower;
6 - non si dovrà permettere ai tedeschi di prendere in mano le difese costiere italiane;
32
Comitato Storico “Forze Armate E Guerra Di Liberazione”, OTTO SETTEMBRE 1943 L’ARMISTIZIO ITALIANO 40 ANNI DOPO,
pp.31-32, (Ministero della Difesa, Roma 1985);
13 7 - predisporre il piano perché al momento opportuno le unità italiane nei Balcani possano marciare verso la
costa, dove potranno essere trasportate in Italia dalle Nazioni Unite.
*******
Il testo del documento è quello redatto nell’ambito della Conferenza di Quebec tra Roosevelt e Churchill che si tenne dal 14 al 24 agosto33. Il contenuto fu allegato al testo dell’Armistizio e consegnato al gen.
Castellano nella sua missione a Lisbona dell’agosto 43, dalla quale rientrò in territorio nazionale il ventotto
dello stesso mese. Sulla base di tali indicazioni furono elaborati i successivi comunicati alle FF.AA. italiane
“Memoria 44 Op.” e “Memoria 45 Op.”. Il Promemoria Dick con le istruzioni per la Marina34 fu studiato e realizzato invece successivamente a Cassibile appena il 2 settembre.
IL GOVERNO DI ROMA CHIEDE L’ARMISTIZIO ALLE NAZIONI UNITE35
Il Capo del Governo Maresciallo d’Italia Badoglio, la sera dell’8 settembre alle ore 19,45 ha fatto alla
radio la seguente comunicazione:
“Il Governo Italiano, riconosciuta l’impossibilità di continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio
al generale Eisenhower comandante in capo delle forze alleate anglo-americane.
La richiesta è stata accettata. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane
deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”.36
*****
Eisenhower, nel testo della comunicazione analoga divulgata dalla Reuter e poi radiotrasmessa da
Radio Algeri e successivamente da Radio New York poco più di un’ora prima del messaggio di Badoglio, aveva detto inoltre che “le forze armate del governo italiano si erano arrese incondizionatamente” aggiungendo
che come comandante in capo alleato, aveva concesso un armistizio militare, i cui termini, approvati dai governi del Regno Unito, degli U.S.A. e dell’U.R.S.S., erano stati accettati senza riserve dal governo italiano.
L’annuncio si concludeva con queste parole: “Tutti gli Italiani che ora agiranno per combattere e cacciare
l’aggressore tedesco fuori dal territorio italiano avranno l’assistenza e l’aiuto delle Nazioni Unite.”37
I FATTI DELL’8 SETTEMBRE 1943 NELLA ZONA DELL’ITALIA NORD ORIENTALE
Settore del XXIII Corpo d’Armata.
Verso la fine di agosto pervenne al Comando d’Armata l’ordine di far affluire al valico di Postumia in
rinforzo a unità del XXIV Corpo, un Reggimento e un Gruppo della “Sforzesca” per opporsi al passaggio di
truppe tedesche al vecchio confine. Ma, una volta sul posto, l’ordine fu revocato.
Anche nel settore del XXIII Corpo in base agli accordi conclusi fra i due Comandi Supremi, le truppe
tedesche si erano affiancate a quelle italiane a protezione della linea ferroviaria Villa Santina – Villa Opicina. In
33
pp.92 e successive, ROSSI Elena Aga, Una nazione allo sbando: l’Armistizio italiano del settembre 1943 e le sue conseguenze
(Ed. Il Mulino, Bologna 2003);
34
Commodoro Dick della Royal Navy Capo di St. Maggiore della Mediterranean Fleet: Gino GALUPPINI, Pennello nero, Storia
Militare n°47 anno V, ago.1977, (Ed. Albertelli, Parma 1997);
35
Testo integralmente riportato dal Periodico dell’epoca L’ILLUSTRAZIONE ITALIANA diretta da Aldo GARZANTI, IL GOVERNO DI
ROMA CHIEDE L’ARMISTIZIO ALLE NAZIONI UNITE, p.702, anno LXX – n°37, 12 settembre 1943, (Ed. Garzanti, Milano 1943);
36
Quest’ultima frase, non concordata, sembra sia stata scritta dallo stesso Badoglio;
37
Giorgio CANDELORO, Storia dell’Italia moderna: La seconda Guerra Mondiale; Il crollo del fascismo; La Resistenza; 19391945, p.222 (Ed. Feltrinelli, Milano 1984);
14 seguito all’ordine dello Stato Maggiore dell’Esercito di impedire il transito di unità tedesche dall’orlo
dell’altipiano carsico per dirigersi su Trieste furono costituiti sbarramenti a Poggioreale, Banne, Monte Spaccato e Basovizza. Per l’applicazione della “Memoria 44”, erano previste modeste azioni col carattere del colpo di
mano e l’interruzione delle comunicazioni. Fu necessario perciò rimaneggiare lo schieramento della “Sforzesca” con inizio dei movimenti a partire dall’8 settembre. All’annuncio dell’armistizio la situazione del Corpo
d’Armata apparve subito nella sua gravità, tutta via fu ordinato di intensificare la vigilanza e le misure di sicurezza.
La stessa sera dell’8 qualche distaccamento sul Carso fu disarmato dai tedeschi e alle 23 le forse tedesche dislocate nella zona di Opicina – Banne iniziarono il movimento su Trieste.
Settore del XXIV Corpo d’Armata.
Nel periodo antecedente l’armistizio, il XXIV Corpo d’Armata che aveva svolto intensa attività operativa anti partigiana, verso la fine di agosto, dovette fronteggiare l’afflusso delle forze tedesche in corrispondenza
ai valichi di Tarvisio, Piedicolle e Caccia (Postumia): si trattava delle unità della “71a Divisione” Generale Wilhelm Rampke proveniente dalla Val di Sava. Furono fermate ai valichi e i comandanti delle colonne avvertirono che avrebbero dovuto concorrere alla protezione delle linee ferroviarie nei tratti Gemona – S. Lucia di Tolmino – Postumia e che avrebbero fatto ricorso alla forza se non fosse stato revocato il divieto di transito.
Nell’attesa di ordini dal Comando d’Armata, un treno segnalato quale trasporto di carbone ma carico di truppe
straniere entrò nella stazione di Piedicolle Bassa: queste occuparono di sorpresa la caserma della “Guardia
alla Frontiera” disarmando il personale. La situazione fu ristabilita dall’intervento del Battaglione “Vicenza”
della Julia il quale dopo un breve scontro costrinse le forze tedesche a ritirarsi nelle colline adiacenti. Giunto
l’ordine di lasciar transitare liberamente le colonne tedesche (che però non avrebbero dovuto oltrepassare i
valichi di Tarvisio e Cracova in Val Baccia) e di non ricorrere alla forza, esse proseguirono ma, il Comando di
Armata intimò di sbarrarne il passo a Camporosso, al Predil, in Val Baccia e a Postumia, ciò che indusse a
effettuare spostamenti di forze. Il 28 agosto peraltro, l’ordine fu revocato stabilendo che le forze tedesche non
avrebbero dovuto superare Santa Lucia di Tolmino e Gemona. Furono perciò costituiti sbarramenti sulle colline di Magnano, Postumia e a Santa Lucia.
La notte del 9 settembre con azione improvvisa, le forze tedesche catturarono il presidio di Santa Lucia di Tolmino e tutti i piccoli posti esistenti lungo la Val Baccia e la Val Fella. Una colonna prese la marcia
lungo l’Isonzo ma fu arrestata allo sbarramento di Salcano dalla reazione dei reparti della Divisione “Torino”.
Nel frattempo il Comando d’Armata, informato, diede ordine di impedire ad ogni costo l’ingresso delle forze
tedesche a Gorizia ed Udine.
Alle 5 e 20 del 9, le forze tedesche attaccarono di sorpresa il presidio di Tarvisio che oppose eroica
resistenza per ben quattro ore. Vista poi l’impossibilita’ di puntare su Gorizia, attraverso lo sbarramento di Salcano, una colonna tentò di aggirarlo procedendo su Gorizia da Postumia: anche qui la minaccia fu sventata
dalle unità della Divisione “Torino” che attaccarono i tedeschi alla Sella di Prevallo costringendoli a ripiegare
verso est.
Sempre alle prime ore del mattino del nove, il Comando della “Sforzesca” e i reparti dislocati a Banne, Poggioreale, Divaccia, Sesana e Valle del Timavo furono circondati e costretti alla resa: le truppe furono
disarmate e in qualche località fatte prigioniere, in altre poste in libertà. Le principali comunicazioni furono interrotte, solo a San Paolo del Carso avvenne uno scontro fra tedeschi ed elementi del “XXV Settore Guardia
alla Frontiera”. Lo stesso mattino dei nove, elementi tedeschi di stanza a Trieste s’impadronirono di una batteria della Milizia schierata sul molo e catturarono i piroscafi nel porto aprendo il fuoco sulla “Berenice” della
Regia Marina che tentava di prendere il largo, affondandola.
Nel frattempo il Generale Gambara aveva telefonato al Comando da Fiume chiedendo quali unità potevano essere messe a sua disposizione. Furono passate alle sue dipendenze le unità della “Guardia alla
Frontiera”, quelle della “Sforzesca” schierate in loro supporto e quelle del Comando di Zona di Abbazia, sulle
quali il Comando di Corpo d’Armata non era in grado di esercitare effettiva azione di Comando. La situazione
andò presto precipitando per l’interruzione di tutte le comunicazioni, per l’avvenuto disarmo di alcuni reparti
costieri dislocati in Istria e per il cedimento delle forze poste a difesa degli sbarramenti di Poggioreale e di
15 Banne – Monte Spaccato. Rimaneva in posto ed efficiente ma isolato un Battaglione di formazione che con
una batteria difendeva lo sbarramento di Basovizza. Tenuto conto che gli altri sbarramenti, con cui faceva sistema erano caduti, il Generale Ferrero che si trovava a Villa Necker38, dispose lo spostamento di quelle unità
alle porte di Trieste per ostacolare le provenienze dall’Altipiano Carsico, rimanevano però scoperte altre vie di
accesso e le posizioni su cui lo sbarramento accennato poteva appoggiarsi, erano aggirabili da ogni parte.
Divenuta impossibile la difesa della città non restava altra soluzione che entrare in trattative con il
Comandante tedesco che aveva già espresso il desiderio di conferire con il Generale Ferrero. Fu così concluso nel pomeriggio un accordo che prevedeva la cessazione delle ostilità. L’occupazione dei due porti di Trieste
e Monfalcone, l’impiego delle truppe italiane di Trieste per il mantenimento dell’ordine pubblico che però furono diramate nello stesso giorno, l’entrata delle truppe tedesche in Trieste per le ore 18.00 evitando di attraversare il centro della città e infine il concentramento delle unità costiere della difesa a Muggia e Miramare.
Dell’accordo fu informato il Comando d’Armata.
Testo estratto dai documenti riportati nella seguente relazione ufficiale:
STATO MAGGIORE DELL’ESERCITO - UFFICIO STORICO
“LE OPERAZIONI DELLE UNITA’ ITALIANE NEL SETTEMBRE OTTOBRE 1943”
Ministero della Difesa, Roma 1975
I FATTI DELL’8 SETTEMBRE NEL PORTO DI TRIESTE . . .
Il Comando Marina di Trieste era retto dal C.V. 39 “richiamato” 40 Lorenzo Stallo. La città aveva importanza militare marittima, per così dire indiretta, per essere la sede del Lloyd Triestino, per avere un porto
di grande traffico in tempi normali e per essere sede di rinomati cantieri, nei quali l'8 settembre 1943 erano in
costruzione o in allestimento due cacciatorpediniere e sei corvette, in trasformazione in navi contraerei i due
incrociatori Etna e Vesuvio, in avanzato allestimento la corazzata Impero e in grandi riparazioni la corazzata
Cavour. Dal Comando Marina dipendevano i due uffici tecnici di controllo dei cantieri, quello del Genio Navale e quello delle Armi Navali, la Capitaneria per la parte militare delle sue attribuzioni, il gruppo di navi
d’uso locale per i servizi di vigilanza e di dragaggio. A Trieste erano presenti forti nuclei tedeschi (generalmente in transito per l'Albania e la Grecia), accantonati nella zona del porto nonostante le rimostranze più
volte avanzate dal Com. Stallo alle Autorità dell'Esercito.
Poco dopo mezzanotte del giorno 8 fu dato l'ordine di approntamento alla partenza delle navi militari
e mercantili in condizioni di navigare, mentre le Navi Scuola Colombo e Vespucci e le motonavi Saturnia e
Vulcania erano già state avviate rispettivamente a Pola e a Venezia. Movimenti notturni di truppe tedesche
da Opicina verso Trieste erano stati pre-annunciati al Comando Marina dal Comando del 23° Corpo d'Armata per la notte, diretti - come al solito - verso gli accantonamenti del porto. Ma dopo mezzanotte dell'8
essi assunsero un’ intensità ed un aspetto preoccupanti, tanto che il Comando del C.A.41 decise di contrastarli e chiese l'eventuale intervento dell'artiglieria di unità navali contro la rotabile Opicina Trieste. In conseguenza il Comando Marina ordinò all'Audace di uscire dal porto ed alla Tp 42 Insidioso (in arrivo da Pola) di
attendere in rada. Alle 06.20 il C.A. confermò la necessità immediata dell'intervento, ma prima che il Com.
