Perugia, 13 settembre 2008
RICCARDO BONACINA
(DIRETTORE EDITORIALE VITA)
ASSOCIAZIONISMO E RAPPRESENTANZE DOPO LA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA
Credo di essere stato invitato qui perché circa un anno fa Vita prima e poi Communitas lanciarono
sul tema che mi affidate un dibattito vivace quanto duraturo (durò quattro mesi con una trentina di
interventi ospitati). Avevamo posto un tema: quello dell’autonomia del sociale rispetto sia alla
politica che al mercato. Sostenavamo che non è entrando nei recinti dei partiti (o nel management di
una multinazionale) che si crea un nuovo spazio pubblico. Anzi, dicevamo, farsi sussumere dalla
politica o dal mercato significa depauperare ancor di più lo spazio pubblico; quell’agorà luogo di
discussione, conflitto, incontro, di espressione dei bisogni. Significava desertificare un giardino già
abbandonato, poco frequentato e che pare rinsecchirsi sempre più. Se nessuno fa società, se nessuno
crea reti comunitarie, se nessuno più si fa voce dell’1/3 della popolazione invisibile e che non ha
rappresentanza, con chi si confronterà la politica? Che ne sarà della dimensione civile? E della
democrazia?
Quella discussione, però, prima ancora di una discussione sull’etica dei soggetti sociali e dei suoi
leader, divenne una riflessione sulla profonda crisi della democrazia rappresentativa così come
l’abbiamo conosciuta nel secolo scorso, ovvero il fatto che il popolo delega un rappresentante per
difendere i propri interessi lasciandolo poi libero di esprimersi al riguardo come meglio crede.
Democrazia rappresentativa, cioè?
Quella forma di democrazia che già nel 1976 Gaber in Libertà provvisoria prendeva magistralmente
in giro. Vi leggo un passaggio breve di quello spettacolo: “Tu deleghi un signore che delega un
partito che sceglie una coalizione che sceglie un candidato che tu non sai chi è e che ti rappresenterà
per cinque anni e che quando lo incontri ti dirà, giustamente, Lei non sa chi sono io”.
Il problema è che oggi siamo andati ben oltre il punto stigmatizzato da Gaber per cui la
rappresentatività del popolo sovrano è persa in un laboratorio di deleghe. Oggi la politica si è fatta,
se possibile, ancor più lontana; parte della sua attività legislativa si è allontanata dallo Stato nazione
e si è dislocata in una dimensione sovranazionale; e le camere di compensazione e di mediazione tra
interessi si sono alzate dal territorio per diventare virtuali salotti (la tv, “mediacrazia” la definisce
Diamanti) o salotti veri, addirittura familiari. È evidente che questa verticalizzazione del potere e
delle sue burocrazie pone dei problemi enormi alla sostanza di una vita democratica.
Si aggiunga a tutto questo, il fatto che dalle elezioni 2006 al cittadino elettore è stata tolta persino la
possibilità di scelta del candidato e così da qualche anno abbiamo un Parlamento deciso,
letteralmente deciso, dalle oligarchie dei partiti, 9/10 persone: la casta. Sembra che la strada maestra
di partecipazione allo spazio pubblico sia oramai il sondaggio d’opinione, meccanismo atto a
ricevere più le emozioni di un pubblico che gli interessi di un popolo.
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Cosa resta?
Resta il territorio da cui si sono sollevate economia e politica, che non è muto ma che esprime
rancori ed egoismi. 25 anni fa è nata la Lega, per esempio, che ha intercettato e ne ha espresso
l’istanza politica pretendendo un riavvicinamento tra governance e territorio, tra fiscalità e
comunità.
Ma il territorio non è solo arena di rancori, di egoismi, di spaesamenti e solitudini, è anche luogo in
cui si sperimentano forme diverse di economia e di consumo (i Gas), e forme diverse di democrazia,
da quella partecipativa a quella deliberativa (di cui proprio a Vallombrosa voi parlaste nel 2001 con
Paul Hirst) come risposta al vero conflitto del XXI secolo che è più quello tra capitale e lavoro, ma
quello tra flussi e luoghi (Val di Susa, Dal Molin). Sul territorio si sperimentano anche nuove vie
partecipative per le amministrazioni (si pensi al bilancio partecipativo che interessa una vasta rete di
Comuni italiani).
