PROGRAMMA GRECO LICEO CLASSICO INDICE UNITA’ 1 PARTE 1 Fonetica elementare……………..………………………p. 3 PARTE 2 Morfologia nominale e pronominale………..…………..p. 5 PARTE 3 Morfologia del verbo regolare. ………..………………..p. 7 UNITA’ 2 PARTE 1 Omero…………….………………………………….…p. 12 PARTE 2 Platone, (opere e un testo tradotto)………..…………....p. 13 UNITA’ 3 PARTE 1 La questione omerica……………………………...……p 37 PARTE 2 Archiloco ……………….………………………...……p. 38 PARTE 3 Alceo ……………………………………………...……p. 42 PARTE 4 Saffo ………………...………………………………….p. 45 PARTE 5 I grandi tragici ………………...…………………….….p. 59 PARTE 6 Pindaro …………………………………………………p. 65 PARTE 7 Aristotele…………………………………………….….p.69 PARTE 8 La Sofistica ……………………………..………...…….p. 76 PARTE 9 Erodoto …………………………………………………p. 78 PARTE 10 Tucidide ………………..……………………….……..p. 80 PARTE 11 Demostene …………………..…………………….…..p. 84 PARTE 12 Socrate ……………………..………………….…........p. 86 PARTE 13 Callimaco ………………………….…………………...p. 94 PARTE 14 Apollonio Rodio………………..…………………...….p. 98 PARTE 15 Teocrito………………...…………………………....…p. 102 PARTE 16 Menandro ……………………………………...………p. 104 PARTE 17 Polibio ……………………………….………………...p. 107 PARTE 18 Luciano ………………………….………………….…p. 110 PARTE 19 Plutarco ………………………………….…………..…p. 112 PARTE 20 ll nuovo testamento con cenni sulla letteratura cristiana………………………..…..…p. 122 UNITA’ 1 PARTE 1 FONETICA ELEMENTARE Regole di fonetica: Parole atone: Se una parola alla precedente si chiama: enclitica, se si appoggia alla successiva invece si chiama: proclitica Le enclitiche: * Se la parola che precede un'enclitica Ë ossitona o perispomena (accento acuto o circonflesso sull'ultima), l'accento non cambia e l'enclitica resta priva d'accento. * Se la parola che precede l'enclitica Ë parossitona: l'enclitica prende l'accento sulla 2∞ sillaba solo se Ë bisillaba (acuto se Ë breve, circonflesso se Ë lunga). * Se la parola che precede l'enclitica ha l'accento acuto sulla terzultima (proparossitona) o il circonflesso sulla penultima (properispomena) essa prende un 2∞ accento acuto sull'ultima e l'enclitica resta privano d'accento. * Se si succedono due o pi˘ enclitiche: solo l'ultima non prende accento, le altre invece hanno tutte l'accento acuto. Le proclitiche: * Sono parole atone e monosillabe, quando sono seguite da una o pi˘ enclitiche prendono un accento acuto. Regole sugli accenti: * L'accento circonflesso cade solo su vocali lunghe e dittonghi. * L'acuto puÚ cadere solo sulle ultime 3 vocali. L'accento circonflesso invece sulle ultime 2. * Nel verbo l'accento Ë regressivo, cade cioË il pi˘ possibile vicino l'inizio della parola. * LEGGE DEL TROCHE FINALE: quando l'accento cade sull'ultima vocale se questa Ë breve e l'ultima Ë lunga allora l'accento Ë circonflesso, in caso contrario Ë acuto * L'accento grave cade solo sull'ultima sillaba, sostituisce quello acuto quando una parola Ë seguita da un'altra senza segni d'interpunzione. Parole ossitone: Accento acuto sull'ultima sillaba Parole parossitone: Accento acuto sulla penultima Parole proparossitone: Accento acuto sulla terzultima sillaba Parole properispomene: Accento circonflesso sulla penultima sillaba. UNITA’ 1 PARTE 2 MORFOLOGIA NOMINALE E PRONOMINALE Come abbiamo già accennato sopra, la lingua greca è, sul piano tipologico, una lingua flessiva e fusiva, caratteristica che eredita dalla sua lingua madre, l'indoeuropeo. In quanto lingua flessiva, possiede un'ampia articolazione di declinazioni nominali, che qui vedremo in sintesi. Aspetti generali della flessione nominale e pronominale del greco Nella flessione nominale, il greco si differenzia fortemente dal latino per due ragioni essenziali. Anzitutto, ha sviluppato un articolo determinativo, in tutto simile a quello di molte lingue europee occidentali moderne, a partire da un'antica forma di pronome dimostrativo, ὁ ἡ τό, che ancora in Omero significa "quello, egli, ella, esso", e assume la sua funzione tipica a partire dalla fine dell'VIII sec. a. C. Tale pronome dimostrativo - articolo è la filiazione diretta dell'indoeuropeo *so *sā *tod, ed ha il suo omologo nel sanscrito sa sā tad. Il greco, come il latino e la stragrande maggioranza delle lingue indoeuropee antiche, ha una declinazione a tre generi: maschile, femminile e neutro. Dal punto di vista della nozione del numero, il greco attico si differenzia dal latino poiché possiede ancora, nel verbo e nel nome, come il sanscrito, un duale ben differenziato, per indicare le coppie di oggetti. Il mantenimento del duale è un tratto assai arcaico dell'attico, rispetto ad altri dialetti greci, come lo ionico che lo perde molto per tempo, già nel VII sec. a. C. A differenza della lingua latina, quella greca conserva solo cinque degli otto casi indoeuropei, e non sei. Questi casi sono: • • Il nominativo, che indica il soggetto della frase, l'attributo e l'apposizione del soggetto, il predicato nominale ed il complemento predicativo del soggetto; Il vocativo, indicante il complemento di vocazione; • • • L'accusativo, indicante il complemento oggetto, l'attributo e l'apposizione e il complemento predicativo dell'oggetto; in certi casi anche il complemento di limitazione (il cosiddetto "accusativo alla greca"); Il genitivo, che esprime la specificazione possessiva, oggettiva etc., e riveste le funzioni dell'ablativo di origine e provenienza, di estensione e di allontanamento, nonché di causa, mezzo e causa efficiente; Il dativo, indicante il complemento di termine, ma anche i complementi di causa, di mezzo, di stato in luogo e di tempo determinato. Si sogliono definire, come anche in latino, casi diretti il nominativo, il vocativo e l'accusativo, e casi obliqui il genitivo e il dativo. Il greco di età classica ha ormai perduto lo strumentale, antico caso indoeuropeo ancora vivo nel dialetto miceneo, di cui sopravvivono sparse vestigia in Omero(cfr. ἶ-φι, ναῦ-φι...). Sono rintracciabili, in alcuni nomi notevoli, relitti del locativo indoeuropeo, ancora presente in altre lingue antiche, e tuttora categoria sistematica in molte lingue slave. In sostanza, il greco attua, rispetto all'indoeuropeo, un fortissimo sincretismo dei casi. UNITA’ 1 PARTE 3 MORFOLOGIA DEL VERBO REGOLARE Il verbo greco conserva parecchi tratti arcaici del verbo indoeuropeo, ma mostra altresì notevoli forme innovative, e in particolare, rispetto alla lingua madre, è caratterizzato dalla generale tendenza a rendere coerente il sistema della coniugazione verbale per tutti i tempi, le forme e i modi. Il verbo in greco, come in ogni lingua flessiva, si modifica aggiungendo in coda a una radice verbale una vocale tematica, un suffisso modale e/o temporale una terminazione; talora la radice stessa è ampliata con dei prefissi o degli infissi, per definire i vari temi temporali e le loro funzioni. Si serve inoltre spesso dell'apofonia o gradazione vocalica per distinguere i temi temporali fra di loro. Qui di séguito esamineremo punto per punto i caratteri generali della flessione verbale greca, prima di mostrarne alcuni esempi. Coniugazioni del verbo greco I verbi greci si dividono in due grandi coniugazioni, che si differenziano solo e soltanto nel tema del presente: • • quella tematica, che si distingue per la desinenza -ω della prima persona singolare del presente indicativo, ed è caratterizzata dal fatto che le desinenze del presente e dell'imperfetto sono inserite sistematicamente su una vocale tematica, che mostra apofonia, ε ο quella atematica, che si distingue per la desinenza -µι della prima persona singolare del presente indicativo, ed è caratterizzata dal fatto che le desinenze del presente si inseriscono direttamente sulla radice verbale, la cui vocale mostra apofonia (grado allungato nel singolare del presente indicativo, grado normale nelle altre forme). Le due coniugazioni del greco corrispondono perfettamente alle due coniugazioni del sanscrito. Una coniugazione atematica in tutto simile a quella greca si rinviene anche in ittita. Il greco, nel presente e nell'imperfetto, conserva al novanta per cento la struttura del verbo indoeuropeo. I verbi tematici: suddivisione in otto classi Fanno parte della prima classe verbale tutti quei verbi che formano il tema del presente aggiungendo direttamente la vocale tematica al tema verbale. Ottava Classe Dell'Ottava Classe fanno parte i verbi politematici, cioè i sette verbi che per la formazione di tempi diversi dal presente e dall'imperfetto utilizzano diverse radici verbali; sono, in ordine alfabetico, αἱρέω "prendere", ἐσθίω "mangiare", ἔρχοµαι "andare", λέγω "dire", ὁράω "vedere", τρέχω "correre" e φέρω "portare". αἱρέω t.v. ἑλ- > aoristo εἷλον (aumento in ει-) ἐσθίω t.v. ἐδ-/φαγ- > futuro ἔδοµαι, aoristo ἔφαγον ἔρχοµαι t.v. ἐλευθ-(ἐλυθ-)/ἐλθ- > futuro ἐλεύσοµαι, aoristo ἦλθον λέγω t.v. ἐρ-(ῥη-)/ἐπ- > futuro ἐρῶ (fut. pass. ῥηθήσοµαι), aoristo εἶπον (aoristo raddoppiato, con doppia caduta di w) ὁράω t.v. ὀπ-/ἰδ- εἰδ- οἰδ- (apofonico) > futuro ὄψοµαι, aoristo εἶδον τρέχω t.v. θρεχ-/δραµ(η)- > futuro δραµοῦµαι, aoristo ἔδραµον φέρω t.v. οἰ-/ἐγκ- > futuro οἴσω, aoristo ἤνεγκον(aoristo raddoppiato) La classificazione secondo la presenza o meno di jod nel tema del presente I verbi in -ω si possono dividere in due classi: verbi senza suffisso jod, e verbi con suffisso jod. Prima Classe I verbi che appartengono alla prima classe possono avere o meno un ampliamento e un raddoppiamento del presente (o entrambi). Senza ampliamento Per far vedere in modo chiaro come le vocali tematiche della coniugazione si inseriscano tra le desinenze e il tema, verranno illustrate le voci della 1° persona plurale. • • • temi in vocale e dittongo: λύ-ο-µεν; γεύ-ο-µεν. temi in consonante muta(π β φ; κ γ χ; τ δ θ): ἀµείβ-ο-µεν, ᾄδ-ο-µεν, πλέκ-ο-µεν temi in nasale(µ ν) e liquida(λ ρ): ἀµύν-ο-µεν, ἐθέλ-ο-µεν. Con ampliamento I possibili suffissi che si possono incontrare sono: αν, ε, ισκ (σκ), ν e non c'è una regola precisa per distinguere quali temi prendono questi suffissi. Si possono fare degli esempi: suffisso αν: ἀµαρτ-άν-ο-µεν. suffisso ε: δοκ-έ-ο-µεν > δοκοῦµεν suffisso σκ: ἱλά-σκ-ο-µαι; suffisso ισκ: στερ-ίσκ-ω suffisso ν: τέµ-ν-ο-µεν. • • • il verbo πάσχω ha in realtà un ampliamento σκ; dal tema παθ- si passa a *παθ-σκ-ω, nel quale la dentale θ si dissimila e passa l'aspirazione alla velare κ(legge di Bartholomae). i tre verbi θνήσκω, θρώσκω e µιµνήσκω si possono anche trovare scritti: θνῄσκω, θρῴσκω, µιµνῄσκω. Questo perché possono avere sia ampliamento σκ(primo caso) che ισκ(secondo caso). L'ampliamento ισκ forma con le vocali lunghe η/ω dei dittonghi impropri nei quali la ι si sottoscrive. ci sono dei verbi che inseriscono un ulteriore ν(infisso nasale) all'interno del tema; sono tutti apofonici: λαγχάνω(t.v. λαχ-/ληχ-), λαµβάνω(t.v. (σ)λαβ-/ληβ-), λανθάνω(t.v. λαθ-/ληθ-), πυνθάνοµαι(t.v. πυθ-/πευθ-), τυγχάνω(t.v. τυχ-/τευχ-) tra i più importanti. Si noti come il ν interagisce diversamente con le consonanti a cui è vicino. Seconda Classe Della seconda classe fanno parte temi verbali in consonante che producono esiti diversi incontrandosi con il suffisso ϳ. Sono elencate di seguito le terminazioni verbali che risultano dall'incontro delle consonanti finali con il suffisso ϳ. Terminazione αιν ειν αιρ ειρ σσ ζ πτ λλ ιν υν (brevi) • • • • • Origine φαν-j-ω > φαίνω; κτεν-j-ω > κτείνω σπερ-j-ω > σπείρω µαγ-j-ω > µάσσω; ἐρετ-j-ω > ἐρέσσω κτιδ-j-ω > κτίζω; οἰµωγ-j-ω > οἰµώζω κοπ-j-ω > κόπτω; σκαφ-j-ω > σκάπτω θαλ-j-ω > θάλλω κλιν-j-ω > κλίνω(ι lungo); πλυν-j-ω > πλύνω(υ lungo) i primi due gruppi di verbi funzionano tutti allo stesso modo: il tema in αν (o εν, αρ etc.) subisce metatesi qualitativa con il ϳ(αϳν) che finisce per vocalizzarsi in ι. nel greco attico i verbi in σσ si trovano assai spesso con la terminazione ττ( es.: πράσσω > πράττω). lo stesso gruppo σσ proviene molto di rado da una dentale, così come è più difficile che un verbo in ζ provenga da un tema in velare. il verbo βλάπτω ha origine da *βλαβ-j-ω, come del resto è più ovvio che sia(cfr. βλαβή, danno), ma si suole ritenere che la radice vera sia βλαπ-. i verbi che finiscono in -ίζω sono in gran parte causativi. Precisazioni e particolarità Molti verbi sembrano eludere le classificazioni proposte sopra, poiché all'apparenza appartengono ad un altro gruppo piuttosto che a quello che ci si aspetterebbe separando la desinenza dal tema. Si tratta di eccezioni e casi particolari, che sono presenti in gran numero in qualsiasi lingua, e sarebbe pretenzioso cercare di elencarli tutti esaustivamente; così si ricorrerà a dare una visione generale dei vari fenomeni che possono trarre in inganno. Verbi con raddoppiamento Verbi in -µι I verbi in -µι sono divisi in due classi, le cui differenze si riscontrano nel presente indicativo. Prima Classe Appartengono alla prima classe i verbi che uniscono le desinenze al tema verbale senza alcun ampliamento; possono presentare il raddoppiamento del presente. Es:δι-δωµι (δι raddoppiamento). Seconda Classe Della seconda classe fanno parte i verbi che al presente aggiungono al tema verbale il suffisso -νυ-; -ννυ- se il tema finisce in ς Es: δεικ-νυ-µι. I verbi tematici: suddivisione in due classi La suddivisione dei verbi greci in classi si conduce a seconda della parte finale del tema verbale, della presenza o meno di apofonia vocalica nel tema verbale stesso, e della presenza (o assenza) e qualità dei suffissi aggiunti nel tema del presente.Essa non ha fondamenti scientifici, ma solo finalità didattiche e mnemoniche: è ritenuta molto comoda in quanto, esaminando i meccanismi fonomorfologici di formazione del tema del presente, offre dei paradigmi di coniugazione e soprattutto consente di poter agevolmente ricavare il tema di un verbo partendo dal suo presente. I verbi atematici: suddivisione in due classi UNITA’ 2 PARTE 1 OMERO Omero è il nome del poeta designato fin dall'Antichità come autore dell'Iliade e dell'Odissea, antenato o più semplicemente fondatore della gilda rapsodica degli Omeridi, a cui si riferisce Platone ne La Repubblica, (X, 599 e - 600 b) come ad esperti con i quali si potrebbe discutere del valore morale della paideia omerica. Il nome di Omeridi può essere inteso sia come un gentilizio, anche se l'intera scuola non può identificarsi con un solo genos, sia come un appellativo professionale. Nel primo caso si tende a sostenere anche la realtà storica del poeta Omero, nel secondo, viceversa, ad escluderla. Ignote restano le vicende della sua vita. Ma tra i biografemi più significativi che lo riguardano, ne ricordiamo uno, tramandato da Eraclito e da Aristotele - che rimanda al carattere sapienziale e agonistico di ogni poesia - secondo cui Omero sarebbe morto di dolore per non aver saputo sciogliere un enigma; e un altro, che dobbiamo ad Isocrate, sull'ispirazione dei poemi: «Secondo gli Omeridi, Elena apparve in sogno a Omero e gli ordinò di cantare gli eroi della guerra troiana»: infatti l'epos omerico trae la sua origine dai più antichi canti eroici, che consistono nella descrizione di tenzoni singolari o aristiai. Su questa base è più facile intendere il taglio dell'Iliade, che non finisce con la morte di Achille ma con la sua vittoria su Ettore. Per quanto riguarda l'Iliade e l'Odissea, la maggioranza degli studiosi ammette oggi che si tratta di opere unitarie sia dal punto di vista stilistico che narratologico. Sull'epoca in cui sono state scritte la discussione è aperta: secondo alcuni la loro composizione e redazione scritta sono prossime, se non coincidenti, e vanno collocate tra il IX e l'VIII secolo; secondo altri sono state tramandate oralmente fino al VI sec. cioè fino alla loro pubblicazione per volontà di Pisistrato, tiranno di Atene. L'Odissea comunque è con ogni probabilità successiva all'Iliade: segni di un'età più recente sono la decadenza della monarchia di fronte all'aristocrazia e l'importanza politica dell'assemblea. Per quanto riguarda l'elemento linguistico, si può parlare di una lingua comune ai due poemi, consistente in una mescolanza dei dialetti eolico e ionico, senza riscontro nell'uso corrente, che dev'essere considerata, quindi come frutto di una specifica tradizione poetica. UNITA’ 2 PARTE 2 PLATONE VITA Platone nasce ad Atene nel 427 a.C. In quel periodo la città era dilaniata dalla guerra contro Sparta e dalle incessanti lotte interne tra forze democratiche, aristocratiche e oligarchiche. Di famiglia aristocratica, Platone si interessa inizialmente soprattutto alla politica. L'incontro con Socrate, nel 408, segna una svolta nella sua vita. Platone diviene suo allievo e lo frequenta assiduamente fino al 399, anno del processo e della condanna a morte di Socrate. Deluso sia dal governo oligarchico dei Trenta Tiranni, sia da quello democratico che aveva accusato il suo maestro, Platone compie numerosi viaggi, frequenta la scuola megarica di Euclide, visita la scuola pitagorica di Archita a Taranto e diventa amico di Dione, consigliere del tiranno di Siracusa Dionigi I. Nel 387 torna ad Atene e apre una scuola nei pressi del parco Academo. Nasce così l'Accademia, istituto scientifico, scuola di formazione eticopolitica e anche associazione religiosa per il culto delle muse. Nel 367 torna a Siracusa per istruire il nuovo tiranno Dionigi II, ma fallisce così come nel suo ultimo viaggio del 361. Platone muore nel 347, mentre Atene era in guerra contro Filippo e si avviava verso la decadenza. PENSIERO Fortemente influenzato dal suo maestro, Platone continua l'indagine socratica della verità attraverso una critica serrata delle opinioni. A differenza di Socrate, però, Platone cerca una conoscenza universale e necessaria. Questa ricerca lo spinge a riscoprire il pensiero di Parmenide, che per primo aveva delineato una scienza dell'essere assolutamente certa. In quel periodo, la concezione parmenidea era stata fortemente mediata dai pluralisti perché secondo loro penalizzava la conoscenza dei fenomeni. Platone invece respinge questa mediazione e afferma l'esistenza di due ordini di realtà e di conoscenza. Da una parte egli pone la realtà e la conoscenza del mondo sensibile, fatta di cose, dall'altra la realtà e la conoscenza di una dimensione situata oltre questo mondo, costituita da idee di natura puramente intelligibile. Perché la nostra conoscenza delle idee sia valida occorre che le idee siano realtà universali e permanenti e non solo criteri regolativi interni all'intelletto. Per Platone le idee sono valori verso i quali la realtà deve tendere finalisticamente. L'universo delle idee è infatti gerarchicamente ordinato dall'idea del bene. È nell'Eutifrone che è possibile trovare un primo abbozzo della teoria delle idee. In questo dialogo Platone cerca di distinguere ciò che è santo da ciò che è empio e giunge alla conclusione che ciò che è santo deve esserlo sempre, in ogni circostanza. Ciò che rimane identico è tale perché ha una sua forma, una sua conoscibilità, ha cioè una sua idea. Se si vuole conoscere ciò che è santo bisogna conoscere quel principio eidetico che fa si che tutte le cose che sono sante siano tali. Le idee sono forme universali su cui sono modellate le cose particolari, e quindi avere scienza vuol dire servirsi dell'idea come di un modello intellettuale. Questa concezione del sapere è nettamente opposta all'arte della persuasione e della retorica promossa dai sofisti. Molti dialoghi platonici sono infatti dedicati a smantellare alcuni precetti dei sofisti. Nel Gorgia Platone definisce la retorica come pratica della persuasione mediante discorsi fondati dalla credenza invece che dalla conoscenza. Nel Menone invece, Platone dimostra che l'uomo ha in sé delle idee fin dalla nascita: conoscere vuol dire ritrovare queste idee. Anche l'eristica, arte della controversia finalizzata all'obiettivo di far prevalere la propria tesi giusta o sbagliata che sia, diventa un suo bersaglio critico. Platone dedica all'eristica l'Eutidemo, dialogo in cui si oppone nettamente al principio che afferma l'impossibilità di cercare nell'uomo ciò che si sa o che non si sa. Il suo rifiuto della concezione gnoseologica dei sofisti lo spinge a formulare la teoria della reminiscenza in cui sono presenti numerosi riferimenti all'orfismo. Secondo la religione orfica l'anima è immortale e rinasce più volte, conosce già sia il nostro mondo che il mondo degli inferi. Per Platone la rinascita continua dell'anima dimostra che imparare non è altro che ricordare. Inoltre, la ricerca della verità è una condizione intermedia fra il pieno possesso di essa e la sua completa assenza. Platone condanna anche la teoria di Protagora secondo cui le cose hanno un nome per convenzione. Nel Cratilo, dialogo rivolto al linguaggio, Platone sostiene che fra le cose e i nomi c'è una corrispondenza di natura. Le cose hanno una loro natura che non può essere manipolata da noi. Mettere nomi spetta solo a colui che sa, perché costruirà i vari nomi tenendo presente la natura delle cose attraverso l'osservazione delle idee di ogni cosa. La dottrina platonica delle idee si sviluppa anche attraverso alcuni dialoghi dedicati all'amore e a alla bellezza. Le idee sono il fine dell'anima e l'anima è immortale proprio per il suo legame con le idee. L'amore e la vita sono aspirazione al mondo soprasensibile e all'immortalità. L'amore descrive la condizione generale dell'uomo che tende a conseguire il bene e la felicità di cui manca. Nel Simposio l'amore è desiderio di bellezza e di bene, e quindi avvertimento della loro mancanza. L'amore si presenta come qualcosa di natura intermedia, un demone, figlio di Ingegno (abbondanza) e di Privazione (povertà). Se la vita umana si muove tra un mondo sensibile e un mondo intelligibile, l'amore spiega il passaggio e la tensione dall'uno all'altro. L'amore è desiderio di possedere il bello e il bene. È intuizione dell'esistenza del bello e del buono da parte di chi non li ha ma li desidera. Attraverso questo desiderio l'uomo oltrepassa i propri limiti, ascende gradualmente la scala delle cose belle e arriva a contemplare il bello in sé. L'ascesa amorosa ha come fine l'idea di bellezza. Il passaggio dall'ignoranza alla scienza è delineato come l'evolversi del sentimento d'amore per la bellezza sensibile di un corpo verso la comprensione che la bellezza, presente in tutte le forme visibili, è unica e identica. L'amore per la bellezza di un corpo non è che un passaggio per cogliere la bellezza nelle anime e per amare la bellezza nelle scienze. Nel Fedro l'anima, principio di vita e di movimento, indipendente dal corpo e immortale, è descritta come un carro guidato da due cavalli alati. Quando prevale il cavallo bianco, che guida gli impulsi buoni e razionali, l'anima vola nel mondo delle idee. Quando prevale il cavallo nero, che guida le passioni sensibili e carnali, l'anima cade sulla terra ed è costretta a reincarnarsi in altri corpi. Secondo Platone l'anima conserva i ricordi del mondo divino anche dopo la caduta nel corporeo e nel sensibile. La visione delle cose belle nel mondo sensibile risveglia i ricordi delle essenze contemplate nel mondo intelligibile e accende l'anima di un delirio divino, la forma più alta d'amore. Platone continua l'elaborazione della concezione di anima nel Fedone, commovente racconto delle ultime ore di Socrate. In questo dialogo il filosofo è descritto come colui che già in vita è sottoposto ad una sorta di morte. La realtà sensibile è avvertita come una prigione. Il corpo è impedimento dell'anima alla scienza. Al filosofo non resta quindi che morire per liberare l'anima e la scienza dai vincoli corporei. Il vero filosofo desidera morire per liberarsi dal carcere del corpo e per tornare nel puro mondo delle idee, altrimenti raggiungibile solo con la ricerca rigorosa e disinteressata della verità e l'esercizio della virtù. Nella Repubblica Platone delinea una nuova concezione dello stato per realizzare l'ideale della conoscenza universale e necessaria. Secondo Platone lo stato si forma per soddisfare i propri bisogni con l'aiuto degli altri, ma l'eccessiva brama di potere e il desiderio di espansione territoriale provocano lotte continue e guerre. Occorre quindi creare un esercito di soldati di professione per difendersi, i custodi dello stato, la cui vita dovrà fondarsi sulla totale condivisione. È per questo motivo che Platone ritiene indispensabile l'abrogazione di ogni possesso individuale, abolizione che deve essere estesa anche alla famiglia. Inoltre, lo stato non solo si occuperà dell'educazione dei figli, ma controllerà anche le unioni sentimentali, e le donne dovranno essere educate per poter collaborare con gli uomini in tutti gli uffici pubblici, compresa la guerra. Solo la classe dei lavoratori è esentata dalla rinuncia alla famiglia e dall'obbligo della formazione. Se per Socrate era importante occuparsi soprattutto dell'anima, Platone ritiene indispensabile non trascurare lo stato. Il superamento dell'orientamento socratico è evidente proprio nella corrispondenza che Platone realizza distinguendo le tre classi sociali che formano lo stato sulla base di una teoria dell'anima composta da tre parti. La parte concupiscibile, l'istinto, equivale alla classe dei lavoratori, uomini di bronzo. La parte animosa, la forza emotiva, corrisponde invece ai custodi, uomini d'argento, mentre la parte razionale, la ragione, spetta ai governanti, uomini d'oro. Lo stato deve essere governato da persone che racchiudono in sé filosofia e potenza politica. Dominio politico e vera conoscenza, ispirata dall'amore dell'idea, devono incontrarsi, e ciò accade solo con un governo aristocratico, tutte le altre forme (timocrazia, oligarchia, democrazia, tirannia) non sono che la degenerazione di questo modello perfetto. Le idee garantiscono non solo la possibilità di una conoscenza vera e universale ma anche l'unità essenziale e permanente del molteplice e del divenire. Attraverso il mito della caverna Platone mostra le tappe della conoscenza umana. Secondo questo mito, gli uomini sono imprigionati dentro una caverna, con le spalle rivolte verso la luce. Gli oggetti reali si trovano fuori dalla caverna, ma gli uomini non si possono voltare per guardarli direttamente. Possono solo osservare le ombre che gli oggetti proiettano contro le pareti della caverna. Per Platone gli esseri umani sono quindi condannati a poter cogliere attraverso la sensazione solo le ombre delle idee. Solo pochi riescono a uscire dalla caverna e ad accorgersi della bellezza del reale. Spetta ai filosofi guidare gli esseri umani verso la conoscenza delle idee, mediante lo studio della matematica e l'esercizio della dialettica che insegnano la contemplazione del bello e del vero. Nel Parmenide vengono affrontati i problemi relativi alla dottrina delle idee. Le difficoltà sorgono quando si devono considerare insieme i processi di unificazione e di divisione, perché le idee sono distinte dalle cose (p.e. l'idea di bellezza non coincide con le cose, altrimenti diverrebbe una e molteplice) ma allo stesso tempo somigliano ad esse (sono infatti unificate da questa somiglianza). Per risolvere questi problemi, Platone afferma la teoria della partecipazione: le cose partecipano semplicemente delle idee. Il mondo dell'essere e il mondo sensibile stanno nello stesso rapporto in cui si trovano l'uno e il molteplice. Il molteplice non si può pensare senza riferimento all'unità, in quanto è anch'esso costituito di unità, a sua volta l'uno è essere in quanto unifica il molteplice sensibile e quindi è in connessione con il non essere sensibile. Per Platone, la separazione parmenidea fra essere e non essere è insostenibile, perché comporterebbe l'impossibilità di stabilire relazioni conoscitive fondate. Ogni relazione conoscitiva implica diversità, cioè non essere, indica dunque che un ente è qualcosa e insieme che non è qualcos'altro. Platone condanna anche la dottrina eracliteo-protagorea della conoscenza come sensazione. Nel Teeteto sostiene infatti che la sensazione non consente una conoscenza valida e vera basata sul mondo delle idee. È nei dialoghi della vecchiaia che si compie il parricidio di Parmenide. Nel Sofista Platone delinea il metodo dicotomico della dialettica e ripropone il problema dell'esistenza del non essere. Per trovare una mediazione fra mondo ideale dell'essere e conoscenza umana è necessario «uccidere Parmenide». Il non essere è definito in quanto negazione relativa e non come negazione assoluta, perché la diversità è una forma fondamentale dell'essere stesso. Solo in questo modo si può rendere ragione del falso e dell'errore. Escludere qualsiasi relazione fra l'essere e il non essere significa rendere impossibile sia la conoscenza che il linguaggio. La dialettica studia le forme dell'essere per stabilire fra di esse il rapporto di identità e di diversità. Chiarendo quali forme della realtà si collegano e quali si escludono, la dialettica è in grado di determinare la struttura del reale, mostrando tutte le sue determinazioni e articolazioni. Il procedimento della diaresi-divisione permette di determinare un genere (nome che Platone preferisce ora a quello di idea), indicando le relazioni di esclusione e inclusione in cui si trova con gli altri generi. Si parte tagliando in due ogni genere (muovendo da generi diversi) fino a raggiungere il genere da determinare, in modo tale che questo possa essere colto in un numero sempre maggiore di relazioni. Nel Filebo Platone ripete che i generi non devono essere intesi come unità rigide ma in rapporto di partecipazione gli uni con gli altri. La ricerca dei generi si muove sia nell'ambito dell'unità che nell'ambito della molteplicità. I due generi massimi sono il finito e l'infinito. Sempre nei dialoghi della vecchiaia troviamo il problema dell'origine dell'universo e della formazione del mondo. Platone rifiuta la concezione meccanicistica del mondo formulata da Democrito e delinea un discorso sulla genesi e l'organizzazione del cosmo, correggendo il carattere qualitativo della vecchia fisica con schemi e proporzioni matematiche che gli conferiscono una precisa struttura qualitativa (di cui si serve per dimostrare il fine razionale dell'universo). L'universo è concepito come una cosa generata da un demiurgo, un artefice divino, che opera imitando i modelli del mondo delle idee e le proporzioni matematiche, ma non si tratta di un vero creatore perché le cose gli preesistono. L'intero universo (così come la citta-stato) è considerato un organismo fornito di un'anima intelligente e di un corpo, come un grandioso essere vivente e animato. L'anima del mondo è principio generale di vita, mediazione fra il piano sensibile e il piano razionale-ideale della realtà, realizzazione della compresenza di essere e divenire che caratterizza i fenomeni. Il finalismo del mondo è dimostrato dal suo rispondere al criterio del meglio, di cui si fa realizzatore il demiurgo, mentre l'imperfezione del mondo è causata dalla chora, materia sensibile sottoposta al mutamento e alla corruzione. Il termine chora è usato per definire ciò in cui le cose si generano, ma indica anche qualcosa di negativo, simile al non essere. Nei dialoghi della vecchiaia è presente anche a una rielaborazione delle affermazioni sullo stato e sulla politica. Mentre nella Repubblica Platone analizzava lo stato come un modello ideale, fermo al di sopra dell'esperienza umana, nel Politico lo stato si configura come una mescolanza di cui bisogna trovare la giusta misura. L'arte della politica è l'arte della misura, la ricerca del giusto mezzo di equilibrio fra eccesso e difetto, ed è per questo che non bisogna dare troppa importanza a un corpo di leggi scritte. La legge è paragonata ad un uomo autoritario e ignorante. Eppure, nell'ultimo dialogo, rimasto incompiuto, Platone affida proprio alle leggi il governo dello stato, rinunciando sia alla classe dei governanti che a quella dei custodi e rivalutando la famiglia, in quanto condizione abituale degli individui. Cambia anche il modello politico, non più aristocratico, bensì combinazione di elementi monarchici e principi democratici. OPERE PRINCIPALI Apologia di Socrate Convito Cratilo Crizia Eutidemo Fedone Fedro Gorgia Menone Parmenide Politico Protagora Repubblica Simposio Teeteto Timeo Testo tradotto: L’AUTODIFESA [17a] Non so, o Ateniesi, che impressione (2) vi sia rimasta dei miei accusatori; io, davvero, mi sono quasi dimenticato di me stesso, da quanto parlavano persuasivamente. Eppure non hanno detto quasi niente di vero. Ma mi ha stupito soprattutto una delle loro molte bugie: hanno detto che dovevate cercare di non farvi ingannare da me, perché [17b] sono abile (deinos) nel parlare. La cosa più vergognosa mi è sembrata appunto il loro non aver ritegno di venir confutati da me con i fatti, quando non apparirò per nulla abile (deinos) nel parlare - a meno che non chiamino così chi dice la verità. In questo caso, sarei d'accordo: sono un retore, ma non al modo in cui essi lo intendono. (3) Essi - dico - hanno detto poco o nulla di vero, ma voi non sentirete da me null'altro che la verità. E non userò affatto, o Ateniesi, discorsi come i loro, ben fraseggiati [17c] nelle espressioni e nei termini, e bellamente disposti: voi sentirete da me cose argomentate disordinatamente, con le prime parole che mi capitano a tiro - infatti io credo che quello che dico sia vero - e nessuno di voi si aspetti altro. Perché a questa età non starebbe bene venire da voi facendo discorsi come un ragazzino.