Stallo potesse far pervenire l'ordine alle torpediniere, i Tedeschi aprirono il fuoco contro di esse che si allontanarono tenendosi pronte a scortare i piroscafi in partenza. Ma alle 06.30 con fulminea azione, le truppe
tedesche alloggiate nel porto s'impadronirono d'una batteria da “76”, delle mitragliere sistemate sui moli per
la difesa delle ostruzioni e dello specchio d'acqua antistante, infine occuparono i piroscafi all'ormeggio. In
38
Sede del Comando della VIII Armata
39
Capitano di Vascello;
40
L’Ufficiale non più in servizio era stato richiamato dalla Regia Marina;
41
Corpo d’Armata;
42
Torpediniera;
16 poco più di un'ora l'aggressione era compiuta, tuttavia le navi d'uso locale riuscirono a partire, mentre la Cv
43 Berenice fu affondata.
In definitiva, la sera del nove, i ventisei bastimenti mercantili presenti erano catturati: su 18 di essi
poterono essere attuati i sabotaggi ordinati, su altri 8 catturati per primi non vi fu il tempo di far nulla. Tra i
mercantili era il Rex, famoso per aver conquistato il nastro azzurro dell’Atlantico in una delle traversate. Le
Tp Audace e Insidioso si allontanarono: la prima per Venezia, la seconda per Pola, dove rimasta immobilizzata per aver ceduto la nafta al Vulcania e per essersi sabotata cadde in potere dei Tedeschi. 44
Nel frattempo i Tedeschi estendevano l’occupazione a tutta la città. Il Comando Marina, per non rimanere isolato, verso le ore 09.00 del nove si trasferì sulla Cavour e vi accentrò tutto il personale reperibile.
Sulla Corazzata regnava ordine e disciplina, così che tutti i provvedimenti per lasciar libero l’equipaggio e
tutto il personale affluito poterono svolgersi regolarmente; fu anche provveduto al sabotaggio delle unità che
avrebbero potuto essere approntate in meno di tre mesi.
Tornando verso le 17.30 alla normale sede del Comando Marina, il Com. Stallo seppe dal Comando
del C.A. che, per accordi coi Tedeschi, doveva essere ritirato per le ore 18.00 il personale lungo la costa da
Muggia a Miramare (cioè verso Monfalcone) perché la costa sarebbe stata occupata da truppe germaniche.
Il giorno successivo, 10 settembre, furono circondati da truppe tedesche con autoblindo i comandi del C.A.,
della Difesa territoriale di Trieste e della Marina. Il Com. Stallo era però ritornato sulla Cavour e poté, il mattino dell’11, per fortuita combinazione telefonare a Venezia e ragguagliare della situazione il Comando in
Capo, ottenendo in risposta l’autorizzazione a lasciare Trieste (come la sera innanzi gli aveva consigliato il
Comando territoriale poco prima di sciogliersi). Egli tuttavia rimase ancora per qualche tempo sul posto, in
abito civile, sia per svolgere opera di assistenza a quanti /militari, impiegati, operai/ ne avevano bisogno, sia
per sistemare le questioni amministrative coi cantieri.
. . . E NEL PORTO DI MONFALCONE.
A Monfalcone non esisteva un vero e proprio Comando Marina, ma una Sezione staccata dell’Ufficio
Genio Navale di Trieste: tuttavia aveva funzioni di Comandante Marina l’ufficiale più anziano del gruppo
sommergibili in allestimento. L’8 settembre, l’importante cantiere era affollato di navi in costruzione ed esistevano per la sua difesa, tre batterie fisse contraeree armate dalla Marina e da altre quattro carreggiate. Tra
le unità in costruzione, in allestimento e riparazione c’erano: sedici sommergibili, quattro corvette, due motosiluranti, quattro MAS, sette navi mercantili. Sul posto si trovò il mattino dell’8 settembre, quale ufficiale più
anziano, il Magg. 45 G.N. 46 Oreste Bambini, dopo che il sommergibile Nautilo era partito per Venezia col
C.M. I 47 al comando del C.V. Campanella. Il Magg. Bambini, preso contatto col Comando territoriale, provvide a far partire i due MAS che erano in grado di muovere e a far sabotare sia tutte le unità approntabili in
meno di tre mesi sia le batterie. La sua opera si svolse nel giro di quarantotto ore, prima che i Tedeschi occupassero Monfalcone e il cantiere.
Testo estratto dai documenti riportati nelle pagine 182 - 185 della seguente relazione ufficiale:
UFFICIO STORICO DELLA MARINA MILITARE
”LA MARINA ITALIANA NELLA SECONDA GUERRA MONDIALE” – vol. XV
“LA MARINA DALL’ 8 SETTEMBRE 1943 ALLA FINE DEL CONFLITTO”
Roma 1971
43
Corvetta;
44
L’Insidioso venne utilizzato successivamente dai tedeschi col nome di T.A. 21 fino alla sua distruzione nell’estate del 1944 durante un bombardamento aereo alleato;
45
Maggiore;
46
Genio Navale;
47
Comandante in Prima;
17 L’AFFONDAMENTO DELLA BERENICE
Dopo le 7 del mattino, il Comandante, S.T.V. 48 Antonio Bonelli di Genova, comandò al direttore di
macchina, Parlato, di mettere in moto i due motori. Come la Berenice si stacco dal molo dello Scalo Legnami, sperando di scapolare la diga Nord, dalle vicine navi Knudsen e Ramb IV partirono le prime cannonate.
Le stesse aprirono il fuoco anche al largo contro Audace e Insidioso. L’Audace prese alcuni colpi, ebbe
feriti a bordo ma riuscì a sfuggire al peggio mettendosi fuori tiro. Non rispose con i suoi cannoni, per non recar danni e lutti alla città. Rispose invece la Berenice spalleggiata da una batteria contraerea italiana appostata sulla diga. S’ingaggio così battaglia.
Colpita al timone, la Corvetta girò su se stessa e piegò all’interno delle acque del Vallone verso le altre due dighe. Fu facile bersaglio dei tedeschi che si accanirono a crivellarla di colpi. Prima che il vascello
affondasse, sulla sua coperta si verificarono scene convulse e terrificanti. Alcuni marinai, buttatisi in mare
raggiunsero a nuoto la costa nei pressi di Punta San Rocco. Il comandante Bonelli fu ripescato decapitato.
Due ignoti della Berenice, furono raccolti in mare dai pescatori di Muggia, uno lo stesso 9 settembre, l’altro
10 giorni dopo. I Resti di altri tre marinai senza nome vennero recuperati successivamente nelle acque del
Golfo.
Contenuto ricavato da:
IL PICCOLO
Italo Soncini, Il sacrificio della “Berenice”
Mercoledì, 8 settembre 1993
48
Sottotenente di Vascello;
18 - TESTIMONIANZE “con i loro occhi, dalla loro voce, nei loro diari”
RACCOLTA INEDITA DI MEMORIE SUGLI ACCADIMENTI DELL’OTTO SETTEMBRE 1943
VISSUTE DA TRIESTINI COINVOLTI NELLA FURIA DEGLI EVENTI
Per noi tutti esiste una “zona crepuscolare” fra storia e memoria; fra il passato come archivio generale
aperto a un’indagine relativamente spassionata e il passato come parte o sfondo dei propri ricordi personali
(…). L’esistenza di questa zona può variare, e così l’oscurità e la confusa percezione che la caratterizzano.
Ma questa “terra di nessuno” temporale c’è sempre, ed è la parte della storia di gran lunga la più difficile da
afferrare, per gli storici e per chiunque.
E.J.Hobsbawm, L’età degli imperi
19 L’8 SETTEMBRE 1943 DALLA STAZIONE DI CAMPO MARZIO
Quel fatidico giorno l’ho visto con gli occhi da diciannovenne, orgoglioso della propria città (anche se
di adozione) e della propria Patria.
Svegliato alla buon’ora dal rumore provocato dai cannoni e dalle mitragliere al primo momento non mi
resi conto di cosa stava succedendo, incuriosito mi affacciai alle varie finestre e constatai che più di tanto non
potevo vedere. Allora salii sul tetto della stazione di Campo Marzio, e lo potevo fare perché era li che vi abitavo in quanto figlio di un funzionario delle Ferrovie dello Stato, assistetti così alla fuga di un mercantile che lasciando gli ormeggi e zigzagando con una certa abilità evitava il susseguirsi delle cannonate e delle mitragliate, non riuscivo però a capire esattamente da dove provenivano, comunque il mercantile riuscì e salvarsi. Non
ho assistito all'affondamento della Berenice (perché non presente) alle prime ore del mattino. Nella mattinata
intanto, sul lato del recinto della zona del Lazzaretto (ora Mercato all'ingrosso) prospiciente la via Giulio Cesare, formato da un vecchio muro in pietra e una scarpata in terra ed erba, si sistemarono un gruppo di soldati
formati da un sergente, un mitragliere con la sua Breda mod.30, un servente e altri due soldati non so a quale
compito erano comandati, ma fiduciosi attendevano forse la presenza di un Ufficiale che desse loro qualche
ordine, ma purtroppo di questi neanche l'ombra. Ogni tanto comunque vi transitava proveniente della città verso la zona dell'arsenale, e viceversa, una macchina scoperta con sopra soldati armati di tutto punto però mettendo bene in vista una bandiera bianca, parlamentari ? oppure coglievano l'occasione dato il loro comportamento per visionare e rendersi conto delle varie posizioni armate che eventualmente potevano opporre fonti di
contrasto e resistenza. A un certo momento della giornata a seguito dell'annuncio del proclama del Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio che tutti gli Italiani ben conoscono, non vidi più la piccola pattuglia e tanto meno alcun Ufficiale del Regio Esercito Italiano. Il giorno dopo gruppi di soldati privi di alcun comandante davano l'impressione di essere stati abbandonati a se stessi, seppi in seguito che il Re Soldato aveva abbandonato i suoi
fanti.
Nelle giornate successive si assistette ad una commovente gara di solidarietà da parte della cittadinanza tutta verso l'amato soldatino che in gran parte era dì origine meridionale o delle isole: ognuno di loro
oramai pensava solo di ritornare ai propri cari ed alla propria casa. Avvenne cosi uno slancio di generosità
verso coloro che ogni madre, padre e fratello vedeva un proprio caro nelle stesse condizioni. Furono donati
vestiti vecchi e nuovi, camicie e maglie e bevande, e tutto ciò che serviva a sostituire quella divisa che li avrebbe denunciati e condotti verso una dura reazione da parte di coloro che fino al giorno prima erano stati
considerati degli Alleati. Allora solo la disperazione e la fortuna poteva aiutare questi ex-soldati anche giacché
molti di loro essendo di piccola statura avevano ricevuto degli abiti un pò abbondanti ma che comunque potevano essere rimediati rimboccandoli. Grave era invece per coloro che essendo di statura alta sopra alla media
si trovarono con maniche molto al di sopra dei polsi ed altrettanto con calzoni al di sopra delle caviglie. Difficilmente ognuno avrebbe potuto ingannare un'eventuale controllo, purtroppo molti di loro nel tornare alla propria casa hanno avuto la propria più o meno tragica storia.
Vedere tutto ciò, in noi giovani prossimi o già in servizio di leva, determinò e si verificò la completa
frantumazione di tutti quegli ideali che ci erano stati insegnati e che a quell'epoca privi di alcun paragone a
confronto erano a dir poco della più alta dedizione. Con l’8 settembre 1943 iniziò il triste periodo di una lotta
che fu definita fratricida conseguentemente all’assestamento d’idee e ideali, di comportamenti, di giudizi e
pregiudizi ma che purtroppo richiesero e sfociarono in un pesante contributo di lutti e d’immensi dolori, tali che
rimasero scolpiti in modo indelebile in quelle generazioni che tuttora, in numero sempre minore, sono ancora
presenti.
Studente Italo Sommavilla, classe 1924
“Il SACCHEGGIO DI VILLA NECKER”
8 settembre 1943 giorno della vergogna: lasciamo la Storia e veniamo ai ricordi personali. Quello doveva essere un giorno come gli altri. Qualcosa però c'era nell'aria. Abitavo nei pressi del Comando Territoriale
che era sede altresì del comando dell’VIII Armata agli ordini del generale Ferrero. Questo comando stava in
20 villa Necker a due passi da casa mia che era in quella piccolissima via che porta il nome dell'architetto Domenico Corti. Il tempo era bello. Era tempo di vacanze. Avevo finito il Liceo Scientifico con un'ottima pagella e
meditavo di recarmi, un po' più in là, a Padova per iscrivermi alla Facoltà di Ingegneria. Non ricordo cosa feci
quella mattina, forse andai a fare quattro passi sui moli delle rive con la "togna" in mano per pescare qualche
povero "sparo" o qualche "angusigolo". Ma non credo perché quelle passioni erano tramontate da un pezzo.
Diciamo allora che ero rimasto a casa a riordinare libri e quaderni. La guerra andava malissimo. La radio
chiamava a raccolta tutti quelli che potevano prendere un'arma in mano. Ma a me che ero annunciato volontario nella Milizia Contraerea, avevano risposto che dovevo aspettare la chiamata nella Leva di Mare. Mi ci avevano assegnato perché l'anno prima avevo dichiarato che avrei scelto la facoltà di Ingegneria Navale. Quindi a
casa, come se la Patria non fosse invasa. Del resto la guerra continuava su tutti i fronti. A una certa ora la radio trasmise il messaggio del Capo del Governo, il maresciallo Pietro Badoglio, cui il Re aveva affidato la Nazione dopo il 25 di luglio. L'Italia si era arresa! E i tedeschi che avrebbero fatto? Tale fu la paura della loro ritorsione che subito fu un fuggi fuggi generale. Non c'erano vestiti civili a sufficienza per i milioni di soldati che
cercavano disperatamente di tornare a casa. In Villa Necker si accesero subito i falò. Montagne di documenti
erano dati alle fiamme prima che i tedeschi se ne appropriassero. Per viale Terza Armata, per via dell'Università, perfino per via Corti, era tutto un brulicare di fogli e foglietti. Ne raccattai alcuni che recavano il timbro del
“massimo segreto”. La Patria in sfacelo. A casa piangevamo in silenzio. Cominciò l'assalto alle caserme abbandonate dai soldati. La gente ne usciva con le braccia cariche di lenzuola, coperte, sedie, pacchi di viveri.
La gente era disposta a farsi ammazzare pur di arraffare qualcosa.