Ecco allora una prima indicazione per le associazioni e le rappresentanze che anch’esse si sono
forse sollevate dal territorio per mettersi in coda per entrare nella stanza di una concertazione che
non c’è più e non ci sarà più. Stare sul territorio e intercettare i bisogni (un’infinità), le solitudini e
gli spaesamenti e persino i rancori per dare una direzione a ciò che si agita sul terreno, e dare una
direzione non è mai calata dall’alto ma è capace di condividere e saper accompagnare.
La grande partita del civile si gioca innanzitutto sull’orizzontare e se si vuol davvero giocare la
partita bisogna anche ripensare le forme dell’associarsi e del rappresentarsi perché non sarà più
come era.
Per cambiare bisogna guardare in faccia gli sconvolgimenti epocali degli ultimi decenni, come voi
fate in questi raduni. Quest’estate ho letto l’ultimo libro di Touraine La globalizzazione e la fine del
sociale che traccia una perfetta sintesi del cambiamento in corso.
Touraine è poi uno che ci becca, inventò il neologismo “società post industriale” e ora ce ne
propone un altro: “società post sociale”.
Ve ne faccio una sintesi: “Stiamo vivendo la fine della rappresentazione sociale della nostra
esperienza. La società si è dissolta, la globalizzazione ha liberato l’economia dalla politica e dal
controllo, le classi sono state sostituite da aggregazioni planetarie di lavoratori atipici e senza più
luoghi di lavoro. Siamo nell’epoca dell’individualismo compiuto e del pluralismo dei valori e delle
appartenenze”.
Oggi, dice Touraine, si chiedono “diritti per se stessi, non più garanzie per la propria classe o
professione”. E conclude: “Se la definizione del mondo in precedenza era sociale e politica, oggi è
culturale. Il protagonista non è più il soggetto sociale ma il soggetto personale e il soggetto
personale si esprime in movimenti non più sociali ma culturali. La fine della società può portare alla
riscoperta del soggetto?” si chiede Touraine, “oppure esso sarà vittima della violenza, dell’arbitrio,
dell’imprevedibilità e del marketing che hanno invaso lo spazio sociale? Ecco un altro tema
suggerito da Touraine come da chi sottolinea la prevalenza della questione antropologica o
educativa: “la persona”.
È su questo tipo di domande che oggi i soggetti sociali devono confrontarsi, sono queste questioni
che devono guardare in faccia e non conservare posizioni senza più sostanza. Questa fase ci
consegna in Italia per la prima volta e in maniera definitiva l’individualismo come forma prevalente
di un’antropologia del soggetto. La crisi della rappresentanza sta tutta dentro questo
sconvolgimento. È qui che bisogna scavare per cercare ciò che rimane in questa composizione
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sociale. È iniziato, per tutti, il periodo in cui, dopo l’affermazione della realtà globale, è necessario
chiedersi in che modo mettere in contatto locale e globale, interesse individuale e bene collettivo, e
quali siano i soggetti in grado di farlo e di immaginare come governare questo rapporto.
Cito un esempio di un’organizzazione, che ha saputo confrontarsi con queste questioni, la
Coldiretti. È utile studiare la sua riorganizzazione da rappresentanza dei produttori verso la politica
ad agorà di confronti tra produttori e consumatori, tra territorio e i suoi prodotti e i flussi. E così
Coldiretti ha aumentato il suo potere sui decisori, rappresentando più di una categoria e diventando
insieme movimento di produttori e consumatori.
La necessaria autoriforma dei soggetti sociali
È del tutto evidente che a fronte di tali sconvolgimenti chi ha davvero a cuore il destino e la
sostanza di una vera vita democratica non può nascondersi dietro un dito e perciò deve rispondere in
maniera urgente su come oggi le soggettività sociali si raccontano, si rappresentano e possono
assumere compiti di governo. Una riforma, un rafforzamento dei soggetti sociali e il loro
riconoscimento su nuove basi otterrebbe subito alcuni risultati.
Primo, riguardo al mercato (ma anche riguardo al pubblico, pensiamo a Brunetta che dice
occorrerebbero 10/100/1000 Teresa Petrangolini) limiterebbe l’esercizio del potere manageriale (o
burocratico) e stabilirebbe un principio di mancato impatto (sociale e politico) in termini di efficacia
e di efficienza e darebbe strumenti di rappresentanza ai cittadini lesi nei loro diritti. Questo
indurrebbe i manager o burocrati a produrre decisioni basate sulla comunicazione con chi è
maggiormente coinvolto nelle stesse decisioni. Secondo, il controllo democratico locale ridurrebbe
la tendenza alla proliferazione delle norme per far fronte alle devastazioni sul territorio dei flussi
globali. L’attività di governo associativa naturalmente non eliminerebbe completamente la
proliferazione delle norme ma potrebbe incoraggiare percorsi autoregolativi e partecipativi.