(4) E anzi, Ateniesi, questo vi chiedo e vi supplico: se mi sentirete difendermi con gli stessi discorsi che sono abituato a fare in piazza, presso i banchi dei trapeziti,(5) dove molti di voi mi hanno udito, e altrove, [17d] non ve ne stupite e non mormorate. Infatti così stanno le cose: sono quassù in tribunale per la prima volta a settant'anni, e perciò sono del tutto estraneo a questo modo di esprimersi (lexis). Perciò, come forse mi perdonereste, se fossi veramente straniero, [18a] di parlare con la lingua e alla maniera in cui sono stato educato, così ora vi chiedo - giustamente, mi sembra - di aver comprensione per il mio modo di esprimermi, (6) buono o cattivo che sia, e di considerare invece attentamente se dico o no cose giuste, perché questa è la virtù (arete) del giudice, mentre quella dell'oratore è dire la verità. In ogni caso, Ateniesi, è giusto che mi difenda innanzitutto dalle prime accuse false e dai primi accusatori, e poi dalle accuse e dagli accusatori successivi. [18b] Infatti, molti miei accusatori sono venuti da voi in passato senza dire nulla di vero, e raccontano il falso su di me già da molti anni. Io ho più paura di loro che di quelli che stanno attorno ad Anito,(7) per quanto siano anch'essi terribili. Ma gli antichi accusatori sono più temibili, cittadini, perché vi hanno indotto a creder loro prendendovi sotto controllo da bambini, e mi hanno accusato di più, senza nessuna verità, dicendo: "C'è un certo Socrate, uomo sapiente, che strologa (8) su quello che sta per aria e investiga su quello che sta sottoterra, e che fa del discorso più debole il più forte" [18c] Questi, che diffusero su di me una fama simile, sono i miei accusatori terribili, cittadini ateniesi, perché il loro uditorio ritiene che chi fa simili ricerche non creda negli dei. Inoltre, questi accusatori sono molti e mi accusano già da molto tempo; per di più, hanno parlato con voi a quell'età in cui si è più fiduciosi, quando alcuni di voi erano ragazzi e altri bambini, e mi hanno portato in giudizio in contumacia, senza nessuno che mi difendesse. Ma la cosa più assurda è che [18d] non si sappiano né si dicano i loro nomi, a meno che a qualcuno non capiti di essere un poeta comico. Quelli che vi hanno persuaso, attaccandomi con l'invidia e la calunnia - e quelli che, una volta persuasi essi stessi, hanno persuaso altri - sono tutti avversari intrattabili: infatti non è possibile far comparire qui nessuno di loro per confutarlo, ma sono costretto a difendermi semplicemente come se stessi combattendo con l'ombra, (9) e a controinterrogare senza nessuno a rispondere. Considerate dunque la duplicità dei miei accusatori: gli uni sono quelli che mi accusano ora, e gli altri [18e] sono quelli che, come dicevo, lo hanno fatto in passato. E' opportuno che mi difenda prima da questi ultimi, perché li udiste accusarmi prima e molto più degli accusatori recenti. Bene. Allora tocca difendersi, o cittadini ateniesi, e tentare di [19a] sradicare da voi, in così poco tempo, una calunnia così antica. Mi auguro che così sia, se è qualcosa di buono per me e per voi, e che riesca a difendermi. Ma io stesso penso che sia difficile e non me lo nascondo. Tuttavia, vada come a dio piace: c'è da obbedire alla legge e difendersi. Riconsideriamo dunque dal principio quale sia l'accusa da cui [19b] è derivata la calunnia, prestando fede alla quale Meleto ha intrapreso la sua azione giudiziaria contro di me. Ebbene: dicendo che cosa mi hanno diffamato i diffamatori? Bisogna leggere la loro deposizione come se fosse una denuncia vera e propria. "Socrate è un criminale e un perditempo, che indaga su quello che sta in cielo e sottoterra, fa del discorso più debole il più forte, [19c] e insegna lo stesso agli altri." Si tratta di qualcosa del genere. Anche voi vedevate nella commedia di Aristofane un Socrate che, andando in giro per la scena, afferma di camminare in aria e dice molte altre sciocchezze, di cui io non so né tanto né poco. (10) E non lo dico per disprezzare una simile scienza, se c'è qualcuno che ne è esperto - non vorrei che Meleto mi accusasse anche di questo - ma io, Ateniesi, non ci ho niente a che fare. [19d] Su questo, presento come testimone la gran parte di voi, e chiedo a tutti quelli che una volta mi hanno ascoltato discutere - e ce ne sono tanti fra voi - di mostrarvi e di indicarvi reciprocamente. Indicate dunque se c'è qualcuno fra voi che mi sentì mai disputare, tanto o poco, su cose del genere. E verrete a sapere che è così anche per il resto di ciò che i più dicono di me. Ma niente di ciò è vero, e se avete sentito dire da qualcuno che io educo la gente e [19e] faccio soldi, è falso anche questo. Anche a me, certo, sembra bello se qualcuno sa educare gli uomini, come fa Gorgia di Leontini, Prodico di Ceo e Ippia di Elide. Ciascuno di loro, Ateniesi, è in grado di andare in ogni città e convincere i giovani - i quali potrebbero anche, gratuitamente, stare insieme ai loro concittadini preferiti (11) [20a] ad abbandonare la comunità (synousia) di questi ultimi, a frequentare loro a pagamento e ad essere pure grati. E c'è un altro esperto, uno di Paro, che venni a sapere essere in città: infatti mi imbattei in Callia figlio d'Ipponico, (12) un uomo che ha pagato ai sofisti più soldi di tutti gli altri insieme, e gli chiesi - egli ha due figli -: - Callia, se i tuoi due figli fossero un paio di puledri o di vitelli, dovremmo prendere uno che li governi e stipendiarlo perché [20a] sviluppi in loro l'eccellenza (arete) appropriata, cioè un esperto di cavalli o di agricoltura. Ma, dal momento che sono uomini, chi hai in mente di assumere? Uno che ha conoscenza della virtù (arete) umana e politica? Penso, infatti, che tu ci abbia riflettuto sopra, dato che i figli sono tuoi. C'è qualcuno di questo genere o no? Certamente disse lui. - Chi è? - dissi io - E di che paese è? E a quanto insegna? - E' Eveno di Paro - rispose - e si fa pagare cinque mine. Beato Eveno - mi congratulai io - [20c] se ha veramente quest'arte (techne) e la insegna ad un prezzo così ragionevole. Anch'io, in ogni caso, sarei fiero e vanitoso se sapessi insegnarla. Ma non ne sono capace, Ateniesi. (13) Ora qualcuno di voi potrebbe ribattere: - Socrate, ma come la mettiamo? Da dove sono venute fuori queste calunnie contro di te? Non avresti una reputazione di questo genere senza immischiarti in niente di diverso degli altri, a meno che tu non faccia, appunto, qualcosa d'altro. Dicci [20d] come stanno le cose, perché non vogliamo esprimere giudizi improvvisati su di te. Questa - mi sembra - è una obiezione giusta. Tenterò di mostrarvi le cause della mia fama e della mia diffamazione. E perciò ascoltatemi. Ad alcuni di voi sembrerà che io scherzi, ma - non dimenticatelo - dirò tutta la verità. E' vero, cittadini ateniesi, io ho questa fama solo per una certa mia sapienza (sophia). Ma che tipo di sapienza? Quella che è, forse, sapienza umana. Oso dire, infatti, di essere esperto di questa sapienza. Invece quelli [20e] di cui parlavo poco fa possono ben essere esperti di una sapienza più che umana, su cui non ho nulla da dire, perché io stesso non ne so nulla, e chi afferma il contrario mente e parla per diffamarmi. Per favore, cittadini ateniesi, non interrompetemi, anche se quanto dico vi apparirà presuntuoso, perché il discorso che vi riferirò non è mio, ma di qualcuno ai vostri occhi più degno. Sulla mia sapienza - se di un qualche genere di sapienza si tratta - presenterò come testimone il dio di Delfi. Avete avuto modo di conoscere Cherefonte. [21a] Fu mio compagno fin da giovane, e fu compagno vostro - del popolo - e condivise con voi l'esilio e il ritorno. Sapete dunque com'era Cherefonte, così impulsivo in tutto quello cui metteva mano. Bene, una volta si recò a Delfi e si permise di interrogare l'oracolo su questo - non schiamazzate su ciò che dico, cittadini - perché gli chiese se ci fosse qualcuno più sapiente di me. E la Pizia rispose che nessuno era più sapiente. (14) Di questo vi darà testimonianza suo fratello, dal momento che Cherefonte è morto. [21b] E considerate perché vi dico questo: sto per spiegarvi da dove è nata la calunnia contro di me. Io infatti, udito il responso dell'oracolo, feci questa riflessione: "Che cosa vuol dire il dio? Che cosa nasconde il suo parlare enigmatico? (15) Sono consapevole di non essere affatto sapiente: che cosa intende, allora, dichiarando che sono il più sapiente? Egli certo non mente, perché non può." Rimasi per molto tempo in dubbio su quanto detto dal dio. Poi, con riluttanza, mi volsi a una ricerca di questo genere: mi recai da qualcuno di quelli ritenuti sapienti, per [21c] confutare l'oracolo (16) e dimostrargli proprio lì "Questo è più sapiente di me, mentre tu dicevi che il più sapiente ero io." Esaminandolo con cura e discutendo con lui - non occorre far nomi, ma colui dal quale ebbi questa impressione, cittadini ateniesi, era un uomo politico - mi sembrò che quest'uomo apparisse sapiente a molti altri e soprattutto a se stesso, ma non lo fosse. Perciò cercai di dimostrargli che si riteneva sapiente, ma non lo era. [21d] E così diventai odioso a lui e a molti dei presenti. Ma, andandomene, pensai fra me e me: "Sono più sapiente di questa persona: forse nessuno dei due sa nulla di buono, ma lui pensa di sapere qualcosa senza sapere nulla, mentre io non credo di sapere anche se non so. Almeno per questo piccolo particolare, comunque sia, sembro più sapiente di lui: non credo di sapere quello che non so." Mi recai poi da un altro di quelli che passavano per sapienti e [21e] ne ebbi la stessa impressione, e divenni odioso a lui e a molti altri. E continuai ad andare dall'uno all'altro: mi rendevo conto, con amarezza e timore, di essere odioso, ma mi sembrava necessario trattare ciò che concerne il dio come cosa della massima importanza. Per questo era doveroso recarsi, per esaminare il senso dell'oracolo, proprio da tutti [22a] quelli che sembravano sapienti. E per il cane, Ateniesi, - bisogna che vi dica la verità - la mia esperienza fu davvero questa: a me, che indagavo per il dio, (17) coloro che godevano di una migliore reputazione sembrarono quasi i più carenti, mentre quelli che passavano per inferiori risultarono uomini più dotati di discernimento. Occorre, allora, che vi esponga la mia peregrinazione, cioè la storia delle fatiche che ho affrontato per corroborare l'oracolo. Dopo essere stato dai politici, mi rivolsi ai poeti, ai compositori di tragedie, [22b] di ditirambi e di altri generi, per cogliermi sul fatto come più ignorante di loro. E prendendo in mano i lavori che mi sembravano meglio composti, andavo chiedendo ai loro autori che cosa volessero dire, anche per imparare qualcosa. Cittadini, mi vergogno a dirvi la verità, ma lo si deve pur fare: sulle loro composizioni quasi tutti i presenti ragionavano meglio di loro. Così, di nuovo, mi resi subito conto che i poeti non fanno ciò che fanno per sapienza, [22c] ma per una qualche disposizione naturale (physei) e come divinamente ispirati (enthousiazontes), alla maniera dei profeti e dei veggenti: anch'essi, infatti, dicono molte cose belle, ma non sanno nulla di ciò che dicono. (18) Anche i poeti - mi divenne chiaro - sono soggetti a una esperienza simile; nello stesso tempo mi accorsi che essi pensavano, per la loro poesia, di essere i più sapienti degli uomini anche sul resto, ove non lo erano. Così me ne andai anche da là ritenendomi superiore a loro proprio come lo ero nei confronti degli uomini politici. Per finire, andai dagli artigiani (cheirotechnes): (19) [22d] io stesso, infatti, ero consapevole di non sapere quasi nulla, ma avevo avuto modo di apprendere che li avrei trovati esperti in molte cose belle. E in questo non mi ero ingannato, perché essi sapevano cose che io non sapevo e così erano più sapienti di me. Tuttavia, cittadini ateniesi, mi sembrò che anche gli artigiani bravi incorressero nello stesso errore dei poeti: ciascuno di loro, dal momento che lavorava bene nell'ambito della sua arte (techne), si stimava molto esperto anche in altre importantissime questioni e questa stonatura tendeva a nascondere la loro sapienza. [22e] Allora interrogai me stesso, per conto dell'oracolo, chiedendomi se preferissi essere come sono io, né sapiente alla loro maniera, né ignorante al loro modo, oppure come sono loro. E risposi a me stesso e all'oracolo che mi andava bene essere come sono. Da questa indagine, cittadini ateniesi, [23a] mi sono derivate molte inimicizie, tanto aspre e violente da dare origine a numerose calunnie e alla mia fama di sapiente. Infatti i presenti pensano ogni volta che io sia esperto di quello su cui ho confutato un altro. Ma potrebbe darsi, cittadini, che il dio sia effettivamente sapiente e che in questo oracolo voglia dire che la sapienza umana vale poco o nulla; (20) è evidente che questi menziona Socrate e [23b] ha dato il suo responso col mio nome, prendendo me come esempio, come per dire: "Uomini, il più sapiente fra voi è chi, come Socrate, ha riconosciuto che in verità non è di nessun valore, per quanto concerne la sapienza." In ogni caso, anche ora, andandomene in giro, cerco ed esamino secondo l'ordine del dio chiunque, cittadino o forestiero, io creda sapiente; e ogni volta che non mi appare tale, vengo in aiuto al dio e dimostro che non lo è. E a causa di questa occupazione non ho avuto tempo di fare nulla di notevole né negli affari della città, né in quelli di casa, ma, [23c] per il servizio al dio, sono infinitamente povero. Inoltre, i giovani che hanno più tempo libero, cioè i figli dei più ricchi, mi frequentano per loro scelta, si divertono a sentirmi mettere alla prova le persone, e spesso mi imitano essi stessi e tentano di esaminarne altre. Così trovano - credo - una grande abbondanza di persone che sono convinte di sapere qualcosa ma sanno poco o nulla. E quelli che essi mettono alla prova si arrabbiano con me, invece che con se stessi, [23d] e dicono che un certo Socrate è oltremodo abominevole e corrompe i giovani. E se qualcuno chiede loro "facendo o insegnando che cosa?", non sanno che dire e per non apparire in imbarazzo, dicono tutto quello che hanno sottomano contro chi fa filosofia: insegna "ciò che sta per aria e ciò che è sottoterra", a "non credere negli dei" e a "fare del discorso più debole il più forte". Perché la verità - venire scoperti come persone che fanno finta di sapere ma non sanno - non gli piacerebbe dirla. Ed essendo - penso - ambiziosi, [23e] violenti e numerosi e parlando di me in maniera concertata e persuasiva, vi hanno riempito gli orecchi di robuste calunnie. Su questa base mi hanno attaccato Meleto, Anito e Licone: Meleto irritato per i poeti, Anito per gli artigiani e [24a] gli uomini politici, Licone per i retori. Così, come dicevo in principio, mi stupirei se riuscissi a sradicare da voi, in così poco tempo, un pregiudizio divenuto così grande. Questa è la verità, cittadini ateniesi, e vi parlo senza nascondervi nulla, grande o piccolo che sia, e senza riserve. E so piuttosto bene che in questo modo mi rendo odioso - ma ciò è anche prova che dico la verità, che la calunnia contro di me è questa e queste ne [24b] sono le cause. E se le cercherete, ora o in futuro, vedrete da voi che è così. Su quanto dicevano contro di me i primi accusatori, basti, davanti a voi, questa autodifesa. Ora tenterò di difendermi davanti a Meleto, l'uomo perbene, il patriota, come dice di essere, e dagli accusatori più recenti. Riprendiamo dunque ancora il loro atto d'accusa, come se essi fossero altri accusatori. L'atto di accusa è pressappoco così: Socrate - dice - è un criminale perché corrompe i giovani e non crede [24c] negli dei in cui crede la città, ma ma in altre entità divine di nuovo conio. (21) Questa dunque è l'accusa: esaminiamola punto per punto. Dice che sono colpevole perché corrompo i giovani. Ma io dico, cittadini ateniesi, che è Meleto a commettere ingiustizia, perché fa lo spiritoso sulle cose serie, e con leggerezza porta in giudizio le persone, fingendo di preoccuparsi e darsi pena di faccende di cui non s'è mai curato per niente. Le cose stanno così, e cercherò di dimostrarlo anche a voi. Vieni qui, Meleto, e dimmi: non consideri [24d] della massima importanza che i giovani siano quanto possibile migliori? Io sì. - Dillo allora a queste persone: chi li rende migliori? Evidentemente lo sai, visto che ti interessa tanto. Hai trovato chi li corrompe, me, come tu dici, e per questo mi conduci davanti a questi giudici e mi accusi. Su, di' dunque chi li rende migliori, rivelagli chi è. Lo vedi, Meleto, che stai zitto e non sai che dire? Non ti sembra vergognoso? Non ti sembra un prova sufficiente di quello che dico io, e cioè che dei giovani non te n'è mai importato nulla? Ma dimmi, caro, chi li rende migliori? - I costumi e le leggi (oi nomoi). – - [24e] Ma non ti chiedo questo, mio caro amico, bensì quale persona, chi, (22) in primo luogo, conosce, appunto, i costumi e le leggi? – - Loro, Socrate, i giudici. – - Come dici, Meleto? Che sono capaci di educare i giovani e di renderli migliori? – - Certamente. - Proprio tutti, oppure alcuni sì e altri no? - Proprio tutti. - Ben detto, per Hera! C'è tanta gente ad aiutarli! Ma allora questi che ci stanno ad ascoltare li rendono migliori, [25a] o no? - Si', anche questi. - Ed anche i membri della Bulé? - Anche loro. - Ma, Meleto, non sono i componenti dell'ecclesia, (23) a corrompere i più giovani? Oppure anch'essi, tutti insieme, li rendono migliori? - Anch'essi. - Ma allora. a quanto pare, tutti gli Ateniesi li rendono migliori, tranne me. Sono soltanto io a corromperli. E' così che dici? - Affermo proprio questo, con forza. - Mi hai condannato a una gran disgrazia davvero. Ma rispondimi: ti sembra così nel caso dei cavalli, che [25b] a migliorarli siano tutti gli uomini, e uno solo a rovinarli? Oppure, al contrario, a saperli migliorare sono uno solo o pochissimi - gli esperti di ippica - mentre la maggioranza, se ha a che fare con i cavalli e li usa, li danneggia? Non è così, Meleto, per i cavalli e tutti gli altri animali? Certamente è così, lo diciate o no tu e Anito. Perché, per quanto riguarda i giovani, sarebbe davvero una bella fortuna che uno solo li corrompesse e tutti gli altri [25c] fossero loro d'aiuto. No, Meleto, è abbastanza evidente che ai giovani non hai mai pensato e la tua negligenza si mostra chiaramente: non ti è mai importato nulla di quello per cui mi porti in giudizio. Dimmi ancora, Meleto, per Zeus, è meglio vivere fra cittadini buoni o cattivi? Rispondi, amico, non ti sto chiedendo nulla di difficile! I cattivi non fanno forse del male a chi gli sta sempre vicino, mentre i buoni del bene? - Senza dubbio. - [25d] C'è dunque qualcuno che voglia essere danneggiato dalle persone con cui sta assieme, piuttosto che trarne vantaggio? Rispondi, mio caro amico: anche la legge te lo impone. C'è qualcuno che vuole essere danneggiato? - No di certo. - Su, allora: mi porti qui in tribunale in quanto corrompo i giovani e li rendo più cattivi volontariamente o involontariamente? - Volontariamente. - E allora, Meleto? Alla tua età sei tanto più sapiente di me alla mia, da aver riconosciuto che i cattivi fanno sempre del male a chi sta loro più vicino, [25e] mentre i buoni del bene. Io, invece, sarei stato tanto ignorante da non rendermi conto che se rendessi malvagio chi sta con me, rischierei di ricevere del male da lui: tu dici che farei una simile cattiva azione volontariamente? Meleto, io non ci credo, e penso che non ci creda nessun'altro. Piuttosto, o non corrompo i giovani, o, se li corrompo, [26a] lo faccio senza volerlo, e dunque tu menti in entrambi i casi. Se li corrompo involontariamente, non è d'uso fare causa per simili errori, (24) bensì prendere da parte chi sbaglia, per spiegargli perché e ammonirlo. E' chiaro, infatti, che una volta resomi conto dell'errore, smetterò di fare ciò che in ogni caso compio involontariamente. Ma tu hai evitato di stare con me e di darmi insegnamento e non ne hai avuto voglia, e mi porti qui in tribunale, dove si usa condurre chi ha bisogno di essere punito ma non chi ha bisogno di imparare. Ma quello che dicevo è ormai chiaro, Ateniesi: [26b] di queste cose a Meleto non è mai importato né tanto né poco. Tuttavia, Meleto, dicci: in che modo secondo te corrompo i più giovani? Oppure è evidente che, secondo l'accusa che hai scritto, li corrompo insegnando loro a non credere negli dei in cui crede la città, ma in altre e nuove divinità demoniche? Non dici che corrompo insegnando? - Dico proprio questo, decisamente. - Allora. Meleto, per questi stessi dei di cui stiamo discutendo, dillo ancora più chiaramente a me [26c] e a questi cittadini. Perché non riesco a capire se tu dici che insegno a credere che ci sono degli dei - e io stesso perciò credo che ci sono dei e non sono affatto ateo, né colpevole di questo - i quali però non sono certo quelli della città, bensì altri, e per questo mi citi in giudizio, oppure se sostieni che io non credo assolutamente agli dei e insegno agli altri a fare altrettanto. - Dico che tu non credi assolutamente negli dei. - Stupefacente Meleto, perché dici questo? Dunque non credo, come le altre persone, che il sole e la luna siano dei? - No, giudici, per Zeus, dato che dice che il sole è pietra e la luna terra! - Caro Meleto, credi di accusare Anassagora? Stimi così poco i giudici e li credi così poco familiari con la scrittura, da non sapere che di questi discorsi sono pieni i libri di Anassagora di Clazomene? Allora i giovani imparano da me cose che si possono [26e] avere nell'orchestra (25) per una dracma, talvolta, a dir tanto, così da mettere Socrate in ridicolo, se fa finta che siano sue perché sono strane in un modo o nell'altro? Ma per Zeus, ti sembro così? Non credo in nessun dio? - Assolutamente no, per Zeus! - Meleto, non sei credibile neppure a te stesso, mi pare. Perché a me sembra, cittadini Ateniesi, che egli sia assolutamente presuntuoso ed avventato, e che mi abbia accusato semplicemente per un qualche genere di insolenza e per avventatezza giovanile, [27a] come per mettermi alla prova con un enigma: "Socrate il sapiente si accorgerà che io parlo per scherzo e contraddittoriamente, oppure riuscirò ad ingannare lui e tutti gli altri ascoltatori?" Perché mi sembra che nell'accusa si contraddica, come se dicesse: "Socrate è un criminale perché non crede negli dei, ma crede negli dei." E questo è veramente da giocherellone. Guardate con me, cittadini, in che modo mi sembra dire questo; e tu, Meleto, rispondici. Voi, [27b] come vi avevo pregato all'inizio, ricordatevi di non fare chiasso se argomento alla mia consueta maniera. - Meleto, c'è qualche persona che crede che ci siano realtà umane, ma non crede negli uomini? Lasciatelo rispondere, cittadini, e non schiamazzate per una parte o per l'altra. C'è qualcuno che non crede nei cavalli, ma in realtà ippiche? C'è qualcuno che non crede nei flautisti, ma in realtà flautistiche? Non c'è, mio carissimo amico. E se tu non vuoi rispondermi, lo dico io, a te e tutti gli altri presenti. Ma rispondi almeno a questo: [27c] c'è qualcuno che crede che ci siano realtà pertinenti a divinità demoniche, ma non crede nelle divinità demoniche? (26) - Non c'è. - Com'è utile che ti sia dato pena di rispondere, costretto dai giudici! Dunque tu dici che io credo in realtà pertinenti le divinità demoniche nuove o vecchie che siano - e insegno in conformità a questa convinzione: ma allora, in ogni caso, io credo davvero, secondo il tuo discorso, in realtà pertinenti le divinità demoniche. Del resto, lo hai anche giurato solennemente nella tua denuncia. Ma se credo in realtà demoniche, devo certo credere necessariamente anche in divinità demoniche, non è vero? E' così: suppongo che tu sia d'accordo, dal momento che non rispondi. [27d] E queste divinità demoniche (daimones) non li riteniamo forse dei o figli di dei? Sì o no? - Certamente. - Allora se io credo in delle divinità demoniche, come tu dici, e se queste sono dei, può darsi, come sostengo io, che tu ci stia prendendo in giro con un indovinello, dicendo prima che non credo negli dei, poi ancora che ci credo, e poi che credo, in effetti, in demoni. Ma se questi demoni (daimones) sono, come si dice, una specie di figli bastardi di dei e di ninfe o di altre creature, chi potrebbe pensare che ci siano figli di dei, ma non dei? [27e] Sarebbe tanto bizzarro quanto credere che ci siano figli di cavalli e di asini, cioè muli, senza però credere che esistano cavalli ed asini. No, Meleto, non può essere che tu abbia scritto questa accusa altrimenti che per metterci alla prova, o perché non sapevi di quale vera colpa accusarmi. Ma non c'è modo, così, di persuadere qualcuno, anche di modesto intelletto, che alla stessa persona sia possibile credere che ci siano cose demoniche e divine [28a] ma non demoni, dei ed eroi. E davvero, cittadini ateniesi, mi sembra che per provare che non sono colpevole secondo l'accusa di Meleto non occorra una grande autodifesa, ma questa basti; e tenete ben presente che è vero anche quanto dicevo prima, e cioè che è sorto nei miei confronti un odio grande e diffuso. Ed è questo che causa la mia condanna: non Meleto, né Anito, ma il pregiudizio e la gelosia dei più. [28b] Questo ha condannato molti altri uomini buoni, e altri ancora - credo - ne condannerà; non c'è da temere che io sia l'ultimo. Ma forse qualcuno potrebbe dire: - Socrate, non ti vergogni di esserti dedicato ad una attività per la quale sei ora esposto al rischio di morire? Io avrei ragione di ribattere: - Ragazzo, non ragioni correttamente, se pensi che un uomo, anche di valore modesto, debba tener conto di essere vivo o morto, e non debba invece considerare, quando agisce, solo questo: se agisce giustamente o ingiustamente e se le sue opere sono da uomo buono o cattivo. [28c] Infatti, a tuo dire, sarebbero dei mediocri tutti i semidei che hanno concluso la loro vita a Troia, fra cui il figlio di Tetide, che preferì affrontare il pericolo piuttosto che la vergogna. Tanto che, quando la madre, che era una dea, disse a lui, ansioso di uccidere Ettore, qualcosa credo - di simile a questo: Figlio, se vendicherai l'uccisione di Patroclo, il compagno, e ucciderai Ettore, tu stesso morirai perché subito dopo è per te preparato il suo destino funesto. [cfr. Hom. Il. 18.96.] egli, sentite queste parole, si curò poco della morte e del pericolo, [28d] perché temeva molto più una vita da vile, senza vendicare l'amico, e rispose: Che possa morire immediatamente, dopo aver fatto pagare al colpevole il fio, per non rimanere ridicolo qui, presso le navi ricurve, peso alla terra. [cfr. Hom. Il. 18.98-104.] Pensi che lui si sia preoccupato della morte e del pericolo? - (27) Perché in verità è così, cittadini ateniesi: dove uno si sia schierato da sé, perché lo riteneva il posto migliore, o dove sia stato messo da un comandante, lì si deve - secondo me - avere il coraggio di restare, senza curarsi né della morte né di altro di fronte alla vergogna. Cittadini [28e] ateniesi, quando i comandanti che voi sceglieste per me mi schierarono in battaglia a Potidea, ad Anfipoli e a Delio, rimasi dove mi avevano disposto, come qualsiasi altro, e rischiavo di morire. Farei dunque una azione terribile se, quando invece a schierarmi è il dio, come io ho supposto e inteso, con l'ordine di vivere facendo filosofia ed esaminando me stesso e gli altri, (28) avessi paura della morte [29a] o di qualunque altra cosa e abbandonassi il mio posto. Sarebbe una cosa terribile, e mi si potrebbe certo portare in tribunale giustamente, con l'accusa di non credere che gli dei esistano, perché disubbidisco all'oracolo, ho paura della morte e penso di essere sapiente senza esserlo. Infatti, cittadini, aver paura della morte non è nient'altro che sembrare sapiente senza esserlo, cioè credere di sapere quello che non si sa. Perché nessuno sa se per l'uomo la morte non sia per caso il più grande dei beni, eppure la temono come se sapessero bene [29b] che è il più grande dei mali. E credere di sapere quello che non si sa non è veramente la più vergognosa forma di ignoranza? Io, cittadini, sono diverso dalla maggior parte degli uomini forse anche per questo, e se dovessi dichiarare che sono più sapiente di qualcuno in qualcosa, direi che lo sono perché, non sapendo abbastanza di quanto avviene nell'Ade, non penso neppure di conoscerlo. Però una cosa la so: agire ingiustamente e disubbidire a chi è migliore di noi, uomo o dio che sia, è cattivo e vergognoso. Di fronte a mali che so essere tali io non mi spaventerò né fuggirò mai quello che non so se sia, per caso, bene. Perciò, (29) [29c] anche se mi assolvete, senza credere ad Anito, che affermava che o non dovevo assolutamente essere fatto comparire in tribunale, o, una volta convenuto, non si poteva fare a meno di condannarmi a morte, perché se verrò lasciato andare i vostri figli metteranno in pratica quello che Socrate insegna e saranno tutti totalmente corrotti se voi per questo mi diceste: - Socrate, per questa volta non daremo retta ad Anito, e ti assolviamo, ma a questa condizione: che tu non sprechi più tempo in questa ricerca e non faccia più filosofia; se [29d] verrai colto a farla, morirai. Se davvero voi mi assolveste alla condizione che ho detto, vi risponderei: - Cittadini ateniesi, io vi amo e vi rispetto, ma ubbidirò al dio piuttosto che a voi, (30) e finché avrò respiro e sarò in grado di farlo, non smetterò di fare filosofia, di consigliarvi e di insegnare a chiunque incontri di voi, dicendo, come sono solito: "O ottimo uomo, tu che sei Ateniese, della città più grande e famosa per sapienza e forza, non ti vergogni di preoccuparti dei soldi, per averne più che puoi, [29e] della reputazione e dell'onore, senza però curarti e darti pensiero della saggezza, della verità e dell'anima, perché sia la migliore possibile?" E se qualcuno di voi mi contesta, affermando di prendersene cura, non lo lascerò subito andare né me ne andrò io, ma lo interrogherò, lo esaminerò e lo confuterò, e se mi sembrerà che non abbia virtù [30a] se non a parole, lo riprovererò perché disprezza quello che vale di più e apprezza quello che vale di meno. Farò questo a chiunque incontri, giovane e vecchio, forestiero e cittadino, ma soprattutto ai cittadini, in quanto mi siete più vicini per nascita. Perché questo è quello che mi ordina il dio - tenetelo presente - e io penso che alla città finora non sia accaduto nessun bene più grande del mio servizio al dio. Infatti io me ne vado in giro senza fare altro se non persuadervi, giovani e vecchi, a non preoccuparvi né del corpo [30b] né dei soldi più che dell'anima, perché sia quanto migliore possibile, dicendo: "L'eccellenza (arete) non deriva dalla ricchezza, ma dalla virtù (arete) provengono la ricchezza e tutti gli altri beni per gli uomini, sia sia come privati sia in quanto comunità." E se dicendo questo corrompo i giovani, consideratelo pure dannoso: ma se qualcuno afferma che dico cose diverse da queste, dice il falso. E perciò dichiarerò: "Cittadini ateniesi, siate o no convinti da Anito e mi assolviate o no, [30c] non mi comporterò altrimenti, neppure se dovessi più volte morire." Non schiamazzate, cittadini ateniesi, ma continuate a comportarvi come vi ho chiesto, ascoltandomi senza far chiasso su quello che dico, anche perché - credo - ne trarrete beneficio. Infatti sto per aggiungere qualcos'altro che forse vi farà schiamazzare; ma statevene zitti. Tenete presente che se mi condannate a morte, perché sono come dico di essere, non danneggerete me più di voi stessi: a me, infatti. niente mi può danneggiare, né Meleto né Anito - non ne sarebbero neppure capaci - in quanto, credo, [30d] non è permesso che un uomo migliore sia danneggiato da uno peggiore. Forse mi può uccidere o esiliare o disonorare; ma mentre egli e qualcun altro possono credere che questi siano grandi mali, io non lo credo, e considero invece un male molto maggiore fare ciò che sta facendo ora, cioè tentare di condannare ingiustamente a morte un uomo. Perciò, cittadini ateniesi, io non parlo per difendere me stesso, come qualcuno potrebbe supporre, ma per voi, perché non abbiate ad errare su [30e] quello che il dio vi dato, votando contro di me. Infatti se mi condannate, non troverete facilmente un altro che - sia pur detto in modo ridicolo - venga assegnato dal dio alla città come a un cavallo grande e nobile, ma pigro a causa della sua grandezza e bisognoso di essere svegliato da un qualche tafano. Perché mi sembra che il dio mi abbia posto sulla città con questa funzione: non smettere di stare appresso a voi - a ciascuno di voi - tutto il giorno e dovunque per stimolarvi, convincervi e rimproverarvi.