Poi, il giorno dopo, arrivarono quattro ragazzini in pantaloni corti e camicette color kaki. Erano imbarcati su piccoli carri armati e semoventi che parevano giocattoli. In testa procedeva una moto carrozzina sulla
quale stava seduto un distinto signore dagli occhiali cerchiati d'oro che li comandava. La gente smise di saccheggiare le caserme e guardò quei ragazzini con lo stupore e l'ammirazione che si deve a chi si comporta
meglio di noi. In poco tempo i ragazzini occuparono i punti nevralgici della città. Io e i miei fratelli ci mettemmo
a camminare di qua e di là per vedere come andassero le cose. Anzi facemmo di più. Volemmo lanciare un
appello alla popolazione perché era giunto il momento di risollevare la bandiera gettata nel fango e riprendere
la lotta contro l'invasore accanto ai ragazzi venuti dal nord per aiutarci. Ma l'impresa ci andò male perché sul
posto dal quale volevamo lanciare l'appello radio, ci imbattemmo nei carabinieri, i quali, non sapendo che pesci pigliare, non trovarono di meglio che arrestarci. Giunti al comando della tenenza di via Hermet, spiegammo
al loro Ufficiale che non eravamo affatto dei facinorosi, bensì i capofila di un esercito che si sarebbe formato a
difesa della città e della Patria. Li convincemmo e ci lasciarono andare. Nei giorni seguenti pensammo che
sarebbe stato bene assumere uno "status" di forza armata regolare e, assieme ad un centinaio di ragazzi convenuti da ogni parte della città, ci demmo appuntamento alla Casa del Fascio, quella che poi divenne la sede
della Questura, di fronte al Teatro Romano, e da quel momento non ci saremmo sottratti al peso delle nostre
giovani ma consapevoli scelte.
Studente universitario Claudio de Ferra, classe 1925
L’8 SETTEMBRE 1943 CON LA 33^ CP. XI BTG 185° RGT DELLA DIVISIONE
PARACADUTISTI NEMBO
Dopo la prima quindicina dell’agosto 1943, ero schierato nelle fila del 185 Rgt., nella zona di Arcireale
in Sicilia, ove avevamo ricevuto l’ordine di ripiegare per raggiungere la Calabria. Su questa linea del fuoco portavo la mia esperienza di Istruttore alpino nelle 38^Cp. del Btg. Ivrea e 43^ Cp. BTG. Aosta del 4° Rgt. Alpini,
del fronte Greco Albanese con il Btg. Sciatori Monte Cervino dal gennaio all’aprile 1941, rimpatriato per ferite
e poi di Paracadutista maturata ad El Alamein nella C.C. del IX Btg. 187 Rgt. della Divisione Folgore ove venni
nuovamente ferito.
Avevamo subito sensibili perdite in uomini, mezzi e armi per fatti di guerra e gravi incidenti, in particolare la mia 33^ Cp., il 13 agosto 1943 a Messina e nell’aprile dello stesso anno a Firenze al rientro di una esercitazione al poligono di tiro. Difficoltà non indifferenti per il transito dei nostri Fiat 626 per le disposizioni restrittive imposte dai tedeschi e successivamente per poterci imbarcare sui ferry-boat ed essere traghettati da
21 Messina a Reggio Calabria. Un susseguirsi di azioni di forza, armi in mano. Il mio XI Btg. è inviato a S.Cristina
d’Aspromonte e dopo lo sbarco del 3 settembre dei reparti dell’VIII armata inglese, abbiamo sostenuto duri
scontri di pattuglie ed intenso fuoco di sbarramento con i mortai, nelle zone di S. Stefano e Gambarie. Il II Btg.
Panzer Grenadier tedesco aveva già anticipato il ripiegamento, facendo brillare i ponti e danneggiando le linee
telefoniche, non comunicandoci le loro decisioni.
L’8 settembre, si era concluso il destino dell’VIII Btg. del 185° Rgt nei violenti combattimenti sostenuti,
nel tentativo di raggiungere il comando del reggimento a Cittanova, tra burroni e cime impervie presso tra Bagaladi e S. Lorenzo, contro i reggimenti canadesi Carleton e York, dal 4 settembre sino al sanguinoso scontro
dell’8 settembre sull’altipiano Mastrogiovanni contro il reggimento Nuova Scozia (descritto dal colonnello Nicholson nel suo libro “ Canadians in Italy). Il grosso del 185 Rgt. si era concentrato a Cardinale, con i resti della 210^ divisione costiera, un gruppo di artiglieria pesante, un battaglione di armi speciali (mitragliere tedesche
a quattro canne, contraree, mitragliatrici pesanti Breda 37, mortai 81 e cannoni da 47/32), il battaglione Panzer
Grenadier ed altri reparti della 26 divisione corazzata tedesca. Il 185° doveva dirigersi a Soveria Manelli, per la
rotabile interna della Calabria. Alle ore 20 la radio portò la notizia più buia, della notte più buia: l’armistizio, che
era stato firmato a Cassibile il 3 settembre. Una fine priva di gloria di un conflitto combattuto con tanta difficoltà,
tra ghiacci e nevi delle montagne albanesi e delle steppe ucraine della Russia, le ambe e i deserti africani: una
disciplina infranta, l’esercito che si sfascia per mancanza di ordini ed autorità nei quadri. Soldati vigliaccamente abbandonati al loro destino. Ne ho visti tanti di questi episodi.
Osservai che il comportamento dei tedeschi mutò immediatamente. Cominciarono i sorpassi di mezzi
blindati e corazzati che si inserivano tra i mezzi italiani. Evidenti mosse per imbottigliare le colonne italiane.
Inoltre le strane avarie e l’arenarsi dei possenti carri armati Tigre, che si ponevano di traverso sulla strada,
fermando così la marcia di tutti i mezzi che li seguivano. Intuibile il perché di questi movimenti: tenere sotto
controllo le forze italiane. Mi ricordo che a Soveria Mannelli, nella grande vallata, si fermò la nostra colonna
italo - tedesca e frequenti furono le ondate di inaudita violenza dei caccia bombardieri alleati.
Sino al 10 settembre fra i militari italiani e tedeschi era stata mantenuta una vigile attesa, ma verso
mezzogiorno le cose precipitarono. Un grosso reparto di autoblindo tedesche si ferma di fronte allo schieramento italiano puntando le armi di bordo: mitragliere e cannoncini. Vedo arrivare verso di noi un maresciallo
tedesco. E’ il latore di un ordine del suo colonnello, comandante un gruppo di Panzer. Chiede del comandante
del nostro battaglione ed è accompagnato dal Capitano Luciano Della Valle. L’invito era perentorio. Dovevamo
seguire i tedeschi nel ripiegamento, con poche ore di tempo per iniziare il movimento; altrimenti sarebbero
state attuate opportune misure. Il capitano Della Valle, comandante dell’XI battaglione, convoca i comandanti
delle sue Compagnie per studiare le misure da prendere e conoscere le intenzioni di noi Paracadutisti, ritenendo essenziale il nostro giudizio in merito alla delicata situazione. La nostra risposta, unanime e immediata
è: “nessuno è disposto eseguire quanto imposto dall’ultimatum tedesco e tanto meno consegnare le
armi”. La decisione degli uomini del reparto, è portata dal capitano Della Valle e alcuni suoi ufficiali al generale Gonnella, comandante della 210^ divisione costiera che, operativamente, dipendeva l’XI battaglione. Il generale, espressa la sua perplessità, sulla decisione presa, declinò ogni responsabilità in merito.
Disposto a opporsi, con ogni mezzo, all’ordine tedesco, il comandante dell’XI battaglione mise in atto il
suo piano, approvato, senza riserve, dai suoi subalterni. Cominciamo a inoltrarci sulla strada che porta Cosenza, dando l’impressione di ottemperare all’ordine ricevuto, ma, raggiunto il bivio che porta a Bianchi, sul crinale
di una collina, in posizione dominante,tutti i reparti sostano ed assumono uno schieramento di battaglia. Automezzi, trattori cingolati, sono posti a semicerchio. Mi vennero nella mente i carri che i pionieri del Far West
mettevano in semicerchio per difendersi dagli attacchi degli indiani! Fra le macchine furono sistemate le armi
pesanti. Io e tanti altri paracadutisti, sopra gli autocarri, pronti a far fuoco con i mitra e lanciare granate controcarro.
Allora, il capitano Della Valle si fece accompagnare dal colonnello tedesco. Dopo uno scambio di vedute dai momenti drammatici, che venimmo a sapere, fu raggiunto un accordo: le forze tedesche si sarebbero
ritirate senza di noi, ottenendo la parola d’onore del nostro comandante che i paracadutisti non avrebbero attaccato alle spalle i tedeschi.
22 Opera meritoria del mio comandante di battaglione, capitano Luciano Della Valle, per la soluzione che
evitò spargimento di sangue e fece aumentare stima e considerazione di tutti noi paracadutisti. Un comandante che seppe unire la propria volontà con il giudizio dei suoi uomini,che autorità e grado di comando,avrebbe
posto a sua completa discrezione. I tedeschi avevano mal ricambiato la lealtà, non avvisandoci che avevano
minato la strada che conduceva a Cosenza, provocando nel mio reparto conseguenze funeste.
In seguito accordi furono presi con il generale Sismond comandante la divisione canadese, lasciando
autorizzazioni scritte. Così siamo rimasti in possesso di tutte le armi e munizioni. Dal 10 al 30 settembre fu
riorganizzato il 185° reggimento e ai primi di ottobre trasferito a Borgia vicino a Catanzaro, e nel novembre in
Puglia, nella zona di S.Maria di Leuca.
C’ero anch’io, con questi reparti dal principio alla fine.
Sergente Paracadutista Arrigo Curiel
“LA BATTAGLIA MANCATA A SANT’ANDREA”
Devo fare una precisazione, non mi sono mai interessato di politica, come tutti ho fatto il mio tirocinio
attraverso le varie istituzioni del Regime, pur non essendo mai stato iscritto al partito.
Il 10 giugno del 1940, mi trovavo implotonato in uno dei Battaglioni del 151° Reggimento della SASSARI e stavamo “facendo il campo” a Villa del Nevoso, allora in Italia. La notizia dell’entrata in guerra mi colse
in una fase bellissima della mia vita, della quale ricordo le camminate in mezzo ai boschi, le marce, le scoperte
di grotte, e tutto quanto spensieratamente si faceva in quegli anni e a quell’età. Non ricordo come ma una decina di giorni dopo l’ingresso in guerra, fui trasferito al Distretto Militare di Trieste. Ero stato fortunato, mi trovavo a casa: degli amici della mia compagnia ritornarono dalla guerra solo quattro o cinque di loro.
Il mio ricordo dell’8 settembre mi riporta ad una spianata sopra Passaggio S. Andrea, schierato insieme a tanti altri militari a difesa dell’Arsenale. All’improvviso arrivano due/tre motociclette con soldati tedeschi:
urla e l’Arsenale è occupato da questi ultimi. Noi siamo schierati e pronti, ma solo io ed un mio carissimo
commilitone disponiamo di cartucce vere per il nostro 91, gli altri sono equipaggiati con quelle per esercitazione. Il fremito della gioventù mi suggerisce di sparare ai tedeschi, ma il Comandante la compagnia a cui eravamo aggregati in quei momenti di confusione, ci implora di non fare fesserie. Arrabbiati ed indignati andiamo
da questo Comandante e gli consegniamo le nostre armi; e decidiamo di andarcene senza sapere dove. Dopo
pochi passi ritorniamo indietro per riprendere i nostri fucili e le cartucce; fatto ciò siamo ritornati al Distretto
Militare, senza che nessuno ci fermasse ne ci accusasse di insubordinazione né di diserzione. Quella volta
pensavo che avremmo potuto uccidere tutti i tedeschi da soli, forse il Comandante di compagnia era più lungimirante di noi, e senza lo scontro probabilmente salvammo la vita nostra e di tanti altri giovani come noi.
Ecco questo è il mio ricordo dell’8 settembre 1943, poi beh, è un’altra storia.
Fante Luigi BARBIANI classe 1919
8 settembre 1943, 151° Rgt. Fant. SASSARI
“DA FIRENZE ALLA GERMANIA SU UN CARRO BESTIAME”
I miei due fratelli più grandi erano già in guerra come Ufficiali degli Alpini: Gastone Capitano del 5° Artiglieria presso la Pusteria era dal 40 lontano da casa al fronte, mentre Bruno Tenente al 9° Alpini della Julia
dopo una campagna di guerra si era arruolato nei Paracadutisti ed era Caduto svolgendo il proprio dovere già
nel marzo 42. Era giunto anche il mio momento di servire la Patria!
Nell’estate 43 mi trovavo a Firenze nella Caserma del 19° Reggimento Artiglieria d.f. “Venezia” distaccato nella 816^ Batteria da 75/13, la Batteria Universitari, perché proprio in quella città frequentavo il secondo anno di Ingegneria presso l’Università. Noi studenti dovevamo frequentare il corso di Allievi Ufficiali e
per parecchio tempo eravamo impegnati tutti i fine settimana a seguire questo corso. Nell’estate 43 fummo
23 tutti richiamati e alloggiati presso la caserma ove si viveva costantemente, svolgendo tutte le attività di addestramento e di servizio, come le guardie, i campi, i tiri d’artiglieria e le ronde. In quel periodo sovente la città
era sotto allarme e spesso si vedevano in alto stormi di aerei nemici che andavano a bombardare. Di notte si
susseguivano gli allarmi e il sonno veniva così bruscamente interrotto e di tanto in tanto si sentivano pure le
esplosioni delle bombe.