L'associazionismo ha oggi l’opportunità di concepirsi come un modello d’organizzazione politica
che può essere motore per riformare la governance in una società complessa e altamente organizzata
e per renderla più compatibile con i valori e gli interessi di una cittadinanza culturalmente
differenziata e individualizzata. Una conseguenza di tale rilancio della democrazia, “in” e
“attraverso” le associazioni, sarebbe che entrambi, Stato e mercato, sarebbero condotti a funzionare,
forse, in modo più efficace proprio perché partecipato. Le istituzioni rappresentative potrebbero
interloquire con un governo che sarebbe limitato per scala e scopo. La funzione di governo sarebbe
circoscritta a fissare le politiche complessive e a supervisionare una società largamente autoregolata, composta da organizzazioni volontarie. Il mercato sarebbe completato dalle opzioni
derivanti dalla “voce organizzata” dei consumatori, delle comunità e dei lavoratori. Il potere
politico avrebbe a che fare con un’ampia gamma di fenomeni che altrimenti sarebbero considerati
come esternalità di mercato all’interno delle procedure di governo dell’impresa. Le imprese
sarebbero più tollerabili come attori in una società a più ampia partecipazione popolare, dal
momento che queste ultime sarebbero soggette all’influenza dei cittadini coinvolti.
In questo senso, l’associazionismo potrebbe oggi giocare il ruolo di ripristinare le caratteristiche
chiave di un sistema democratico all’interno di una società complessa, prima che sia troppo tardi.
Ossia, un governo limitato e la dispersione del potere in una società civile che si auto-regola
producendo le sue istituzioni autonome.
Ma questa è una storia ancora da scrivere e forse tocca proprio noi di cominciare.
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Un’occasione mancata. Legislatura Costituente remember?
Le forze politiche in campo e i loro leader, in questo inizio legislatura, non hanno dimostrato il
coraggio necessario per impegnarsi da subito in un percorso costituente di grande respiro e capace
di riscrivere davvero le regole prevedendo una Convenzione costituente, composta non più e non
solo dai partiti politici, ma da tutte le risorse della società italiana, la società civile, le associazioni,
le parti sociali, tutte. Lo slogan “legislatura costituente” è stato presto derubricato appena archiviate
le elezioni. Così le forze politiche hanno dimostrato una volta di più di non aver preso coscienza che
il Paese non può essere riformato solo dalla politica. Dobbiamo riconoscerlo, anche i soggetti
sociali non hanno mostrato coraggio e forza necessari a tenere alto il tema e ad indicare percorsi (lo
dico qui in casa di una dell’unica associazione che almeno ci ha provato).
Il percorso, tra l’altro, era già stato tracciato dal presidente Napolitano, quando nel suo discorso di
insediamento ebbe a dire: «Quando ci domandiamo – dinanzi a problemi così complessi e a vincoli
così pesanti – se possiamo farcela, dobbiamo guardare alle risorse di cui dispone l’Italia. Sono le
risorse delle istituzioni regionali e locali che esercitano le loro autonomie in responsabile e leale
collaborazione con lo Stato e contando sull’impegno unitario della pubblica amministrazione al
servizio esclusivo della nazione. Sono, insieme, le risorse di un ricco tessuto civile e culturale, da
cui si sprigiona un potenziale prezioso di sussidiarietà, per l’apporto di cui si è mostrato e si mostra
capace il mondo delle comunità intermedie, dell’associazionismo laico e religioso, del volontariato
e degli enti non profit».
A due anni da quel discorso, a 100 gg dall’inizio della legislatura pare di poter dire che la politica
non si impegnerà in un percorso davvero costituente, e se fosse così a questo Paese non resterà
davvero che la via del declino già intrapreso. Si riusciranno a governare temporaneamente alcuni
epifenomeni (i rifiuti, per esempio), ma non si riuscirà a riformare il Paese. Soprattutto, dovremo
accontentarci di guardare la tv e qualche volta indignarci, e i politici accontentarsi di recitare in
questa piccola Commedia dell’Arte del XXI secolo, mentre altri, sempre più distanti e sempre più
impersonali, decideranno per noi e per la politica.
E la colpa non sarà solo imputabile al potere politico ma anche a soggetti sociali sempre muti e
spaesati.
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