[31a] Un altro tipo così, cittadini, non vi rinascerà facilmente: risparmiatemi, se mi date retta. Ma può darsi che voi, che vi irritate in fretta e mi picchiate, come gente che casca dal sonno buttata giù dal letto, diate retta ad Anito e mi condanniate facilmente a morte, per continuare a dormire, a meno che il dio, preoccupato per voi, non vi rimandi qualcun altro. E che io sia qualcosa di dato dal dio [31b] potreste comprenderlo da questo: non è umano che io abbia trascurato tutto quel che mi riguardava, abbia continuato a non curarmi degli affari di famiglia per tutti questi anni e invece abbia sempre fatto i vostri, rivolgendomi a ciascuno privatamente, come un padre o un fratello maggiore, per convincervi a preoccuparvi della virtù. Se io ne avessi tratto vantaggio e avessi dato questi consigli a pagamento, la cosa avrebbe avuto un qualche senso, ma ora vedete voi stessi che i miei accusatori, pur accusandomi così spudoratamente in tutto il resto, in questo caso non sono stati così sfrontati da [31c] presentare un testimone ad affermare che io mi sia mai fatto pagare o l'abbia richiesto. Perché credo che basti produrre la povertà come testimone a mio favore. (31) Vi potrà forse sembrare strano che io me ne vada in giro e mi dia da fare (polypragmoneo) a consigliarvi in privato, ma non abbia il coraggio di alzarmi a parlare pubblicamente al popolo in assemblea per dar consiglio alla città. La causa di questo, come mi avete spesso sentito ripetere, è che mi accade qualcosa di divino [31d] e di demonico, (32) di cui appunto ha scritto anche Meleto nella sua accusa, facendoci sopra della satira. E' qualcosa che mi è cominciato da bambino, come una specie di voce, la quale, ogni volta che si produce, mi trattiene sempre da quello che sto per fare, senza però mai spingermi in avanti. Questo è ciò che mi impedisce di fare politica, e mi sembra una opposizione sacrosanta. Perché - tenetelo ben presente, cittadini ateniesi - se in passato mi fossi nesso ad occuparmi di affari politici, sarei morto da un pezzo e non sarei stato utile né a voi [31e] né a me stesso. E non prendetevela con me, che dico la verità: non c'è nessuno che si possa salvare, se si oppone autenticamente a voi o a un'altra maggioranza, impedendo che in città avvengano molte ingiustizie e illegittimità, ed [32a] è anzi necessario che chi combatte per il giusto, se deve sopravvivere anche solo per un po', rimanga un privato e non si dedichi alla vita pubblica. Ma di questo vi fornirò abbondanti prove: non discorsi, ma qualcosa di cui voi avete rispetto, fatti. Ascoltate che cosa mi è successo, perché possiate rendervi conto che non cederei a nessuno per paura della morte, in violazione del giusto, ma morirei piuttosto che arrendermi. Vi dirò cose grossolane e avvocatesche, ma vere. Infatti, cittadini ateniesi, io [32b] non ho mai esercitato nessuna carica in città se non come membro della Bulé; e capitò che la mia tribù Antiochide avesse la pritania quando decideste di giudicare tutti insieme, illegittimamente (paranomos), come sembrò in un secondo momento a tutti voi, i dieci strateghi che non avevano raccolto [i naufraghi] della battaglia navale. Ma in quel momento io solo fra i pritani mi opposi a voi, per non fare niente contro la legge, e votai contro. E mentre c'erano oratori pronti a denunciarmi e a trascinarmi in giudizio e voi gridavate e li incitavate, [32c] io pensavo che era per me doveroso rischiare il tutto per tutto con la legge e la giustizia, piuttosto che stare con voi deliberando cose ingiuste, per paura della prigione o della morte. E questo fu quando la città aveva ancora una costituzione democratica. Ma quando si affermò l'oligarchia, i trenta mi rifecero chiamare al Tholo con altri quattro, e mi ingiunsero di portar via da Salamina Leonte di Salamina per metterlo a morte. Essi davano molti ordini del genere a numerosi altri, perché volevano contaminare con le loro colpe più persone possibili. E anche allora, [32d] tuttavia, provai non a parole ma con i fatti che della morte non m'importa - se non è detto troppo rusticamente - proprio nulla, mentre non agire in modo ingiusto ed empio mi sta del tutto a cuore. Perciò quel governo, pur essendo così potente, non mi turbò tanto da indurmi a fare qualcosa di ingiusto, e, uscito dal Tholo, mentre gli altri quattro erano andati a Salamina a prendere Leonte, io mi ero allontanato e me ne ero andato a casa. E forse per questo sarei stato messo a morte se quel governo non fosse stato velocemente rovesciato. [32e] Anche di questo avrete numerosi testimoni. Credete dunque che sarei sopravvissuto per tanti anni se mi fossi occupato di affari pubblici e, facendolo in modo degno di un uomo buono, avessi sostenuto quello che è giusto e lo avessi considerato - come si deve - della massima importanza? Assolutamente no, cittadini ateniesi; né [33a] ci sarebbe riuscito qualcun altro. Ma - sarà chiaro - in tutta la mia vita, se per avventura mi sono occupato di questioni pubbliche, io sono stato così, e così sono stato anche in privato, senza mai cedere a nessuno - né a quelli che i miei calunniatori dicono miei discepoli né ad altri - contro quello che è giusto. E non sono stato maestro di nessuno: se c'è qualcuno - giovane o vecchio - che desidera ascoltarmi quando parlo e faccio ciò mi è proprio, io non me ne sono mai risentito. Discuto senza farmi pagare [33b] e non evito di farlo se non prendo soldi, ma mi offro ugualmente a ricchi e poveri per domandare e chiunque ne abbia voglia può ascoltare quello che dico quando rispondo. Di questi, sia che qualcuno diventi onesto, sia che non lo diventi, io giustamente non posso essere ritenuto responsabile, perché non ho mai promesso istruzione a nessuno, né ho mai insegnato. E se qualcuno dice di aver imparato qualcosa da me o di aver ascoltato da me in privato cose non udite anche da tutti gli altri, non dice la verità, siatene certi. Ma perché allora ad alcuni piace [33c] passare tanto tempo con me? L'avete sentito, cittadini, ateniesi, vi ho detto tutta la verità: a loro piace ascoltarmi quando esamino quelli che si credono sapienti senza esserlo. E in effetti non è spiacevole. Ma a me di compiere questo, ripeto, è stato ordinato dal dio, con oracoli, con sogni e in tutti i modi in cui un qualche destino (moira) divino prescrive all'uomo il da farsi. Questo, cittadini ateniesi, è vero e anche facilmente dimostrabile. Infatti, se davvero [33d] corrompessi dei giovani ed altri ne avessi corrotti in passato, certo alcuni di questi, invecchiando, si sarebbero dovuti render conto che davo loro cattivi consigli quando erano giovani e ora dovrebbero essere qui ad accusarmi e a chiedere soddisfazione; e se non avessero voluto farlo personalmente, qualche loro familiare - padri, fratelli e altri parenti - ora se ne dovrebbe ricordare per chiedere soddisfazione, se veramente i congiunti avessero patito da me del male. In ogni caso, ce ne sono molti qui presenti - io li vedo -: ecco per primo Critone, mio coetaneo [33e] e del mio stesso demo, padre di Critobulo - eccolo qui -; poi Lisania di Sfetto, padre di Eschine - anche lui qui -; ed ecco ancora Antifonte di Cefisia, padre di Epigene, e quest'altri i cui fratelli mi hanno frequentato, Nicostrato figlio di Teozotide, fratello di Teodoto -e Teodoto è morto e dunque non può essere qui per sua preghiera -, e Paralio figlio di Demodoco, di cui era fratello Teage; e c'è [34a] Adimanto figlio di Aristone, di cui è fratello Platone - eccolo -, e Aiantodoro, di cui è fratello Apollodoro - eccolo qui -. E di molti altri avrei ancora da dire: Meleto avrebbe dovuto innanzi tutto presentare come testimone qualcuno di questi, nel suo discorso; se gli è passato di mente allora, lo faccia ora - gli cedo il posto - e se ha qualcosa di simile, lo dica. Ma, cittadini, troverete che è tutto il contrario, che tutti sono pronti a venire in aiuto a me, che li corrompo e faccio del male ai loro familiari, come dicono Meleto e [34b] Anito. In effetti quelli che sono già corrotti potrebbero aver motivo di aiutarmi, ma quelli che non lo sono, gli uomini già anziani, i loro parenti, quale altro motivo potrebbero avere se non ciò che è retto e giusto, perché sanno bene che Meleto mente e io dico la verità? Bene, cittadini; più o meno questo, e altro di simile, è quanto posso dire in mia difesa. Forse qualcuno [34c] di voi potrà irritarsi al ricordo di se stesso, se, sostenendo un processo anche più modesto del mio, ha pregato e supplicato i giudici con molte lacrime e ha portato in tribunale i figli e numerosi altri parenti ed amici per farli commuovere di più, mentre io, anche se mi credo di fronte al pericolo estremo, non farò nulla di simile. Forse qualcuno, riflettendoci su, potrebbe indisporsi nei miei confronti e, adirato, potrebbe votare [34d] con ira. Se qualcuno di voi è così - non penso che ci sia, ma se ci fosse - mi sembrerebbe appropriato dirgli: Amico mio, anch'io ho qualche familiare; proprio come dice Omero, non sono nato "né da quercia né da pietra" ma da esseri umani e così ho anch'io dei familiari e dei figli, tre, cittadini ateniesi, uno che è già un ragazzo, e due bambini, ma, nondimeno, non porterò quassù nessuno di loro e non vi pregherò di votare per la mia assoluzione. - E perché non lo voglio fare? Non per arroganza, cittadini [34e] ateniesi, né perché vi disprezzo; se io sia o no coraggioso di fronte alla morte è un altro discorso, e tuttavia non mi sembra bello, per la fama mia e vostra e della città intera, comportarmi così alla mia età e con la reputazione che ho, vera o falsa che sia, poiché in ogni caso si crede [35a] che Socrate sia diverso dalla maggioranza degli esseri umani. E sarebbe davvero una vergogna se proprio quelli che fra voi si distinguono per sapienza o coraggio o qualsiasi altra virtù si comportassero in questa maniera. Ne ho vista molta di gente così, che se si trova in giudizio, pur avendo una qualche reputazione, fa scene straordinarie, come se pensasse di dover subire qualcosa di terribile se muore, quasi dovesse essere immortale se voi non la condannaste a morte. A me sembra che questa gente copra di vergogna la città: così - e lo potrebbe supporre anche un forestiero - [35b] perfino chi fra gli Ateniesi si distingue per virtù e che essi stessi prescelgono per le magistrature e le altre cariche onorifiche non è per nulla diverso dalle donne. Perciò, cittadini ateniesi, non bisogna vi comportiate così voi, se avete una certa qual reputazione, né permetterlo, se siamo noi a farlo, ma vi conviene mostrarvi molto più propensi a votare sfavorevolmente nei confronti di chi fa queste scene strappalacrime e rende ridicola la città, che di chi rimane tranquillo. Ma a prescindere dalla reputazione, cittadini, non mi sembra giusto [35c] supplicare il giudice e farsi assolvere con le preghiere, invece di spiegare e convincere. Il giudice non è qui per concedere quello è giusto come un favore, ma per giudicarlo; e non ha giurato di far favori a chi gli pare, ma di giudicare secondo le leggi e le consuetudini (kata tous nomous). E perciò non bisogna né che noi abituiamo voi a non osservare il giuramento, né che vi ci abituiate voi, perché nessuno, così, si comporterebbe piamente. Non aspettatevi dunque, cittadini ateniesi, che io faccia davanti a voi cose che non ritengo né belle, né [35d] giuste, né pie, proprio io - per Zeus - che sono accusato di empietà dal qui presente Meleto. E' chiaro che se convincessi e forzassi con le suppliche voi, che avete fatto un giuramento, vi insegnerei a pensare che non ci sono dei e, appunto con questa autodifesa, accuserei me stesso di non credere negli dei. Ma è tutt'altro che così: io ci credo, cittadini ateniesi, come nessuno dei miei accusatori (33) e permetto a voi e al dio di giudicarmi nel modo migliore per me e per voi. UNITA’ 3 PARTE 1 LA QUESTIONE OMERICA La tradizione classica attesta che la più antica redazione scritta dell’Iliade e dell’Odissea fu realizzata nel VI secolo a.C. ad Atene per iniziativa del tiranno Pisistrato e di suo figlio Ipparco: si trattava di quella che potremmo definire una sorta di edizione ufficiale, che ebbe infine il sopravvento col sulle altre già esistenti. A partire dal III secolo a.C. e fino al 150 a.C., vennero edite delle edizioni critiche dei due poemi, ad opera di filologi alessandrini, come Zenodoto di Efeso, Aristofane di Bisanzio e Aristarco di Samotracia, che lavoravano nell’ambito di grandi istituzioni culturali come la Biblioteca e il Museo, sorte ad Alessandria d’Egitto su espresso desiderio dei sovrani della dinastia Tolemaica. I filologi si occuparono di ripartire Iliade e Odissea ciascuna in ventiquattro libri, esattamente quante erano le lettere del nuovo alfabeto attico, ed impiegarono le maiuscole per la prima opera e le minuscole per la seconda: le comodità di consultazione, di citazione e di rimando furono subito evidenti. Il lavoro di questi studiosi consistette sostanzialmente in un'opera di rigorosissima conservazione, volta a conservare inalterate nel testo anche parti di autenticità dubbia, limitandosi tuttavia a contrassegnarle mediante un segno grafico speciale, l’obelos. I filologi si occuparono anche del delicato lavoro di atetesi, cioè di espunzione dei versi spuri. Sebbene la loro opera risultò infine davvero fondamentale per la preservazione del testo omerico, i filologi alessandrini contribuirono tuttavia a distruggerne definitivamente il carattere originario di poesia destinata alla recitazione e quindi indissolubilmente legata all’oralità. Dalla coesistenza di questi due elementi, redazione pisistratea e composizione orale, oltre che dall’incertezza dei dati sulla composizione, ed insomma da tutta la serie di problemi connessi all'origine ed all'autore dei due poemi, prese avvio e venne a svilupparsi la cosiddetta questione omerica, che, malgrado l’opera di molti studiosi, resta a tutt’oggi un problema in gran parte insoluto. UNITA’ 3 PARTE 2 ARCHILOCO Archiloco (in greco Ἀρχίλοχος, Archílochos; Paro, 680 a.C. circa – 645 a.C. circa) è stato un poeta e militare greco antico. È considerato il giambografo più famoso ed il primo grande lirico greco. Biografia Archiloco nacque alla fine dell'VIII secolo a.C. o nella prima metà del VII secolo a.C. (probabilmente intorno al 680 a.C.) nell'isola di Paro nelle Cicladi. Suo padre era un nobile, Telesicle; la madre era verosimilmente una schiava tracia, chiamata Enipò, anche se tale nome potrebbe essere fittizio, in quanto nato da un'assonanza con il sostantivo greco ἐνιπή, enipè (ingiuria), e dunque riconducibile alla sua attività di poeta giambico. Il nonno (o bisnonno), Tellis, alla fine dell'VIII secolo a.C. partecipò al trasferimento del culto di Demetra a Taso: per tale motivo Pausania, nel descrivere la Lesche dei Cnidi, a Delfi, ricorda che in essa Polignoto di Taso (V secolo a.C.) raffigurò anche lo stesso Tellis, posto accanto alla sacerdotessa Cleobea, fautrice dell'introduzione a Taso del culto di Demetra. Archiloco visse probabilmente nel periodo che va dal 680 a.C. al 645 a.C. in quanto in una sua opera viene menzionata l'eclissi di sole del 6 aprile 648 a.C., che sconvolse gli abitanti dell'Egeo e alla quale egli assistette mentre si trovava a Taso, una colonia dei Pari. Nella seconda metà dell'VII secolo a.C., durante il grande movimento di colonizzazione ellenica, i Pari colonizzarono a nord l'isola di Taso, ma dovettero sostenere lunghe lotte contro i barbari del continente e contro le colonie delle città rivali tra cui la vicina Nasso. Archiloco, figlio del fondatore della colonia tasia, combatté in tali guerre e ne cantò le vicende. Irrequieto nell'indole, trascorse buona parte della sua vita in mare. In una sua famosa elegia si mostra rattristato per la perdita del cognato morto in mare in un naufragio. Sua è la prima raffigurazione allegorica della battaglia come di una "paurosa tempesta". Archiloco condusse un'esistenza segnata da ogni tipo di stento, non perché fosse vero ma solo per compiangersi. Invitava tutti a lasciare Paro e a trattenerlo nella vicina Nasso non bastò né il dolce vino né il suo vitto peschereccio. Giunse a Karpathos e a Creta; verso Nord visitò, l'Eubea, Lesbo, il Ponto. Come detto, Archiloco si guadagnò da vivere facendo il soldato mercenario, cosa che afferma egli stesso nelle sue poesie. La tradizione vuole che perse la vita in combattimento, ucciso da un certo Calonda, mentre combatteva per la sua patria contro Nasso. Personalità I pochi frammenti rimasti dell'opera archilochea, ci consentono di tracciare uno schizzo dell'uomo e dell'artista. Archiloco era individualista, trasgressivo e anticonformista. Lui ebbe una spregiudicata reazione alle convenzioni sociali e all'etica di quel tempo. Di lui si narra l'episodio nel quale abbandonò lo scudo per salvare la sua vita contravvenendo ai principi morali di quel tempo. Si può affermare che sia il primo a mettere in crisi i fondamenti stessi dell'etica eroica, in quanto: • • • nega la morte gloriosa celebra il ῥιψασπίς (ripsaspis, colui che getta lo scudo) rifiuta la καλοκἀγαθία (kalokagathia, sintesi di bellezza e virtù) Da un uomo come Archiloco non ci si può aspettare la morale dei sette Savi, è un uomo che sbaglia e si ribella alle eccessive preoccupazioni umane. In lui, troviamo un realismo che lo avvicina molto al cinismo dei nostri giorni. Egli appare sincero sia come uomo, sia come poeta. La sincerità e l'audacia del cantore, il quale osa fare delle sue gioie e sofferenze centro del suo canto, ha fatto in modo che sia considerato il primo poeta moderno dell'antichità. La sua figura è quella di un poeta-soldato come lo sarà anche quella di Anacreonte; e proprio dal suo ruolo di addetto ai lavori Archiloco polemizza ferocemente sulla vita militare ribadendo così la soggettività propria della lirica arcaica. L'amore Si racconta che amò una fanciulla di Paro, di nome Neobule ("Oh, se potessi così toccar la mano di Neobule"), promessagli in sposa dal padre Licambe prima che quest'ultimo si rimangiasse la parola data. Archiloco nei suoi versi attaccò così pesantemente il padre della fanciulla tanto da indurre lui e la famiglia, secondo la leggenda, ad impiccarsi. Archiloco è il primo poeta di tutta la letteratura occidentale a rappresentare l'amore come tormento. Una parte della sua poesia, violentemente erotica, narrava le oscenità più crude, il tutto descritto secondo un'originale fantasia. Egli nei suoi versi dà sfogo al suo temperamento focoso quanto nell'odio che nell'amore. L'amore gli ispira le sensazioni più disparate dalla tenerezza, alla bellezza, fino alla sensualità e agli sfoghi d'ira per gli amori delusi. Opere (GRC) (IT) « ὦ λιπερνῆτες πολῖται, τἀµὰ δὴ συνίετε ῥήµατ' » « Miserabili cittadini, sforzatevi almeno di capire le mie parole » (Frammento 109 West ) Delle sue opere restano circa 300 frammenti che furono ordinati dai grammatici alessandrini secondo il metro utilizzato: Archiloco scrisse elegie, giambi, tetrametri trocaici, asinarteti, epodi. Quanti libri abbia scritto non è dato precisare ma si ritene almeno uno di elegie, tre di giambi, e altri. La maggior parte dei frammenti a noi è pervenuta per via indiretta, ma alcuni, i più estesi, in forma papiracea. I frammenti superstiti di Archiloco vengono convenzionalmente raggruppati nel seguente modo: • • • • frammenti legati all'esperienza biografica componimenti di carattere gnomico e riflessivo versi caratterizzati dallo psògos e dall'invettiva versi di stampo erotico I destinatari principali della poesia archilochea erano gli ἑταῖροι (hetàiroi), i membri della sua consorteria aristocratica, suoi compagni d'armi. Le occasioni concrete di riunione erano i simposi. Mito Una parte di rilievo della lirica archilochea ebbe anche carattere obbiettivo e addirittura narrativo. Archiloco sta a capo non solo della lirica personale ma soprattutto di quella corale, ossia mitologica. Trattò le leggende di Eracle, di Pirro, di Euripilo, del pario Coiranos salvato da un delfino. Inoltre, c'è chi sostiene che Archiloco venisse considerato dagli antichi come l'emulo di Omero. Favola Come il mito è considerato la rappresentazione ideale della vita umana, allo stesso modo ne è la rappresentazione volgare il mito animale: la favola. Gli scarsi frammenti ci dicono che le favole della volpe e dell'aquila o della scimmia e della volpe erano trattate da Archiloco con grande ampiezza a tal punto che consentiva discorsi diretti tra animali protagonisti, invocazioni a Zeus e forse il riferimento esplicito alla realtà. La figura della volpe compare per la prima volta proprio con questo poeta. Metrica Archiloco è ritenuto l'inventore del giambo, ma probabilmente tale verso è più antico dell'autore stesso. Egli fu il primo ad utilizzarlo in larga scala e molti poeti successivi come Saffo, Alceo, Anacreonte e i latini Catullo e Orazio lo presero come modello. I ritmi giambici e trocaici erano i più vicini alla lingua viva, a quella parlata nelle processioni. Ad Archiloco si deve inoltre la creazione della prima strofa (epodo). L'epodo archilocheo, il distico della poesia giambica, risulta dall'accoppiamento di un verso semplice o composto, con uno generalmente più breve. Com'era tradizione per i poeti giambici della Grecia arcaica (in questo caso si possono trovare analogie specialmente con la biografia di Ipponatte), Archiloco aveva un nemico giurato contro il quale scatenava tutte le proprie invettive. Costui era Licambe. Si tramanda che amò una donna di Paro, Neobule. Il padre di questa, Licambe, gliela aveva promessa in sposa, ma poi si rimangiò la parola. Archiloco, allora, nei suoi versi attaccò così violentemente Licambe e la sua famiglia, al punto da indurli, secondo la leggenda, ad impiccarsi per la vergogna. Uno dei temi prediletti da Archiloco è il vino. Viene rappresentato come lenimento o come liberazione catartica e orgiastica. UNITA’ 3 PARTE 3 ALCEO Alceo nacque nel 630 a.C. a Lesbo da una famiglia aristocratica. La sua vita fu segnata dal vivo interesse politico e dalla lotta contro il potere assolutistico dei tiranni Melancro, Mirsilo e Pittaco. Questi scontri lo portarono più volte all'esilio, esperienza dolorosa che ricorre anche in un lungo frammento che si apre con il rimpianto del poeta per il suo allontanamento forzato dalle attività pubbliche che erano il prestigio della sua famiglia. La sua opera destò l'attenzione degli alessandrini che la sistemarono in dieci libri; oggi restano solo quattrocento frammenti per giunta molto lacunosi. La politica costituisce un nucleo fondamentale della poesia alcaica: in un carme il poeta scaglia violente invettive contro Pittaco, accusandolo di aver tradito la solidarietà dei suoi alleati,in quanto la lealtà era il principio fondamentale dell'etica aristocratica. In un'altra poesia egli volge una feroce maledizione al "pancione" (Pittaco appunto) che calpestò i patti, la quale sfocia in un'esortazione a morire combattendo contro di lui o a vincerlo per liberare la città. Allorché muore Mirsilo egli prorompe in un esultante invito a bere fino all'ubriachezza: la passione politica viene qui trattata all'interno del contesto conviviale; elemento politico e simposiaco convergono spesso nella sua opera, ma questo non significa che siano sempre legati: non si beve soltanto per parlare di politica: il vino é anche gioia ed esaltazione delle sensazioni corporee; la sua estasi é verità dei pensieri ed é proprio questo dolce unguento che lenisce l'animo e ristora la mente dall'assillante preoccupazione del dolore. Altri temi trattati nelle liriche di Alceo sono l'argomento mitico-religioso (di cui mirabile esempio sono le tre strofe rimasteci dell'inno ai Dioscuri,che descrive la fulminea apparizione dei due gemelli divini durante una notte tempestosa sul mare, identificandoli nei fuochi di s.Elmo che indicano salvezza ai naviganti), e l'argomento epico, presente in vari carmi come quello che ricorda le nozze fra Peleo e Teti, o quello che descrive le sciagure provocate dalla follia amorosa di Elena; l'argomento mitico in qualche caso appare legato all'attualità, in particolare alla lotta contro il potere tirannico: l'attenzione al presente e la passione politica sono tratti peculiari della vita di Alceo che lo portano ad attribuire una funzione pragmatica alla sua poesia. Essa è inscindibile dal contesto e dall'occasione in cui viene cantata. L'eteria a cui il poeta si rivolge infatti corrisponde alla sua attività artistica. La forte aderenza del poeta alla realtà e alla particolarità dell'occasione si riflette anche nel suo stile: esso è caratterizzato dall'alternanza di toni espressivi, ora più raffinati e simili alla prosa, ora più forti e potenti. La lingua eolica di cui si serve per comporre i carmi è arricchita inoltre di parole rare provenienti forse dal parlato, che solo un pubblico maschile aperto alla varietà dei rapporti sociali può comprendere e utilizzare. In conclusione Alceo fu considerato iniziatore di un certo tipo di poesia che troverà poi un degno successore nel poeta latino Orazio. L'occasione che ci presenta Alceo in questo frammento è il simposio invernale. La prima strofa descrive un gelido scenario caratterizzato da pioggia, maltempo e gelo; ma la cattiva stagione viene scacciata, abbattuta (k£bballe, v. 5) dall'atmosfera intima e raccolta del simposio, i cui commensali si incontrano in un clima di amicizie e solidarietà reciproca. Il motivo del bere vino accanto al fuoco appare topico già in età arcaica; tuttavia in Alceo la situazione rappresentata è concreta e reale, legata ad una precisa situazione simposiaca. Alceo esorta a bere senza moderazione (¢feidšwj, v. 6), senza preoccuparsi di non esagerare. Questo è tipico dell'atmosfera simposiaca da lui vissuta, anche se essa non sarà da tutti condivisa (un esempio è Anacreonte). Nei carmi riportati percorriamo le tappe fondamentali del simposio secondo la tradizione greca arcaica, attraverso l'interpretazione poetica di Alceo. I convitati erano riconosciuti come gruppo sociale dalle ideologie e dalle aspirazioni comuni, e dunque, il simposio veniva vissuto come un momento di dialogo tra i diversi membri. L'eteria era riunita e i partecipanti attendevano che fosse dato inizio al rito. Generalmente il simposio cominciava dopo l'accensione delle lucerne, ma Alceo apre uno dei suoi carmi con un'insolita esortazione al bere prima dell'ora consueta (fr. 346), ciò ci fa dedurre che si trattasse di un simposio differente dagli altri, e che probabilmente la riunione fosse stata convocata per un motivo particolare, a noi però ignoto. Il poeta esortava, dopo il brindisi iniziale, ad ubriacarsi e dunque non ad un bere pacato, e questo porta a presupporre che la causa della convocazione dell'eteria non fosse del tutto lieta (fr. 346). Altro elemento di fondamentale importanza, che riscontriamo in tutti i passi riportati è il vino. Questo rappresentava la gioia della pura fisicità, l'esaltazione delle sensazioni corporee, messe in rilievo dalla corrispondenza con il variare delle stagioni: l'arsura dell'estate (fr. 347), il gelo invernale (fr. 338). Veniva definito come laqik£dea, ovvero "oblio d'affanni", normalmente infatti i Greci ritenevano che il vino avesse particolari valori sociologici e simbolici, legati alla strana metamorfosi che lo portava a modificare completamente le sue peculiarità. Ma il vino, dono di Dioniso, nella tradizione simposiaca greca non era soltanto questo, era anche ciò che garantiva la verità dei pensieri, in cui si rivelava la sincerità dell'amico, era il ristoro della mente soffocata dal peso del dolore (fr. 346). Da qui derivava il concetto di simposio come spazio simbolico della bellezza, in cui l'uomo trovava il risarcimento della sofferenza. Altri elementi strettamente legati alla cultura arcaica vengono identificati, oltre che nella particolare considerazione del vino, anche nel modo di bere. Alceo utilizzava il verbo miscelare, e questo derivava dal fatto che il vino, donato da figlio di Semele e Zeus per sciogliere l'animo umano dai dolori, non poteva essere bevuto puro, ma veniva mescolato all'acqua per diminuirne la densità e dunque gli effetti sulla mente umana (fr. 346). Non era una tradizione comune di tutti i popoli, dal momento che Anacreonte ci riporta la tradizione del popolo Scita, bere smodato e scomposto, lungamente scongiurato dal popolo greco. Quello di Alceo era indubbiamente un simposio differente dagli altri, riconosciamo infatti che il poeta attribuì dignità espressiva a questo tema che diventerà con il passare degli anni un vero e proprio tÒpoj letterario, arrivando ad istituire uno stretto parallelismo tra la foga con la quale egli invita a bere e il famoso carpe diem di Orazio. Una breve analisi stilistica ci mostra un andamento fortemente paratattico, con frequenti allitterazioni e numerose assonanze. UNITA’ 3 PARTE 4 SAFFO La divina Saffo, l’hagné, considerata la più grande poetessa di tutti i tempi, nacque ad Ereso, nell’isola di Lesbo, da una nobile famiglia, ma la sua vita si svolse a Mitilene dalla quale, ai tempi della caduta dei Cleanattidi, a causa delle lotte politiche, fu esiliata per qualche tempo, e di ciò resta testimonianza nel "marmo pario", un’iscrizione che attesta la sua presenza in Sicilia tra il 607 e il 590 a. C., perché, a parte un frammento superstite in cui ne accenna genericamente, …te Cipro e Pafo, oppure Palermo, non ne fa menzione. Rimpatriò poi durante il regno di Pittaco, per il quale non nutriva simpatìa, considerandolo promotore delle restrizioni che mortificavano l’amore per il lusso della classe aristocratica, come prova un’ode nella quale si rivolge alla figlia (bella, dall’aspetto simile ai fiori dorati) inducendola a rinunciare alla mitra variegata che la fanciulla desidera per le sue chiome perché Pittaco si scandalizzerebbe, chiamando a testimone il poeta Alceo, con quale vi fu un vincolo di solidarietà e simpatia, e che di lei in modo lusinghiero scrisse: Saffo, veneranda, dal soave sorriso, dal crine di viola. Ben poco sappiamo di Saffo, che ebbe un marito e una figlia, che raggiunse la vecchiaia (infatti, in un papiro troviamo allusioni ad una pelle senile e a capelli bianchi), che era amante del bello, raffinata ed elegante nei modi e nell’aspetto ma, soprattutto, che amò molto e che l’amore riversato nei versi fu un canto limpido e toccante. Saffo fu stimata ed ammirata a Mitilene da molte sue concittadine, che erano solite riunirsi intorno a lei in un centro femminile del culto di Afrodite e delle Muse, una sorta di cenacolo intellettuale, una comunità tra il sacro e il profano definita "tiaso", costituita di sole fanciulle, aristocratiche e nubili, giovani donne che subivano il fascino della superiorità spirituale di Saffo, che da lei apprendevano la musica e la danza, e che l’abbandonavano solo quando poi prendevano marito e seguivano il loro destino, lasciando nell’animo della poetessa l’amarezza del distacco, che non tardava a riversare nei versi ricchi di pathos, intrisi di rimpianto per l’amicizia perduta. Nei suoi frammenti ricorrono parecchi nomi di queste fanciulle, Attide, Girinna, Arignota, Gongila, Dice, Anattoria, che Saffo ammirava, stimava e celebrava, esaltandone le lodi e la bellezza, festeggiandone con gioia le nozze e lamentandone la partenza per terre lontane, con versi armoniosi e di rara bellezza, testimonianza preziosa del suo canto e dei suoi sentimenti. Di Gòngila esaltò soprattutto la bellezza, che era tale da offuscare quella della stessa dea: O mia Gongila, ti prego metti la tunica bianchissima e vieni a me davanti: intorno a te vola desiderio d’amore. Così adorna, fai tremare chi guarda; e io ne godo, perché la tua bellezza rimprovera Afrodite. Per Arignota, bella come la luna tra gli astri, che aveva sposato un uomo potente ed ormai abitava lontano, e che malinconicamente supplicava la poetessa di raggiungerla, Saffo si struggeva di nostalgia perché avrebbe voluto rivedere il suo bel volto e le movenze aggraziate. Ad un’altra amica, esitante nel congedarsi, Saffo, pur afflitta dall’amarezza del distacco, ricordava le ore trascorse insieme in soave intimità e, frenando la commozione, e trattenendo il pianto, recava conforto: "Vorrei essere morta, sai,davvero" era così disfatta nel congedo e parlava parlava:"Oh, Saffo, è terribile quello che proviamo! Non son io che lo voglio se ti lascio", e io le rispondevo: addio, su, vai, e ricordati di me, perché lo sai come ti seguivamo: e se no-allora io lo voglio che ti ricordi, perché tu dimentichicom’era bello ,ciò che provavo, quante corone di viole ti posavi sul capo,insieme a me, di rose, croco, salvia, di cerfoglio, e quante s’intrecciavano ghirlande per il tuo collo delicato fatte dei fiori della primavera… Oppure si lasciava prendere da una furiosa gelosia come nella celebre ode tradotta da Catullo e imitata da Foscolo, quella in cui descrive le sofferenze al cospetto della coppia felice, dell’uomo beato come un dio di fronte alla fanciulla che parla e sorride con dolcezza, mentre, impotente spettatrice, si tortura al loro cospetto. Il colloquio dell’amica con l’uomo amato suscitava infatti in lei il sentimento violento e appassionato della gelosia, che la rapiva nella sua ardente visione e le impediva di udire qualsiasi altra cosa intorno a sé, espresso con tale potenza mai eguagliata da nessun altro poeta. Ecco, allora, l’ode considerata il capolavoro della poesia erotica, già famosa ai tempi di Saffo, che descrive proprio lo sconvolgimento dell’animo turbato dalla gelosia, esaltata già nel I secolo d. C da un poeta anonimo sul Sublime, rielaborata nella letteratura greca da Apollonio Rodio e da Teocrito e, in quella latina, da Lucrezio, Orazio e persino da Catullo, la cui versione è famosa quasi quanto l’originale: Mi appare simile agli Dei quel signore che siede innanzi a te e ti ascolta,tu parli da vicino con dolcezza, e ridi, col tuo fascino, e così il cuore nel mio petto ha sussultato, ti ho gettato uno sguardo e tutt’a un tratto non ho più voce, no, la mia lingua è come spezzata, all’improvviso un fuoco lieve è corso sotto la pelle, i miei occhi non vedono, le orecchie mi risuonano, scorre un sudore e un tremito mi prende tutta , e sono più pallida dell’erba, è come se mancasse tanto poco ad esser morta; pure debbo farmi molta forza. Il mondo poetico di Saffo può apparire chiuso ed impenetrabile ma non è difficile comprendere la genesi dei versi sensibilissimi e delicati; il suo animo femminile non poteva certo cantare secondo i motivi usuali della lirica del suo tempo,le lotte politiche non l’attraevano, non sono donna di pertinaci rancori, ma l’anima ho mite, armi e apparecchi militari non le interessavano, chi una schiera di cavalli,chi di fanti,chi uno stuolo di navi dice essere la cosa più bella su la nera terra, io invece ciò che si ama, e tanto meno era portata per l’esaltazione del simposio o delle espressioni dei piaceri effimeri collegati, ad esempio, alle gioie del vino. Portata per l’introspezione Saffo, coltivò soprattutto la vena intimistica, ed è appunto con lei che nella poesia nasce l’interiorità, favorita proprio dalla condizione femminile nel mondo greco, condizione che per lei non era di chiusura giacché, nata in una famiglia aristocratica, aveva rapporti di società, viaggiava, scambiava versi con Alceo, era anche moglie e madre dalla vita normale, senza che ciò interferisse con la sua attività nel tiaso e col suo essere poetessa. In un’epoca e in un ambiente in cui la donna godeva di una certa autonomia e indipendenza, Saffo si ripiegava in se stessa, si creava un suo mondo poetico, in una cerchia diversa da quella dell’uomo, quasi in isolamento, cercando calore per la sua anima soprattutto nel bello della natura: i fiori, gli usignoli, i paesaggi notturni e le scene di primavera la deliziavano con uno stupore quasi infantile, facendole