In settembre dovevamo sostenere gli esami da Sergente, il giorno fissato per me era il 12. Nonostante
tutto il morale era alto. L’8 settembre eravamo tutti in camerata quando cominciò a diffondersi la voce che la
guerra poteva finire: ci riversammo così in cortile e lì ci fu trasmessa ufficialmente la notizia della firma
dell’armistizio, notizia che devo ammettere fu accolta con manifestazioni di gioia unita a profonda commozione, sentimenti velocemente interrotti dall’ordine di schierarci per ulteriori comunicazioni. Il Colonnello ci informò che, nonostante tutto, il corso degli eventi proseguiva normalmente in attesa delle direttive da Roma. Fece, infatti, proseguire le attività di addestramento, ricordo che nel cortile smontavamo e rimontavamo un mitragliatrice e soprattutto continuava la sessione degli esami per “Sergente”. Molte parole…palpabile nervosismo
ma, comunque sensazioni di attesa fiduciosa cui ben presto sarebbe, ahimè, subentrato un senso di percepibile confusione e disorientamento generale: infatti, già il giorno dopo, anche attraverso la radio, si susseguirono notizie contrastanti che portavano alla consapevolezza che i Tedeschi non se ne sarebbero andati
dall’Italia senza difendere le loro posizioni. Nel pomeriggio stesso mentre eravamo in attesa di ulteriori comunicazioni, sentimmo il rumore di mezzi pesanti e, poco dopo, vedemmo la caserma circondata dai carri armati
tedeschi. Il comando era poi assunto da un ufficiale tedesco.
Nei primi giorni la sorveglianza interna da parte di sentinelle tedesche, anziane ed ormai stanche della
guerra, permisero la fuga di alcuni miei commilitoni che possedevano vestiti borghesi per uscire ed essere
fuori aiutati dai Carabinieri cui era affidata la sorveglianza esterna. Quando il terzo giorno, anch’io riuscii a
procurarmi degli abiti civili, ormai i Carabinieri all’esterno erano stati sostituiti da militari delle truppe scelte
germaniche in seguito alla delazione fornita da un gerarca fascista che abitava nei dintorni.
Pertanto l’11 settembre insieme circa ad altri 200, fummo trasportati su dei camion, alla stazione di Firenze e li caricati su carri bestiame. Eravamo stati chiusi dentro i vagoni di legno stipati come sardine, forse
eravamo una sessantina per carro. Quando il treno partì in una breve sosta presso un’altra stazione, riuscii a
gettare fuori un bigliettino indirizzato alla mia famiglia per avvertirli di quello che stava accadendo. In quella
stazione c’erano ricordo delle giovani ragazze che raccoglievano questi messaggi disperati e proprio grazie ad
una di queste ragazze coraggiose che si avvicinavano ai treni nonostante i tedeschi, alla mia famiglia fu recapitato il mio messaggio: la stessa scena l’ho rivista in un momento del film “Tutti a casa” con Alberto Sordi.
Il viaggio durò pressappoco tre giorni, i tedeschi ci passavano del formaggio grana e poca acqua, non
si poteva scendere e le condizioni igieniche cominciavano a essere veramente precarie, oltre a ciò l’incertezza
e la paura mettevano sconcerto, eravamo visibilmente provati e a molti saltavano i nervi.
Così iniziò la mia prigionia, anzi l’internamento, presso il Campo di Menningen. Successivamente alcuni di noi me compreso, furono smistati in un campo più piccolo, il Lager VII B – 568 – B di Gesthofen vicino
ad Augsburg nella provincia di Monaco, ove fummo assegnati ai lavori presso la “Chemisce Fabrik Gesthofen
v. Transehe & Co. K.- G. una fabbrica dell’I.G. Farben che produceva propellente per le V1 e V2, ma noi
all’epoca non lo sapevamo.
Non sostenni più gli esami da Sergente e la Croce al Merito di Guerra mi fu assegnata vent’anni dopo
nel 1966 come Caporal Maggiore. Comunque un ricordo particolare porto ancora su di me di quei venti mesi in
Germania. Vicino a quello degli italiani, c’era un campo di prigionieri russi, che vivevano molto peggio di noi e
spesso ne venivamo a contatto. Uno di questi con delle schegge di granate e dei pezzi di metallo forgiava degli oggetti. Mi fece un anello di ferro e per esso volle un pezzo di pane: da allora porto sempre al dito la mia
medaglia per l’8 settembre e per le sue conseguenze.
Allievo Ufficiale Fulvio Depetroni classe 1922
24 8 SETTEMBRE ALL’ACCADEMIA DI MODENA
Nel novembre 1942, dopo avere frequentato per tre anni la Scuola Militare di Milano conseguendovi la
maturità classica, entrai nella Regia Accademia Militare di Modena nell’Arma di Cavalleria, poiché allora, a
differenza di quanto avviene oggi, fin dall’inizio dei corsi gli Allievi erano arruolati nell’Arma prescelta: Fanteria
e Cavalleria nell’Accademia di Modena, Artiglieria e Genio in quella di Torino.
Eravamo in piena guerra e l’86° Corso che iniziava era numerosissimo: molte centinaia di Allievi di
Fanteria, ben sessanta, contro i venti – ventidue dei corsi precedenti di Cavalleria, riuniti in uno squadrone che
comprendeva anche nove Allievi appartenenti all’effimero Regno di Croazia, sorto dopo l’occupazione della
Jugoslavia (1941) ad opera delle Forze Tedesche e Italiane.
Per quanto spiacevole, s’impone una precisazione: parte degli Allievi era costituita dalla spregevole
categoria degli “imboscati”, giovani entrati in Accademia nella previsione di restarvi al sicuro per due anni evitando il rischio dell’invio al fronte. Quanto a me appartenevo nello squadrone, al gruppo della ventina di Allievi
al di sopra di ogni sospetto anche perché provenienti dalle tre Scuole Militari ( Roma, Napoli, Milano ) ove
avevamo frequentato i licei classico e scientifico fin dal 1939, prima dello scoppio della guerra.
Superati gli esami del primo anno, nel mese di agosto ’43 era in atto il campo estivo, svolto alle Piane
di Mocogno, sull’Appennino Tosco – Emiliano, consistente per noi Cavalieri in intenso addestramento
all’equitazione di campagna; il nove di settembre ci saremmo messi in marcia per il rientro in sede. Ma la sera
dell’otto settembre apprendemmo improvvisamente la notizia dell’avvenuto armistizio e il giorno successivo ci
rendemmo conto della gravissima crisi in cui la Nazione stava piombando con l’assoluta assenza di una guida,
il disfacimento delle Forze Armate, l’occupazione della penisola da parte dell’Esercito tedesco.
In mancanza di ordini dall’alto, per prima cosa i nove Allievi Croati furono disarmati e tenuti sotto sorveglianza. Quindi il reparto si mise in marcia per ricongiungersi alle Compagnie di Fanteria; per alcuni giorni
Fanti e cavalieri, sempre nella vana attesa di direttive, vagammo senza meta apparente lungo le alture appenniniche, finché, a tarda sera dell’undici settembre il Comandante dell’Accademia Col. Giovanni DUCA (alla cui
memoria verrà in seguito conferita la Medaglia d’Oro al V.M. per l’eroica attività partigiana ) ordinò lo scioglimento dell’Istituto. Furono ore di comprensibile immensa tristezza per la netta percezione dell’immane disfatta.
Le armi ( moschetto 91 e sciabole ) vennero danneggiate e nascoste in anfratti; il drappo della Bandiera dell’Accademia fu sminuzzato in frammenti distribuiti tra gli Allievi ( ne conservo tuttora uno custodito in una
piccola cornice), la sua asta sotterrata. Dissellati i cavalli, li lasciammo liberi, augurandoci che finissero in buone mani. Infine, nella notte del dodici, ci allontanammo isolatamente o in piccolo gruppi, ognuno diretto verso
la località di origine.
Assieme ad un caro Amico e Collega puntai su Verona, ove risiedevano le Famiglie di entrambi; marciammo ininterrottamente per alcuni giorni dopo avere barattato uniformi e stivali con precari indumenti civili
fornitoci dai contadini, presso i quali trovammo sempre assistenza e talvolta rustica ospitalità.
Giungemmo a Verona dopo cinque o sei giorni di cammino, senza prevedere quanto di terribile avrebbe dovuto affrontare la nostra sventurata Patria nei venti mesi successivi: sacrifici, devastazioni, sangue.
8 settembre 1943: Il giorno più buio della mia carriera militare.
Allievo Ufficiale Alfredo Cicchese - classe 1924
“DA VEGLIA A LUSSINPICCOLO IN BARCA A REMI”
Dopo la conclusione della nostra parziale occupazione militare della Jugoslavia la mia batteria, già
schierata sul confine orientale nella zona di S. Pietro del Carso, era stata destinata al fronte libico. Per una
fortunata circostanza, quella di essere temporaneamente distaccato presso un battaglione di fanteria – per
decisione del comandante di gruppo che mi voleva fuori dai piedi per aver rilevato i suoi pasticci amministrativi
– rimasi per un po’ in territorio nazionale per essere, poi, destinato con un “Gruppo” del X Reggimento artiglieria alla difesa costiera in Dalmazia sull’isola di Veglia. Avevamo, come dotazione, dei pezzi SKODA, di preda
25 bellica austro-ungarica, alquanto antiquati ed inadatti a contrastare uno sbarco supportato da forze navali dotate di artiglieria ad elevata cadenza di fuoco.
Nei primi giorni di luglio, mentre ero in famiglia in licenza a Trieste, a stretto contatto con l’ambiente
nazionale, mi resi conto della precarietà della situazione politico-militare in atto. Al rientro al reparto, verso la
metà di luglio, ritenendo non azzardato ipotizzare una soluzione militare drammatica, mi fornii di carte topografiche e bussola tutte atte a muovermi al di fuori delle principali vie di comunicazione.
Dopo la caduta del governo fascista nell’ambiente militare non si era ancora valutato oggettivamente
la precarietà della situazione e pertanto la sera dell’8 settembre non furono prese alcune misure indispensabili
per un rientro in patria, mentre si sarebbero potuti almeno allestire alcuni motopescherecci lì disponibili per un
rapido sgombero.
Si arrivò così al pomeriggio del 9 settembre caratterizzato dalla venuta di un generale che assicurava
l’arrivo di mezzi navali atti alla ritirata del reparto. Invece detto ufficiale, salito sul solo mezzo della marina militare disponibile a Veglia, con la motivazione di una ricognizione in mare aperto, prese il largo e non si rivide
più, né lui né le navi promesse. Frattanto calata la sera e il comandante l’artiglieria, sempre fiducioso delle
promesse del generale, non prendeva alcuna decisione, mentre i reparti di fanteria s’imbarcavano in fretta sui
motopescherecci presenti. Nel frattempo le avanguardie dei partigiani, sbarcate nella parte orientale dell’isola,
avanzavano verso la cittadina di Veglia.
Esclusa la possibilità di una valida opposizione e valutando negativamente la resa senza condizioni,
mi imbarcai, con una decina di artiglieri, su una piccola imbarcazione a remi, diretti verso l’isola di Lussino, che
supponevamo ancora presidiata dalle nostre forze di mare e terrestri. Dopo aver remato tutta la notte ed il
giorno seguente, con soldati che non avevano mai visto barche, arrivammo sulla costa bassa dell’isola di
Cherso. La mattina ripartimmo verso Lussinpiccolo, dove credevamo di trovare assistenza da parte delle forze
della nostra marina che, invece avevano già abbandonato la base, che trovammo occupata, senza ostacoli da
reparti di monarchici jugoslavi, nemici di Tito.
Non mi rimaneva altra scelta che lasciare la divisa e mettermi in cammino verso casa. Passando da
Cherso, Laurana e con l’ausilio della cartografia e della bussola, per strade secondarie, non battute dalle truppe tedesche, arrivai a Trieste, aggirando i posti di blocco predisposti alla periferia della città. Solo una considerazione finale: la reazione tedesca alla nostra defezione e stata rapida, efficiente e tesa a controllare tutto il
nostro territorio, il che mi fa supporre, anche se non ho letto nulla di documentato in proposito che fossero già
predisposte una serie di varianti con pianificazioni simili a quelle da me esposte prima.
Capitano di artiglieria Giorgio Kermol
“L’8 SETTEMBRE 1943 A TORINO, OGNI MIO ARTIGLIERE
EBBE UN VEICOLO PER TORNATE A CASA”
Dopo aver frequentato la scuola Allievi Ufficiali a Lucca nel 1941 ed essere stato promosso Sottotenente, sono stato inviato in Alta Savoia per il mio primo incarico presso il 1° Artiglieria da montagna, “Val Chisone” della Taurinense. Ho avuto la fortuna di essere stato inviato in zone di guerra che non obbligavano ad
aspri combattimenti, come contemporaneamente avveniva per tanti miei commilitoni, ma in breve fui inviato,
con il mio reparto, nel cuore di Torino, che ben prima che gli americani iniziassero la loro campagna aerea
contro le nostre città, era raggiunta molto spesso dai Lancaster inglesi, direttamente dalle loro basi in Gran
Bretagna. Assistetti a scene durante i bombardamenti che non dimenticherò mai. Data la mia qualifica di tecnico, fui assegnato ad una unità del Genio Militare per la costruzione di rifugi antiaerei sotterranei. Per il resto
la vita militare era scandita da periodi di servizio in Alta Savoia a caccia di Maquis francesi e di servizio alla
Caserma Cavalli di Torino. Così arrivò il 1943.
Nell’aria, dopo la caduta del Fascismo il 26 luglio, aleggiava già uno strano sentore. L’effetto tangibile
era la sparizione di tutti gli ufficiali superiori dalla caserma.
26 L’8 settembre rimanemmo incontrastati padroni della caserma io e il Tenente Miotti, anch’egli triestino.
Uno dei miei sergenti, veterano della campagna di Grecia, con il quale avevo un difficile rapporto fin dal mio
arrivo al reparto, mi raggiunse trafelato e dimostrando il bisogno di una guida su cui contare, a costo della
propria vita, si mise a disposizione con tutti gli uomini per contrastare il nuovo nemico che ragioni strettamente
politiche, in poche ore, avevano indicato nell’esercito tedesco. La nostra era una caserma prettamente logistica, e fin dal 27 luglio avevamo iniziato a sequestrare ad uso bellico tutti i mezzi di trasporto, che il territorio
ospitava. La nostra piazza d’armi era ben fornita di una variegata schiera di veicoli, dai camion alle motociclette. Fu così che, vista la malaparata ormai evidente e la soverchiante forza germanica, parve più che logico
consentire a più uomini possibile di raggiungere le proprie famiglie, permettendogli di utilizzare tali mezzi, che
altrimenti sarebbero caduti in mani nemiche, da lì a poco. Il metodo era alquanto sbrigativo: chiedevo
all’artigliere che avevo davanti quale mezzo, sapeva portare e affidandogli quel dato mezzo gli facevo firmare
una ricevuta. Così svuotai la caserma in poche ore.
A comprova della situazione drammatica di quei giorni, a poche centinaia di metri dalla nostra caserma c’era la caserma del Nizza Cavalleria, che accerchiato dai tedeschi che ne intimavano la resa, tentò il tutto
per tutto, caricando in formazione da combattimento, con il proprio comandante in testa i tedeschi fuori dal
portone principale; fu soltanto un vano atto di eroismo poiché fuori li attendeva un mezzo corazzato e disposte
ad arco, varie mitragliatrici che falciarono i cavalieri che tentavano di aprirsi un varco.
Verso il 10 settembre, abbandonata la nostra caserma ormai svuotata di materiali, mezzi e uomini,
tornammo al nostro alloggio, l’appartamento di un ferroviere che ci riferiva di quanto vedeva da qualche giorno
al lavoro: carri bestiame stracolmi di persone che partivano per destinazioni ignote e convogli di tedeschi che
affluivano in continuazione. Tanto ci bastò per decidere di procurarci abiti civili e con essi raggiungere ambienti più adatti ad alpini e meno controllati dal nemico: le montagne. Indicataci da amici torinesi come zona ancora fuori dal controllo nazista, io e l’amico Miotti raggiungemmo i “Picchi del Pagliaio”, a una cinquantina di chilometri da Torino. Anche il tempo c’era ostile e dopo quattro giorni all’addiaccio, sotto una pioggia continua,
eravamo circondati da una strana aurea che ci avvolgeva. Era il calore che stavamo perdendo. Sull’orlo dello
sfinimento fummo pure avvistati da un Fiesler Storch, un “cicogna” da ricognizione che ci prese di mira ed iniziò a mitragliare l’area su cui stavamo camminando. Ci nascondemmo finché dovette andarsene per evidenti
motivi di autonomia. Avevamo ormai deciso di consegnarci ai tedeschi per mettere fine a quell’agonia, quando,
scendendo verso valle, trovammo una sorta di maso, una capanna con tetto a lastre di lavagna tipico della
zona. Continuava a piovere ed eravamo intirizziti dal freddo. La porta della capanna era chiusa, ma trovammo
il modo di entrare. Miotti m’issò sul tetto, feci scivolare lateralmente una lastra e trovai spazio per infilarmi al
suo interno. Aprii la porta dall’interno e con Miotti accesi un bel fuoco che ci permise di asciugarci e di mangiare il nostro primo pasto caldo dopo giorni: patate che avevamo lì trovato, cotte sotto la cenere. Ancora oggi,
mangiandone, ho il vivido ricordo di quegli angosciosi momenti. Ristorati, asciutti e riposati, il giorno dopo tornammo a Torino per consegnarci ai tedeschi, tentando di raggiungere prima il nostro alloggio per recuperare
le nostre cose. Con nostra grande sorpresa trovammo lì i nostri padri che, con chi sa quali stratagemmi, erano
riusciti a procurarsi documenti validi per il nostro ritorno a casa (forse l’esperienza e la lingua appresa
nell’Imperial - regio esercito austroungarico durante la grande guerra, non era stata vana). Fummo tra i pochi
fortunati che in quelle disperate ore poterono tornare dai propri cari.
Anche se a Trieste, nei due anni successivi, ci avrebbero atteso altre amarezze, paure, insidie, scelte
difficili .ma questa è un’altra storia.
Tenente di Artiglieria da Montagna Mario Cividin
“IN CROAZIA I PARTIGIANI CI LASCIARONO TORNARE A CASA”
Eravamo in un paesino sulla linea ferroviaria che porta a Zagabria. Si chiamava Hrvaska Moravizza, o
qualcosa del genere. Un giorno io stavo andando verso Fiume (o verso Trieste, non ricordo) in licenza. Era
passato da pochi giorni il 25 luglio, ma non ci avevano ancora tolto le camicie nere e neanche i fasci. E giunse
così il fatidico 8 settembre 1943.
27 Si continuava la guerra sempre contro gli Inglesi, gli Americani e gli Slavi, per quanto a noi della Milizia tutti quanti volevano farci passare per dei briganti.
A Hrvaska Moravizza l’8 settembre passò senza che noi sapessimo niente. Il giorno 9 si cominciò a
sentire qualche vaga voce. Il dieci ancora nessuna notizia certa, ma avemmo la sensazione che dietro di noi,
dalla parte dell’Italia, non ci fosse più nessuno, cosicché il Comando, non riuscendo ad avere ordini, decise di
provare a ripiegare sul Presidio più vicino.
Si partì alla mattina presto (non ricordo a che ora) e via, cammina, cammina, cammina, arrivammo a
una stazioncina dove avrebbe dovuto esserci il Presidio italiano. Non c’era anima viva. Tutto era abbandonato.
Ci chiedevamo cosa poteva essere successo. Ci si mise di nuovo in cammino e arrivammo ad un’altra stazione che avrebbe dovuto essere presidiata; ma anche lì il deserto. Di nuovo in cammino. E così tutto il giorno
finché arrivammo a Delnice. Qui trovammo una confusione terribile. Soldati italiani non ce n’erano più, ma
c’erano i Partigiani qua e là, i quali ci lasciavano passare e non dicevano nulla. Credo che anche loro fossero
confusi dagli eventi e non sapessero cosa fare.
Noi, pronti a qualsiasi evenienza, si continuava a camminare. Si passò oltre dei monti e non se ne poteva più dalla stanchezza. A un certo punto fummo raggiunti da un Reggimento di Cavalleria (credo che si trattasse del Savoia Cavalleria) con le lance, tutti armati completamente. Ci passarono avanti e via! I cavalli
camminavano certo più svelti di noi.
Noi si continuò fino a una piana che mi sembra che si chiamasse Grobniko, o qualcosa del genere. Lì
i Partigiani ci fermarono e ci ordinarono di gettare le armi se volevamo passare. Per noi fu una vera tragedia!
Io avevo il mio pistolone Schmidt & Wesson e dovetti buttarlo via. Via tutti i fucili e tutte le armi! Disarmati e in
maniche di camicia (era ancora caldo) ci incamminammo verso Fiume, sotto la continua minaccia dei Partigiani che ci guardavano passare, ma che, per la verità, non ci fecero del male.
Non so quanti giorni durò questo viaggio, sempre a piedi e senza mangiare, come il solito. Alla fine,
come Dio volle, dopo tanta stanchezza, arrivammo a Fiume e lì ci trovammo completamente abbandonati. Eravamo stanchi, demoralizzati ed affamati.
Assieme ad un altro Milite mi fermai in una via di Fiume, che non so quale sia. Era giù al piano. Dovrebbe essere l’attuale Corso o lì vicino. Ci mettemmo a sedere davanti ad un portone. Stemmo lì per qualche
tempo a riposare. Una fame che non ci si vedeva più! Alla fine passarono due donne che erano state al mercato. Ebbero compassione di noi e ci dettero ad ognuno una mela. Questa fu la prima cosa che mangiammo
dopo diversi giorni di digiuno. Passò un altro giorno e ci arrangiammo a dormicchiare di qua e di là, ed il giorno
dopo ci rendemmo conto che ormai i Signori Ufficiali di avevano abbandonato completamente.
Alla fine fummo indirizzati ad un posto su in montagna, sopra Fiume, dove c’era ancora una specie di
Presidio. Lì ci diedero qualche fucile e ci misero a fare la guardia. Sotto di noi la montagna era tutta scavata,
con caverne, con portali e trincee che davano sul fiume che scorreva si sotto in un burrone, come una specie
di camion americano. Là restammo alcuni giorni senza che succedesse niente di particolare. Ogni tanto volava sopra di noi un aeroplano. Di chi fosse e cosa facesse non lo abbiamo mai saputo. Avevamo la tentazione
di sparargli qualche fucilata, ma non si sapeva di chi fosse (poteva anche essere italiano), e così non ne facemmo nulla.
Passammo alcuni giorni in questo posto. Si mangiava sì e si mangiava no: più no che sì. Poi
un giorno, non ricordo come avvenne, avemmo l’occasione di prendere il treno e tornammo tutti a Trieste. Arrivati in stazione, ci dissero di presentarci subito in caserma. Noi, poveri scemi ed illusi, ci presentammo obbedienti in caserma, e là cominciò la seconda parte della nostra guerra, la più tragica.
Camicia Nera Alvino Burresi Classe 1908
LA CROCEROSSINA DELL’OSPEDALE MILITARE
Mi chiamo Luciana BORTOLOTTI ved. LAURI nata a Trieste nel 1921.
28 L’otto settembre 1943 mi trovano a Trieste, dove frequentavo il terzo anno di Giurisprudenza nella locale Università. In quell’anno tutte le universitarie erano state precettate per sostituire negli uffici fascisti i giovani richiamati alle armi. Avendo conseguito il diploma di Crocerossina io prestavo servizio nell’allora Ospedale Militare.
Quel giorno, avevo terminato il mio turno pomeridiano e stavo tornando a casa in via S. Nicolò, dove
abitavo con mia madre, mio padre, ufficiale dei Bersaglieri era prigioniero in Africa Orientale. Arrivata all’inizio
della strada, ebbi subito una sensazione strana, la via era completamente deserta, salvo un gruppo di militari
Tedeschi davanti ad un albergo requisito che ospitava a volte dei militari. Mi fermai perplessa, e un passante,
affacciatosi da un angolo di un’altra via mi disse di andar via perché c’era stata una sparatoria.
Spaventata, mi diressi quasi correndo verso via Milano dove abitava la famiglia del mio fidanzato sperando che mia madre si fosse rifugiata da loro. Ed era, infatti, lì, scappata insieme alla nostra domestica perché davanti all’albergo, che non distava molto dalla nostra casa, si era raccolto un gruppo di persone gridando
contro i Tedeschi i quali avevano sparato da una finestra per disperdere l’assembramento.
La famiglia del mio fidanzato abitava in via Milano n. 2 in un immobile poi demolito, dove ora sorge
l’albergo Jolly. L’appartamento era vasto e una parte aveva la vista sul porto. Trovai tutta la famiglia in subbuglio. Avevano appreso alla radio la notizia dell’avvenuto armistizio ed erano tutti sconcertati e preoccupati su
quel che sarebbe avvenuto poiché si sapeva che sull’altopiano vi erano truppe tedesche. Al telefono si susseguivano concitate discussioni con amici e parenti e soprattutto di giovani per consultarsi su quello che si doveva fare. C’era pure il mio fidanzato, Tenente dell’Aeronautica Militare che stava ultimando a casa il periodo di
convalescenza a seguito delle ferite riportare durante un combattimento aereo in Africa Settentrionale, durante
il quale era stato abbattuto.
Attaccati alla radio, cercando di captare le varie stazioni, tra cui radio Londra, trascorremmo tutta la
serata e parte della notte, in piedi ed angosciati. Nessuno di noi, nemmeno per un momento credette alla cessazione della guerra. Vedevamo la situazione in tutta la sua drammaticità. L’ospedale in cui prestavo servizio
era pieno di nostri giovani provenienti dal fronte greco e balcanico in condizioni veramente precarie. E ne arrivavano in continuazione. I medicinali incominciavano a scarseggiare (non c’era ancora la penicillina) e la
maggior parte di essi aveva affezioni bronchiali e polmonari. Pensavo a tutto questo in quei momenti ed a mio
padre e mio fratello che sarebbe avvenuto di loro?
Il mio fidanzato decise di partire subito per il Sud per cercare di raggiungere il suo raggruppamento.
Alle 4 di mattina ci lasciò e con un amico partì deciso a prendere un treno che faceva sosta a Ronchi dei Legionari per raggiungere l’aeroporto militare e con un aereo dirigersi al sud. Da quel momento non avemmo più
sue notizie. Quasi due mesi dopo riuscì a farci sapere che, all’Aeroporto di Ronchi, preso di forza un velivolo
militare si era diretto al sud. Ma costretto ad atterrare per mancanza di carburante, a Perugia, dove l’aeroporto
era già stato occupato dai tedeschi, era poi riuscito fortunosamente ad arrivare a Roma.
Noi rimasti a Trieste trascorremmo quelle ore in angosciosa attesa di notizie.
Alle prime luci dell’alba una ritmica cadenza di passi ci riportò alla cruda realtà, erano dei plotoni di
soldati tedeschi che stavano occupando la città, scendendo giù da Opicina poi passando per via Milano e altre
strade limitrofe diretti alla riva. Quasi contemporaneamente il cielo fu solcato da una miriade di proiettili traccianti diretti verso il porto, dove erano ancorate delle navi da guerra italiane che sotto quell’attacco improvviso,
al suono delle sirene, mollavano gli ormeggi staccandosi dai moli.
A noi che attoniti dalle finestre seguivamo questo incredibile spettacolo, sembrava che tutto si svolgesse al rallentatore, finché le navi, molto lentamente riuscirono a uscire dal porto dirigendosi poi verso il largo
e scomparvero dalla nostra vista. Il fuoco durò ancora per qualche tempo e poi ci fu nella città un silenzio assoluto. Sorgeva il sole era il nove settembre da li ebbe inizio per la nostra gente, per la nostra città e per tutta
l’Italia, l’ultimo ma non meno tremendo periodo della guerra, il territorio di Trieste era divenuto “ADRIATISCHE
KUNSTELAND” e noi giovani quasi ancora ragazzi, di colpo diventammo adulti.