apprezzare della bellezza soprattutto la leggiadria e la grazia, virtù squisitamente femminili. Da un epigramma sepolcrale che scrisse per lei Tullio Laurèa, un amico di Cicerone, si apprende che gli antichi conoscevano una raccolta dei carmi di Saffo divisa in ben nove libri: dell’enorme produzione lirica sono stati tramandati scarsi brani, quasi tutti incompiuti, tuttavia sufficienti a rilevare nelle sue composizioni una tecnica unica, un sentimento che sgorga dal profondo dell’anima assetata di amore e di bellezza, che investe ed anima personaggi e cose. Tecnica caratteristica è quella di trarre materia ed occasione del suo canto dalle scene di vita quotidiana per trasfigurarle in un mondo fantastico, in cui trionfano, in perfetta armonia ed equilibrio di colori ed immagini, la bellezza, l’amore e la luce. Saffo, come tutti gli antichi, viveva la natura in un ‘aura di sacralità, sole, luna, mare, fiori, erano considerati entità sacre che pure le suggerivano immagini intime di raccoglimento e contemplazione della bellezza. Ecco, allora, che in un giorno di primavera rievoca un tempio dell’isola di Creta visitato di persona o che solo le è stato descritto, ed al ricordo si sovrappone una visione smagliante di colore: Qui da noi: un tempio venerando, un pomario di meli deliziosi, altari dove bruciano profumi d’incenso, un’acqua freddissima che suona in mezzo ai rami dei meli, e le ombre dei rosai in tutto il posto, e dalle foglie scosse trabocca sonno, poi un florido prato, coi cavalli, i fiori della primavera, aliti dolcissimi che spirano… dove Cipride coglie le corone e delicatamente mesce un nettare che si mescola nelle grandi feste, in coppe d’oro… E nella solitudine di una notte senza luna e senza stelle si riflette la solitudine del suo animo: E’ tramontata la luna, e le Pleiadi; e la notte è a metà, ed il tempo trapassa, ed io riposo in solitudine. Anche l’idea della morte nella poesia di Saffo suggerisce armoniose immagini di serenità e di bellezza, perché per Saffo il regno delle tenebre non può non avere giardini coperti di fiori e bagnati di rugiada: E mi prende un desiderio di morire, e di vedere le rive dell’Acheronte coperte di rugiada,fiorite di loto. E grande sensibilità vibra anche nelle liriche dedicate alle amiche del tiaso; la bellezza di un ‘amica assente, Attide, che spicca a Sardi fra le donne lidie, suggerisce una visione di cielo notturno in cui brilla l’astro lunare: Forse in Sardi spesso col pensiero qui ritorna nel tempo che fu nostro: quando eri per lei come una Dea rivelata, tanto era felice del tuo canto. Ora in Lidia è bella fra le donne come quando il sole è tramontato e la luna dalle dita di rose vince tutte le stelle e la sua luce modula sulle acque del mare e i campi presi d’erba: e la rugiada illumina la rosa, posa sul gracile timo e il trifoglio simile a fiore. Solitaria vagando ,esita A volte se pensa ad Attide: di desiderio l’anima trasale, il cuore è aspro. E d’improvviso: "Venite!"urla; e questa voce non ignota a noi per sillabe risuona scorrendo sopra il mare. Il tema predominante affrontato è sempre quello dell’amore, considerato da Saffo il più potente dei sentimenti umani, il cui ruolo è determinante nella vita e nell’educazione del tiaso, e colto in tutte le sue sfumature, sia quello travolgente della passione sia quello del turbamento adolescenziale della fanciulla che lo confida alla madre: Mammina mia, non posso più battere il telaio, stregata dall’amore per un ragazzo per opera della languida Afrodite. Il tiaso diretto da Saffo era consacrato alle Muse e ad Afrodite, non stupisce perciò che nei versi della poetessa compaia spesso la dea come presenza benevola. Famosa fin dall’antichità è la composizione dedicata appunto ad Afrodite, un inno d’invocazione, una preghiera tradizionale nella forma ma innovativa nel contenuto, poco religiosa, giacché poetessa e dea sono poste in diretto rapporto confidenziale, in dolce patto d’alleanza, fino ad annullare, con complicità tipicamente femminile, la distanza tra umano e divino: Afrodite immortale dal trono variopinto, figlia di Zeus, insidiosa, ti supplico, non distruggermi il cuore di disgusti, Signora, e d’ansie, ma vieni qui, come venisti ancora, udendo la mia voce da lontano, e uscivi dalla casa tutta d’oro del Padre tuo: prendevi il cocchio e leggiadri uccelli veloci ti portavano sulla terra nera fitte agitando le ali giù dal cielo in mezzo all’aria, ed erano già qui: e tu, o felice, sorridendo dal tuo volto immortale, mi chiedevi perché soffrissi ancora, chiamavo ancora, che cosa più di tutto questo cuore folle desiderava: "chi vuoi ora che convinca ad amarti? Saffo,dimmi, chi ti fa male? Se ora ti sfugge, presto ti cercherà, se non vuole i tuoi doni ne farà, se non ti ama presto ti amerà, anche se non vorrai". Vieni anche adesso, toglimi di pena. Ciò che il cuore desidera che avvenga, fa’ tu che avvenga. Sii proprio tu la mia alleata. Nei versi che seguono, frammenti intensi e suggestivi che pure esaltano il sentimento amoroso, l’amore s’impone invece come forza, in profonda analisi psicologica: Eros mi ha squassato la mente come il vento del monte si scaglia sulle querce. Nel canto di Saffo, come in tutta la letteratura greca, ritroviamo anche la caratteristica dell’erotismo, spesso censurata dall’interpretazione moderna, eppure l’eros, da Omero fino alla produzione ellenistica, fu elemento ben presente in molteplici aspetti, eliminato dalla letteratura ufficiale solo con l’avvento dell’ebraismo e soprattutto del Cristianesimo. Per meglio comprendere il rapporto che i Greci avevano con l’eros è necessario ricordare che differente fu il loro concetto di morale, la nostra cultura confina l’eros nel tabù, invece i Greci lo legavano alla religiosità tradizionale e lo vivevano come rito della fecondità e celebrazione misterica; inoltre non separavano rigidamente l’eros eterosessuale da quello omosessuale, frequenti sono infatti nell’Iliade le allusioni ai legami omoerotici, come quelli tra Achille e Patroclo, e la stessa figura di Elena è rappresentata come intrisa di irresistibile sensualità. Per quanto riguarda gli uomini sono i dialoghi di Platone ad attestare l’esistenza dell’erotismo maschile, ma anche in molte commedie di Aristofane, come la Lisistrata, si ritrova conferma della libertà dell’erotismo nella cultura greca, come pure è testimoniata la pratica dell’incesto nella riflessione della poesia tragica, dall’Edipo Re di Sofocle agli epigrammi e al romanzo dell’età ellenistica, che affrontavano l’eros in tutti i suoi aspetti. Fu, poi, con la diffusione della cultura giudaico- cristiana, e soprattutto con quella del cristianesimo, che le tematiche dell’erotismo vennero emarginate e addirittura eliminate fino a compromettere la stessa corretta comprensione del patrimonio culturale greco. E’ con Saffo che, per la prima volta nella storia della letteratura, abbiamo la rappresentazione dell’erotismo femminile (definito col tempo, con connotazione denigratoria, "saffico"), ma che è semplicemente espressione dell’eros vissuto legittimamente e in normalità nella cultura greca, ed è per questo che cantò con schiettezza l’amore, anche verso le sue amiche del tiaso, senza veli e ritrosie, proprio per la diversa moralità della cultura greca . Saffo esercitò una notevole influenza sui suoi contemporanei, soprattutto su Alceo, Teognide, Bacchilide e Teocrito, e Strabone così si espresse su di lei: Saffo, un essere meraviglioso! Chè in tutto il passato, di cui si ha memoria, non appare che sia esistita mai una donna, la quale potesse gareggiare con lei nella poesia, nemmeno da lontano; la sua fama eguagliò quella di Omero eppure, proprio quando era più ammirata, cominciò ad essere infangata. I suoi versi, in cui la rievocazione delle scene è sempre limpida e chiara, come sincero fu il sentimento ispiratore dei versi, l’amicizia che la legava alle sue compagne, furono spesso denigrati fin dall’antichità: basti pensare ad Orazio che definì Saffo dispregiativamente mascula. Il processo denigratorio nei suoi confronti risale, però, ai commediografi attici, che l’accusarono di cattivi costumi, di bruttezza fisica e che arrivarono persino ad attribuirle un suicidio per amore dalla rupe di Leucade (come riprende Leopardi) perché invaghitasi senza speranza del bellissimo Faone; più onesti e sinceri gli entusiasmi di Platone, che chiamarono Saffo bella e saggia, di Teofrasto che ne rilevò la grazia, e di Plutarco che ne attestò l’ardore del cuore. Grazia, soavità e passione: sono queste le caratteristiche della poesia di Saffo. Il suo amore fu squisitamente femminile, investì tutto ciò che la circondava, in delicatezza e levità, tanto che ancora oggi può essere considerata la più grande poetessa di tutti i tempi perché nessuna donna ha saputo cantare l’amore come lei, in purezza e sincerità. UNITA’ 3 PARTE 5 I GRANDI TRAGICI La tragedia greca è un genere teatrale nato nell'antica Grecia. Sorta dai riti sacri della Grecia e dell'Asia minore raggiunse la sua forma più significativa nell'Atene del V secolo a.C.. Precisamente, la tragedia è l'estensione in senso drammatico, cioè secondo criteri prettamente teatrali, di antichi riti in onore di un dio. Come tale fu tramandata fino al romanticismo, che apre, molto di più di quanto non avesse fatto il Rinascimento, la discussione sui generi letterari. In seguito a questa lunga evoluzione nel corso di oltre duemila anni, riesce arduo dare una definizione univoca al termine più generale di tragedia, a seconda dell'epoca storica o dell'autore. Nel medioevo, quando poco o nulla si sapeva del genere, il termine assunse il significato di opera a stile tragico, e stile tragico divenne sinonimo abbastanza generico di poesia o stile alto, illustre, come traspare nel De Vulgari Eloquentia di Dante Alighieri. Il motivo della tragedia greca è strettamente connesso con l'epica, cioè il mito, ma dal punto di vista della comunicazione la tragedia sviluppa mezzi del tutto nuovi: il mythos (µύθος, parola, racconto) si fonde con l'azione, cioè con la rappresentazione diretta (δρᾶµα, dramma, deriva da δρὰω, agire), in cui il pubblico vede con i propri occhi i personaggi che compaiono come entità distinte che agiscono autonomamente sulla scena (σκηνή, in origine il tendone dei banchetti), provvisti ciascuno di una propria dimensione psicologica. I più importanti e riconosciuti autori di tragedie furono Eschilo, Sofocle ed Euripide, che in diversi momenti storici, affrontarono i temi più sentiti della loro epoca. Origine ed evoluzione della tragedia Il «canto caprino» L'origine della tragedia greca è uno dei tradizionali problemi irrisolti della filologia classica. La fonte primaria di questo dibattito è la Poetica di Aristotele. L'autore poté raccogliere una documentazione di prima mano, a noi oggi inaccessibile, sulle fasi più antiche del teatro in Attica, la sua opera è dunque contributo inestimabile per lo studio della tragedia antica. All'origine della tragedia gli antropologi avrebbero individuato, come appunto sembrerebbe confermare l'etimologia stessa della parola, un rito sacrificale propiziatorio in cui molte popolazioni tribali offrono ancora oggi animali agli déi, soprattutto in attesa della messe o di una partita di caccia. Momenti cruciali che scandivano la vita degli antichi erano infatti i mutamenti astrali (equinozi e solstizi che segnavano il passaggio da una stagione all'altra). I sacrifici avvenivano dunque in questi momenti, ad esempio poco prima dell'equinozio primaverile, per assicurarsi l'avvento della buona stagione. In epoca preistorica recente, tali sacrifici dovettero trasformarsi in danze rituali in cui era raffigurata la lotta primordiale del bene, il giorno, la luce, quindi la bella stagione, contro il male (la notte e l'inverno), e il trionfo finale del bene sul male. Rimangono però molti punti oscuri sull'origine della tragedia, a partire dall'etimologia stessa della parola trago(i)día (τραγῳδία): si distinguono in essa le radici di "capro" (τράγος / trágos) e "cantare" (ᾄδω / á(i)dô), sarebbe quindi il "canto per il capro". Il senso da attribuire al "capro" è ancora oggetto di numerose interpretazioni; di certo, l'animale (sia esso capretto o agnello) è da intendersi come primizia da offrire, come bene del quale l'uomo si priva in un momento sacro (sia che esso venga offerto al dio stesso come vittima sacrificale, e si ricordi che il capretto è animale sacro a Dioniso , sia che esso sia premio consegnato al vincitore dell' agone tragico che si svolgeva durante le feste in onore di Dioniso). Una teoria più recente (J. Winkler) fa derivare "tragedia" dal vocabolo raro traghìzein (τραγὶζειν), che significa "cambiare voce, assumere una voce belante come i capretti", in riferimento agli attori. A meno che, suggerisce D'Amico, tragoidía non significhi più semplicemente «canto dei capri», dai personaggi satireschi che componevano il coro delle prime azioni sacre dionisiache. Altre ipotesi sono state tentate, in passato, tra cui una etimologia che definirebbe la tragedia come un'ode alla birra. Quello che è possibile affermare con certezza è che la radice trag- (τραγ), anche prima di riferirsi al dramma tragico, fu utilizzata per significare l'essere "simile ad un capro", ma anche la selvatichezza, la libidine, il piacere del cibo, in una serie di parole derivate che gravitano intorno alla «zona» linguistica del rito dionisiaco. Dal ditirambo al dramma Scrive Aristotele nella Poetica che la tragedia nasce all'inizio dall'improvvisazione, precisamente "da coloro che intonano il ditirambo" (ἀπὸ τῶν ἐξαρχόντων τὸν διθύραµβον, apò tōn exarchòntōn tòn ditýrambon), un canto corale in onore di Dioniso. All'inizio queste manifestazioni erano brevi e di tono burlesco perché contenevano degli elementi satireschi; poi il linguaggio si fece man mano più grave e cambiò anche il metro, che da tetrametro trocaico, il verso più prosaico, divenne trimetro giambico. Questa informazione è completata da un passo delle Storie (I, 23) di Erodoto e da fonti successive, in cui il lirico Arione come è definito inventore della tragedia e compositore di ditirambi Il Ditirambo, in origine improvvisato, assume poi una forma scritta e prestabilita. Il coro s'indirizzava a thymele (θυµέλη), l'ara sacrificale, e cantava in cerchio, disponendosi intorno ad essa. Ad un certo momento dal coro che intonava questo canto in onore di Dioniso il corifeo, cioè il capocoro, si sarebbe staccato e avrebbe cominciato a dialogare con questo, diventando così un vero e proprio personaggio; in seguito il coro stesso, sdoppiandosi in due semicori, diede vita a un dialogo tra i due corifei, e venne introdotto un hypocritès (ὑποκριτής, risponditore, in seguito significherà attore), che pronunciava le parole di Dioniso, rivolte al coro: è la nascita del dramma. Da canto epico-lirico, il ditirambo diventa teatro. Mentre nasceva e si strutturava la tragedia vera e propria, lo spirito più popolare dei riti e delle danza dionisiache sopravvissero nel dramma satiresco. Le prime tragedie La tradizione attribuisce a Tespi la prima rappresentazione tragica, avvenuta nel 534 a.C. durante le Dionisie. Si presuppone che fosse attico, appartenente al demo di Icaria. Delle sue tragedie sappiamo poco, se non che il coro era ancora formato da satiri e che fu certamente il primo a vincere un concorso drammatico; Aristotele sostiene che introdusse l'attore (ὑποκρίτης) che rispondeva al coro. Inoltre Temistio, scrittore del IV secolo a.C., riferisce che sempre secondo Aristotele Tespi inventò il prologo e la parte parlata (ῥῆσις). Gli altri drammaturghi dell'epoca furono Cherilo, autore di probabilmente centosessanta tragedie (con tredici vittorie), e Pràtina di Fliunte autore di cinquanta opere di cui 32 drammi satireschi, di cui però sono pervenuti solo i titoli. Da quel momento i drammi satireschi affiancarono la rappresentazione delle tragedie. Pratina gareggiò sicuramente con Eschilo e operò dal 499 a.C. Di Frinico cominciamo ad avere maggiori informazioni. Aristofane ne tesse le lodi nelle sue commedie, nelle "Vespe" lo presenta come un democratico radicale vicino a Temistocle. Oltre a introdurre nei dialoghi il trimetro giambico e ad utilizzare per la prima volta personaggi femminili, inventò il genere della tragedia ad argomento storico (La presa di Mileto), introducendo una seconda parte: ci si avviava, quindi alla trilogia, che sarà definitivamente adottata da Eschilo e dai suoi contemporanei. La sua prima vittoria in un agone accadde nel 510 a.C.. Eschilo: la codificazione Sarebbe stato Eschilo a fissare le regole fondamentali del dramma tragico. Regista, oltre che poeta, a lui viene attribuita l'introduzione di maschera e coturni e inoltre è con lui che prende l'avvio la trilogia. Introducendo un secondo attore, rese possibile la drammatizzazione di un conflitto. La rappresentazione della tragedia assume una durata definita (dall'alba al tramonto, nella realtà come nella finzione), e nella stessa giornata viene presentata una trilogia, nella quale le tre parti sono "puntate" della medesima storia. Nella sua opera, confrontando le prime tragedie con quelle di anni successivi, notiamo una evoluzione e un arricchimento degli elementi propri del dramma tragico: dialoghi, contrasti, effetti teatrali. Questo si deve anche alla competizione che il vecchio Eschilo deve sostenere nelle gare drammatiche: c'è un giovane rivale, Sofocle, che gli contende la popolarità, e che ha introdotto un terzo attore, ha complicato le trame, sviluppato caratteri più umani, nei quali il pubblico può identificarsi. Tuttavia, anche accettando in parte, e con riluttanza, le nuove innovazioni, Eschilo rimane sempre fedele ad un estremo rigore, alla religiosità quasi monoteistica (Zeus, nelle opere di Eschilo, è rappresentato talvolta come un tiranno, talvolta come un dio onnipotente, con qualche somiglianza con il biblico Yahweh). Nonostante i personaggi di Eschilo non siano sempre unicamente eroi, quasi tutti hanno caratteristiche superiori all'umano. Se ci sono elementi reali, questi non sono mai rappresentati nella loro quotidianità, ma in una suprema sublimazione. Le riforme di Sofocle Plutarco, nella Vita di Cimone, racconta il primo trionfo del giovane talentuoso Sofocle contro il celebre e fino a quel momento incontrastato Eschilo, conclusasi in modo insolito, senza il consueto sorteggio degli arbitri, e che provocò il volontario esilio di Eschilo in Sicilia. Le innovazioni che Sofocle introdusse, e che gli guadagnarono almeno venti trionfi, riguardarono molti aspetti della rappresentazione tragica, dai dettagli più insignificanti (come i calzari bianchi e i bastoni ricurvi) fino a riforme più dense di conseguenze. Introdusse un terzo attore, che permetteva alla tragedia di moltiplicare il numero dei personaggi possibili, aumentò a quindici il numero dei coreuti, ruppe l'obbligo della trilogia, rendendo possibile la rappresentazione di drammi autonomi, introdusse l'uso di scenografie. Rispetto a Eschilo, i cori tragici sofoclei si defilano dall'azione, partecipano sempre meno attivamente e diventano piuttosto spettatori e commentatori dei fatti. È di Sofocle l'introduzione del monologo (ad es. quelli di Aiace o di Edipo), le lunghe 'tirate' che permettono all'attore di mostrare la sua abilità, e al personaggio di esprimere compiutamente i propri pensieri. La psicologia dei personaggi si approfondisce, emerge una inedita analisi della realtà e dell'uomo. Sofocle tentò di togliere l'enfasi (ónkos / ὄγκος) ai suoi personaggi, per restituirgli completamente la drammaticità, in un mondo descritto come ingiusto e privo di luce. Nell'Edipo a Colono, il coro ripete «la sorte migliore è non nascere». Gli eventi che schiacciano le esistenze degli eroi non sono in alcun modo spiegabili o giustificabili, e in questo possiamo vedere l'inizio di una sofferta riflessione sulla condizione umana, ancora attuale nel mondo contemporaneo. Il realismo euripideo Le peculiarità che distinguono le tragedie euripidee da quelle degli altri due drammaturghi sono da un lato la ricerca di sperimentazione tecnica attuata da Euripide in quasi tutte le sue opere e la maggiore attenzione che egli pone nella descrizione dei sentimenti, di cui analizza l'evoluzione che segue il mutare degli eventi narrati. La novità assoluta del teatro euripideo è comunque rappresentata dal realismo con il quale il drammaturgo tratteggia le dinamiche psicologiche dei suoi personaggi. L'eroe descritto nelle sue tragedie non è più il risoluto protagonista dei drammi di Eschilo e Sofocle, ma sovente una persona problematica ed insicura, non priva di conflitti interiori. Le protagoniste femminili dei drammi, come Andromaca, Fedra e Medea, sono le nuove figure tragiche di Euripide, il quale ne tratteggia sapientemente la tormentata sensibilità e le pulsioni irrazionali che si scontrano con il mondo della ragione. Struttura della tragedia La tragedia greca è strutturata secondo uno schema rigido, di cui si possono definire le forme con precisione. La tragedia inizia generalmente con un prologo (da prò e logos, discorso preliminare), che ha la funzione di introdurre il dramma; segue la parodo (ἡ πάροδος), che consiste nell'entrata in scena del coro attraverso dei corridoi laterali, le pàrodoi; l'azione scenica vera e propria si dispiega quindi attraverso tre o più episodi (epeisòdia), intervallati dagli stasimi, degli intermezzi in cui il coro commenta, illustra o analizza la situazione che si sta sviluppando sulla scena; la tragedia si conclude con l'esodo (èxodos). UNITA’ 3 PARTE 6 PINDARO Biografia Il più grande esponente della lirica corale arcaica nacque a Cinocefale, vicino a Tebe, attorno al 520 - 518 a.C., dalla nobile famiglia degli Egidi, originari di Sparta e fondatori del culto gentilizio di Apollo Carneo. Secondo una tradizione, che non siamo in grado di confermare con certezza, egli sarebbe stato avviato alla poesia da due poetesse beotiche, Mirtide di Antedone e Corinna di Tanagra (la prima è praticamente ignota e la seconda, soprannominata “mosca”, forse per il suo cicaleccio, fu autrice per gli alessandrini di almeno cinque libri, comprendenti in prevalenza nomoi monodici, “canti da vecchierelle”, epigrammi); ma se anche gli aneddoti tramandati in proposito dalle fonti antiche corrispondessero a verità è indubitabile che gli ideali panellenici di Pindaro e la funzione da lui attribuita al suo canto si siano trovati in contrasto con quella poesia dalla coloritura spiccatamente locale. Per questo, il poeta cercò ad Atene altri e più famosi maestri come Apollodoro, Agatocle e Laso di Ernione; da quest’ultimo, valente musicologo ed autore di ditirambi, il giovane Pindaro apprese anche il virtuosismo tecnico per cui era meritatamente famoso. Nel 498 a.C. il genio precoce di Pindaro diede buona prova di sé, cantando nella Pitica X, il più antico epinicio giunto fino a noi, la vittoria del tessalo Ippocle, conquistata a Delfi nella corsa dei ragazzi. Celebrando la gloria del giovanissimo discendente della nobile stirpe degli Alevadi, Pindaro iniziava la sua illustre carriera di poeta aristocratico, cantore dei trionfi agonari degli atleti e degli epigoni delle più antiche famiglie. Tuttavia, il periodo centrale della sua lunga esistenza coincise con un profondo mutamento morale, politico e religioso dell’Ellade, destinato a scardinare molti dei principi su cui si fondava l’educazione dell’età arcaica. Erano gli anni delle guerre persiane e l’attenzione del mondo greco era attratta dalle vicende del conflitto e dalla politica di Atene, che, grazie al ruolo avuto nella guerra, si avviava a divenire un punto di riferimento per l’intera Ellade. Pindaro, invece, tutto preso dalla volontà di celebrare il passato, si sentiva estraneo a questo presente i cui ideali si andavano sempre più allontanando dai suoi. Neppure l’epico scontro di Maratona (490 a.C.), destinato ad essere argomento di tanta letteratura nazionalistica, lasciò traccia nella sua poesia; nella Pitica VI databile appunto al 490 e dedicata a Senocrate di Agrigento, fratello del tiranno Terone, per la vittoria nella corsa delle quadrighe, ottenuta dal suo giovane figlio Trasibulo, non c’è neppure un accenno alla celebre battaglia. Anzi, dieci anni dopo, nel 480 a.C., la politica di Tebe divenne apertamente filopersiana; la città, governata da una gruppo di aristocratici, accolse pacificamente gli inviati di Serse e mandò perfino un contingente militare a Platea al fianco delle milizie persiane. Pindaro, appartenente alla medesima classe sociale, venuta a patti con il nemico, condivise anche l’atteggiamento dei sacerdoti di Delfi, che avevano interpretato gli oracoli a favore della politica di non opposizione ai persiani. Tuttavia i motivi del dissenso di Pindaro erano indipendenti allo sfondo politico della patria e molto più profondi: si sentiva attratto dall’ideale di vita eroico, oramai remoto ed in contrasto col regime democratico greco. Il concetto dell’aristocrazia di razza dominava ancora il suo cuore e lo spingeva a distaccarsi dalla realtà storica in cui viveva, per ricongiungersi alla dimensione senza tempo del mito. In essa, il poeta ritrovava gli archetipi divini o semidivini che accendevano la sua fantasia e che egli credeva di veder rivivere nelle figure degli atleti vincitori delle gare olimpiche, sospendendo temporaneamente i contrasti esterni. Gli anni fra il 476 ed il 460 a.C. furono quelli di più intensa attività: le città sicule erano una presenza costante nei giochi ed il poeta non esitò ad esaltarne i tiranni, giungendo a porli sullo stesso piano degli antichi monarchi, discendenti di Zeus. Con alcuni di loro instaurò profondi rapporti di amicizia, favoriti dal carattere aperto e dai molteplici interessi culturali e religiosi di questi ultimi. Fra gli illustri committenti di Pindaro ricordiamo Ierone di Siracusa, per il quale compose l’ Olimpica e la Pitica I (476-470). Ma l’amicizia non durò, sia per il carattere orgoglioso del tiranno, sia per la simpatia che questi accordò a Simonide e Bacchilide di Ceo. Nel 468 Pindaro lasciò la Sicilia, ma nonostante la partenza non gli vennero a mancare nè celebri protettori nè l’ammirazione del pubblico. Nel corso dei suoi numerosi viaggi ad Egina, Rodi, Corinto e Ceo, onorò Telesicrate e Arcesilao, signori di fiorenti colonie. Dopo il 460 la produzione di Pindaro si fece meno intensa e la sua creatività poetica assunse un diffuso pessimismo: il mondo ellenico era profondamente mutato e la democrazia ateniese aveva assunto definitivamente la funzione di polo politico dell’Ellade, Tebe era stata sottomessa ed il santuario di Delfi era dominato dai Focesi. Non poteva cosi sottrarsi ad una visione sempre più triste e delusa dell’esistenza: la forza creatrice della fantasia era ormai solo un ideale. Dell’ultima fase della vita di Pindaro non abbiamo notizie certe: secondo la tradizione antica, il poeta si sarebbe spento ad Argo, ormai ottantenne, nel 438 fra le braccia di Teosseno, giovane compagno teneramente amato. Le opere Pindaro usa la lingua della lirica corale, ossia il dialetto dorico misto a elementi eolici, dove compare anche qualche fenomeno del beotico. Nell’edizione alessandrina la sua produzione, eccezionalmente ampia, occupava diciassette libri ordinati per generi: Inni, Peani, Prosodi, Parteni, Iporchemi, Encomi, Treni, Epinici. Sopravvivono integralmente solo quattro libri degli Epinici, divisi secondo le gare panelleniche di cui celebravano i vincitori: essi contengono rispettivamente 14 odi Olimpiche, 12 Pitiche, 11 Nemee, 8 Istmiche. Le altre opere sono note solo da numerosi frammenti in cui appaiono grandiose descrizioni del mondo divino, racconti mitici, solenni enunciati etici ed anche tratti di arguta grazia e voci d’amore. L’epinicio di Pindaro si articola secondo tre linee tematiche svolte con grande varietà di motivi: l’elogio, che contiene un succinto riferimento al vincitore e all’occasione sportiva; il mito, collegato sovente con la famiglia o con la patria del celebrato, che costituisce la parte di maggiore ampiezza ed impegno poetico; e la gnome, ossia l’enunciazione di sentenze religiose e morali. A collegare questi elementi interviene il richiamo alla performance, ossia all’occasione in cui il carme viene eseguito. A fondamento del mondo pindarico sta la convinzione che nella poesia si manifesti la perfezione assoluta del cosmo e della divinità. Essa istituisce la gloria del vincitore, esaltando il momento supremo del successo atletico in cui egli raggiunge la pienezza della sua qualità umana. Questa circostanza lo allinea agli eroi del mito; e il presente viene così attratto in una sfera di valori assoluti ed eterni. Alla sublimità di tale concezione corrisponde uno stile di inaudita tensione, ricco di immagini dotate di emozionante evidenza. In ampi periodi si collocano enunciati sintetici e definitivi, che si susseguono secondo drastiche ellissi logiche, affidando la loro suggestione al sentimento della bellezza, in cui coincidono l’interpretazione pindarica dell’esistenza umana e della natura divina e l’esito della sua creazione artistica. UNITA’ 3 PARTE 7 ARISTOTELE VITA Aristotele (Stagira, Macedonia 384 - Calcide, Eubea 322 a.C.), filosofo e scienziato greco, all'età di diciotto anni si trasferì ad Atene per studiare presso l'Accademia platonica, dove rimase per vent'anni, dapprima come allievo di Platone e poi come maestro. Nel 347 a.C., dopo la morte di Platone, Aristotele si recò ad Atarneo, città governata dal tiranno Ermia, scolaro dell'Accademia e suo amico; andò successivamente ad Asso e Mitilene per insegnarvi e svolgervi ricerche empiriche. Dopo la morte di Ermia, che venne catturato e ucciso dai persiani nel 345 a.C., Aristotele si recò a Pella, la capitale macedone, dove divenne il precettore del giovane figlio del re, il futuro Alessandro Magno. Nel 335, quando Alessandro fu nominato re, Aristotele tornò ad Atene e fondò la sua scuola, il Liceo. Poiché, secondo la tradizione, gran parte delle lezioni nella scuola aveva luogo mentre insegnanti e allievi passeggiavano nel giardino del Liceo, la scuola aristotelica finì per essere soprannominata "Peripato" (dal greco peripatéin, "camminare" o "passeggiare"). Nel 323 a.C., dopo la morte di Alessandro, ad Atene si diffuse una profonda ostilità verso la Macedonia, e Aristotele ritenne più prudente ritirarsi in una tenuta di famiglia in Eubea, dove morì l'anno seguente. PENSIERO Nei suoi primi anni all'Accademia, Aristotele, come Platone, si servì regolarmente della forma argomentativa del dialogo; in questa forma scrisse le opere cosiddette "esoteriche", rivolte cioè a un pubblico di allievi selezionati: questi scritti non ci sono pervenuti. Possediamo, tuttavia, alcuni appunti di cui Aristotele si servì per le lezioni e che fanno riferimento a insegnamenti aventi come oggetto quasi ogni campo del sapere. I testi ai quali Aristotele deve la sua fama si basano in larga misura su questi appunti, che il curatore Andronico di Rodi dispose in un'edizione il cui ordine rimase quello noto fino a oggi. Metodi Forse a causa degli insegnamenti del padre, che fu medico alla corte del re macedone Aminta III, la filosofia di Aristotele dà rilievo alla biologia e alle ricerche di filosofia naturale in contrapposizione all'importanza attribuita da Platone alla matematica. Aristotele considerò il mondo come costituito da individui (sostanze) che appartengono a determinati generi naturali (specie). Ogni individuo ha inscritto in se stesso un preciso modello di sviluppo e cresce cercando di realizzare convenientemente il proprio fine naturale: sviluppo, fine e direzione risultano così intrinseci alla natura di ciascuno. Secondo Aristotele, anche se la scienza è dedita all'identificazione dei generi fondamentali, questi generi si possono cogliere nell'esperienza solo studiando le sostanze individuali; scienza e filosofia pertanto devono bilanciare le pretese dell'empirismo (osservazione ed esperienza sensibile) e quelle del formalismo (deduzione razionale). Uno dei contributi più caratteristici della filosofia aristotelica fu la nozione di causalità. Secondo Aristotele, a ogni ente o evento si deve assegnare più di una "ragione" in grado di spiegare che cosa, perché e dove esso sia. Gli antichi pensatori greci erano inclini a supporre che un solo genere di causa potesse rendere conto delle cose; Aristotele ne propose quattro. (Il termine da lui usato, aítion, "un fattore di spiegazione responsabile della condizione di qualcosa", non è sinonimo del termine "causa" nel suo significato moderno.) Queste quattro cause sono la "causa materiale", la materia di cui è costituito un oggetto; la "causa efficiente", il principio del movimento, della nascita, o del mutamento; la "causa formale", che coincide con la specie, il genere o il tipo; e la "causa finale", il fine, il pieno sviluppo di un individuo o la funzione propria di una costruzione o invenzione. In ogni ambito della ricerca, Aristotele insiste sul fatto che si può comprendere meglio qualunque cosa quando è possibile stabilire le cause che la riguardano in termini specifici piuttosto che in termini generali. Così, è più preciso sapere che una statua è stata cesellata da uno scultore piuttosto che da un artista; ed è ancora più preciso sapere che l'ha cesellata Policleto piuttosto che, semplicemente, uno scultore non meglio identificato. Dottrine Il seguente sunto delle dottrine di Aristotele illustra alcuni degli aspetti principali del suo pensiero. Metafisica In metafisica, Aristotele affermò l'esistenza di un essere divino, definito "motore immobile", che è causa dell'unità e del fine che si prefigge la natura. Questa entità è perfetta ed è perciò l'aspirazione di tutte le cose del mondo, poiché tutti gli enti desiderano essere partecipi della perfezione. Esistono anche altri motori - le intelligenze motrici dei pianeti e delle stelle; tuttavia, il