Sorella Crocerossina Luciana Bortolotti
29 “L’AMMUTINAMENTO DEL BANDIERA”
I miei ricordi dell’otto settembre che esporrò sono ancora molto vivi, ma per le date e le ore mi sono
dovuto avvalere degli appunti che da buon Ufficiale di Marina annotavo giornalmente come in un diario di bordo.
Dopo la Laurea in Architettura nel 40 a Venezia, ho conseguito i gradi da Ufficiale di Marina presso
l’Accademia di Livorno. Successivamente volli entrare volontario nei sommergibilisti e presso queste unità ho
svolto numerose missioni di guerra nel Mediterraneo imbarcato sul Settembrini, sul Malachite, sul Delfino, sul
Topazio e sul Bandiera. Quest’ultimo SMG dalle sigle BN della classe Patrioti da noi scherzosamente era soprannominato “Nasone” per la sua particolare forma. Nell’autunno vi ero imbarcato in qualità d’Ufficiale in seconda agli ordini del C.C. Rodolfo Scarelli nella base di Pola presso lo scoglio di Santa Caterina ove svolgevo
anche l’attività d’istruttore.
Il sette settembre abbiamo ricevuto l’ordine di uscire in missione, e prima di salpare il Comandante
volle tenere un discorso in verità molto strano e non così spontaneo e vigoroso com’era consueto fare: probabilmente aveva già saputo qualcosa di quello che a poco sarebbe avvenuto. Salpammo alle 19.10 con destinazione le acque antistanti Crotone e navigammo anche il giorno otto prima di giungere a destinazione “in zona agguato” all’imbrunire. A sera apprendemmo dalle comunicazioni radio che era stato firmato l’armistizio, di
conseguenza, il Comandante Scarelli prima di prendere la decisione di rientrare in una base dell’Italia settentrionale ci consultò ricevendo la nostra approvazione. Durante la navigazione incrociammo altri due SMG italiani, il Corridone ed il Bragadino che affiancammo facendo scendere in mare i canotti per dar modo ai Comandanti di incontrarsi e scambiarsi i reciproci pareri e le intenzioni: chi valeva autoaffondarsi chi voleva raggiungere i porti del sud. All’altezza dell’Isola del Pomo oltre Brindisi, il Comandante decise di far schierare
l’equipaggio sul ponte in coperta. Non volendo consegnare la bandiera la affidò a me perché la seppellissi in
mare, e così feci, arrotolando lo stendardo attorno all’asta di ferro per zavorrarlo affidandolo poi alla profondità
degli abissi. Per salutare la nostra bandiera furono sparate alcune salve con il cannone. Ma alla fine della cerimonia l’equipaggio sobillato da un Maresciallo che non aveva approvato la decisione di rientrare a Fiume, si
ammutinò agli ordini costringendo il Comandante e me a far cambiar rotta: questo era lo stato d’animo dei Marinai del Bandiera salvo poche eccezioni, mentre gli Ufficiali rimasero compatti. Venimmo a sapere successivamente che alcuni si erano armati con coltelli e spranghe di ferro che avevano nascosto sotto gli indumenti. A
seguito dell’ammutinamento il giorno 10 ci siamo diretti a Taranto che raggiungemmo alle 18.10 per ormeggiarci poi alla banchina sommergibili alle 19.03. La sera stessa assunsi il comando del Bandiera per “sbarco
del Comandante” Scarelli!
Il giorno dodici come nuovo Comandante ricevetti due plichi con gli ordini d’operazioni, il primo dovevo
consultarlo subito, l’altro a navigazione inoltrata. Le direttive prevedevano di raggiungere Augusta, ma aperto il
secondo plico in mare aperto scopro che dobbiamo invece raggiungere Malta con disposizioni precise di non
consegnare il battello al nemico e prepararlo per un eventuale autoaffondamento, cosa che prontamente feci
disponendo tre cariche di distruzione in altrettanti punti critici dello scafo. Sicuramente non per leggerezza ma
proprio per vera e propria spavalderia, pericolosamente non issammo il “Pennello Nero” cioè la bandiera di
segnalazione che stava ad indicare convenzionalmente che il “battello rinunciava a combattere” cosa che analogamente fece probabilmente il mio precedente SMG Topazio che fu affondato il giorno 12 in mare aperto
con tutto l’equipaggio dall’attacco di un aereo inglese: di quel battello con il quale avevo fatto numerose missioni di guerra e del quale conoscevo anche in amicizia tutto l’equipaggio sono rimasto, perché trasferito sul
Bandiera, l’unico sopravissuto!
Giungemmo a Malta alle 22.00 del giorno tredici e ci ancorammo alla fonda nella Baia di San Paolo
ove vidi tristemente gran parte della nostra flotta. Il quattordici alle 16.30 ci trasferiamo a Marsa Scirocco e ci
affiancammo alla Regia Corazzata Giulio Cesare. Di lì a poco salirono degli Ufficiali inglesi che con molto garbo c’invitarono a consegnare gli acciarini dei siluri, le valvole termoioniche della radio e l’otturatore del cannone rendendoci in pratica inoffensivi.
A Malta non sono mai sbarcato, infatti, gli equipaggi erano confinati a bordo. Ero fuori di me per tutto
quello che stava accadendo: è veramente difficile poter far comprendere lo stato d’animo che vivevo in quei
30 giorni per il profondo turbamento interiore che mi assillava, i dubbi, i perché e i cosa fare. Alla fine del mese
mi fu comunicato di lasciare il comando e prepararmi per rientrare in Italia, ma in quale?
S.T.V. Guido Morasutti SMG Bandiera, classe 1914
“ EL RIBALTON”
NELLE MEMORIE DI UNO STUDENTELLO DI TERZA MEDIA
Nella vetrina esterna di una cartoleria ancora oggi aperta nel viale XX settembre, quasi di fronte al
grande complesso scolastico c’era, dall’inizio del conflitto, una grande carta geografica dell’area mediterranea
sulla quale, quasi giornalmente, il proprietario appuntava delle bandierine tricolori. Indicavano i successi del
nostro esercito sulla “quarta sponda” ovvero il Nord Africa, la Cirenaica, la Libia ed il deserto egiziano verso il
canale di Suez, meta agognata degli Alti Comandi Italiano e Tedesco.
Di quei successi militari scolaretti e studentelli se ne gloriarono per un certo tempo ma con il trascorrere dei mesi lo spillo scomparve da Giarabub, da Marsa Matruk e da altri siti avanzati. Le sorti della guerra volgevano al peggio e ciò si percepiva anche dai discorsi preoccupati degli adulti. Si aveva la sensazione che
qualcosa di grosso stesse per accadere.
I cavalleggeri che presidiavano l’impianto dove abitavo, raccolte da “radio fante”, portavano quasi
giornalmente notizie che, per quanto censurate dall’informazione ufficiale, presagivano una imminente disfatta
dell’esercito italiano oramai ristretto sul territorio nazionale.
A conferma delle voci circolanti si pervenne dunque all’infausto otto settembre, la capitolazione
dell’esercito italiano, l’armistizio o il “ribaltone”, come il triste evento fu prontamente definito dalla sintetica e
fantasiosa creatività popolare.
Rammento ancora molto chiaramente i turbolenti eventi della tarda serata di quel giorno infausto. Alcuni fatti di cronaca odierni che ci hanno descritto e mostrato la forza travolgente delle acque delle numerose
alluvioni attraverso l’informazione dei mezzi televisivi rafforzano ancor più i miei ricordi per la loro tragica analogia, con la sola differenza che allora la irrefrenabile fiumana era composta da uomini.
Avvenne, infatti, che diffusasi con la velocità della luce la notizia della resa dell’Italia agli Alleati le migliaia di soldati acquartierati nelle numerose e capienti caserme della zona, liberatisi delle armi, si riversarono
in massa al di fuori delle stesse sciamando lungo le vie della zona verso il centro città e la stazione ferroviaria
alla disperata ricerca di mezzi per tornarsene a casa. I loro volti esprimevano contemporaneamente la gioia
per la fine di un incubo ma nello stesso tempo lo sconcerto del totale abbandono dei superiori nel difficile
momento.
In effetti, la stragrande maggioranza di essi aveva origine e residenza familiare in luoghi molto lontani
da Trieste. Si trattava di Sardi, Pugliesi, Campani ecc. praticamente impossibilitati a tornare a casa essendo le
loro città già occupate dagli anglo-americani.
Anche i cavalleggeri “di casa”, accertata l’impossibilità, di ottenere istruzioni e costatato de visu quanto stava avvenendo d’intorno, preso il coraggio a due mani si accomiatarono affettuosamente dai miei e da noi
ragazzini lasciando sul posto tutto ciò che faceva parte delle loro dotazioni: armi, buffetteria, brande e...pulci
dei pagliericci comprese.
Mio padre, per quanto ovviamente preoccupato, si prese cura dell’armeria composta dai fucili e relative cartucce e da un numero imprecisato di bombe a mano occultandoli in luogo sicuro fuori dalla portata dei
suoi curiosi figlioli. Alla venuta dei tedeschi, un paio di giorni dopo, il piccolo arsenale fu loro consegnato con
tanto di verbale di accertamento.
Già nella stessa serata, durante la notte e nelle prime ore del giorno successivo tutte le caserme della
zona , oramai terra di nessuno, finirono in preda di vere folle di popolo saccheggiatore, un vero e proprio riflusso di gente dopo l’uscita dei militari. Fu un spettacolo che difficilmente si dimentica: uomini, donne e ragazzini che dopo essere entrati uscivano a frotte trasportando tutto ciò che era loro possibile. Dalla Sussisten31 za, la prima della via, sacchi di farina, scatolame, pagnotte, mobilio vario, vestiario ecc.; dalla seconda,
l’Autocentro, ancora mobilio, coperte, macchine da ufficio, parti meccaniche degli automezzi, divise, scarponi e
così via. Il saccheggio finì a mezza mattina del giorno nove quando intervennero alcune pattuglie di soldati
della Wermacht, su motociclette sidecar armate di mitragliatrici, provocando il fuggi fuggi generale.
In quei paraggi, all’incrocio tra le vie Lamarmora e Scomparini, esisteva un grande edificio preceduto
da un bel giardino alberato già sede di una “Casa del Fascio”, (l’Angelo Crena) ma al tempo utilizzato dalle
Autorità come deposito di derrate, prevalentemente bottiglie d’acqua minerale, pacchi da un chilo di surrogato
del caffè e, mi pare di ricordare, vasi di conserva di pomodoro. Anche quello fu completamente svuotato dalla
gente del luogo.
Fermamente determinati a fare bottino, pure noi ragazzini, scappati sollecitamente all’arrivo dei tedeschi in via Cumano, fummo partecipi del saccheggio di quel poco che restava. L’amico Mario riuscì ad impossessarsi di due pacchi di surrogato mentre io mi dedicai – chissà perché – all’acqua minerale. Raccolte alcune
bottiglie in un cartone trovai divertente frantumarne altre contro un masso di pietra. l’ultima della serie, già
squarciata in parte per poco non mi amputò il polpastrello del pollice destro. Con lo stato d’animo che è facile
immaginare, dopo un sommario lavaggio alla vicina fontana e un precario tamponamento della ferita, filai rapidamente a casa. Ricollocai il brandello penzolante al suo posto e dopo avere disinfettato il dito con la micidiale
tintura di iodio provvidi alla fasciatura con uno strato notevole di garze. Fu una sofferenza indicibile che dovetti
sopportare “stoicamente” per minimizzare l’entità della ferita allo scopo di non subire anche le prevedibili sgridate dei miei.
Ma torniamo all’amico Mario che avevo lasciato con i suoi due pacchi di “caffè”. A lui successe di ben
peggio perché nel tornare a casa dovette passare a poca distanza dal portone della caserma “di sopra” già
presidiata dai tedeschi il cui piantone, intuendo che il ragazzino (aveva dodici anni) trasportava “roba” rubata,
gli gridò qualcosa di incomprensibile e subito dopo gli sparò contro un colpo con il suo Mauser, colpo che per
puro miracolo “sforacchiò” uno dei due pacchi lasciandolo indenne. Mario, raccontò poi che la roba che aveva
in grembo cadde a terra e che, capito che il folle soldato si era disinteressato di lui dopo la bravata che poteva
diventare tragedia, cautamente risalì le scalette del terrapieno che portavano alla ferrovia e quindi a casa sua.
Talvolta scherzando con gli amici mostro la cicatrice sulla mano destra dicendo che è il ricordo
dell’otto settembre: nonostante siano passati sessant’anni è ancora ben visibile e talvolta mi procura delle acutissime fitte.
Studente di terza media Remo Pistori, classe 1930
I POCHI GIORNI CON L’OTTAVO ALPINI
Attorno al 25 agosto ero appena rientrato a Trieste dopo aver svolto il Corso Ufficiali di Complemento
e prepararmi così al nuovo grado di Sottotenente per la qual cosa acquistai tutto il mio corredo all’Unione Militare di Via Mazzini, firmando un’infinità di “pagherò” e con la nuova cassetta d’ordinanza partii per Gorizia presentandomi al 9° Alpini.
A Gorizia assieme ai due inseparabili amici Alvino Timeus e Duilio Tagliaferro feci appena in tempo a
pagare da bere al Circolo Ufficiali, infatti, presi subito la corriera per Tolmino. Il benvenuto lo ricevetti da un
gruppo d’Ufficiali reduci dalla Russia e da un gruppo d’Alpini che mi fece saltare il “bastone da Alpino” e fare il
solito “giro di pista” sul piazzale della caserma. Bevuta al Circolo e assegnazione al Btg. Val Leogra, comandato da un Sottotenente, reduce di Russia, classe 1921.
Subito iniziò la mia esperienza bellica, perché fui mandato a esplorare un bosco sopra la caserma,
dove forse si aggiravano dei partigiani. Il pattuglione aveva circa venti Alpini e dopo due ore fummo presi di
mira da una nutrita raffica di fucileria e di mitragliatrice. I miei uomini, a terra, vollero rispondere e faticai per
impedirlo, poiché così gli avversari potevano individuarci. Se ne andarono ed anche noi rientrammo dopo aver
controllato buona parte della zona, ma senza sparare: è stato il mio battesimo del fuoco.
32 Il Sottotenente Arrigo Budini, del ventuno, aveva una stanzetta in paese e, conoscendolo dal liceo, lo
frequentai. La sera dell’8 settembre a casa sua da una radiolina udimmo il comunicato del Capo del Governo
annunciare l’armistizio. Mi precipitai in caserma ed il Colonnello Comandante ci raccomandò di stare uniti e di
attendere l’indomani per ordini precisi.
Al mattino del nove constatammo che tutto il Battaglione delle Guardie alla Frontiera era svanito e
verso le nove ricevemmo la richiesta d’aiuto da parte di un plotone di Bersaglieri, dislocato a Santa Lucia di
Tolmino che era stato attaccato da reparti tedeschi. Il Colonnello fece schierare due batterie da otto pezzi di
mortai da “81” e dopo la terza salva, a mezzo telegrafo, i Bersaglieri comunicarono che i tedeschi se n’erano
andati e che vista la situazione avrebbero ripiegato su di noi. Ci misero un’ora e tre di loro erano leggermente
feriti.
Dopo il rancio, non arrivando alcun ordine superiore, fu deciso di ripiegare tutti a Cividale. Personalmente con pochi uomini del Btg. Val Leogra, si attendesse dall’Abruzzo l’arrivo delle nuove reclute, così partii
da ultimo dalla caserma di Tolmino. Superato Caporetto alle nove di sera, giunsi nel campo sportivo di Cividale all’alba del dieci settembre per congiungermi con tutti gli Alpini del 9°Reggimento.
Rizzate le tende la giornata passò come un qualsiasi altro giorno al campo, solo la sera il comandante
ci avvisò che in mancanza d’ordini il giorno successivo dovevamo scioglierci, con la raccomandazione di non
cadere prigionieri. Così il dodici settembre con un sergente, due abruzzesi e un trevigiano, mezzi vestiti in
borghese, prendemmo la via per Udine. Ma verso mezzogiorno fu sparata verso di noi una nutrita raffica di
mitragliatrice, eravamo in un campo di mais, ci buttammo a terra mentre molte piante venivano come falciate.
Raggiunta dopo circa venti minuti una casa colonica, chiedemmo ospitalità e fummo accolti con latte e formaggio.
Poco prima di Udine ci separammo ed io incontrai un Ufficiale sbandato come me, il quale mi sistemò
dove si era rifugiato. Per le due notti successive rimasi nascosto, poiché volevo essere certo di poter partire
per Udine senza problemi, volendo poi arrivare a San Stino di Livenza dove abitava mia madre.
Così il quattordici fuori della stazione ferroviaria di Udine saltai su un treno, che per raccogliere altri
militari rallentava a ogni curva. Scesi a Motta di Livenza e prima a piedi poi con una bicicletta arrivai a sera a
casa di mia madre.
Aggiungo alcuni particolari: Il giorno sedici arrivò mio fratello, classe 1923, che da Fiume con un bragozzo aveva attraversato il golfo fino a Chioggia, poi un poco a piedi ed anche col treno era arrivato al paese.
Prestava servizio nel Genio Trasmissioni.
Il diciannove si presentò in paese mio padre, classe 1890, in divisa da Tenente Colonnello, che il nove
settembre era a Lubiana da dove prese il treno per Trieste. Fece un giro indescrivibile e il diciotto a Mestre fu
individuato nello scompartimento di I/a classe da un maresciallo della “Polizei” che lo voleva arrestare. Mio
padre non si scompose, conosceva bene la lingua e fece notare al sottufficiale che avevano una notevole differenza di grado quindi, come sottufficiale, doveva presentarsi almeno con la divisa in ordine e non con il taschino sbottonato. Vinse la gerarchia e l’Ufficiale italiano arrivò a Trieste in divisa, con pistola e due valige.
S.Ten. Silvo Cargnelli, 9° Alpini, classe 1922.
L’ARMISTIZIO DALLA PRIGIONIA DI UN FOLGORINO
“Ho sempre usato cancellare dalla mia mente i momenti brutti. Penso sia il segreto della mia longevità. Sono risalito con la mente a sessanta anni prima per cercare di ricordare come ho vissuto io quella brutta
giornata”.
Lavoravo in un campo d’aviazione gestito dai neozelandesi. Facevo il cuoco alla mensa sottufficiali.
Giocavo nella squadra di calcio rappresentativa dell’Italia nel Medio Oriente. Insomma, me la passava benino,
anzi, molto bene. Eravamo un quarantina di prigionieri. Fui l’unico a non firmare la cooperazione. Ormai gli altri
mi guardavano con sospetto. Gli unici a congratularsi con me furono i neozelandesi. Dicevano che ero stato
33 l’unico a comportarsi con onore. Fui subito trasferito al campo 321 e rinchiuso in un gabbia isolata assieme ad
altri otto. Gabbia sta per “cage”, un rettangolo di terreno di cento metri per cinquanta. Avevamo un tenda ,
delle brandine decenti, ed eravamo trattati bene anche sotto il profilo alimentare da un comandante di campo
sudafricano che cercava di non farci mancare nulla, e che si divertiva a passare di sera qualche ora con noi,
ed a mangiare gli spaghetti che lui ci portava in omaggio e che noi cucinavamo. Ai quattro angoli di tutte le
gabbie erano stati piazzati altoparlanti che ci trasmettevano gli ordini del giorno ed un sommario delle notizie,
un pochino manipolate dagli inglesi.
Dopo le otto di sera erano silenziosi, perché verso quell’ora molti andavano a dormire. La sera
dell’otto settembre era per noi come una di tante altre sere. Stavamo preparando il sugo per gli immancabili
spaghetti che sarebbero arrivati assieme al comandante di campo. Arrivò alle nove. Come il solito, un po’ per
celia e un po’ per rispetto, ci schierammo ai lati dell’ingresso della tenda per salutarlo stando sull’attenti. Generalmente accettava l’omaggio sorridendo come a uno scherzo e rispondeva militarmente. Quella sera era
buio in volto , si fermò prima di passare fra noi e disse” Come ir”. Pensammo di aver combinato qualcosa di
grave, soprattutto perché non aveva con se i soliti spaghetti. Ci raccogliemmo attorno a lui. Ci disse, con quel
poco d’italiano che aveva appreso stando con noi:” Per voi la guerra è finita. L’Italia ha chiesto l’armistizio. Per
noi continua”. Si sentiva che aveva un groppo alla gola. Il gruppo si sciolse in silenzio. Ognuno si allontanò per
piangere per conto suo. Un soldato si vergogna delle proprie lacrime. Dopo un po’ il capitano De Pangher,
triestino e nostro capo gabbia, ci chiamò uno per uno. Ci disse:” Cantiamo per piangere il nostro dolore”. Il
comandante del campo si avviò verso l’uscita. De Pangher lo chiamò e lo pregò di rimanere con noi. Accettò.
Cantammo quasi sottovoce l’inno a Roma. L’emozione riempiva la melodia di stonature. Terminata, la ricominciammo, a voce più alta. Alla fine, il capo campo sudafricano ci pregò di ripeterla, per far capire agli altri chi noi
eravamo. Questa volta, più che cantarla la gridammo. Il capo campo aveva gli occhi bagnati di lacrime come
tutti noi e tentava di cantare con noi la nostra rabbia. Dalle gabbie che ci circondavano i prigionieri cooperatori,
ci guardavano, ancora ignari di quanto era successo. Alla fine si allontanarono in silenzio forse un tantino vergognosi. Questo è quanto mi resta di quella triste giornata.
“Folgore” Sergente Maggiore Paracadutista Emilio Camozzi, classe 1920
34 APPUNTI DI UN CARABINIERE TRA I MONTI ATTORNO ARGIROCASTRO
35 Carabiniere Scelto Carlo Pocecco, distaccato presso il Comando della Divisione Perugia – Classe 1921
36 L’8 SETTEMBRE 1943 AL CINEMA
A cura di Enzo Kermol
Cercare di stendere una lista tematica di film relativi agli avvenimenti dell’8 settembre 1943 è, come in
tutti i casi simili, estremamente difficoltoso, soprattutto per stabilire i criteri esatti entro cui un film può essere
considerato attinente. Perciò la scelta diventa a seconda del punto di vista completa o lacunosa. Per esempio,
si scelgono solo i film italiani, quelli girati negli anni immediatamente successivi, quelli documentari, quelli in
cui si accenna brevemente agli avvenimenti, quelli in cui si parla solo della data in questione, e così via.
Cercando di dare perciò quella che definiremo “una panoramica” generale quasi d’obbligo iniziare con
un film che reca al suo interno, gia nel titolo, un riferimento preciso. “Il carro armato dell’8 settembre” (Italia,
1960), di Gianni Puccini. La vicenda è nota: “Un carro armato italiano, in perlustrazione lungo la costa tirrenica, è sospeso dagli avvenimenti dell’8 settembre. Dei quattro componenti l’equipaggio soltanto il caporale Carlo Pollini, giovane contadino dall’anima semplice e dai solidi principi, resta al suo posto, deciso a riportare il
mezzo corazzato in caserma. Nell’attuare il suo proposito Pollini diviene protagonista di una serie di avventure
ora comiche, ora sentimentali, ora drammatiche (l’aiuto offerto a un’auto in avaria, occupata da mondane,
l’incontro con una passionale vedova di guerra, il suicidio del colonnello comandante della caserma,
l’avventura sentimentale con un’adolescente ecc.). Giunto a casa, il buon caporale vorrebbe trasformare il carro armato in trattore, ma arrivano i tedeschi e il vecchio arnese di guerra servirà per ingaggiare un’ultima battaglia” (Rivista del cinematografo).
Nello stesso anno esce il più noto film sull’8 settembre “Tutti a casa” (Italia, 1960), di Luigi Comencini,
che narra le vicende del “sottotenente Alberto Innocenzi, ufficiale ligio al dovere, è sorpreso dall’armistizio.
Quando comprende la drammaticità della situazione e si rende conto d’essere rimasto senza il suo reggimento, cerca un Comando cui presentarsi. Ma le autorità militari non esistono più i soldati approfittano di ogni occasione per darsela a gambe. Alla fine anche Innocenzi cede: insieme al geniere Ceccarelli, e al sergente
Fornaciari, cerca di tornare anche lui a casa. Seguendo i consigli del capitano Passerin, si veste in borghese e
segue Fornaciari fino a casa sua. I coniugi Fornaciari sono uccisi dai tedeschi per aver ospitato un soldato
americano e Innocenzi sempre accompagnato da Ceccarelli del quale non riesce a liberarsi, continua la fuga,
incurante di ciò che vede: i partigiani che iniziano a rifugiarsi sulle montagne i tedeschi che catturano una ragazza ebrea. Arriva infine a casa sua, in un paesetto del Lazio, ma qui il padre, un piccolo borghese ipocrita
l’invita ad arruolarsi nell’esercito della RSI. Fuggito verso sud con il fedele Ceccarelli, è catturato dai tedeschi
e viene a trovarsi a Napoli quando scoppia l’insurrezione popolare. Ceccarelli, ormai giunto a casa, è ucciso
dai tedeschi. A quel punto, Innocenzi ha un gesto di ribellione afferra una mitraglietta e comincia a sparare”.
“Tutti a casa rappresenta un’eccezione nel cinema italiano dedicato agli avvenimenti della seconda guerra
mondiale. E l’unico film che ha affrontato con ironia ma anche con rigore e franchezza le vicende seguenti
l’armistizio dell’8 settembre e la tragedia in cui, da un giorno all’altro, piombò l’Italia senza più re né governo
né esercito. E l’ha affrontato servendosi di un attore the aveva costruito un’immagine emblematica, anche se
sgangherata, dell’italiano medio: Alberto Sordi L’attore riesce qui a liberarsi delle scorie del suo personaggio e
a offrire una interpretazione ricca di sfumature dai toni ora comici, ora grotteschi, ma spesso anche drammatici. Basato in parte sui ricordi personali degli autori del soggetto (entrambi ufficiali al momento dell’armistizio),
“Tutti a casa” supplisce con dignità e autenticità di accenti alla mancanza di un veto film storico sull’8 settembre.” ( Dal Dizionario del cinema italiano di Fernaldo Di Giammatteo).