motore immobile, che nella tradizione filosofica medievale è stato identificato senza alcun dubbio con Dio, nella descrizione di Aristotele non è suscettibile di interpretazioni religiose, come hanno osservato molti filosofi e teologi più recenti. Il motore immobile, ad esempio, non è interessato a ciò che accade nel mondo, né ha creato il mondo. Aristotele limitò, comunque, la sua "teologia", a ciò che la scienza, a suo parere, richiede e può dimostrare. Logica In logica, Aristotele enunciò regole di inferenza che, se rispettate, non avrebbero mai condotto da premesse vere a conclusioni false (regole di validità). Gli elementi fondamentali dell'inferenza in questione sono sillogismi: proposizioni che, se considerate una in relazione all'altra, generano necessariamente una determinata conclusione. La scienza è il risultato della costruzione di sistemi più complessi di ragionamento. Nelle sue opere logiche Aristotele distinse tra dialettica e analitica. Egli sostenne che la dialettica esamina gli argomenti unicamente in merito ai criteri di coerenza; l'analitica procede invece deduttivamente a partire da principi che si fondano sull'esperienza e su una scrupolosa osservazione. Fisica, o filosofia naturale In astronomia Aristotele concepì un universo finito di forma sferica, con la Terra posta in un centro costituito da quattro elementi: terra, aria, acqua e fuoco. Nella fisica aristotelica ognuno di questi elementi occupa un luogo particolare, determinato in base alla sua pesantezza relativa, o, come diciamo oggi, al suo "peso specifico". Ognuno di essi si muove secondo la sua natura in linea retta - la terra verso il basso, il fuoco verso l'alto - verso il suo luogo specifico, dove raggiungerà lo stato di quiete; sulla Terra il moto locale, pertanto, è sempre lineare e ha sempre termine. I cieli, invece, ruotano incessantemente per loro natura secondo un complesso moto circolare e devono, pertanto, essere costituiti da un quinto elemento diverso dagli altri, denominato aither (etere). Essendo un elemento superiore, l'aither è incapace di qualunque altro mutamento che non sia un mutamento di luogo con moto circolare. Biologia In zoologia, Aristotele si riferì a un determinato sistema di generi naturali ("specie"), ciascuno dei quali si riproduce in conformità al proprio tipo, tranne nel caso di alcune eccezioni. I cicli tipici di vita sono epicicloidali: si ripete il medesimo modello, ma attraverso una successione lineare di individui. Questi processi sono dunque collocati a metà tra il movimento circolare e costante dei cieli e il semplice movimento lineare degli elementi terrestri. Le specie costituiscono una scala graduata che si estende dal semplice (vermi e mosche al gradino più basso) al complesso (esseri umani al gradino più alto), pur nell'impossibilità di qualsiasi evoluzione. La psicologia aristotelica Per Aristotele, la psicologia era lo studio delle funzioni dell'anima. Sottolineando che "forma" (l'essenza o gli elementi invarianti caratteristici di un oggetto) e "materia" (il comune e indifferenziato substratum delle cose) non possono esistere l'una senza l'altra, Aristotele definì l'anima come "quella particolare funzione del corpo che è costituita in modo tale da poter svolgere le operazioni vitali". La dottrina di Aristotele è una sintesi tra la concezione più arcaica secondo la quale l'anima non può esistere indipendentemente dal corpo e la concezione platonica dell'anima come entità separata e immateriale. Etica e politica Le scienze pratiche come la politica o l'etica assunsero invece lo status di "scienza" unicamente per analogia, come dimostrano le nozioni aristoteliche di "natura umana" e "realizzazione di sé": l'appartenenza alla natura umana comporta per ognuno la capacità di assumere abitudini che, tuttavia, dipendono dalla cultura e dalle scelte individuali; tutti gli uomini desiderano la "felicità", una piena realizzazione delle loro potenzialità, ma questo fine può essere conseguito in molteplici modi. L'Etica nicomachea è un'analisi del carattere e dell'intelletto in relazione alla felicità. Aristotele distinse due tipi di "virtù", o perfezione umana: morale e intellettuale. La virtù morale è una disposizione del carattere, prodotta da abitudini che riflettono l'adozione permanente di scelte considerate moralmente preferibili, e costituisce sempre il giusto mezzo fra due estremi meno consigliabili. Le virtù intellettuali, invece, non sono soggette a questa dottrina del giusto mezzo. In politica, ovviamente, si possono trovare molte forme del vivere umano associato; quale sia quella conveniente dipende da circostanze contingenti e mutevoli. Aristotele non considerò la politica come una ricerca del modello ideale di comunità politica, ma piuttosto come un esame del rapporto fra esempi concreti di comunità politica da una parte e leggi, costumi e caratteristiche ideali dello stato dall'altra. Così, benché avesse accettato l'istituzione a lui contemporanea dello schiavismo, egli moderò la sua approvazione insistendo sul fatto che i padroni non dovrebbero abusare della loro autorità, poiché gli interessi dei padroni e quelli degli schiavi sono i medesimi. La biblioteca del Liceo conteneva una raccolta di 158 costituzioni sia greche sia di altri stati, tra le quali la Costituzione degli ateniesi scritta dallo stesso Aristotele, della quale fu scoperta una copia scritta su papiro nel 1890. L'opera è stata di grande aiuto a vari storici nella ricostruzione di molte fasi della storia di Atene. Poetica Così come la retorica, esaminata nell'omonimo scritto aristotelico, è considerata estremamente importante per la prassi politica e la vita quotidiana del cittadino, la Poetica, di cui possediamo un solo libro rispetto ai due di cui si componeva originariamente, presenta la visione dell'arte (in particolare dell'arte tragica) dello stagirita. L'arte è considerata un'imitazione della natura secondo verosimiglianza, che arreca diletto e nel contempo trasmette conoscenza. L'arte tragica, in particolare, mette in scena le passioni umane, lasciando comunque trapelare un ordine razionale nel susseguirsi degli eventi. Lo spettatore, per via della verosimiglianza del materiale tragico, è spinto a immedesimarsi nella vicenda fino a ottenere la "catarsi", un liberatorio distacco dalle passioni rappresentate, che interviene nel momento in cui si coglie la razionalità celata negli eventi. Proprio per questo valore conoscitivo la poesia è "più filosofica" della storia. Aristotele è anche noto per aver formulato la dottrina delle "tre unità" della tragedia (di luogo, di tempo e di azione) che hanno dominato incontrastate la storia della drammaturgia fino al nostro secolo. Nella tradizione filosofica occidentale gli scritti di Aristotele furono tramandati soprattutto grazie all'opera di Alessandro di Afrodisia, Porfirio e Boezio. Durante il IX secolo d.C. alcuni studiosi arabi diffusero le opere di Aristotele nel mondo islamico in traduzione araba. Il filosofo arabo Averroè è il più noto fra gli studiosi e commentatori arabi di Aristotele. Nel XIII secolo, proprio a partire da queste traduzioni, l'Occidente latino rinnovò il proprio interesse per gli scritti di Aristotele e san Tommaso d'Aquino trovò in essi un fondamento filosofico per il pensiero cristiano. L'influenza della filosofia aristotelica è stata notevole e ha perfino contribuito a forgiare il linguaggio e il senso comune della modernità: la sua dottrina del motore immobile quale causa finale ha esercitato un ruolo fondamentale in ogni sistema di pensiero basato su una concezione teleologica dei fenomeni naturali e per secoli il termine "logica" fu sinonimo di "logica aristotelica". Si può dire che Aristotele abbia contribuito in modo determinante a costituire frammenti dispersi nelle discipline sistematiche e nei saperi metodologicamente ordinati quali l'Occidente li intende. Nel XX secolo si ebbe una nuova reinterpretazione del metodo aristotelico che fu una riscoperta della sua rilevanza per la cosmologia, la pedagogia, la critica letteraria e la teoria della politica. OPERE Le opere di Aristotele pervenute fino a noi fanno parte delle lezioni tenute all'Accademia ed al Liceo. In parte furono redatte dai suoi allievi, lo stile non è quindi sistematico, e talvolta oscuro, anche, se nel complesso, si presentano come un tentativo di sistematizzare tutto il sapere filosofico e scientifico del tempo, e di fissare le regole del ragionare e dell'esprimersi. Si possono suddividere in due grandi categorie: - scritti acromatici o esoterici (rivolti agli allievi) - scritti essoterici (destinati al pubblico) Le opere essoteriche, destinate alla pubblicazione, sono andate in buona parte perdute (ci restano solo pochi frammenti e alcuni titoli) e ci sono note solo attraverso testimonianze e citazioni di altri autori. Ci sono invece pervenuti gli scritti (detti esoterici) dei quali Aristotele si servì nelle sue lezioni, rivolte a un pubblico selezionato di allievi. La fama di Aristotele è dovuta essenzialmente a questo secondo gruppo di opere, che fanno riferimento a insegnamenti relativi a quasi ogni campo del sapere. Gli scritti acromatici possono essere così raggruppati: 1. I Trattati di logica denominati Organon ("strumento"), poiché forniscono i mezzi mediante i quali è possibile ottenere una conoscenza certa: Categorie, Interpretazione, Analitici primi (sul sillogismo), Analitici secondi (sulla dimostrazione), Topici (sulla dialettica) e Confutazioni sofistiche (lo studio dei metodi contraffatti del confutare). 2. Opere di fisica: Fisica (fenomeni della natura e la loro interpretazione), Il cielo (astronomia e cosmologia), Nascita e morte, Meteorologia, Storia degli animali, Generazione degli animali (genetica), Parti degli animali (anatomia e fisiologia), Locomozione degli animali, L'anima (brevi trattati di psicofisiologia), Il senso, La memoria. 3. Metafisica (sui problemi filosofici della fisica). Riguardano il fine e gli attributi dell'essere, la trattazione del motore immobile, o causa prima, che nell'opera aristotelica viene inteso come intelletto puro, perfetto nella sua unità, immutabile (nell'edizione di Andronico furono raccolti sotto il titolo di Metafisica, poiché erano collocati dopo, in greco méta, la Fisica) 4. Opere morali, politiche, di poetica e di retorica: Etica eudemea, Etica nicomachea, Grande etica, Politica (l'arte del governare lo stato), Poetica (l'arte e le regole di scrivere in versi), Retorica (l'arte del parlare e dello scrivere, consistente nel sapere esporre con eleganza le proprie idee, disponendole secondo schemi logici), Costituzione degli ateniesi. UNITA’ 3 PARTE 8 LA SOFISTICA Si possono individuare sette caratteri dominanti della sofistica (il nome deriva da sophía: sapienza, in quanto coloro che la professano si proclamano "sapienti"). 1. I sofisti colgono il momento di crisi della filosofia della natura, che non trova alcun accordo sui principi di fondo, e spostano l'asse tematico della filosofia dallo studio del cosmo a quello dell'uomo, come essere individuale e come membro della società (interpretando così l'evoluzione storica di molte città-stato, e in particolare di Atene, con l'ascesa della classe popolare). 2. Dal punto di vista metodologico sostituiscono il metodo deduttivo (che da una proposizione generale "deduce" gli aspetti particolari) con quello induttivo (che costruisce la proposizione generale a partire dagli aspetti particolari), prestando una particolare attenzione all'esperienza e all'osservazione dei fatti umani. 3. Alla conoscenza, pertanto, attribuiscono finalità pratiche, di conoscenza morale, e non più teoretiche, di speculazione sulla natura e sull'essere. 4. Questa prospettiva pratica si traduce per lo più in un impegno educativo e pedagogico, rivoluzionario perché teso a insegnare la virtù (areté), che fino ad allora era ritenuta ereditaria e non insegnabile. 5. I sofisti si qualificano come educatori professionisti, maestri di virtù, che pretendono un compenso per le loro prestazioni. 6. I sofisti sono portatori di un ideale panellenico, di per sé innovativo, perché non si sentono legati a una data pólis e viaggiano di città in città in tutto il mondo greco. 7. Infine, il decisivo carattere della sofistica può essere identificato nell'uso spregiudicato della ragione, rivolto alla critica di ogni istituzione, convenzione e anche dogma filosofico che non sia completamente fondato. Il risultato di questa loro attitudine è un prevalente relativismo in ambito etico, conoscitivo e culturale (il bene e il male, il vero e il falso non sono ritenuti assoluti, poiché i valori che presiedono alle diverse civiltà umane sono i più disparati) e un'attitudine utilitaristica (solo la ricerca dell'utile per sé e per la pólis può ragionevolmente guidare l'azione umana). UNITA’ 3 PARTE 9 ERODOTO Figlio di Lisse e congiunto del poeta epico Paniassi, nacque ad Alicarnasso di Caria nel 484 ca a.C., all'epoca in cui la regione era dominata da una dinastia fedele alla Persia. La famiglia di Erodoto prese parte alla insurrezione contro il regime; Paniassi vi perse la vita ed Erodoto dovette riparare a Samo. Dopo numerosi viaggi di studio che lo portarono dalla Mesopotamia alla Scizia, all'Egeo settentrionale, giunse ad Atene. Conobbe Sofocle ed entrò in contatto con la cerchia d'intellettuali attivi intorno a Pericle, per impulso del quale, tra l'altro, fu fondata nel 444-443 a.C. la colonia di Turi in Magna Grecia, nella quale Erodoto si trasferì, all'atto della fondazione della città o forse subito dopo. Non è nota la data della sua morte, che dovette comunque essere posteriore al 430, visto che Erodoto mostra di conoscere vicende relative alla prima fase della guerra del Peloponneso. È anche discusso se sia morto a Turi o ad Atene, dove forse avrebbe fatto ritorno. • Le Storie L'opera erodotea non possedeva all'origine un titolo: il termine “storia” (in greco historía, ricerca, indagine) è desunto delle prime righe della sua introduzione. Non è dovuta a Erodoto, bensì ai filologi alessandrini, la partizione dell'opera in nove libri, ciascuno dei quali fu intitolato al nome di una musa. L'articolazione della materia e soprattutto la frequenza delle digressioni ha fatto ritenere che l'opera erodotea non sia nata da un progetto unitario, ma sia il risultato della giustapposizione di unità narrative (i lógoi) nate autonomamente e incentrate su interessi etnografici e geografici, secondo l'uso dei logografi. Secondo altri studiosi, invece, Erodoto avrebbe inteso comporre una storia della Persia, della sua ascesa e delle sue vittoriose conquiste fino allo scontro con la Grecia; l'incontro dello storico con il mondo ateniese e le profonde suggestioni assorbite avrebbero poi determinato uno spostamento di interesse e le ampie digressioni. • L'eredità dell'epos Qualunque sia stata la genesi dell'opera, è certo che essa fu diffusa oralmente, in recitazioni pubbliche. Sotto questo aspetto Erodoto è erede della tradizione epica: come gli aedi antichi, anche lo storico muove dall'esigenza di sottrarre all'oblio le “opere grandi e meravigliose”. Anch'egli avverte il fascino del raccontare, l'esigenza di suscitare in chi ascolta commozione e stupore: per questo indulge all'elemento fantastico o dà spazio a numerosi inserti novellistici, ricordo di antiche forme di narrazione popolare, spesso di origine orientale. Ma, a differenza di quanto avviene nell'epos, gli eventi narrati sono ormai di uomini e di popoli: per questo richiedono una documentazione. Erodoto distingue tra le notizie conosciute per visione diretta (ópsis) e quelle acquisite per testimonianza orale (akoè); se le testimonianze raccolte contrastano fra loro, sceglie quelle che sembrano più attendibili. Raramente opera su fonti scritte o documenti ufficiali e, nella congerie di dati talvolta contraddittori, si limita a segnalare “quanto si racconta” senza operare una selezione critica. La sua storia, mossa da una curiosità inesauribile e sensibile a criteri di verosimiglianza, non possiede però ancora una metodologia scientifica rigorosa. • Erodoto e il suo tempo Se la ricchezza della narrazione erodotea rimanda alla cultura ionica di cui lo storico è figlio, lo sfondo concettuale della sua opera si collega alla cultura attica. Contigua a quella della tragedia, in particolare di Sofocle, è la sua visione pessimistica della vita umana; il fato determina le vicende dell'esistenza e la libertà dell'uomo sta nell'accettazione consapevole, dunque responsabile, del proprio destino. Il superamento del limite porta all'accecamento della colpa e alla desolazione della pena; allora, dal massimo livello di felicità e fortuna, l'uomo precipita al massimo dell'infelicità. Dalla sofistica Erodoto mutua il concetto di relatività dei costumi e delle leggi, mentre sostiene i concetti di libertà, di democrazia, di eguaglianza dei cittadini sotto la legge. Erodoto in generale, condivide con l'ambiente politico e culturale dell'Atene di Pericle l'orgogliosa consapevolezza dei meriti della città nella vittoria sull'aggressore persiano. • La lingua e lo stile Erodoto scrisse in dialetto ionico, con numerosi inserti attici e frequenti forme attinte al linguaggio epico e poetico. Lo stile, con le sue frequenti paratassi, è semplice e piano: la sua mirabile fluidità fu già celebrata dagli antichi. Il piacere di raccontare a volte cede ad un voluto compiacimento. Ma si deve riconoscere che la narrazione procede con molta misura. UNITA’ 3 PARTE 10 TUCIDIDE Tucidide viene definito da Cicerone "storico degno di fede" (Bruto, 47). Non è uno storico siciliano, ma attira la nostra attenzione in quanto autore di una storia della guerra del Peloponneso, nella quale - come Polibio egli affronta gli avvenimenti storici escludendo ogni riferimento a volontà divine, coadiuvanti delle gesta umane. Per questa sua modernità, e per l'aiuto che fornisce a coloro che si interessano anche alla storia della Sicilia è ovvio per noi tracciarne un breve profilo. Tucidide, nato nel 460 a.C. ad Atene e morto nel 395 a.C. circa, originato da nobile famiglia - imparentata con Milziade, vedi Pindaro - dedicò costantemente ogni sua energia intellettuale, per tutto il suo tempo mortale, alla stesura della sua opera. In giovane età ebbe l'incarico militare di difendere la città di Anfipoli e la Calcidica: sconfitto da Brasida, venne accusato di tradimento, e costretto all'esilio in Tracia. Iniziò così ad ordinare i dati per la sua opera: con la sua elaborazione storiografica offre un esempio di storico dal temperamento risoluto, e consapevole della importanza della sua funzione culturale. Viene considerato superiore a Polibio per l'aver evitato ogni moraleggiare intorno agli avvenimenti narrati ed analizzati con discreta concisione. La sua opera consta di otto libri, ma quelli cui puntiamo il nostro interesse sono il VI ed il VII tomo, dedicati alla spedizione ateniese in Sicilia, fino al 413 a.C. In quell'anno, la guerra iniziata tra Atene e Sparta nel 431, si trascina fino in Sicilia. Nell'estate del 413 la flotta ateniese, nel porto Grande di Siracusa, viene distrutta. Anche sulla terraferma, nei pressi del fiume Assinaro, gli ateniesi condotti da Nicia e Demostene vengono sconfitti da truppe siceliote comandate dallo spartano Gilippo. Altri eventi porteranno alla resa di Atene nel 404; ma ciò che per la nostra storia della letteratura più conta è il prestigio che la già forte Siracusa da tali avvenimenti ricava. Prestigio guadagnato anche in seguito, con le vittorie ottenute a spese dei Cartaginesi nel 397 e nel 383, quando era tiranno della città Gelone. Nuove colonie nacquero con gli spostamenti delle navi e dei sicelioti siracusani: a Porto Vecchio (Corsica), ad Ancona e ad Adria. I successivi progressi in campo economico e sociale porteranno Siracusa ad avere una corte che attirerà per ricchezza ed ospitalità molti degli ingegni di cui stiamo trattando. Ciò che Eraclito, colla sua visione di un mondo in continuo cambiamento, è per la filosofia, così Tucidide appare agli occhi degli storici suoi successori. La storia si rinnova in eterno, per lui, ed il tutto muta riguarda bene anche il costituirsi ed il dissolversi degli imperi: concezione che pare piuttosto ovvia a chiunque non sia portato alla ricerca di un potere. Oltre che da Polibio, Tucidide si differenzia anche da un altro grande storico dell'antichità: Erodoto. Questi, tra gli avvenimenti che ritiene degni di nota, cita anche quelli ai quali non può accedere per una verifica: come i fatti riportati dalla tradizione. Tucidide è moderno invece anche nel vagliare la attendibilità delle fonti, con razionale attenzione. Gran merito suo è, inoltre, quello di aver saputo dividere gli avvenimenti della guerra del Peloponneso in guerra archidamica e guerra deceleica, intervallate dalla pace conclusa dal generale Nicia nel 421 a.C. (valoroso che morì nella sopra ricordata sconfitta ateniese in Sicilia). Tucidide si arrischiò anche a prendere una posizione nei confronti di quegli avvenimenti che a volte accadono contravvenendo alle umane aspettative razionali, quando accade che un esercito debole riesca a vincere una battaglia contro quello più dotato: per Tucidide se a volte il forte perde, rimane solo danneggiato, mentre lo stesso non è per il debole, che viene annientato. E ancora, Tucidide crede fermamente che è la legge del più forte che domina i destini delle nazioni; e ciò a dispetto della giustizia: "Non stabilimmo noi ( gli ateniesi n.d.A.) tale legge (del più forte n.d.A.) e neppure ci distinguiamo nel volerla applicare: c'era e ci sarà, in quanto è voluto dalla natura che gli uomini più forti esercitino il potere". Traspare costante un tono di ammirazione per la propria gente, che in passato aveva saputo fronteggiare pericoli immani, in solitudine, contro i Persiani: "Ad Atene noi rettamente riflettiamo e apertamente giudichiamo sugli affari privati e pubblici, convinti che i discorsi non nuocciono all'operare, ma ad esso nuoce piuttosto il passare ai fatti, prima di aver chiarite nei discorsi le idee. Poiché noi abbiamo questo pregio singolare, di essere insieme al sommo ardimentosi e riflessivi in tutto quanto intraprendiamo; diversi perciò dagli altri nei quali l'ignoranza genera audacia e la ponderazione lentezza". E non mancano i giudizi sulle condotte dei governi; viene elogiata la virtù politica, guidata dalla magnanimità dei potenti di turno; con la consapevolezza che ogni guerra, ogni insanguinato traguardo, prima o poi svanirà col trascorrere dei secoli, se non dei decenni o dei lustri. Ecco perchè è importante l'onore e la gloria che da esso ne consegue, in pace come in guerra, a lasciare traccia veramente duratura dopo fatiche, e lutti, e tragedie immani. "Amiamo il bello, noi, ma sempre con semplicità; ed amiamo la conoscenza, ma senza oziare. Le nostre ricchezze ci servono più per essere maggiormente attivi che per mostrarci vanitosi; e la povertà da noi confessata non ci rende vergognosi, ma più risoluti nel lavoro". Infine riviviamo una delle più antiche pagine di storia che riguardano i nostri padri; si tratta di un brano tratto dal VII libro di Tucidide, nella traduzione di C. Coppola (Le più belle pagine della lett. greca classica, Nuova Accademia Editrice, 1962); siamo negli anni 414, 413 a.C.: "Durante la notte, Nicia e Demostene, tenuto conto delle condizioni pietose in cui si trovavano le truppe per la mancanza di vettovaglie e per il gran numero dei feriti a seguito dei ripetuti attacchi nemici, decisero di accendere fuochi quanti più fosse possibile e di battere in ritirata con l'esercito, non per la via che avevano deciso precedentemente, ma in senso contrario a quello dove c'era il blocco dei Siracusani, cioè verso il mare. La direzione generale di questa strada non portava le truppe a Catania, ma dalla parte opposta della Sicilia, verso Camarina e Gela e altre città, greche e barbare (i Greci per barbari intendevano tutti coloro che non appartenevano ad uno dei gruppi ellenici; n.d.A.). Accesi dunque molti fuochi, marciavano di notte. Ed ecco che fra le truppe si diffuse un grande panico, come suole accadere in genere agli eserciti, specialmente se numerosi, quando marciano di notte in terra ostile e col nemico alle costole. Le truppe di Nicia, in testa alla colonna, restavano salde e perciò si avvantaggiarono di molto, mentre quelle di Demostene, che costituivano il grosso, più della metà dell'esercito, s'erano sparpagliate e avanzavano in disordine. All'alba, tuttavia, giungono in vicinanza del mare, e imboccano la strada detta di Eloro, con l'intento di guadagnare il fiume Cacipari e quindi, lungo il fiume, di inoltrarsi nell'interno. La speranza era che qui venissero loro incontro i Siculi ai quali avevano fatto appello. Ma, giunti che furono al fiume, trovarono anche qui un presidio siracusano che stava chiudendo il guado con muri e palizzate. E tuttavia riuscirono a forza a passare il fiume e ripresero la marcia verso un altro fiume, l'Erineo. Questa era la direzione consigliata dalle guide. Intanto i Siracusani e gli alleati, appena sul far del giorno si accorsero della scomparsa degli Ateniesi, accusarono in gran parte Gilippo di averli volontariamente lasciati partire. Datisi quindi ad un rapido inseguimento per la via che senza difficoltà capirono esser quella presa dagli Ateniesi, li raggiunsero all'ora del rancio e attaccarono subito le truppe della retroguardia di Demostene, che avanzavano in gran lentezza e disordine, per il panico della notte precedente. Piombarono subito loro addosso e attaccarono, mentre la cavalleria li circondava con facilità, isolati com'erano dal grosso, riuscendoli a concentrare in un sol punto. Le truppe di Nicia si trovavano avanti, a cinquanta stadi, perché egli avanzava più rapidamente, convinto com'era che la salvezza era riposta non nell'attendere deliberatamente il nemico e attaccar battaglia, ma nel ritirarsi con la maggior celerità possibile e combattere solo se costretti. (...). Mentre queste truppe (prigioniere, di Demostene; n.d.A.) vengono subito dirette verso la città, Nicia e i suoi, nello stesso giorno giungono al fiume Erineo, lo varcano e pongono gli accampamenti in una posizione elevata. I Siracusani li raggiunsero il giorno dopo, gli fecero sapere che Demostene si era arreso coi suoi e l'invitarono a fare lo stesso. Non lo credette Nicia e ottenne una tregua per mandare un cavaliere ad accertarsi di quanto gli era stato riferito. Tornato che fu, il cavaliere confermò la resa, e quindi Nicia mandò araldi a Gilippo (comandate degli alleati spartani; n.d.A.) e ai Siracusani annunziando di esser pronto a concludere un accordo a nome degli Ateniesi, nei seguenti termini: risarcimento delle spese di guerra sostenute dai Siracusani e liberazione del suo esercito: fin quando non venisse consegnato il denaro, proponeva di dare in ostaggio cittadini ateniesi, uno per talento. I Siracusani e Gilippo non accettarono queste condizioni, ma, piombati addosso agli Ateniesi e accerchiatili da ogni parte, li tennero sotto il loro tiro fino a tarda ora. Anche queste truppe di Nicia si trovavano a corto di vettovaglie e mancavano del necessario. E tuttavia, spiato di notte un momento di calma, si accingevano a muoversi, quando i Siracusani, accortisi che riprendevano le armi, intonarono il peana (canto di guerra; n.d.A.). Visto che non erano passati inosservati, gli Ateniesi deposero di nuovo le armi, tranne circa trecento uomini che riuscirono a forzare i posti di guardia nemici e si avviarono dove poterono. Sul far del giorno, Nicia riprese la marcia, mentre i Siracusani e gli alleati li premevano allo stesso modo da ogni parte, sempre con tiri di frecce e giavellotti. Gli Ateniesi cercavano di raggiungere a marce forzate il fiume Asinaro, sempre premuti dagli attacchi dei cavalieri, che sbucavano da ogni parte, e dal resto dell'esercito nemico: pensavano che, passato il fiume, avrebbero migliorato la loro situazione, stanchi com' erano e assetati. Giunti che furono al fiume, vi si buttarono dentro disordinatamente: ognuno cercava per conto suo di passare per primo, mentre i nemici, sempre presenti, rendevano ormai difficile la traversata. Costretti ad avanzare in massa cadevano gli uni sugli altri e si calpestavano a vicenda. Alcuni infilzandosi nei propri giavellotti o nelle altre armi, o perivano subito o, impacciati com'erano, venivano trascinati giù dalla corrente. I Siracusani, appostati sulla riva opposta che era scoscesa, colpivano dall'alto gli Ateniesi, mentre in gran parte erano intenti a bere avidamente e si ostacolavano a vicenda, chiusi com'erano nel letto incassato del fiume" (...). Tanto sangue, infine, per lavarci gli occhi dalle illusioni di ere felici vissute tra amori e bevute, canti e spettacoli teatrali. Dei tanti uomini spazzati via, umile è rimasto invece il lavoro, la roccia scolpita dalle loro dissolte mani, forgiando teatri e templi; che nei loro incavi ancora mostrano l'ombra delle dita umanissime. UNITA’ 3 PARTE 11 DEMOSTENE Demostene nacque ad Atene nel 384 a.C. da una famiglia ricca per la proprietà di alcune fabbriche di armi, oltre che per beni immobiliari. Rimasto tuttavia orfano all’età di sette anni, lui e l’unica sorella più piccola furono affidati ai nipoti del padre Afobo e Demofonte ed all'amico Terippide, poichè a questi ultimi il padre aveva affidato il compito di amministrare il proprio patrimonio, uno dei più cospicui di Atene, e di esercitare la tutela sui figli. Raggiunta la maggiore età, Demostene ricevette in eredità la casa, gli schiavi e la somma di trenta mine, come unico residuo dei beni paterni. Egli, allora, decise di citare in giudizio i suoi tutori, dedicandosi con intensità davvero notevole al processo. Di tale dibattimento, estremamente lungo, ci sono giunte cinque orazioni, non tutte tuttavia attribuibili con certezza a Demostene. La prima è l’accusa Contro Afobo, del 363 a.C., che, insieme alla breve replica ( Contro Afobo II ), rappresenta la più antica testimonianza dell’attività oratoria di Demostene. La complessa vertenza legale continuò con altre tre orazioni, Contro Afobo per Fano, e i due discorsi Contro Onetore. Alla conclusione del processo Demostene decise di intraprendere la professione di logografo: si può dunque supporre che il nostro oratore non fosse riuscito a recuperare il suo patrimonio. Della sua attività logografica ci restano, oltre a quelle già citate, un corpo di 28 orazioni, parecchie delle quali, ancora una volta, presentano però attribuzione incerta. La fama conquistata con la logografia fece sì che Demostene potesse passare ben presto all’attività di oratore politico, che esercitò dal 355 al 330 a.C., come capo indiscusso del partito antimacedone e convinto assertore del primato politico ateniese nell’Ellade. Proprio a causa della sua ostilità contro Filippo si originò la violenta polemica fra lui ed Eschine, che si concluse con la sconfitta e l’esilio di quest’ultimo. Tuttavia anche Demostene dovette abbandonare Atene poco tempo dopo, in conseguenza dello scandalo di Arpalo; ma vi rientrò da trionfatore nel 323, dopo la prematura scomparsa di Alessandro, riprendendo il suo ruolo nell’opposizione armata contro la Macedonia. Ma l’intervento di Antipatro e di Cratero ebbe ben presto ragione della rivolta: le rappresaglie costarono la vita anche ad Iperide. Demostene tentò la fuga nell’isola di Calauria, presso Trezene, e per non farsi catturare vivo si suicidò col veleno nel tempio di Posidone, nell’autunno del 322 a.C. UNITA’ 3 PARTE 12 SOCRATE Socrate nacque nel 470 / 469 a.c. da Sofronisco , scultore , e Fenarete , levatrice . Dapprima esercitò forse il mestiere del padre , ma successivamente l'abbandonò per dedicarsi esclusivamente all'indagine filosofica . Non di rado dovette quindi ricorrere all'aiuto economico di amici . Sposò Santippe , che una certa tradizione tende a presentare come donna bisbetica e insopportabile : si è arrivati a pensare che Socrate stesse sempre in piazza non tanto per filosofare quanto piuttosto per stare lontano da Santippe e dalle sue ramanzine continue : pare che Socrate sia riuscito a far ragionare tutti tranne Santippe . Da lei ebbe tre figli . Socrate non lasciò mai Atene se non per brevi spedizioni militari : partecipò infatti nel 432 alla spedizione contro Potidea , traendo in salvo Alcibiade ferito , e nel 424 combattè a Delio a fianco di Lachete durante la ritirata degli Ateniesi di fronte ai Beoti . Successivamente nel 421 combattè ad Anfipoli . Nel 406 in conformità al principio della rotazione delle cariche , fece parte dei pritani , ossia del gruppo del Consiglio al quale spettava decidere quali problemi sottoporre all'Assemblea e si oppose alla proposta illegale di processare tutti insieme i generali vincitori nello scontro navale avvenuto al largo Arginuse , perchè non avevano raccolto i naufraghi . Con questa presa di posizione egli si poneva in contrasto con i democratici , ma nel 404 , passato il potere in mano all'oligarchia capeggiata dai Trenta , rifiutò di obbedire all'ordine di arrestare un loro avversario , Leone di Salamina . Nel 403 la democrazia restaurata , pur concedendo un'amnistia , continuò a ravvisare in Socrate una figura ostile al nuovo ordine , anche per i rapporti da lui intrattenuti in passato con figure come Alcibiade e Crizia . Nel 399 fu presentato da Meleto un atto di accusa contro Socrate , ma tra i suoi accusatori erano anche Licone e soprattutto Anito , uno dei personaggi più influenti della democrazia restaurata . L'atto di accusa è il seguente : " Socrate è colpevole di essersi rifiutato di riconoscere gli dei riconosciuti dalla città e di avere introdotto altre nuove divinità . Inoltre è colpevole di avere corrotto i giovani . Si richiede la pena di morte " . Gli accusatori contavano probabilmente in un esilio volontario da parte di Socrate , com'era avvenuto in passato per Protagora o Anassagora , ma egli non abbandonò la città e si sottopose al processo . A maggioranza i giudici votarono per la condanna a morte la quale fu eseguita in carcere mediante la somministrazione di cicuta . Possiamo inserire Socrate nell'era sofistica (sebbene lui si schierò contro i sofisti) perchè come i sofisti si interessò di problemi etici ed antropologici , mettendo da parte la ricerca del principio e della cosmogonia . Socrate non scrisse mai nulla e così per ricostruire il suo pensiero dobbiamo ricorrere ad altri autori . Le fonti principali sulla vita di Socrate sono quattro 1) Platone 2)Senofonte 3)Aristotele 4)Aristofane . 