Più recenti appaiono due pellicole dedicate alla resistenza della divisione Acqui nell’isola di Cefalonia:
il primo “Captain Corelli's Mandolin” (“Il mandolino del capitano Corelli”, Usa/Francia/Gran Bretagna,
2001), di John Madden in cui partendo dal 1940 assistiamo alle vicende di un gruppo di soldati e abitanti di
Cefalonia. “Pelagia, figlia del medico del paese, si fidanza con il bel Mandras. Gli italiani minacciano il confine
con l’Albania e il giovane parte per la guerra. Pelagia per mesi non ha sue notizie, così il suo amore appassisce. Mandras torna proprio quando gli italiani stanno per occupare l’isola, in seguito alla conquista di Atene da
parte dei nazisti. A casa di Pelagia si stabilisce il capitano Corelli, comandante di una divisione di appassionati
di lirica che, più che alla guerra, pensano a divertirsi. Pelagia e Corelli s’innamorano, mentre Mandras si unisce ai partigiani. Dopo l’8 settembre gli italiani dovrebbero consegnare le armi ai tedeschi, ma cercano di difendere l’isola temendo la deportazione. Vengono sbaragliati e giustiziati”; il secondo “I Giorni dell’ amore e
37 dell’odio – Cefalonia” (Italia, 2000), di Claver Salizzato che narra come “pochi giorni dall’8 settembre 1943,
due fratelli si ritrovano senza saperlo nell’isola di Cefalonia a combattere l’uno contro l’altro per il controllo del
territorio. Tra la Divisione Acqui italiana e i tedeschi, infatti, infuria una violenta battaglia. Una bomba uccide
uno dei due che, morendo tra le braccia del fratello, si riconcilia con lui e gli racconta della moglie morta dando
alla luce una figlia che lo aspetta a Berlino”. Su entrambi i giudizi della critica sono stati piuttosto negativi, citiamo solo in sintesi Vincenzo Sardellitti per il film di Salizzato “Ma come si fa solo a pensare che in un luogo
in cui oltre ottomila soldati italiani e forse molto più numerosi soldati tedeschi stanno combattendo ferocemente, dando vita ad una delle più immani tragedie che l’Italia ricordi, due fratelli si possano incontrare in assoluta
solitudine, salutarsi affettuosamente con i rispettivi soprannomi (fulmine e tuono...) e imbastire un duello che fa
il verso al miglior Sergio Leone?!” e “Dispiace perciò che il quadretto languido e favolistico sia malmenato da
rozzezze come la pantomima dei trucidi crucchi e degli schietti greci, l’apparizione dell’immancabile Irene Papas nella parte di se stessa o il vile eccidio ridotto a qualche frettolosa fucilazione nel mezzo di una gran confusione di crolli, fughe e cannoneggiamenti” (Valerio Caprara, Il Mattino, 17 novembre 2001), “Forse ci si sarebbe potuti attendere maggiore spazio al momento fatale in cui i tedeschi decisero di rivolgere le armi contro i
loro ex alleati, sottolineando la scelta di libertà dei nostri soldati. Il finale del film, infatti, tende a sfilacciarsi sotto la pressione dello spazio dedicato alla passione tra Corelli e Pelagia (Marco Spagnoli, VivilCinema, settembre-ottobre 2001, pag. 31).
Ci sembra opportuno ricordare altri due film, seppure distanti né tempo e nello stile. “I due marescialli” (Italia, 1961), di Sergio Corbucci, con Totò e Vittorio De Sica. “8 settembre 1943, il giorno “fatale”. Nella stazione ferroviaria di Scalitto il maresciallo Cotone sorprende il ladruncolo Antonio Capurro che, travestito da
prete, gli stava rubando la valigia. Un provvidenziale bombardamento consente al lestofante di appropriarsi
della divisa del poliziotto e scappare; al povero Cotone non resta che indossare l’abito talare. Inizia così una
serie di comiche avventure per i due: da una parte c’è Totò nei panni del maresciallo, considerato (a torto) collaborazionista dai tedeschi e messo a presidiare il paese; dall’altra c’è Vittorio nei panni di prete, intento a capeggiare la Resistenza locale aiutato proprio dal “nemico” Totò. Ma, proprio nell’imminenza della liberazione
del paese da parte degli alleati, l’attività del finto maresciallo è scoperta dai tedeschi che provvedono immediatamente ad avviarlo all’esecuzione, nonostante Cotone si sia affannato a dichiarare che il vero maresciallo
fosse lui. Vent’anni dopo al maresciallo Cotone in una stazione ferroviaria è rubata la valigia: è ancora lui il
caro vecchio amico/nemico Capurro, stavolta vestito da frate domenicano”.
“Il partigiano Johnny” (Italia, 2000), di Guido Chiesa. Gli avvenimenti trasposti in questa pellicola,
tratta dall’omonima opera di Fenoglio, trovano la loro collocazione temporale tra l’ 8 settembre 1943 ed il 25
aprile 1945. Il protagonista di questa vicenda, impersonato da Stefano Dionisi, è uno studente universitario, il
quale decide di lasciare gli studi e di “arruolarsi” tra i Partigiani, anche se dovrà faticare un bel po’ prima di
essere accettato dai suoi futuri compagni. Chiesa, per narrare quest’anno e mezzo in cui Johnny, vivendo nella paura, nella frustrazione e nella “povertà” più assoluta, scopre i suoi sentimenti più profondi, adotta un stile
paragonabile a quello di un documentario storico più che a un film, e ciò finisce inevitabilmente per appesantire alcune scene della pur ottima pellicola.
Altre pellicole iniziano l’8 settembre, ad esempio “Il sole sorge ancora” (Italia, 1947) di Aldo Vergano
che così si può riassumere: “Dopo l’8 settembre 1943, i soldati abbandonano i loro reparti e ritornano alle loro
case. Cesare ritorna al suo paese natale, e lo trova pieno di sfollati, poveri e ricchi. Il giovane amoreggia con
Laura, una sartina; ma non sa resistere alle lusinghe di Matilde, ricca proprietaria, donna sposata, della quale
diviene l’amante. Un giorno che i partigiani calano in paese, per impadronirsi di un camion di farina, Cesare
s’unisce ai vecchi amici e fugge sulla montagna. Intanto sono arrivati i tedeschi, che hanno messo un presidio
nel paese e compiono un vero saccheggio. In seguito alla fucilazione di Don Camillo, il parroco del paese, e
alla sollevazione di Milano, gli abitanti del paese e gli operai della fornace insorgono contro i tedeschi. Questi
minacciano di far saltare in aria il paese; ma sono battuti e cacciati dai partigiani. Matilde, la ricca proprietaria,
sentendosi coinvolta nella rovina della classe sociale, cui appartiene, sfida il fuoco della battaglia e muore.
Mentre il padrone della fornace si dà da fare per acquistare meriti partigiani e il fratello di Cesare, germanofilo,
è ucciso, Cesare riabbraccia la sua sartina”.
38 Ma anche un film come “La fiamma che non si spegne” (Italia, 1949), di Vittorio Cottafavi, in cui un
carabiniere è il vero protagonista “ed è rappresentato dapprima nel suo sereno e pulito ambiente familiare per
diventare poi il vero eroe. Il film si ispira alla figura del giovane Salvo d’acquisto, anche se appare con un nome diverso, Luigi Manfredi, che sacrifica sé stesso facendosi arrestare da un commando tedesco, dopo l’8
settembre del 1943, dichiarandosi colpevole dell’uccisione di due soldati germanici, per salvare molte persone
del suo paese prese come ostaggi e destinate alla fucilazione”.
“Die Letzte Chance” (L’ultima speranza, Svizzera, 1943/45) di Leopold Lindtberg è l’esempio di un
film “contemporaneo” agli avvenimenti girati. “Mussolini è stato destituito dal governo del maresciallo Badoglio.
Gli americani sono sbarcati a Palermo, gli inglesi in Calabria. Nella notte dal 7 all’8 settembre 1943, durante
un bombardamento aereo due prigionieri alleati evadono da un convoglio destinato a Innsbruck. Un contadino
piemontese li aiuta a scappare sino alle rive del Lago Maggiore, dal quale avrebbero potuto facilmente raggiungere la Svizzera. Intanto apprendono che è stato firmato l’armistizio tra gli alleati e le truppe di Badoglio.
L’euforia per la buona notizia è però di breve durata. Le truppe di Rommel stanno setacciando la regione. Il 12
settembre, con la liberazione di Mussolini, la repressione si fa durissima. Con l’aiuto di un prete e di un altro
ufficiale inglese invece di fuggire per proprio conto decidono di guidare un folto gruppo di profughi oltre frontiera imbarcandosi in un’estenuante e disperata scalata tra le nevi, con il pericolo costante di incorrere nelle sentinelle naziste”.
Altri film sono maggiormente improntati ad uno stile documentario, pensiamo a “L’esilio svizzero di
Luigi Einaudi” (Italia-Svizzera, 2000) di Villi Hermann, “Primo presidente della Repubblica italiana, economista, intellettuale liberale, professore e rettore dell’Università di Torino. Luigi Einaudi, settantenne, l’8 settembre
del 1943 è costretto ad abbandonare la sua città, Torino, occupata dai nazifascisti. Si rifugia in Svizzera, attraversando a dorso di un mulo il passo del Col Fenêtre nella valle d’Aosta. “Una fuga dai barbari” come egli
stesso scriverà nel suo diario dal quale trae ispirazione il film-documentario”. O ancora a “La guerra di Claudio, 8 settembre 1943 - 8 febbraio 2003” (Italia, 2003) di Elena Bedei e Vera Paggi “Filmati familiari del 1942;
repertorio cinematografico tratto da Combat Film; video amatoriale registrato nell’ottobre 2003 a Slovarici e
Vidoviste, in Bosnia Herzegovina, dove Claudio Paggi è morto e dove è stato sepolto in una fossa comune
insieme a 56 partigiani ignoti”. E, altrettanto sconosciuto, “Maliq. Testimonianze sulla presenza dei militari
italiani in Albania dopo l’8 settembre 1943” di Natalino Merotto. “Il contadino albanese aprì con grande magnanimità la porta della propria casa al soldato italiano, lo fece sedere alla propria tavola, gli diede un vestito
albanese e un nome albanese. Infatti, Mario venne chiamato “Maliq”. Non lo abbandonò mai perché gli aveva
dato la parola d’onore e questa è sacra per un albanese... ”. Girato in modo amatoriale ma pieno di testimonianze dirette il documento, tra le pieghe delle celebrazioni ufficiali della resistenza albanese, narra la storia
dei 150mila soldati del corpo di spedizione italiano che iniziò l’occupazione dell’Albania a partire dal 7 aprile
1939”. Infine “Annarosa non muore” (Italia) di Mirco Melanco che narra la storia “di partigiano Alfredo, nome
di battaglia di Giovanni Melanco, così come ce la racconta lui stesso nel suo diario Annarosa non muore, pubblicato contemporaneamente a questo filmato. Giovanni è morto il 25 febbraio 1991. I fatti raccontati si svolgono dall’8 settembre 1943 al 3 maggio 1945 sulle Prealpi bellunesi-trevigiane”.
39 NOTA BIBLIOGRAFICA
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Quotidiano IL PICCOLO, Italo SONCINI, Il sacrificio della Berenice, (Ed. IL PICCOLO, Trieste 8 settembre
1993);
40 Periodico Signal, Gaius GRACCUS pseud., L’ITALIA FARA’ DA SE’ Edizione italo-germanica, anno 1943
n°18, 2° fascicolo di Sett. 1943;
Periodico L’ILLUSTRAZIONE ITALIANA diretta da Aldo GARZANTI, p.702, IL GOVERNO DI ROMA CHIEDE
L’ARMISTIZIO ALLE NAZIONI UNITE, anno LXX – n°37, 12 settembre 1943, (Ed. Garzanti, Milano 1943);
La manifestazione “Sessantesimo dell’8 settembre 1943 a Trieste”, la relativa ricerca storica e la
realizzazione della “Brochure” sono state volute dal Centro Regionale Studi di Storia Militare Antica e Moderna
“C.R.S.S.M.A.M.” e dai suoi Soci e sono state realizzate grazie al contributo del Commissariato del Governo, della Provincia di Trieste, Area Seconda, Cultura, Sport e Turismo e della Regione Friuli Venezia
Giulia, Servizio delle attività ricreative e sportive.
REALIZZAZIONE DELLA MOSTRA E DELLA BROCHURE
PROGETTO SCIENTIFICO: Giuseppe Burlo, Mauro Depetroni, Italo Sommavilla;
REALIZZAZIONE della MANIFESTAZIONE: Giuseppe Burlo, Mauro Depetroni, Italo Sommavilla, Mario Cicogna, Fulvio Barbiani;
REALIZZAZIONI GRAFICHE: Italo Sommavilla;
BROCHURE – EDITING – TESTIMONIANZE: Mauro Depetroni;
WEB MASTER: Paolo Nagliati;
ELABORAZIONI A COMPUTER: Cristian Donolato, Paolo Nagliati, Mauro Depetroni, Fulvio Barbiani;
RICERCHE STORICHE, ARCHIVISTICHE e FOTOGRAFICHE: Giuseppe Burlo, Mauro Depetroni, Italo
Sommavilla, Mario Cicogna, Enzo Kermol;
BIBLIOGRAFIA E DOCUMENTI: Archivio C.R.S.S.M.A.M., Archivi privati: Mauro Depetroni, Mario Cicogna;
ALLESTIMENTI DELLA MOSTRA: Giuseppe Burlo, Mauro Depetroni, Mario Cicogna, Italo Sommavilla;
COLLEZIONI ED ARCHIVI: Archivio C.R.S.S.M.A.M., Privati: Mauro Depetroni, Mario Cicogna, Donatello Cividin, Nereo Castelli, Igor Naressi, Marcello Ravaioli;
HANNO INOLTRE COLLABORATO:
Riccardo Basile, Alipio Mugnaioni, Maurizio Stolfa, Dario Burresi, Carla Poccecco Benedetti, Alessandra Norbedo, il Giornale “La Voce Giuliana”, la Sezione G.Corsi dell’Associazione Nazionale Alpini, La Sezione di
Trieste dell’Associazione Nazionale Arma di Cavalleria, la Federazione Grigioverde delle Associazioni Combattentistiche e d’Arma di Trieste;
UN RINGRAZIAMENTO PARTICOLARE PER IL PREZIOSO CONTRIBUTO:
AI TESTIMONI: Remo Pistori, Italo Sommavilla, Claudio de Ferra; AI REDUCI: Mario Cividin, Fulvio Depetroni, Dino Papo, Arrigo Curiel, Giorgio Kermol, Gabrio De Szombathely, Alfredo Chicchese, Angelo Galeno,
Guido Morassutti, Silvio Cargnelli, Luciana Bortolotti ved.Lauri;
ALLE FAMIGLIE DI: Luigi Barbiani, Carlo Pocecco, Alvino Burresi per la disponibilità delle memorie e dei diari.
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