1) Platone è senz'altro la fonte più attendibile : egli fu discepolo diretto di Socrate e con lui condivise sempre l'idea della filosofia come ricerca continua . Senofonte è la fonte più banale e meno interessante : il Socrate degli scritti di Senofonte è un cittadino ligio alla tradizione , il vero interprete dei valori correnti , il saggio che mira al bene dei suoi concittadini ed è ossequioso verso la città e le sue divinità . Va subito precisato che Senofonte era un grande generale , coraggioso e valoroso , ma non era certo un'aquila : i suoi scritti stessi non sono certo esempi eclatanti della letteratura greca : sono ridondanti e ripetitivi . Senofonte fece anche campagne militari con Socrate e nei suoi scritti ne esalta il valore dicendo che non stava mai fermo , era sempre in azione , non soffriva niente (camminava addirittura a piedi nud sul ghiaccio) . A Senofonte della filosofia non gliene importava nulla e con Socrate , di cui era grande amico , non trattava mai argomenti filosofici , ma solo militari : questo ci consente di capire che Socrate modulava il discorso a seconda del personaggio che aveva di fronte : con un filosofo parlava di filosofia , con un generale di guerra . 3) La testimonianza di Aristotele è stata a lungo ritenuta la più attendibile perchè Socrate non viene caricato di significati simbolici : Aristotele ce ne parla in modo oggettivo . Tuttavia la testimonianza aristotelica ha dei limiti : in primis , è la meno " artistica " delle 4 ed è l'unica di un non-contemporaneo . Va poi detto che in Aristotele Socrate ci viene presentato quasi come un " robot " : la filosofia socratica viene presentata come un susseguirsi di ragionamenti e non viene dato spazio al filosofare in pubblico , al dialogo aperto . 4) Aristofane è il personaggio più vicino a Socrate come età : ci presenta un Socrate relativamente giovane (circa 40 anni) . Va ricordato che Aristofane era un commediografo e ne risulta che l'immagine che lui ci dà di Socrate è fortemente impregnata di tratti sarcastici . Ne " Le nuvole " ce lo presenta come un sofista studioso della natura (il contrario di ciò che era in realtà) , con la testa fra le nuvole . Insomma Aristofane è l'unico a darci di Socrate un'immagine fortemente negativa (non a caso Aristofane era stato uno dei primi accusatori di Socrate) . In realtà non dobbiamo pensare che Aristofane volesse gettar discredito su Socrate o lo prendesse in giro per cattiveria : in fondo lui faceva solo il suo lavoro di commediografo , che consisteva nel far ridere . In realtà con la figura di Socrate vuole prendere in giro non Socrate , ma l'intera categoria dei filosofi . La testimonianza di Platone resta la migliore e le altre tre vanno sfruttate come appoggio . Platone lo conosceva davvero bene ed era lui stesso un gran filosofo : il grosso limite è che trattandosi di un filosofo , Platone avrebbe potuto rimaneggiare i discorsi di Socrate , ed è proprio quel che fa man mano che invecchia . " L'apologia " , per fortuna , resta un dialogo giovanile nel quale Platone descrive il processo che decretò la condanna a morte di Socrate . E' proprio in questo dialogo che emerge fortemente la differenza tra Socrate ed i sofisti : i sofisti pronunciavano discorsi raffinati ed eleganti , ma totalmente privi di verità : per loro l'importante era parlar bene , avere un buon effetto sulle orecchie degli ascoltatori . Per Socrate invece quel che più conta è la verità : lui si proclama incapace di controbattere a discorsi così eleganti e ben formulati (ma falsi) . Socrate , pur non tenendo un'orazione raffinata , dice il vero : la critica ai sofisti verrà poi ripresa da Platone stesso . I sofisti puntavano a stupire l'ascoltatore , dal momento che erano convinti che la verità non esistesse (soprattutto Gorgia . Socrate per difendersi in tribunale non pronuncia un discorso (come i sofisti) , ma imposta un dialogo botta e risposta : è proprio dal discorso che viene a galla la verità (Platone dirà che il discorso tra due o più individui è come lo scontro tra due pietre dal quale nasce la fiamma della conoscenza) . Lo stile oratorio di Socrate è scarno , secco e quasi familiare , modulato a seconda dell'interlocutore . Il punto di partenza del discorso socratico è la cosiddetta " ironia socratica " , ossia la totale autodiminuzione , " io non so , tu sai " . Così inizia anche " L'apologia" : si pone la domanda "che cosa è x ?" e l'interlocutore cade nel tranello e risponde , sentendosi superiore a Socrate . Socrate , come abbiamo detto parlando di Senofonte , parla di argomenti noti all'interlocutore : se ad esempio parla con un generale gli chiederà " che cosa è il coraggio ? " . Quello risponderà , per esempio , dicendo che il coraggio è il non indietreggiare mai . Allora Socrate interverrà dicendo che quello non è coraggio , bensì pazzia . La critica diventa stimolo per l'interlocutore a fornire una seconda risposta meglio articolata : il gioco può andare avanti a lungo e spesso rimane aperto . Questo metodo viene detto " maieutico " : Socrate diceva di fare lo stesso lavoro della madre , la quale era ostetrica : lei faceva partorire le donne , lui le anime . Come le ostetriche valutano se il neonato è " buono " , così Socrate valuta se le idee , le definizioni sono buone . Non tutti gli interlocutori erano intelligenti e riconoscevano i propri errori : spesso preferivano evitare Socrate . Da un interlocutore Socrate fu anche denominato " torpedine " in quanto l'incontro con Socrate risulta scioccante perchè ribalta le concezioni di chi era convinto di sapere e dimostrava che in realtà non sapeva . Socrate stesso si paragonava ad un moscone che stimola il cavallo : lui stimolava gli uomini a ragionare . Socrate con il processo dell'autodiminuzione afferma di non sapere nulla , mentre sostiene che i sofisti sappiano tutto : dice che forse l'educazione che impartisce lui è inutile rispetto a quella sofistica , ma senz'altro è più importante . Le calunnie nei confronti di Socrate hanno avuto inizio quando lui si definiva sapiente in quanto l'oracolo di Delfi gli aveva detto che era il più sapiente tra gli uomini . Lui era rimasto sconvolto da tale affermazione e non riusciva a crederci : allora cominciò a girare per Atene per vedere se trovava persone effettivamente più sapienti di lui . Dunque si recò da coloro che si ritenevano sapienti : politici , poeti , artigiani . Socrate si accorse che tutte e tre le categorie erano convinte di sapere , ma in realtà non sapevano niente : i politici erano i peggiori di tutti non in quanto politici (Socrate stesso , se vogliamo , era un politico perchè svolgeva la sua attività in pubblico) ma in quanto non capaci di insegnare il loro sapere : un vero sapiente deve spiegare ciò che sa : anche i politici migliori (Pericle) non sanno trasmettere il loro sapere . Lo stesso era per i poeti , che a partire da Omero erano considerati sapienti ed educatori : Socrate li biasima sia perchè dicono assurdità , sia perchè il loro non è un sapere , ma una forma di " follia ispirata " : era la divinità che parlava per bocca loro . I meno peggio risultarono essere gli artigiani , che almeno sapevano fare diverse cose di utilità pubblica : la loro è una " tecnè " , ossia una sapienza pratica . Però anche gli artigiani avevano i loro difetti : erano sì competenti nel loro settore , ma peccavano di presunzione perchè erano convinti che la loro conoscenza fosse universale ed illimitata , anzichè limitata . Inoltre essi agivano senza pensare e ponderare . Socrate arrivò alla conclusione che l'oracolo di Delfi aveva ragione : lui stesso è il più sapiente , pur sapendo di non sapere . Il suo non va interpretato come atteggiamento di rinuncia alla ricerca della verità , ma come segno di modestia intellettuale : è proprio il fatto di essere consapevoli della propria conoscenza che spinge l'uomo a sforzarsi di raggiungere la conoscenza ; se si è convinti di sapere già tutto non ci si sforzerà di migliorare . Tra le varie accuse che vengono mosse a Socrate c'è anche quella di corrompere i giovani nella piazza rendendoli peggiori : lui ribatte a questa accusa dicendo che non avrebbe motivo di fare ciò . Infatti se corrompesse i giovani finirebbe per vivere in una città di giovani corrotti , il che si ritorcerebbe contro lui stesso . Va senz'altro ricordato il cosiddetto " intellettualismo etico " di Socrate : secondo lui nessuno può compiere il male sapendo effettivamente di compierlo : nessuno potrebbe mai fare del male volontariamente . Un rapinatore rapina non pensando di fare del male , ma di fare del bene : è un errore intellettuale ritenere bene ciò che è male . E' un atteggiamento tipicamente cristiano-cattolico che si possa scegliere tra bene e male indistintamente . Dunque Socrate introducendo l'intellettualismo etico dimostra di aver agito per il bene della sua città . E' Socrate che ha scoperto il concetto moderno di anima ( yuch ) : in precedenza significava " soffio vitale " , ciò che fa vivere le cose ; il termine yuch assunse poi il significato di " immagine nell'Ade " , un'esistenza depotenziata . Per gli Orfici significava " demone " . A partire da Socrate fino al giorno d'oggi l'anima è diventata il nostro io : ci identifichiamo con l'anima . Secondo Socrate possiamo dividere i beni ed i mali in tre categorie a) dell'anima b) del corpo c) dell'esterno . Il corpo è lo strumento nonchè la prigione dell'anima . Il denaro , per esempio , è un bene esterno . In alcuni frangenti sembra che Socrate (e anche Platone ) rifiuti i beni materiali e del corpo , scegliendo quelli dell'anima ; in altre occasioni pare che possano essere accettati entrambe . Socrate , per esempio , pare che non disprezzasse il vino . Quest'ambiguità tra beni del corpo e beni dell'anima può essere spiegata affermando che i beni son tutti beni finchè non entrano in conflitto con altri : la ricerca del piacere fisico diventa un male quando la si antepone alla ricerca di quello intellettuale . Questo non vale solo per i beni , ma anche per il rapporto tra anima e corpo : il corpo per Socrate e Platone non va disprezzato , anzi va apprezzato perchè serve all'anima . Per il Cristianesimo la ricchezza è un male , per Socrate e Platone è un bene finchè non entra in conflitto con gli altri beni . Interessante è il concetto socratico di ingiustizia : essa non danneggia chi la subisce , ma chi la commette . La giustizia infatti dà un senso di piacere interiore e chi è ingiusto perde questo piacere , mentre chi subisce l'ingiustizia continua a provarlo . Questo vale anche per Platone . Tra le cose che Socrate dice di non sapere vi è la conoscenza dell'aldilà , di cosa c'è dopo la morte ( Platone dirà di essere in grado di dimostrare l'esistenza di un aldilà) . Per lui non è che se si vive una vita giusta si sarà premiati : si è già appagati dal vivere giustamente , la felicità che si prova perchè si è giusti è già una sorta di premio : Socrate dice che magari potrebbe esserci una vita ultraterrena , ma lui non lo sa . Tra le varie accuse rivolte c'era anche quella di ateismo e di empietà : Socrate infatti credeva nei demoni , che lui proclamava " figli delle divinità " . Lui dimostra che è un'accusa sbagliata dicendo che se crede nei demoni che sono figli delle divinità , è ovvio che creda anche nelle divinità : perchè ci sia il figlio (demone) , ci devono anche essere il padre e la madre (le altre divinità) . Ma che cosa era questo demone ? Abbiamo due testimonianze divergenti : per Platone era una sorta di angelo custode - coscienza personale che interveniva ogni qual volta Socrate stesse per sbagliare : si tratterebbe di una sorta di " aiuto privilegiato " che non tutti hanno : solo le persone per bene . E' un dono divino per i buoni . E' come se la divinità partecipasse alla vita umana . Per Senofonte invece il demone è un'entità che lo spinge ad agire in determinati modi : Senofonte intende ancorare fortemente Socrate alla credenza in un ordine divino e in un intervento divino nella vita umana . Per Socrate l'importante non è vivere , ma vivere bene : quando la nostra anima è sana , giusta , allora anche noi stiamo bene . Sempre Senofonte nei " Detti memorabili " riassume la prova dell'esistenza di Dio formulata da Socrate in questi termini : ciò che non è opera del caso postula una causa intelligente , con particolare riguardo al corpo umano che ha una struttura organizzata non casuale . Per questa sua origine l'uomo è ritenuto superiore a tutti gli altri animali ed è oggetto dell'interesse di Dio , come si deduce anche dalla possibilità di conoscere i suoi progetti sull'uomo ricorrendo all'arte della divinazione . Va notato che il Dio socratico ( inteso come intelligenza finalizzatrice ) è una sorta di elevazione a entità assoluta della psychè umana . Molti hanno notato che gli accusatori non volevano in realtà condannarlo a morte , ma semplicemente zittirlo . Ma Socrate non può accettare di essere zittito : il suo destino è andare in giro a colloquiare con la gente . Vivere bene per Socrate significa svolgere quest'attività e non rifiutare di essere colpevole significava non far perdere significato alla sua vita . Dal momento che era già vecchio e gli restavano pochi anni di vita , tanto valeva farla finita lì , ma non rinunciare ai suoi ideali . Mentre la ricerca di Platone si spingerà in un'altra dimensione , quella di Socrate rimane saldamente ancorata al mondo terreno : la sua mIssione è far capire ai cittadini ciò che fanno . In Socrate vi è poi un rifiuto della politica (che peraltro troveremo anche in Platone ) : fa infatti notare che lui stesso aveva avuto parecchi problemi con la politica : prima contro di lui si erano scagliati gli oligarchici , ed ora i democratici (nell'accusa ai danni di Socrate si possono scorgere istanze politiche : lui era un aristocratico e i democratici volevano punirlo ) . Pur avendo problemi con la politica , Socrate non dice che vada abolita . Prima dell'esecuzione della pena capitale , a Socrate era stata presentata la possibilità di evadere dal carcere , ma lui si era rifiutato : in lui infatti vi era il massimo rispetto per la legge , che non si deve infrangere in nessun caso . La legge può essee criticata , ma non infranta : di fronte ad una legge ingiusta non bisogna infrangerla , ma bisogna battersi per farla cambiare . Socrate afferma che sarebbe stato suo dovere far cambiare la legge e che non essendoci riuscito è giusto che lui muoia . Gli Ateniesi son convinti di essersi liberati di Socrate avendolo eliminato fisicamente , ma in realtà per liberarsene completamente avrebbero dovuto " ucciderlo filosoficamente " , batterlo a parole . In realtà volevano farlo tacere , ma han sortito l'effetto opposto : Platone infatti , che era intenzionato a dedicarsi alla vita politica , resterà sconvolto per condanna del maestro e si dedicherà alla filosofia . In Socrate vi è una vaga idea di provvidenza divina , ma non collettiva , bensì individuale : la divinità aiuta solo i migliori . Celeberrima è la conclusione dell' Apologia , in cui Socrate si rivolge ai suoi discepoli prima di essere giustiziato : " Ma ormai è ora di partire : io verso la morte , voi verso la vita . Chi di noi cammini a una meta superiore è oscuro a chiunque : non al mio dio ." Nel " Simposio " di PlatonePlatone Alcibiade afferma che Socrate non assomiglia a nessuno degli uomini del passato e del presente : è una figura nuova . Non si interessa di politica , ma non la disprezza , non rifiuta i festini , ma non vi si identifica ( nel " Simposio " tutti i convitati si addormentano , Socrate no ) . Soffermiamoci ora maggiormente sulla tecnica discorsiva di Socrate : la confutazione è la tecnica che dimostra l'inconsistenza del sapere dei propri interlocutori . Ma per arrivare a questo risultato bisogna partire dal metodo delle domande e delle risposte . " Che cosa è la giustizia ? " può essere il punto di partenza per il dibattito : porre questa o qualsiasi altra domanda del genere significa richiedere la definizione delle cose in questione , che però deve essere valida per tutti i casi particolari . In questo senso la ricerca di Socrate è stata interpretata da Aristotele come ricerca dell'universale , nell'ambito dei concetti e dei problemi morali . Gli interlocutori di Socrate si dimostrano incapaci di rispondere correttamente alla domanda sia perchè sottovalutano Socrate (che dice di essere inferiore) sia perchè rispondono citando casi particolari , anzichè la definizione universale . Abbiamo già citato il caso della domanda " Che cosa è il coraggio ? " : rispondere " non inditreggiare mai " è sbagliato , così come dire " assalire il nemico " : si può essere coraggiosi anche nell'affrontare una malattia o un'interrogazione : una definizione corretta deve coprire tutti i casi possibili . Nella sua funzione negativa il metodo delle domande e risposte si caratterizza come confutazione , ossia dimostrazione della falsità o contradditorietà delle risposte date dall'interlocutore . Gli effetti prodotti dall'esercizio di questo metodo sono paragonati a quelli della torpedine marina , che intorpidisce coloro che tocca . Di fronte alla confutazione si può reagire rifiutandola , come fanno vari interlocutori di Socrate . Ma , se la si accetta , essa può liberare dalle false opinioni che si hanno sui vari argomenti e agire dunque come una forma di purificazione . La situazione , che risulta dalla confutazione , è detta aporia , ossia letteralmente situazione senza vie di uscita . Essa consiste nel rendersi conto che i tentativi sin qui percorsi di rispondere a un determinato problema , hanno condotto a un vicolo cieco . Ma in questa nuova situazione , liberi dal falso sapere e soprattutto dalla presunzione di sapere , ci si può accingere alla ricerca del vero sapere , tentando nuove stade che possano condurre ad esso . In questo nuovo orientamento il metodo delle domande e risposte può assolvere una funzione positiva . Essa è paragonata alla funzione svolta dalla maieutica , capace di far partorire ad ognuno , mediante domande opportunamente indirizzate , la verità , di cui ciascuno è gravido . Socrate si ostina incessantemente a far convergere i propri interlocutori nell'ammissione di un punto fondamentale : per saper agire bene , cioè virtuosamente , in un determinato ambito , occorre possedere il sapere che renda capaci di ciò . A questo risultato egli perviene mediante l'analogia con le tecniche : il buon artigiano che sa svolgere bene la propria attività possiede un sapere capace di guidarlo a questo risultato . La stessa cosa deve valere in ambito etico-politico : questo è il nocciolo della famosa tesi secondo cui la virtù è scienza . Questa tesi conduce ad alcune conseguenze . In primo luogo , chi conosce che cosa è bene e quindi anche che cosa è buono per lui non può non farlo . Il bene è dotato di un potere incontrastabile di attrazione . Ciò non significa che Socrate disconosca l'importanza delle passioni e delle emozioni nella vita umana , ma soltanto che in ogni ambito della vita umana l'unico strumento capace di orientare verso il comportamento corretto è ravvisato nel sapere . La posizione etica di Socrate non va confusa con forme di rigorismo ascetico . Essa è invece definibile come una forma di eudemonismo , perchè pone come obiettivo fondamentale il perseguimento della felicità (in Greco eudaimonia ) . E' il sapere che è in grado di effettuare un corretto calcolo degli stessi piaceri , misurando le conseguenze piacevoli o dolorose che essi possono arrecare . Questo è il sapere , di cui Socrate dichiara di non essere in possesso , ma proprio per questo è il sapere che egli persegue . Non ha senso allora distinguere le varie virtù nettamente le une dalle altre : la virtù è una , come uno solo è il sapere in cui esse si compendiano : sapere che cosa è bene e che cosa è male . UNITA’ 3 PARTE 13 CALLIMACO Vita e opere perdute Il maggiore dei poeti alessandrini, Callimaco è considerato sia il principale teorico sia il migliore esponente della poesia ellenistica. Nato intorno al 300 a. C. a Cirene, in gioventù visse in ristrettezze economiche e si guadagnò da vivere insegnando in una scuola di provincia; poi, non sappiamo come, entrò a far parte della corte, ottenendo il favore di Tolomeo II. Lavorò alla Biblioteca come poeta ed erudito, ma sappiamo con certezza che non ne divenne mai il direttore. Le sue opere gli procurarono fama e gloria, ma scatenarono aspri dibattiti con invidiosi contemporanei. Morì intorno al 240. La produzione di Callimaco come erudito e come poeta fu immensa: la tradizione gli attribuiva ben 800 volumi, oggi quasi tutti perduti, tutti di argomento erudito: lessici, etnografia, geografia, curiosità, toponomastica. Delle sue opere di prosa la più importante furono i Pinakes, catalogo ragionato di tutti gli autori e di tutte le opere raccolte nell'immensa Biblioteca di Alessandria. Oltre a classificare le opere per genere e gli autori per ordine alfabetico, Callimaco affrontava anche numerose questioni biografiche e di autenticità. I Pinakes possono essere considerati la prima opera di storiografia letteraria. Inni Gli Inni di Callimaco sono sei, ciascuno indirizzato ad una divinità. Probabilmente furono composti in momenti differenti e riuniti insieme solo in un secondo tempo. Sono tutti in esametri, tranne Per il bagno di Pallade che è in distici elegiaci. Il contenuto degli Inni è di tipo arcaico e ripreso dagli inni agli dei dello pseudo-Omero, ma affrontandolo con sensibilità totalmente nuova. Gli dei sono messi sullo stesso piano degli uomini e compiono le loro stesse azioni. La somiglianza arriva ad un punto tale che sono descritte la nascita e la fanciullezza del dio. Callimaco scrive non semplicemente per esporre il mito ma per fare sfoggio d’erudizione; la sua opera è scritta innanzi tutto per il piacere di scrivere, e solo in secondo piano c'è l'intenzione di erudire il lettore (siamo in un'epoca in cui si diffonde il libro, e con lui si allarga la diffusione della cultura). Nell'inno Ad Artemide troviamo un’Artemide bambina che tira la barba di Zeus per farsi ascoltare: una scena tipicamente umana, che potrebbe avvenire tra qualsiasi figlia e padre e che testimonia la misura di Callimaco nel ridurre il mondo olimpico all'umano. In Per il bagno di Pallade è ripreso il mito della dea che si bagna nelle acque del fiume e viene vista per caso da Tiresia, il quale per punizione viene accecato, ma riceve la capacità di predire il futuro. La madre di Tiresia, la ninfa Cariclo, supplica la dea di perdonare il figlio, ma senza risultato; c’è dunque un distacco tra mondo divino e mondo umano. Il contenuto è tipicamente aulico, ma non c'è la passionalità tipica di una situazione del genere; troviamo delicatezza e malinconia, con la tendenza a sfumare tutti i toni e a renderli il più delicati possibile. L'inno A Demetra descrive una processione in onore della dea, durante la quale viene portato un cesto di offerte sui cui lati è raffigurato il mito di Erisittone, che aveva tagliato delle querce sacre alla dea ed era stato punito con una fame insaziabile che lo aveva portato alla morte. La narrazione procede basandosi sull'umorismo della situazione più che sulla sua tragicità, senza offrire alcun messaggio etico. Epigrammi Gli epigrammi di Callimaco si caratterizzano per la loro brevità e per il fatto che al centro di ogni componimento è posto il sentimento, anche se trattato con la consueta ironia e raffinatezza. A noi ne sono pervenuti 63, la maggior parte di argomento funerario, ma alcuni anche riguardanti l'autore stesso. Aitia Gli Aitia erano l'opera più vasta di Callimaco: contenevano circa 4000 versi divisi in quattro libri, in cui (nei primi due) il poeta incontrava in sogno le Muse e chiedeva loro le varie origini (aitia, appunto) di certe usanze. Non si trattava di un'opera ordinata, bensì di una raccolta di numerose elegie, in genere indipendenti tra loro. Ogni aition era dedicato alla ricerca delle origini di una festa, di una città, di un mito, di un'istituzione. Oggi ci rimangono, oltre a riassunti pairacei e frammenti i varia estensione, che ci consentono di recuperare la struttura dell'opera e alcuni brani, il proemio ed alcuni frammenti, tra cui la Chioma di Berenice (un frammento dell'originale e la traduzione latina di Catullo). Nonostante l'apparente contenuto scientifico, gli Aitia sono in realtà un'opera di intrattenimento, uno sfoggio di erudizione in cui risalta soprattutto la raffinatezza dell'arte di Callimaco. Il proemio è un'invettiva di Callimaco contro i Telchini, soprannome dato ai poeti invidiosi del suo successo. Il poeta imputa ai Telchini di non misurare la poesia con i canoni della qualità, ma della quantità, e che vale più un prodotto raffinato di un grande e noioso poema. Ci è pervenuto un elenco papiraceo di questi Telchini, in cui stranamente non figura il nome di Apollonio Rodio, ritenuto dagli antichi acerrimo rivale di Callimaco. La Chioma di Berenice è l'aition che chiude il quarto e ultimo libro dell'opera. La chioma stessa narra in prima persona la sua storia: fu offerta in voto dalla regina Berenice in occasione della partenza del marito, Tolomeo Evergete, per una spedizione militare in Siria. Ma scomparve dal tempio e l'astronomo di corte la scoprì in cielo, trasformata nella costellazione che da lei prese il nome. Quest’elegia piacque a Catullo, che la tradusse in latino nel carme 66; ed è nella sua traduzione che oggi è a noi nota. In quest’elegia l'esaltazione del sovrano si unisce a quella della fedeltà coniugale: non si tratta solo di riscontrare un evento umano nella sfera celeste, ma piuttosto di elogiare con discrezione il sovrano e la sua consorte con la misura tipica del poeta di Cirene. Giambi Erano tredici componimenti caratterizzati da una grandissima varietà di metro e di contenuto, che sembrano essere antesignani della satira latina. I meglio conservati sono il primo e il quarto; quest'ultimo, bellissimo, narra un fortissimo contrasto tra l'alloro e l'ulivo. L'alloro e l'ulivo si sfidano su chi sia la pianta migliore, vantando ciascuno le proprie qualità e l'uso che fanno gli uomini dei loro rami (le piante non solo sono assunte a soggetto dell’opera, ma sono addirittura personalizzate). Tra i rami c’è una coppia di usignoli molto ciarliera (rappresentante della voce del popolo) che fa da arbitro alla sfida. Chi li creò? Atena l'ulivo e Apollo l'alloro; in questo sono pari perché gli dei sono tutti sullo stesso piano. Chi li ha trovati? Pallade trovò l'ulivo, mentre l'alloro, come tante altre piante, fu trovato dalla terra e dalla pioggia; qui l'alloro perde un punto. A cosa servono? L'alloro a dare gloria poetica, mentre l'ulivo costituisce il cibo dell'uomo (c’è qui un’attenzione all'aspetto pratico delle cose, anticipatore dell'utile latino); in definitiva vince l'ulivo. Interviene nella disputa un vecchio rovo a fare del moralismo, ma è subito messo a tacere. E' ovvio che alla base di questo giambo ci deve essere stata una disputa letteraria, ma ne ignoriamo i dettagli. Ecale Era un poemetto di ca. 1000 versi su Teseo ospitato da una vecchia, Ecale. Si trattava del primo epillio, un genere dunque inventato da Callimaco, che quindi aveva modo di fare poesia privata e intima, più reale, ma anche raffinata, per la brevità, e per la scelta di un mito raro. In questo epillio, conservato in frammenti molto brevi, Callimaco rompe quindi con l'epica ed i suoi temi, inserendo la sua poetica della brevitas e dell'ironia, umanizzando l'eroe e trascurando i grandi temi guerreschi. Conclusioni Callimaco crea una poesia vitale e anticlassicista: formula perciò una poetica adatta al gusto alessandrino per il "bocconcino" prezioso. Infatti trascura l'eros, che rappresenta una concezione poetica ormai superata, e comprende ed impugna consapevolmente una poetica più adatta al gusto dei tempi, volta a rivitalizzare la poesia. Callimaco è dunque un poeta con la coscienza del nuovo, che gli deriva dal sentire il netto distacco tra lui e la poetica antica: tale distacco è però sentito in maniera dinamica, con la continua oscillazione, nelle sue opere, tra tradizione e modernità. UNITA’ 3 PARTE 14 APOLLONIO RODIO In genere i poeti alessandrini attingevano alla tradizione epica per ricavarne non un ampio poema volto all'esaltazione di gesta eroiche, ma un componimento breve e raffinato; a questi fa eccezione Apollonio Rodio. Apollonio Rodio nacque ad Alessandria d'Egitto intorno al 290 a.C. e soggiornò a lungo a Rodi (da qui l'appellativo di Rodio). L'unica altra notizia certa della sua vita è che divenne direttore della Biblioteca. Apollonio Rodio viene generalmente visto in contrapposizione con il suo ex maestro, Callimaco; in realtà questa rivalità è per alcuni aspetti solo apparente. Apollonio aveva in effetti uno stile molto diverso da quello dì Callimaco, e riteneva di poter scrivere un’opera di carattere epico in età ellenistica. Scrisse effettivamente un’opera gigantesca, le Argonautiche, unico poema ellenistico a noi pervenuto. Non gli riuscì di raggiungere l'acme della poesia in ogni punto dell’opera (era questo il suo intento), ma il III libro è rispondente ai canoni ellenistici e anzi supera per bellezza le opere di molti poeti a lui contemporanei. Paradossalmente Apollonio Rodio, che non voleva assolutamente essere vox dell’ellenismo, ne diventa una sorta di emblema. Le Argonautiche Sono un poema in esametri lungo circa seimila versi divisi in quattro libri. Narra le vicende della spedizione degli Argonauti, dalla partenza da Iolco fino al ritorno in Grecia. Il I, il II (che descrivono il viaggio di andata nella terra della Colchide) e il IV (dedicato al ritorno in patria) sono molto pesanti, ma il terzo, che racconta l'amore tra Giasone e Medea, è considerato uno dei capolavori dell'ellenismo. Eccettuato il terzo libro, si può affermare che Apollonio non si inserisce a viva forza nel mito, mutandolo o spezzandolo, ma lo mantiene sostanzialmente inalterato; ad esempio, il poema inizia con la descrizione dei partecipanti alla spedizione, che ricalca l'elenco delle navi che presero parte alla guerra di Troia contenuto del II libro dell'Iliade. Giasone viene messo in evidenza (è l'ultimo ad essere nominato), ma di lui sono descritti i tratti più umani; non è presentato come anhr, ma nemmeno come uomo emblema dell'ellenismo; ha dei sentimenti, ma non c’è uno scavo psicologico profondo. Egli vuole raggiungere il proprio fine (conquistare il vello d'oro), ma non scavalca il suo mondo sentimentale (come invece fece Enea). Giasone resta freddo (mentre il Giasone di Euripide ha un suo mondo sentimentale in cui crede), a metà strada tra uomo e eroe. Il III libro è incentrato su Medea e sul suo amore per Giasone. Eeta, re dei Colchi e padre di Medea, impone a Giasone durissime prove da affrontare prima di entrare in possesso del vello d'oro con la speranza che il greco muoia nel corso delle prove. Ma Medea, colpita da una freccia di Eros, s’innamora a prima vista di Giasone; la ragazza trascorre una notte agitata da angoscianti sogni, nei quali la vergine fedele al padre si scontra con la donna colpita dalla passione per l'amato. Nella mente di Medea balena anche l'idea del suicidio, ma il bel ricordo della vita trascorsa la fa tornare sui suoi passi e, momento dopo momento, matura l'idea di salvare Giasone, procurandogli delle pozioni indispensabili per superare la prova. Il mattino seguente Medea, con il cuore che le sobbalza in petto (cuore reso con kardia, a rilevare la fisicità del sentimento di Medea), incontra Giasone che si avvia per affrontare la prova e, offrendogli le pozioni, gli confessa il suo amore. E Giasone la rassicura dai suoi timori assicurando che la porterà con sé in Grecia, dove, onorata da tutti per l'aiuto reso agli Argonauti, vivrà per sempre accanto a lui: questo è il suo pegno d'amore. Poi Giasone, grazie all'aiuto di Medea, supera la prova. Nel corso del terzo libro emergono dei concetti particolari. Innanzitutto quello della maledizione, che colpisce non solo il diretto interessato ma anche la sua famiglia e i suoi figli. Assume un valore particolare anche la memoria del passato; il ricordo assume una connotazione personale ed è privo di qualsiasi valore educativo (il contrario avviene nel mondo latino, dove il ricordo è sempre oggettivo e si riferisce alle gesta di tutto il popolo, sia belliche che sociali). Si riscontrano anche delle caratteristiche peculiari dell'ellenismo, come lo scendere nel particolare (ad esempio quando Apollonio, anziché parlare di generici alberi, specifica di quali alberi si tratta, querce e pioppi) o l'azione ripetuta molte volte per aumentare il paqoV e la tragicità dell'azione. E' invece tipico di Apollonio il gusto per l'avventura e per l'esotico, e si sofferma a descrivere posti nuovi, distanti e lontani (sullo sfondo c'è lo sviluppo commerciale raggiunto dall'ellenismo). Questa voglia di conoscere è però diversa dalla voglia di fare esperienza (swfrosunh) di Ulisse. Il gusto per l'elemento naturalistico non si limita al livello descrittivo, ma si presenta anche come interesse sentimentale nei confronti della natura. Non è questa una novità per il mondo greco: la partecipazione sentimentale verso la natura la riscontriamo in Omero e Saffo (1a quale, addirittura, diventava natura); anche se in Apollonio non c'è un annullarsi dell'elemento umano nell'elemento naturalistico, ci si arriva vicino sul piano del sentimento. ooo Dal 260 al 247 non solo diventa il secondo direttore della biblioteca di Alessandria, succedendo a Zenòdoto, ma anche precettore di Tolemèo II. Si reca a Rodi dopo una lite con Callimaco, evidenziata dall’"Ibis", e l’insuccesso delle "Argonautiche". Pubblica una seconda edizione delle "Argonautiche", ma è un’ipotesi poco credibile. Ha un’intensa attività filologico-letteraria (con poemi su fondazioni di città, epigrammi e saggi), ma è famoso soprattutto per le "Argonautiche". "Argonautica" - Con i suoi quattro libri formati da 5.833 esametri complessivamente è il quarto poema epico pervenutoci per intero dopo "Iliade", "Odissea" ed "Eneide". Riporta la leggenda degli Argonauti ed il tentativo di Giasone di riportare in Grecia dalla Còlchide il vello d’oro posseduto da Eeta, padre di Medèa e dio del sole, tentativo che riesce con la magia di Medea. Precedenti notevoli si possono rintracciare sia nei tre tragici che in Pindaro. Di notevole importanza l’invocazione ad Apollo nel l. I e quella di Eràto, musa della poesia amorosa, nel l. III. Caratteristiche: motivo dominante è l’amore, non freddo, ma profondo, mutevole, possessivo, quale quello di Medea. Giasone, problematico ed incerto, è un po’ il simbolo di un’epoca. Nel poema si notano interessi per luoghi lontani, ma anche per l’orrido, il macabro, il prodigioso; gli dei, invece, hanno un qualcosa di benestante e di salottiero, con gli stessi modi degli umani mortali. Apollonio in esso etichetta tutto, cioè ne cerca le cause e ne dà la motivazione, mentre per la lingua attinge ad Omero, Esiodo ed ai prosatori ionici e contemporanei. CRITICA GARZYA - Il poema ricalca materia, tecnica narrativa e strutture dell’epos omerico ed il mito, sempre alla base dell’opera, non ha altro contenuto se non quello favolistico e leggendario. Ha singoli momenti felici ("Il sogno di Medea"), ma manca di forza unitaria e sembra così confermare la teoria callimachea dell’impossibilità di un carme continuo. SBORDONE - L’opera manca di omogeneità: vi sono imitazioni omeriche e pedanterie erudite ed in ciò Apollonio è profondamente alessandrino. Riesce soprattutto nelle scene brevi, nelle descrizioni di scorcio, negli episodi. CANTARELLA - Il poema è il documento di un continuo compromesso fra la tradizione omerica ed il desiderio di originalità. Esso in effetti è tutto episodico, frammentario e per di più senza poesia, la sola che avrebbe potuto galvanizzare un personaggio scialbo come Giasone che supera tutte le prove con l’aiuto di Medea, non un eroe e nemmeno un uomo, mentitore, profittatore, spergiuro, senza nemmeno il merito del seduttore perchè Eros fa tutto per lui. Unica, autentica gemma del poema la morte di Ila rapita dalla ninfa della fonte del l. I. Riflessi su... -> VIRGILIO - l’opera di Apollonio è il presupposto dell’"Eneide", mentre Giasone e Medea le brutte copie di Enea e Didone -> VALERIO FLACCO - il cui unico merito è quello di aver scritto un’"Argonautica" in ll. 8, incompiuta. UNITA’ 3 PARTE 15 TEOCRITO Del poeta del IV - III secolo a.C. è incerta la data di nascita (forse il 310, l'anno della vittoriosa spedizione navale di Agatocle in Africa contro i Cartaginesi). Si sa che in giovinezza si recò a Cos, paese d'origine della madre: e tale viaggio comportò il suo ingresso nel gruppo dei poeti di Fileta. Una sua composizione del 275 dedicata a Gerone II, Le Càriti, fa supporre che egli desiderasse usufruire dei favori della corte per potersi stabilire a Siracusa come poeta protetto dal tiranno. Riuscì pure a trovare un sovrano mecenate in Tolomeo II Filadelfo, in Egitto; e ad Alessandria conobbe Callimaco, grande estimatore dell'opera Ciclope (da confrontare col frammento dell'omonimo componimento di Filosseno). Ignoti sono il luogo e la data di morte del poeta. Teocrito è con ogni probabilità il maggiore poeta dell'età ellenistica, vero erede del genere bucolico creato da Stesicoro, ma anche poeta di versi amorosi e leggeri nella descrizione della società del suo tempo. Si espresse con inni, elegie, liriche, giambi, epigrammi, anche se fu famoso fin dall'antichità per la freschezza del suo genere bucolico; i componimenti che ci sono giunti sono appunto nella raccolta dei poeti bucolici (Artemidoro di Efeso) - età di Silla - insieme a quelli di Mosco, Bione, ed altri anonimi. In tale raccolta sono attribuiti a Teocrito col nome di Idilli 30 carmi, 24 epigrammi ed un carme figurato. La critica ne attribuisce solo 21 al poeta e distinguendoli per la raffinatezza e l'armonicità dell'ispirazione. La maggior parte di questi (9) sono propriamente bucolici, hanno cioè contenuto agreste; 4 sono poemetti epico-mitologici (epilli), 6 sono mimi e componimenti lirici (in metro e dialetto eolico), 2 sono carmi erotici, 2 encomi. Gli Idilli più famosi sono senz'altro Dafni, il Ciclope, Le Talisie (che la tradizione vuole composta nell'isola di Cos), Le siracusane, Ila, Epigrammi, Arsinoe, Tirsi, Serenata, Pecoraio, Eracle bambino, Syrinx, Le Incantatrici, I Mietitori, L'amore di Cinisca, Le Càriti (encomio di Gerone II, che ha dei riferimenti alla guerra che stava per iniziare contro i cartaginesi e che è da situare nel 276 aC), il Tolomeo (encomio di Filadelfo, che ci suggerisce il suo viaggio in Egitto sia avvenuto verso il 271 circa), La fattura, La visita d'amore, Dioscuri, Berenice. Alcuni di questi idilli ispireranno Virgilio. Il metro di Teocrito è l'esametro epico che illustra aspetti tradizionali dell'arte e della cultura siciliana, ma vuole essere comunque gradito alla sua epoca, aggiornandosi alle tendenze elleniche della letteratura, pur traendone nuovi effetti musicali e senza disdegnare il dialetto dorico della città natia. Oltre al genere bucolico e descrittivo d'ambienti Teocrito si dedicò naturalmente alla tematica mitologica. La sua nascita a Siracusa, oltre che dalla tradizione, ci è confermata dalla Suda. "La sensibilità naturalistica, aliena da risonanze mistiche, ma forte e profonda, è forse la caratteristica più intima dell'arte di Teocrito" UNITA’ 3 PARTE 16 MENANDRO Solo pochi decenni separano l’ultima opera di Aristofane, il “Pluto”, dall’esordio teatrale di Menandro con l’”Orgè”: eppure questo breve lasso di tempo fu foriero, per tutta la Grecia e per Atene in particolare, di conseguenze tanto traumatiche che le opere dei due commediografi risultano profondamente diverse, soprattutto nei contenuti. Fu proprio la città di Atene a subire i danni maggiori, anche dal punto di vista psicologico, ed i suoi cittadini più sensibili – gli intellettuali – ne rimasero sconvolti: in pochissimi anni si è rivelata loro la limitatezza e la piccolezza dell’uomo; la tuch, che diverrà non a caso la protagonista indiscussa delle commedie menandree, ha ridotto la capitale culturale dell’Ellade intera, la padrona dei mari, la democrazia in cui vige la libertà, ad un protettorato dei Macedoni, sottoposta al governo dello straniero. Il commediografo, che dovette assistere impotente al ridimensionamento della sua polis e subire di persona i catastrofici effetti del rovesciamento di Demetrio Falereo, suo amico e protettore, riflette dunque nelle sue opere una nuova e triste visione della realtà: non c’è più spazio per l’esuberanza, la vitalità, la forza, la sicurezza e persino per la spavalderia che rasenta i limiti dell’ubris, come accadeva per Diceopoli, cui era sufficiente la potenza della parola – così egregiamente padroneggiata da Aristofane – per abbattere tutti i suoi nemici; non v’è più motivo di pungere avversari personali e personaggi pubblici, né di descrivere l’animata vita dell’agorà o della bulè: dalla dimensione politica, riguardante cioè la comunità nella sua interezza, si passa a quella più modesta e sommessa della casa e del nucleo familiare. Non ha più alcun senso la parabasi, in cui il coro discute con gli spettatori dei problemi di attualità, perché ormai l’”attualità” è imposta dallo straniero e non è più il frutto dell’assemblea dei cittadini. Ecco che, allora, l’uomo ricorre, per salvarsi dallo sfacelo della sua città, all’unico strumento rimastogli, la ragione. Vengono pertanto eliminati dalle commedie tutti gli elementi dell’inverosimile e del fantastico aristofanesco, che stonerebbero con il sobrio realismo cui si cerca di dar vita. Menandro salva, invece, l’uomo, dopo averlo però totalmente spogliato della sua patina di “invincibilità”. Il pensiero del commediografo ( “Ws carien est’anqrwpos” ) però è ben lontano dalla forza di quello di Sofocle, che affermava convinto: “Molte sono le cose deina, ma nulla è deinoteron anqrwpou”. Deinos è il termine tecnico della retorica per indicare la meraviglia e lo stupore che un discorso può suscitare negli spettatori: è il riflesso della fiducia che tutta un’epoca aveva riposto nelle capacità dell’uomo e della sua parola. Anche la postilla menandrea, infatti, sembra il compianto di un tempo migliore: “Che bella cosa è l’uomo, quando è uomo davvero”, pare infatti evocare i tempi in cui il poliths ateniese si sentiva padrone del mondo. Nella nuova Atene menandrea, dunque, che appare quasi vuota in confronto a quella caotica e viva di Aristofane, una volta scomparsi i grandi “nemici”, come Cleone o Lamaco, l’ambiente domestico ed appartato, usato nelle ambientazioni, suggerisce quasi spontaneamente l’analisi psicologica, che, tuttavia, rimane alquanto superficiale. Non a caso, infatti, Menandro è stato accusato di essersi lasciato troppo influenzare dagli stereotipi proposti dai “caratteri” di Teofrasto, forse per ricondurre al razionale – grazie a questi topoi –anche ciò che sfugge ad uno schema preciso: è probabilmente per questo motivo che l’Atene di Menandro, che dovrebbe essere più realistica di quella apertamente “fantastica” di Aristofane , appare ugualmente artificiale. Addentrandosi, dunque, nell’introspezione psicologica e nella vita cittadina, si incontra il “rispetto”: il termine stesso utilizzato per indicarlo non può però fare a meno di suscitare il senso di oppressione della “società dell’ aidws” omerica; si parla poi di autocontrollo dei personaggi proprio per contrapporsi deliberatamente alla sfrenatezza esasperata di Aristofane. Si parla infine di jilanqropia – nelle commedie di Menandro persino le etere talvolta si ravvedono e sono pronte ad aiutare il protagonista – per non cadere nello sconforto della solitudine, dopo la scomparsa della dimensione sociale della polis. Ecco, allora, l’immagine di una città inevitabilmente “sospesa” e cristallizzata in questa dimensione ideale, in cui tutti cercano di trovare un’armonia ed inseguono un accordo, perché – perso ogni potere sulla realtà esterna – essi possano almeno mantenere un lucido dominio su di sé (swjrosunh). A Menandro, tuttavia, non poteva sfuggire l’amara verità, che continua a riaffiorare in tutte le sue commedie, almeno per quanto siamo in grado di ricostruirle. Le trame complesse, l’accavallarsi confuso e convulso di ritrovamenti ed anagnwriseis e gli scambi di identità lasciano infatti trasparire l’assoluta mancanza di ordine e sicurezza e denunciano apertamente che l’uomo, per salvarsi dal crollo della sua polis, si è rifugiato in una dimensione strettamente privata, ma non è riuscito a sfuggire alla tuch beffarda. Il commediografo stesso si accorge, con sgomento, che l’essere umano ha perduto l’apparente controllo sul proprio destino. L’umorismo delle sue opere, dunque, è molto più contenuto di quello aristofanesco, tanto che – in alcuni passi – rasenta la malinconia. Menandro non fu molto amato dai suoi spettatori, se è vero che, nonostante una produzione di più di cento commedie, vinse solo otto volte: gli Ateniesi dovettero forse accorgersi di quanto fosse amaro veder rappresentata la propria disgrazia, di quanto fosse doloroso correre con il ricordo ai tempi – non lontani – in cui ancora la loro polis esercitava una vera e propria egemonia su tutta la Grecia e di quanto costasse infine confrontare quell’ampio impero con la sconfortante ristrettezza dell’ambiente domestico. UNITA’ 3 PARTE 17 POLIBIO Nato in Arcadia poco prima del 200 a.C. da una famiglia di stampo aristocratico che partecipava attivamente alla Lega achea, Polibio fece la sua carriera politica all'interno della Lega aderendo al partito avverso ai romani, finchè, dopo la battaglia di Pidna, all'interno della Lega prevalse il partito filo-romano e per sua istigazione furono deportati a Roma mille cittadini del partito avverso, tra cui Polibio. L'esilio durò 17 anni e costituì una svolta importantissima nella sua vita e nel suo pensiero; ospitato nella casa del vincitore di Pidna, il console Emilio Paolo, entrò in amicizia con il più giovane dei suoi figli, Scipione Emiliano, il quale lo introdusse nel circolo degli Scipioni. A contatto con il pensiero politico, culturale e filosofico (lo stoicismo stava allora diventando l'ideologia della classe dirigente) della Roma del tempo, Polibio cominciò a modificare la sua ostilità di cittadino acheo e a ricercare le cause della prepotente ascesa della potenza romana. Lentamente si convertì alla causa di Roma e si convinse che il suo impero era voluto dalla stessa tuch. A questo periodo risale a composizione delle Storie. Finalmente nel 150 Polibio potè far ritorno in patria, ma non vi rimase a lungo; seguì Scipione Emiliano nella terza guerra punica a fianco del quale assistι alla caduta di Cartagine, e compì numerosi viaggi per visitare quei luoghi che andava descrivendo nelle Storie. Morì in patria a 82 anni per una caduta da cavallo. Le Storie Opera in 40 libri dello scrittore greco Polibio (c. 205-121 a.C.) I primi due libri sono introduttivi e riassuntivi dell'arco di tempo dal 264 al 221, mentre i libri III-XL contengono gli avvenimenti dal 220 al 146. Di questa grande opera rimangono i libri IV, ampi excerpta dei libri VIXVIII, frammenti degli altri, che provengono da citazioni e dall'opera enciclopedica di Costantino il Porfirogenito; dei passi perduti aiutano la ricostruzione Cicerone Diodoro Livio, Plutarco. La disposizione della materia la seguente: nel I libro la prima guerra punica e lotta di Cartagine contro i mercenari ribelli; nel II libro la guerra illirica, l'ultima guerra gallica, le imprese dei Cartaginesi in Spagna, la storia della lega achea alla battaglia di Sellasia; nel III libro gli avvenimenti della seconda guerra punica fino a Canne; nel IV e V libro le vicende contemporanee dell'Oriente greco, la guerra sociale degli Achei, la quarta guerra di Celesiria tra Antioco III e Tolomeo IV Filopatore; nel VI l'analisi della costituzione romana; nel VII la polemica contro gli storici precedenti, in particolare contro Timeo; nel XXXIV libro la descrizione geografica del mondo mediterraneo; nel XL e ultimo libro il riassunto di tutta l'opera. Si è discusso se Polibio abbia voluto dedicare la sua opera ai Greci o ai Romani, molto di più si è discusso sulla data di composizione e di pubblicazione: intenzione dell'autore è scrivere una storia "universale" e "prammatica": è polemico contro la storiografia retorica d'origine isocratea, escludendo tutti gli orpelli oratori, sdegnando le rielaborazioni dei discorsi e rifiutando ogni carattere declamatorio: "Tanto gli scrittori che i lettori della storia non devono badare soltanto ai fatti in sè, ma agli avvenimenti che li hanno preceduti, accompagnati, seguiti. Se si toglie infatti alla storia l'esame delle cause, dei mezzi, degli scopi di ogni impresa compiuta e la ricerca del risultato che essa ha conseguito, quello che ne rimane può essere un ottimo saggio retorico, ma non genera apprendimento e al momento procura diletto, ma non produce per il futuro utilità alcuna" (III, cap. 31). Il libro XII è una spietata critica a Timeo: problema centrale è quello etiologico con la distinzione di aitìa, di pròfasis, di archè (la causa vera, il pretesto, l'inizio d'un fatto). I mezzi di ricostruzione sono individuati nell'accertamento filologico, nell'autopsia topografica e nella competenza militare e politica: "E' compito dello storiografo prima di tutto quello di informarsi di tutti i discorsi effettivamente pronunciati, senza distinzione alcuna, poi quello di ricercare la causa del successo o dell'insuccesso di quanto fu detto o compiuto; infatti la nuda esposizione degli avvenimenti può interessare, ma non giovare, mentre se si adduce la causa degli eventi esposti, la storiografia riesce veramente utile". La storia prammatica comprende anch'essa tre parti: studio diligente dei documenti e delle memorie, visita alle città, alle regioni, ai fiumi e ai porti, conoscenza della politica: "Conoscere gli scritti più antichi è utilissimo se si vogliono apprendere le opinioni di chi ci ha preceduto e le notizie che gli antichi avevano di determinate località, popoli, governi, azioni ecc." (XII, cap. 25). Dalla storia di Polibio scompare dall'indagine ogni fattore extraumano ed extrarazionale; vi si nota un sostanziale ateismo, un astio aggressivo contro la superstitio; così la storia polibiana è esposizione non di genealogie o mitiche fondazioni di città, ma esposizione delle azioni politiche: infatti prammatica significa politica, e da qui nasce l'utilità della storia, che deve servire a formare gli uomini politici che così faranno esperienza, leggendo le cose del passato. La storia, in conclusione, è insegnamento. Quanto poi al fatto di scrivere una storia universale, cioè catholikè, Polibio si ispira a Eforo e mette cos in pratica quel cosmopolitismo, tanto tipico dell'ellenismo: qui l'idea cosmopolita si incarna nella realtà dell'egemonia di Roma, che è la grande scoperta dell'esule greco; di fronte alle due Costituzioni romana e cartaginese, Polibio avverte la genialità della Costituzione romana, anzi sulle Costituzioni ci offre una curiosa teoria distinguendo tre forme di Costituzione: monarchia, aristocrazia, democrazia, ognuna delle quali tende a degenerare nella cattiva forma corrispondente: tirannide, oligarchia, oclocrazia. Ogni popolo, secondo Polibio, deve percorrere l'intero ciclo dalla monarchia alla oclocrazia; dalla quale alla fine nascono l'anarchia, il disordine, il trionfo degli istinti brutali: dal caos dell'oclocrazia sorge di nuovo la monarchia, così il ciclo ritorna e si ha l'anachìclosis. Perciò il motore unico delle azioni umane è l'utilità, mentre la religione non è altro che un instrumentum regni, che serve a tenere a freno la folla, ma è inutile per i savi. Come scrittore Polibio è uno dei peggiori; la sua lingua è quella delle cancellerie ellenistiche, la prosa è "slombata e stentata" (Perrotta), la lettura difficile e sgradevole: ammirato da Mommsen, fu particolarmente elogiato da Croce. UNITA’ 3 PARTE 18 LUCIANO Luciano di Samosata (in greco: Λουκιανὸς Σαµοσατεύς; in latino: Lucianus Samosatensis; Samosata, 120 circa – Atene, tra il 180 e il 192) è stato uno scrittore e retore greco antico di origine siriana, celebre per la natura arguta e irriverente dei suoi scritti satirici. Biografia Di origine siriana, secondo un'usanza diffusa ricevette alla nascita un nome latino, ma questa sua origine “barbara” non fu mai motivo di vergogna per lui che, anzi, si dichiarava apertamente siriano e non greco in alcuni suoi scritti, nonostante la sua personalità intellettuale presenti caratteristiche prettamente ellenistiche. Seguendo la tradizione della famiglia materna, ebbe una breve e deludente esperienza nel laboratorio di scultura dello zio, dal quale il futuro scrittore fu cacciato dopo aver distrutto una lastra di marmo che doveva essere sgrossata. Scoperta la vocazione letteraria, egli studiò presso i sofisti dell'epoca, in Asia Minore, la grammatica e la retorica, assicurandosi una perfetta assimilazione della lingua greca e dei principi culturali dell'ellenismo. Successivamente Luciano fece moltissimi viaggi, in qualità di maestro di retorica e conferenziere, o come ambasciatore della sua città natale, in Asia Minore, Grecia, Italia e Gallia. Inoltre egli svolse la attività di avvocato in Antiochia di Siria (155-158). Nel 159 fu inviato come ambasciatore a Roma, dove ebbe l'occasione di entrare in contatto con il filosofo neoplatonico Nigrino, da cui si fece influenzare. Tornato ad Antiochia (160) vi rimase fino al 162, pur recandosi talvolta in Grecia. In veste di segretario della cancelleria imperiale si trasferì in Egitto, dal 173 al 176. Dopo questo incarico, egli si stabilì definitivamente ad Atene, dove morì dopo il 180. Opere La produzione letteraria di Luciano spazia su generi ed argomenti tra loro molto differenti ma con una costante di fondo: la critica e la satira nei confronti delle scuole ufficiali così come dei pregiudizi dell'opinione volgare. Nell'ambito delle esercitazioni retoriche e delle declamazioni sofistiche sono da segnalare Falaride I e II, il Diseredato e il Tirannicida, oltre all'Elogio della mosca, che rientra negli encomi paradossali, genere in voga presso i retori dell'epoca. Tra le sue opere più significative c'è il trattato Come si deve scrivere la storia, esortazione ad una storiografia fondata sull'obiettività e lontana da ogni forma di adulazione dei potenti. Quasi come antifrasi alle sue teorie scrisse la Storia Vera, racconto fantascientifico di viaggi al di là delle colonne d’Ercole, in cui i protagonisti, tra cui lo scrittore, incontrano creature fantastiche, arrivando addirittura a viaggiare nello spazio e ad incontrare i Seleniti, antichi extraterrestri: si tratta di una divertente parodia nei confronti delle opere di poeti, storici e filosofi contemporanei. Si richiama ai canoni del genere romanzesco greco un altro famoso componimento (la cui attribuzione a Luciano peraltro è incerta) dal titolo Lucio o l'asino. La sua fama è però soprattutto legata ai dialoghi, alcuni dei quali sono raggruppati in modo da formare delle serie organiche (i Dialoghi degli dei, i Dialoghi marini, i Dialoghi dei morti, i Dialoghi delle cortigiane), mentre il gruppo più importante è costituito dai dialoghi di contenuto morale, filosofico e religioso, caratterizzati da una vis satirica e polemica, acre soprattutto verso i cinici, e da una evidente simpatia verso Epicuro: tra questi, si segnalano Menippo o la necromanzia, Icaromenippo, Caronte, Zeus confutato, Zeus tragedo, Prometeo o il Caucaso, l' Assemblea degli dei, Due volte accusato, la Vendite delle vite all'asta e l'Alessandro o il falso profeta, La vita di Demonatte, La morte di Peregrino. Tra le sue tante attività, si dedicò anche alla raccolta di storie e leggende della tradizione greca. E a quanto pare fu lui a "creare" la figura di Filippide, il soldato greco che corse ad Atene dopo la battaglia di Maratona senza fermarsi per poter annunciare "Niké! Niké!" ("Vittoria! Vittoria!") e spirare subito dopo. Pare che in realtà Filippide fosse un antico messaggero greco per nulla collegato alla battaglia di Maratona, mentre il soldato morto dopo l'annuncio pare si chiamasse Tersippo o Eucle. Tuttavia gli storici contemporanei della battaglia (Erodoto in primis) non fanno alcun riferimento a tale avvenimento). Dal mito di Filippide e della sua corsa Pierre de Coubertin trasse l'ispirazione per la creazione dell'odierna maratona. UNITA’ 3 PARTE 19 PLUTARCO La vita Quasi tutto ciò che sappiamo circa la vita di Plutarco si ricava da riferimenti interni alle sue stesse opere: in esse, egli ricorda (Moralia 385 b) di essere stato discepolo del platonico Ammonio nell’età in cui Nerone soggiornò in Grecia (66-67 d.C.); da questo riferimento, è possibile collocare la nascita di Plutarco poco prima del 50 d.C. Sempre nei suoi scritti, egli narra che la sua famiglia fu funestata dalla scomparsa prematura dei cinque figli che Plutarco ebbe dalla moglie Timossena. Plutarco trascorse la maggior parte della propria esistenza nella nativa Cheronea, in Beozia, (diceva scherzosamente di non volerla rendere più piccola andandosene), ma ciò non gli impedì di fare importanti viaggi sia in Grecia sia nelle altre zone dell’Impero: e così si recò ad Atene (ove fu insignito della cittadinanza onoraria), a Sparta, ad Alessandria e forse anche in Asia; ebbe modo di visitare l’Italia e di soggiornare a Roma, senza però riuscire ad impadronirsi alla perfezione della lingua latina per via dei molteplici impegni politici e culturali che lo impegnarono ( Vita di Demostene, 2, 2). Plutarco divenne cittadino romano col nomen di Mestrio (tratto dall’amico Mestrio Floro) e gli fu conferita da Traiano la dignità consolare, da Adriano quella di suo ambasciatore in Grecia. È curioso che di queste cariche prestigiose, di cui ci dicono Eusebio e il lessico Suda, Plutarco non faccia mai menzione nei suoi scritti: questa apparente stranezza è probabilmente dovuta alla fierezza greca di Plutarco, che per tutta la vita non volle vantarsi di cariche esercitate in favore del potere romano. Quest’ipotesi trova una potente conferma nel fatto che egli elenchi nei suoi scritti una dopo l’altra tutte le cariche da lui rivestite in Beozia (arconte eponimo, sovrintendente all’edilizia pubblica, telearco). L’incarico che più ebbe a cuore fu però quello di sacerdote delfico, che detenne per circa un ventennio e che molta influenza ebbe sulla sua spiritualità. Molte incertezze permangono sulla data della morte di Plutarco, che dovette in ogni caso coglierlo in età piuttosto avanzata: se prestiamo fede a Eusebio, Plutarco non sarebbe morto dopo il 119 d.C., anche se c’è chi sposta la data fino al 125. Le opere I titoli delle opere scritte da Plutarco ci sono stati tramandati dal cosiddetto “catalogo di Lampria”, nome che il lessico Suda attribuisce erroneamente ad un figlio di Plutarco stesso che avrebbe compliato il catalogo degli scritti del padre. In alcuni manoscritti il catalogo è poi preceduto da un’epistola nella quale un mittente anonimo scrive ad un altrettanto anonimo destinatario chiedendo di inviargli una lista degli scritti del proprio padre. Oggi si pensa che tanto l’epistola quanto il catalogo siano certamente di epoca posteriore, e si è fissata alla notevole cifra di 260 il numero delle opere di Plutarco (di cui però alcune sono sicuramente spurie). Di questa impressionante produzione a noi è giunto soltanto un terzo. Le opere di Plutarco possono essere suddivise in due grandi gruppi: le Vite parallele (che ci sono giunte in numero di 50) e i Moralia ( Ethicà), dei quali sono sopravvissuti circa 70 scritti (non contando quelli sicuramente falsi). Le 50 Vite parallele non sono altro che 50 biografie di uomini illustri del mondo greco e romano (con l’eccezione di quella del persiano Artaserse); di queste, 44 risultano ordinate secondo coppie di personaggi appartenenti ai due popoli (Alessandro-Cesare, Demostene-Cicerone, e così via), aspetto che giustifica la denominazione di “parallele”. Nella sua opera, infatti, Plutarco instaura un vero e proprio parallelo tra le vite di illustri Romani e quelle di illustri Greci, operando un vero e proprio confronto ( sùgrisis) tra il personaggio greco e quello romano presi in esame e spiegando le ragioni di tale parallelismo. Solo quattro vite (Arato, Artaserse, Galba, Otone) sono singole, e una delle coppie risulta costituita da due personaggi per parte (Agide e Cleomene-Tiberio e Gaio Gracco), portando il numero delle biografie a 50. Nei manoscritti, le 22 coppie ci sono state tramandate nel modo seguente: 1 Teseo-Romolo; 2 Solone-Publicola; 3 Temistocle-Camillo; 4 AristideCatone il Vecchio; 5 Cimone-Lucullo; 6 Pericle-Fabio Massimo; 7 NiciaCrasso; 8 Alcibiade-Coriolano; 9 Demostene-Cicerone; 10 FocioneCatone il Giovane; 11 Dione-Bruto; 12 Emilio Paolo-Timoleonte; 13 Sertorio-Eumene; 14 Filopemene-T. Flaminio; 15 Pelopida-Marcello; 16 Alessandro-Cesare; 17 Demetrio-Antonio; 18 Pirro-Mario; 19 Agide e Cleomene-Tiberio e Gaio Gracco; 20 Licurgo-Numa; 21 Lisandro-Silla; 22 Agesilao-Pompeo. Va notato che i paralleli sopra indicati col numero 3, 10, 16 e 18 sono gli unici privi del confronto. Il procedimento del confronto tra personaggi illustri non era certo una novità (basti pensare alla celebre comparatio tra Catone e Cesare nel cap. 54 della Congiura di Catilina di Sallustio), ma è sicuramente innovativo nella sua raffinatezza l’uso che ne fa Plutarco: egli accosta un personaggio greco ad uno latino con l’intenzione (insieme politica e culturale) di avvicinare i due popoli e le due civiltà, superando i rispettivi pregiudizi e favorendo una collaborazione incentrata su un rapporto di stima e rispetto reciproci. In un contesto in cui il dominio romano è una realtà indiscutibile, ma in cui al tempo stesso la Grecia, col suo glorioso passato, non vuole essere relegata ai margini come mera colonia, Plutarco sa bene che la sua è una missione storica di unificazione e conciliazione tra due realtà diverse e potenzialmente in conflitto. Il mondo greco e quello romano sono da Plutarco intesi come due mondi complementari, quasi come se quello romano non fosse altro che una riproposizione in parallelo degli antichi eroi greci, migrati a Roma. Il mondo romano non segna dunque la fine di quello greco, ma piuttosto la sua continuazione. Ma non è questo l’unico scopo dell’opera plutarchea: ve n’è un altro, altrettanto importante, che Plutarco enuncia nell’esordio della Vita di Emilio Paolo, allorché spiega che, “guardando nella storia come in uno specchio”, egli prova a modellare in qualche modo la sua vita sulle virtù dei protagonisti della storia, aggiungendo che “non esiste modo migliore e più piacevole di migliorare i propri costumi”. Le virtù degli eroi storici sono dunque un paradigma da cui mai bisogna allontanare lo sguardo e che dev’essere conosciuto per poter essere imitato. Plutarco sa bene che, per questa via, si esce dai sentieri della storia per imboccare quelli delle biografie personali, e lo dichiara programmaticamente nella Vita di Alessandro (I, I, ss.): “Noi non scriviamo storie, ma biografie. […] Come dunque i pittori ricavano le somiglianze dal volto e dai tratti esteriormente visibili, attraverso i quali si manifesta il carattere, così a noi dev’essere concesso di penetrare maggiormente nei segni rivelatori dell’animo e mediante questi dare un’immagine della vita di ciascuno, lasciando ad altri le grandezze e le contese”. Nel tratteggiare la vita dei suoi personaggi, Plutarco parte solitamente dalla gioventù, su cui si sofferma con particolare insistenza, giacché la intende come il momento di formazione dell’uomo e del suo éthos; poi passa alle imprese storiche compiute (che sono una diretta emanazione dell’éthos) dal personaggio cresciuto, per poi concludere con la vecchiaia e con la morte; numerosi sono gli aneddoti e le frasi celebri (“meglio essere i primi in un villaggio che i secondi a Roma”, dice ad esempio Cesare). Su un piano strettamente filosofico, è bene rilevare come ogni personaggio tenda, da un lato, ad assumere la fissità dell’archetipo platonico, eterno modello da imitare, e, dall’altro lato, sia attratto nella sfera dell’incessante divenire storico, entro cui recita dinamicamente il suo ruolo di protagonista. Sicché ciascun personaggio è un modello platonico calato nella storia o, se preferiamo, sceso dal cielo sulla terra, a segnalare la possibile attuazione di quei modelli che, a tutta prima, nella loro perfezione potrebbero sembrare meramente ideali. Questo schema è poi reso più intricato dall’intersecarsi di un terzo piano, quello “speculare”, in forza del quale ogni eroe greco si riflette specularmene nel suo parallelo romano, che ne rappresenta, per così dire, una reincarnazione. Il pensiero filosofico Se dalle Vite parallele ci è restituita l’immagine di un “Plutarco storico” o, meglio, biografo, quello che affiora dai Moralia è un “Plutarco filosofo” a trecentosessanta gradi, che non conosce zone inaccessibili alla sua indagine filosofica (dalla gnoseologia all’etica, dalla teologia alla psicologia, dalla pedagogia alla politica, ecc.): il titolo di Moralia, che rimanda necessariamente alla filosofia morale (e che fu attribuito all’opera plutarchea probabilmente in forza del fatto che gli scritti morali furono quelli più apprezzati), pare dunque riduttivo, perché trascura il carattere enciclopedico dell’indagine plutarchea. Una prima serie di scritti filosofici è quella di contenuto etico che sviluppa argomenti di filosofia spicciola ad uso quotidiano: 1 De adulatore et amico; 2 De profectibus in virtute; 3 De capienda ex inimicis utilitate; 4 De amicorum multitudine; 5 De virtute et vitio; 6 Consolatio ad Apollonium; 7 De tuenda sanitate praecepta; 8 Coniugalia praecepta; 9 De virtute morali; 10 De cohibenda ira; 11 De tranquillitate animi; 12 De fraterno amore; 13 De garrulitate; 14 De curiositate; 15 De cupiditate divitiarum; 16 De vitioso pudore; 17 De invidia et odio; 18 De laude ipsius; 19 Consolatio ad uxorem; 20 Amatorius; 21 Amatoriae narrationes; 22 De vitando aere alieno; 23 De amore. Cinque sono le opere pedagogiche: 1 De liberis educandis; 2 De audiendis poetis; 3 De audiendo; 4 De musica; 5 Pro nobilitate. Questi sono gli scritti politici: 1 Maxime cum principibus viris philosopho esse disserendum; 2 Ad principem indoctum; 3 An seni res publica gerenda sit; 4 Praecepta gerendae rei publicae; 5 De unius in re publica dominatione, populari statue t paucorum imperio; 6 De esilio; 7 Institutio Traiani. Presentano un contenuto marcatamente speculativo alcune opere che passano in rassegna, non senza intenti polemici, le diverse posizioni assunte dalle varie scuole filosofiche: 1 Platonicae quaestiones; 2 De animae procreatione in Timaeo; 3 De Stoicorum repugnantiis; 4 Stoicos absurdiora poetis dicere; 5 De communibus notitiis adversus Stoicos; 6 Non posse suaviter vivi secundum Epicurum; 7 Adversus Coloten; 8 De latenter vivendo; 9 De libidine et aegritudine; 10 Quod in animo humano affectibus subiectum parsne sit eius an facultas; 11 De anima. Fin dai titoli appare evidente come nel mirino della critica di Plutarco siano soprattutto gli Stoici e gli Epicurei, ai quali il pensatore di Cheronea contrappone come antidoto il platonismo, di cui si dichiara a gran voce seguace. Di argomento spiccatamente scientifico sono una serie di opere al cui cuore sta l’indagine del mondo fisico e animale; in esse Plutarco si occupa anche di astronomia e prende posizione contro l’uso alimentare della carne: 1 De facie in orbe lunae; 2 De primo frigido; 3 Quaestiones physicae; 4 De amore prolis; 5 De sollertia animalium; 6 Bruta animalia ratione uti; 7 De esu carnium. Alla storia della religione e a problematiche teologiche sono poi dedicati scritti che risultano interessanti soprattutto alla luce delle preziosissime informazioni antropologiche e culturali sul contesto spirituale tardopagano che racchiudono: 1 De superstitione; 2 De Iside et Osiride; 3 De E apud Delphos; 4 De Pythiae oraculis; 5 De defectu oraculorum; 6 De sera numinis vindicta; 7 De genio Socratis. Presentano poi un taglio antiquario ed erudito scritti che trattano, in forma rigorosamente eziologica, di riti e usanze greche e romane: 1 Mulierum virtutes; 2 Aetia Romana; 3 Aetia Greca; 4 Regum et imperatorum apophthègmata; 5 Apophthègmata Laconica; 6 Parallela minora; De fluviis. Plutarco si occupa anche di critica letteraria, di poetica e di retorica, anche se i suoi scritti circa questi argomenti sono andati perduti: di essi conosciamo solo i nomi, riportati nel catalogo di Lampria. Due però ci sono giunti e sono rispettivamente dedicati ad un raffronto tra Aristofane e Menandro e alla malignità di Erodoto (malignità dimostrata soprattutto ai danni dei Corinzi e dei Beoti): 1 De comparatione Aristophanis et Menandri epitome; 2 De Herodoti malignitate; 3 De vita et poesi Homeri; 4 X oratorum vitae; 5 De placitis philosophorum; 6 De proverbis Alexandrinorum; 7 Ecloga de impossibilibus; 8 De metris. Prove di declamazione e di talento retorico sono alcuni scritti (probabilmente giovanili) in cui Plutarco esercita la propria bravura stilistica: 1 De fortuna; 2 De fortuna Romanorum; 3 De Alexandri Magni fortuna; 4 De gloria Athenensium; 5 Aquane an ignis sit utilior; 6 An virus doveri possit; 7 An vitiositas ad infelicitatem sufficiat; 8 Animine an corporis affectiones sint peiores; 9 De fato. Contenuto miscellaneo e difficilmente classificabile hanno infine le seguenti due opere: 1 Septem sapientium convivium; 2 Quaestiones convivales. Le due forme stilistiche che Plutarco sembra di gran lunga preferire nel fare filosofia sono quella del dialogo alla maniera platonica e quella del trattato: ma il dialogo platonico, nelle mani di Plutarco, muta radicalmente essenza, perdendo il suo splendore stilistico e il suo procedere scandito dalla dialettica della “botta e risposta” in cerca del vero; gli stessi personaggi sono ben poco artisticamente caratterizzati, e non di rado il dialogo finisce per essere solo una cornice entro cui inserire l’esposizione dell’argomento sotto forma di trattato. Lo stesso trattato assume una forma particolare, declinandosi ora come declamazione oratoria, ora come invettiva (tali sono gli scritti contro Epicurei e Stoici), e talvolta come diatriba di derivazione cinica, con frequenti aneddoti e ammonimenti rivolti al lettore e con un uso piuttosto colloquiale del linguaggio. Dal lungo elenco di titoli sopra riportati è facile evincere come Plutarco fu un ingegno enciclopedico, che si occupò di tutto, mosso da una curiositas che lo spingeva a interrogarsi su ogni cosa. È soprattutto a Platone che Plutarco si richiama espressamente, anche se la sua etica ha molti tratti comuni con quella aristotelica: dall’Accademia egli mutua l’atteggiamento antidogmatico e scettico, che lo porta spesso a ricorrere alla sospensione del giudizio (epoché), rendendolo consapevole dell’impossibilità di raggiungere in via definitiva la verità. Ma ciò non vuol dire che Plutarco sia un relativista o uno scettico tout court: il dubbio e la sospensione del giudizio vengono esercitati da Plutarco limitatamente al mondo fisico, cioè al mondo della dòxa, dell’opinione e della congettura; per quel che invece riguarda l’ambito delle eterne verità religiose e morali, egli è profondamente dogmatico, a tal punto da poter attaccare senza remore gli Stoici e gli Epicurei in nome del vero. Così, nel De primo frigido, Plutarco conclude la sua indagine sull’origine del freddo con un’inaspettata professione di scetticismo al suo interlocutore Favorino, esortandolo ad evitare oculatamente le secche del dogmatismo; e poi, negli scritti religiosi, attacca duramente quanti mettono in forse l’esistenza dell’aldilà o l’immortalità dell’anima. Sulle orme dell’amato Platone, Plutarco non ritiene assurdo o impossibile conciliare la fede in un Dio unico col politeismo della religione tradizionale, verso la quale nutre un incredibile rispetto. Non a caso egli fu sacerdote di Apollo e venne iniziato anche ai misteri dionisiaci, nutrendo una fede incrollabile nell’immortalità dell’anima e nell’aldilà, di cui abbozza una descrizione di impareggiabile suggestività nel De sera numinis vindicta. Suggestionato dal pitagorismo, Plutarco credeva anche nella trasmigrazione delle anime: questo spiega il suo vivacissimo interesse per il mondo animale, per il vegetarismo e per la lotta contro l’uso alimentare delle carni. Seguace fedele del dio delfico, Plutarco credeva alla funzione dell’arte mantica e alla veridicità degli oracoli, il cui silenzio egli prova a spiegare nel De defectu oraculorum, attraverso le tesi esposte dai vari interlocutori: una di tali tesi ipotizza addirittura l’esistenza di demoni, ossia di esseri anfibi tra l’umano e il divino, coi quali in altri scritti si cerca di render conto anche del male nel mondo e della sua apparente inconciliabilità con la provvidenza divina. In questa prospettiva, il filosofo di Cheronea non può non condannare l’ateismo e la superstizione, propugnando la rivitalizzazione dell’oracolo di Delfi. Interessato alla religione egizia, egli interpreta il mito di Iside e Osiride alla luce delle nozioni (desunte dal Timeo di Platone) di intelletto, anima del mondo e materia come ricettacolo. All’interno dei suoi dialoghi, Plutarco non esita ad introdurre, ancora una volta seguendo le orme di Platone, miti escatologici sul destino dell’anima dopo la morte; e l’ammissione dell’immortalità dell’anima facilita l’ammissione di una provvidenza divina che, nell’aldilà, premia i buoni e punisce i malvagi. È questa (formulata nel De sera numinum vindicta, scritto in cui si discute appunto del perché la divinità tardi a vendicarsi) una vera e propria teodicea che risente notevolmente del mito di Er platonico. Richiamandosi alle Leggi di Platone, Plutarco tenta poi di render conto del male nel mondo, ammettendo l’esistenza, accanto ad un principio divino razionale e buono, di un principio che genera il male: “La nascita e la sostanza di questo universo derivano dalla mescolanza di forze contrarie ma non di ugual potenza, dato che il principio vincente è sempre quello buono. Ma non è del resto possibile che la forza del male sia del tutto annientata: essa è innata sia nella struttura fisica sia nell’anima vitale del tutto, in un’eterna lotta contro la forza del bene” (De Iside et Osiride, 49, 371 a). Come abbiamo detto, Plutarco nutre un atteggiamento profondamente ostile allo stoicismo e all’epicureismo: degli stoici, egli mette in luce le innumerevoli contraddizioni teoriche che inficiano il loro sistema, sottolineando anche l’incompatibilità tra l’impegno politico a cui essi esortano e il loro totale disimpegno e agnosticismo politico praticato nella vita di tutti i giorni. La stessa pretesa stoica di eliminare le passioni è un’assurdità degna di essere derisa: ad essa Plutarco contrappone l’antica strategia platonica di misurazione ragionata delle passioni, in modo tale da disciplinarle e renderle funzionali ad una buona costituzione politica. E del resto Plutarco recupera in toto l’antica tripartizione platonica dell’anima: una tripartizione che, com’è noto, lungi dal liquidare le passioni, le ammette e le promuove, a patto che siano regolate dalla guida lungimirante della ragione. Dell’epicureismo Plutarco attacca ogni parte, schierandosi con particolare accanimento contro l’etica: non è un caso che il giovane Marx, nella sua dissertazione dottorale (Differenza tra le filosofie della natura di Democrito e di Epicuro, 1841), non esiterà ad individuare in Plutarco (insieme con Cicerone) il massimo nemico dell’epicureismo. In particolare, il filosofo di Cheronea cerca di mettere in mostra come – parafrasando il titolo di un suo scritto – sia impossibile vivere felicemente seguendo Epicuro: e dato che l’etica è il cuore della filosofia epicurea, distrutta quella, crollerà l’intero sistema. Una sferzante requisitoria contro l’epicureismo è, ad esempio, quella condotta da Plutarco contro l’epicureo Colote e nello scritto De latenter vivendo (in cui prende di mira l’agnosticismo politico di Epicuro). Il pensatore di Cheronea, così critico verso le diverse scuole di pensiero, assume un atteggiamento di acquiescenza verso la realtà politica presente, tessendo a più riprese le lodi di Roma, alla quale riconosce il merito di assicurare la pace, la sicurezza e la libertà a quanti si affidano alla sua protezione. Il vero obiettivo politico da raggiungere è allora quello della concordia tra i cittadini, rimuovendo ogni lotta tra loro: a questo scopo, Plutarco propone un ritorno alla paideìa, sulla scia di Platone. In un’epoca in cui il disegno politico platonico è ormai irrealizzabile, resta comunque viva la linea pedagogica del filosofo delle idee, a patto che la si porti all’altezza della nuova temperie culturale, così intrisa di religione e spiritualità. Anche se non fu mai un professore di filosofia (come lo sarà di lì a non molti decenni l’aristotelico Alessandro di Afrodisia), Plutarco si occupò per tutta la vita di questioni filosofiche, con un interesse che forse lo accomuna più che ad ogni altro a Cicerone: come Cicerone, egli non è uno specialista di filosofia in senso stretto, talvolta commette errori e fraintendimenti, non elabora un sistema proprio, ma si pone in costante dialogo con le menti illustri del passato, di cui cerca di riproporre i temi. Così, nell’Amatorius, egli elabora una sorta di rifacimento del Simposio platonico, declinandolo secondo i canoni della nuova sensibilità del suo tempo e, in questo modo, scostandosi talvolta dagli insegnamenti platonici: così l’obiettivo stesso del dialogo (dimostrare la superiorità dell’amore eterosessuale rispetto a quello omosessuale) è profondamente antiplatonico; verso l’omosessualità, Plutarco mostra una vera e propria repulsione, pur senza giungere a condannarla inappellabilmente (giacché era pur sempre stata un costume di grandi ingegni antichi).Il dialogo si finge narrato da Autobulo, un figlio di Plutarco, che racconta ad un certo Flaviano un episodio risalente ad anni addietro: i genitori di Autobulo (cioè Plutarco stesso e sua moglie, Timossena) si erano recati a Tespie, ai piedi del monte Elicona, per fare un sacrificio in onore di Eros e delle Grazie; la città era sconvolta dal gran parlare che si faceva intorno alla decisione della ricca vedova Ismenodora di sposare il giovanissimo Baccone. Alcuni parenti del giovane approvano la decisione, altri la rigettano: la cosa che più colpisce è che a decidere il tutto è Ismenodora, mentre Baccone accetta passivamente le decisioni altrui. A Plutarco, appartato nel santuario di Eros, giungono informazioni sulla vicenda e ciò costituisce lo spunto per il dialogo: intanto Ismenodora macchina, con l’appoggio di Baccone, un finto rapimento del giovane, in maniera da mettere la famiglia del ragazzo di fronte al fatto già compiuto; proprio mentre Plutarco sta tessendo l’elogio del matrimonio (contrapposto all’amore omosessuale) e della virtù delle donne, arriva la notizia dell’imminente felice matrimonio tra Baccone e Ismenodora. Nel corso del dialogo, Plutarco prova a dimostrare la natura divina di Eros, messa in dubbio da un interlocutore epicureo che si rivela piuttosto critico verso la religione. Se nel Simposio platonico Eros era un daimon, Plutarco lo descrive invece come un vero e proprio dio, grazie ad un’appassionata argomentazione dialettica: “Tu vuoi rimuovere gli inamovibili fondamenti della nostra fede negli dei, quando chiedi per ciascuno di loro una dimostrazione razionale. La fede ancestrale dei nostri padri si fonda su se stessa, non si può trovare ed escogitare prova più chiara di essa […]. Questa convinzione è una base, un fondamento comune posto all’origine della pietà religiosa; se in un solo punto viene messa in discussione la sua solidità e risulta scossa la convinzione generale, essa diventa tutta quanta instabile e sospetta” (Amatorius, 13, 756 B) UNITA’ 3 PARTE 20 IL NUOVO TESTAMENTO CON CENNI SULLA LETTERATURA CRISTIANA Il Nuovo Testamento è la raccolta dei 27 libri canonici che costituiscono la seconda parte della Bibbia cristiana. Citazioni Vangelo secondo Matteo • • • • • Genealogia di Gesù Cristo, figlio di Davide, figlio di Abramo. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, Giuda generò Fares da Tamar, […], Obed generò Iesse, Iesse generò Davide, Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Uria, Salomone generò Roboamo, […] Mattan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo. (1, 1-16) Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre però pensava a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». (1, 18-21) Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi. (1, 23) In quei giorni comparve Giovanni il Battista a predicare nel deserto della Giudea, dicendo: «Convertitevi, perché il regno dei cieli è vicino!» (3, 1 – 2) Vedendo però molti farisei e sadducei venire al suo battesimo, disse loro: «Razza di vipere! Chi vi ha suggerito di sottrarvi all'ira • • • • imminente? Fate dunque frutti degni di conversione, e non crediate di potere dire tra voi: Abbiamo Abramo per padre. Vi dico che Dio può far sorgere figli di Abramo da queste pietre. Già la scure è posta alla radice degli alberi: ogni albero che non produce frutti buoni viene tagliato e gettato nel fuoco. (3, 7 – 10) Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli. Beati gli afflitti, perché saranno consolati. Beati i miti, perché erediteranno la terra. Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati. Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia. Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio. Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio. Beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. (da Il discorso della Montagna, 5, 3-12) Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti. (7, 12) Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli! (21, 9) Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio. (22, 21) Vangelo secondo Marco • • Giovanni [Il Battista] era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, si cibava di locuste e miele selvatico e predicava: «Dopo di me viene uno che è più forte di me e al quale io non sono degno di chinarmi per sciogliere i lacci dei suoi sandali. Io vi ho battezzati con acqua, ma Egli vi battezzerà con lo Spirito Santo». (1, 6 – 8) Erode per il suo compleanno fece un banchetto per i grandi della sua corte, gli ufficiali e i notabili della Galilea. Entrata la figlia della stessa Erodiade, danzò e piacque a erode e ai commensali. Allora il re disse alla ragazza: «Chiedimi quello che vuoi e te lo darò». E le fece questo giuramento: «Qualsiasi cosa mi chiederai te la darò, fosse anche la metà del mio regno». La ragazza uscì e disse alla madre: «Che cosa devo chiedere?» Quella rispose: «La testa di Giovanni il Battista». Ed entrata di corsa dal re fece la richiesta dicendo: «Voglio che tu mi dia subito su un vassoio la testa di Giovanni il Battista». Il re ne fu rattristato; tuttavia, a motivo del giuramento e dei commensali, non volle opporle un rifiuto. E subito mandò una guardia con l'ordine che gli fosse portata la testa. • La guardia andò, lo decapitò in prigione e portò la testa su un vassoio, la diede alla ragazza e la ragazza la diede a sua madre. (6, 21 – 28) Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato! (15, 34) Vangelo secondo Luca • • • • Allora gli [a Zaccaria] apparve un angelo del Signore, ritto alla destra dell'altare dell'incenso. Quando lo vide Zaccaria si turbò e fu preso da timore. Ma l'angelo gli disse: «Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, che chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza e molti si rallegreranno della sua nascita, poiché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà pieno di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e ricondurrà molti figli d'Israele al Signore loro Dio. Gli camminerà innanzi con lo spirito e la forza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto». (1, 11 – 17) Nel sesto mese, l'arcangelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea chiamata Nazaret, a una vergine promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei disse: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te.» (1, 26 – 28) In quei giorni Maria si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe sentito il saluto di Maria, il bambino [Giovanni il Battista] le sussultò nel grembo. Elisabetta fu piena di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che debbo che la madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell'adempimento delle parole del Signore» (1, 39 – 45) All'ottavo giorno [dalla nascita] vennero per circoncidere il bambino e volevano chiamarlo con il nome di suo padre, Zaccaria. Ma sua madre [Elisabetta] intervenne: «No, si chiamerà Giovanni». Le dissero: «Non c'è nessuno della tua parentela che si chiami con questo nome». Allora domandavano con cenni a suo padre come voleva che si chiamasse. Egli chiese una tavoletta e scrisse: «Giovanni è il suo nome». Tutti furono meravigliati. (1, 59 – 65) • • • • Le folle lo [Giovanni] interrogavano: «Che cosa dobbiamo fare?». Rispondeva: «Chi ha due tuniche ne dia una a chi non ne ha; e chi ha da mangiare, faccia altrettanto». Vennero anche dei pubblicani a farsi battezzare e gli chiesero: «Maestro, che dobbiamo fare?». Ed egli disse loro: «Non esigete nulla di più di quanto vi è stato fissato». Lo interrogavano anche alcuni soldati: «E noi che dobbiamo fare?». Rispose: «Non maltrattate e non estorcete niente a nessuno, contentatevi delle vostre paghe». (3, 10 – 14) Ma il tetrarca Erode, biasimato da lui [Giovanni il Battista] a causa di Erodiade, moglie di suo fratello, e per tutte le scelleratezze che aveva commesso, aggiunse alle altre anche questa: fece rinchiudere Giovanni in prigione. (3, 19 – 20) Medico, cura te stesso. (4, 23) Ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione. (15, 7) Vangelo secondo Giovanni • • • • • • • Filippo incontrò Natanaele e gli disse: «Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret» (1, 45) Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. (3, 16) Nacque allora una discussione tra i discepoli di Giovanni e un Giudeo riguardo alla purificazione. Andarono perciò da Giovanni e gli dissero: «Rabbi, colui che era con te dall'altra parte del Giordano, e al quale hai reso testimonianza, ecco, sta battezzando e tutti accorrono a lui». Giovanni rispose: «Nessuno può prendersi qualcosa che non gli è stato dato dal cielo. Voi stessi mi siete testimoni che ho detto: Non sono io il Cristo, ma io sono stato mandato innanzi a lui. Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l'amico dello sposo, che è presente e l'ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo. Ora questa mia gioia è compiuta. Egli deve crescere e io diminuire. (3, 25 – 30) Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra. (8, 7) Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi. (8, 31-32) Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici. (15, 13) Allora Pilato gli disse: "Dunque tu sei re?". Rispose Gesù: "Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce". (18, 37) Atti degli Apostoli • • • • Allora Paolo, alzatosi in mezzo all'Aeropago, disse: «Cittadini ateniesi, vedo che in tutto siete molto timorati degli dei. Passando infatti ed osservando i monumenti del vostro culto, ho trovato anche un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza conoscere, io ve l'annunzio» (17, 22 – 23) Approdammo a Siracusa, dove rimanemmo tre giorni 13e di qui, costeggiando, giungemmo a Reggio. (28, 12 – 13) Vi è più gioia nel dare che nel ricevere. (20, 35) Ma quando l'ebbero legato con le cinghie, Paolo disse: «Potete voi flagellare un cittadino romano, non ancora giudicato?». Udito ciò il centurione corse a riferire al tribuno: «Che cosa stai per fare? Quell'uomo è un romano!» allora il tribuno si recò da paolo e gli domandò: «Dimmi, tu sei cittadino romano?». Rispose: «Sì». Replicò il tribuno: «Io questa cittadinanza l'ho pagata a caro prezzo». Paolo disse: «Io, invece, lo sono di nascita». E subito si allontanarono da lui quelli che dovevano interrogarlo. Anche il tribuno ebbe paura rendendosi conto che Paolo era cittadino romano e che lui lo aveva messo in catene. Il giorno seguente, volendo conoscere la realtà dei fatti, cioè il motivo per cui veniva accusato dai Giudei, gli fece togliere le catene e ordinò che si riunissero i sommi sacerdoti e tutto il sinedrio; vi fece condurre Paolo e lo presentò davanti a loro. (22, 25 – 30) Lettera ai Romani • Giustificati dunque per fede, abbiamo pace con Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore, mediante il quale abbiamo anche avuto, per la fede, l'accesso a questa grazia nella quale stiamo fermi; e ci gloriamo nella speranza della gloria di Dio; non solo, ma ci gloriamo anche nelle afflizioni, sapendo che l'afflizione produce pazienza, la pazienza esperienza, e l'esperienza speranza. Or la speranza non delude, perché l'amore di Dio è stato sparso nei nostri cuori mediante lo Spirito Santo che ci è stato dato. Infatti, mentre noi eravamo ancora senza forza, Cristo, a suo tempo, è morto per gli empi. Difficilmente uno morirebbe per un giusto; ma forse per una persona buona qualcuno avrebbe il coraggio di morire; Dio invece mostra la grandezza del proprio amore per noi in questo: che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi. Tanto più dunque, essendo ora giustificati per il suo sangue, saremo per mezzo di lui salvati dall'ira. Se infatti, mentre eravamo nemici, siamo stati riconciliati con Dio mediante la morte del Figlio suo, tanto più ora, che siamo riconciliati, saremo salvati mediante la sua vita. Non solo, ma ci gloriamo anche in Dio per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, mediante il quale abbiamo ora ottenuto la riconciliazione. (5:1-11) Prima lettera ai Corinzi • • • • Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna. (13, 1) La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell'ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. (13, 4 – 7) La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. (13, 8) Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità! (13, 13) Lettera agli Efesini • Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia. (1, 3-7) Lettera ai Filippesi • Abbiate in voi gli stessi sentimenti che furono in Cristo Gesù, il quale, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. (2, 5-8) Apocalisse di Giovanni • • Io, Giovanni, vostro fratello e vostro compagno di tribolazione, nel regno e nella costanza in Gesù, mi trovavo nell'isola chiamata Patmos a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù. Rapito in estasi, nel giorno del Signore, udii dietro di me una voce potente, come di tromba, che diceva: Quello che vedi scrivilo in un libro e mandalo alle sette Chiese: a Efeso, a Smirne, a Pergamo, a Tiatira, a Sardi, a Filadelfia e a Laodicea. (1, 9-12) Scoppiò quindi una guerra nel cielo: Michele e i suoi angeli combattevano contro il drago. Il drago combatteva insieme con i suoi angeli, ma non prevalsero e non ci fu più posto per essi in cielo. Il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e satana e che seduce tutta la terra, fu precipitato sulla terra e con lui furono precipitati anche i suoi angeli. (12, 7) Incipit di alcuni libri Vangelo secondo Matteo Genealogia di Gesù Cristo figlio di Davide, figlio di Abramo. Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuda e i suoi fratelli, Giuda generò Fares e Zara da Tamar, Fares generò Esròm, Esròm generò Aram, Aram generò Aminadàb, Aminadàb generò Naassòn, Naassòn generò Salmòn, Salmòn generò Booz da Racab, Booz generò Obed da Rut, Obed generò Iesse, Iesse generò il re Davide. Davide generò Salomone da quella che era stata la moglie di Uria, Salomone generò Roboamo, Roboamo generò Abìa, Abìa generò Asàf, Asàf generò Giòsafat, Giòsafat generò Ioram, Ioram generò Ozia, Ozia generò Ioatam, Ioatam generò Acaz, Acaz generò Ezechia, Ezechia generò Manasse, Manasse generò Amos, Amos generò Giosia, Giosia generò Ieconia e i suoi fratelli, al tempo della deportazione in Babilonia. Dopo la deportazione in Babilonia, Ieconia generò Salatiel, Salatiel generò Zorobabèle, Zorobabèle generò Abiùd, Abiùd generò Elìacim, Elìacim generò Azor, Azor generò Sadoc, Sadoc generò Achim, Achim generò Eliùd, Eliùd generò Eleàzar, Eleàzar generò Mattan, Mattan generò Giacobbe, Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù chiamato Cristo. Vangelo secondo Marco Inizio del vangelo di Gesù Cristo, Figlio di Dio. Come è scritto nel profeta Isaia: Ecco, io mando il mio messaggero davanti a te, egli ti preparerà la strada. Voce di uno che grida nel deserto: preparate la strada del Signore, raddrizzate i suoi sentieri, si presentò Giovanni a battezzare nel deserto, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati. • Quando si risuscita dai morti non si prende né moglie né marito, ma si è come degli angeli del cielo. (12,25) Vangelo secondo Luca Poiché molti han posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che ne furono testimoni fin da principio e divennero ministri della parola, così ho deciso anch'io di fare ricerche accurate su ogni circostanza fin dagli inizi e di scriverne per te un resoconto ordinato, illustre Teòfilo, perché ti possa rendere conto della solidità degli insegnamenti che hai ricevuto. Vangelo secondo Giovanni In principio era il Verbo, il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. Egli era in principio presso Dio: tutto è stato fatto per mezzo di lui, e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste. In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini; la luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l'hanno accolta. Venne un uomo mandato da Dio e il suo nome era Giovanni. Egli venne come testimone per rendere testimonianza alla luce, perché tutti credessero per mezzo di lui. Egli non era la luce, ma doveva render testimonianza alla luce. Veniva nel mondo la luce vera, quella che illumina ogni uomo. Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente, ma i suoi non l'hanno accolto. A quanti però l'hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati. Atti degli Apostoli Nel mio primo libro ho già trattato, o Teòfilo, di tutto quello che Gesù fece e insegnò dal principio fino al giorno in cui, dopo aver dato istruzioni agli apostoli che si era scelti nello Spirito Santo, egli fu assunto in cielo. Egli si mostrò ad essi vivo, dopo la sua passione, con molte prove, apparendo loro per quaranta giorni e parlando del regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere che si adempisse la promessa del Padre "quella, disse, che voi avete udito da me: Giovanni ha battezzato con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo, fra non molti giorni". Così venutisi a trovare insieme gli domandarono: "Signore, è questo il tempo in cui ricostituirai il regno di Israele?". Ma egli rispose: "Non spetta a voi conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta, ma avrete forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi e mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino agli estremi confini della terra". Detto questo, fu elevato in alto sotto i loro occhi e una nube lo sottrasse al loro sguardo. Lettera ai Romani Paolo, servo di Cristo Gesù, apostolo per vocazione, prescelto per annunziare il vangelo di Dio, che egli aveva promesso per mezzo dei suoi profeti nelle sacre Scritture, riguardo al Figlio suo, nato dalla stirpe di Davide secondo la carne, costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la risurrezione dai morti, Gesù Cristo, nostro Signore. Per mezzo di lui abbiamo ricevuto la grazia dell'apostolato per ottenere l'obbedienza alla fede da parte di tutte le genti, a gloria del suo nome; e tra queste siete anche voi, chiamati da Gesù Cristo. A quanti sono in Roma diletti da Dio e santi per vocazione, grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo. Anzitutto rendo grazie al mio Dio per mezzo di Gesù Cristo riguardo a tutti voi, perché la fama della vostra fede si espande in tutto il mondo. Quel Dio, al quale rendo culto nel mio spirito annunziando il vangelo del Figlio suo, mi è testimone che io mi ricordo sempre di voi, chiedendo sempre nelle mie preghiere che per volontà di Dio mi si apra una strada per venire fino a voi. Prima lettera ai Corinzi Paolo, chiamato ad essere apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, alla Chiesa di Dio che è in Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo. Ringrazio continuamente il mio Dio per voi, a motivo della grazia di Dio che vi è stata data in Cristo Gesù, perché in lui siete stati arricchiti di tutti i doni, quelli della parola e quelli della scienza. La testimonianza di Cristo si è infatti stabilita tra voi così saldamente, che nessun dono di grazia più vi manca, mentre aspettate la manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo. Egli vi confermerà sino alla fine, irreprensibili nel giorno del Signore nostro Gesù Cristo: fedele è Dio, dal quale siete stati chiamati alla comunione del Figlio suo Gesù Cristo, Signore nostro! Seconda lettera ai Corinzi Paolo, apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio, e il fratello Timòteo, alla chiesa di Dio che è in Corinto e a tutti i santi dell'intera Acaia: grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo. Sia benedetto Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione, il quale ci consola in ogni nostra tribolazione perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in qualsiasi genere di afflizione con la consolazione con cui siamo consolati noi stessi da Dio. Infatti, come abbondano le sofferenze di Cristo in noi, così, per mezzo di Cristo, abbonda anche la nostra consolazione. Quando siamo tribolati, è per la vostra consolazione e salvezza; quando siamo confortati, è per la vostra consolazione, la quale si dimostra nel sopportare con forza le medesime sofferenze che anche noi sopportiamo. La nostra speranza nei vostri riguardi è ben salda, convinti che come siete partecipi delle sofferenze così lo siete anche della consolazione. Lettera ai Galati Paolo, apostolo non da parte di uomini, né per mezzo di uomo, ma per mezzo di Gesù Cristo e di Dio Padre che lo ha risuscitato dai morti, e tutti i fratelli che sono con me, alle Chiese della Galazia. Grazia a voi e pace da parte di Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo, che ha dato se stesso per i nostri peccati, per strapparci da questo mondo perverso, secondo la volontà di Dio e Padre nostro, al quale sia gloria nei secoli dei secoli. Amen. Mi meraviglio che così in fretta da colui che vi ha chiamati con la grazia di Cristo passiate ad un altro vangelo. In realtà, però, non ce n'è un altro; solo che vi sono alcuni che vi turbano e vogliono sovvertire il vangelo di Cristo. Lettera agli Efesini Paolo, apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio, ai santi che sono in Efeso, credenti in Cristo Gesù: grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo. Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo. In lui ci ha scelti prima della creazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto nella carità, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, secondo il beneplacito della sua volontà. E questo a lode e gloria della sua grazia, che ci ha dato nel suo Figlio diletto; nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue, la remissione dei peccati secondo la ricchezza della sua grazia. Lettera ai Filippesi Paolo e Timoteo, servi di Cristo Gesù, a tutti i santi in Cristo Gesù che sono a Filippi, con i vescovi e i diaconi. Grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro, e dal Signore Gesù Cristo. Ringrazio il mio Dio ogni volta ch'io mi ricordo di voi, pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera, a motivo della vostra cooperazione alla diffusione del vangelo dal primo giorno fino al presente, e sono persuaso che colui che ha iniziato in voi quest'opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù. È giusto, del resto, che io pensi questo di tutti voi, perché vi porto nel cuore, voi che siete tutti partecipi della grazia che mi è stata concessa sia nelle catene, sia nella difesa e nel consolidamento del vangelo. Lettera ai Colossesi Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, e il fratello Timòteo, ai santi e fedeli fratelli in Cristo dimoranti in Colossi grazia a voi e pace da Dio, Padre nostro! Noi rendiamo continuamente grazie a Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo, nelle nostre preghiere per voi, per le notizie ricevute della vostra fede in Cristo Gesù, e della carità che avete verso tutti i santi, in vista della speranza che vi attende nei cieli. Di questa speranza voi avete già udito l'annunzio dalla parola di verità del vangelo che è giunto a voi, come pure in tutto il mondo fruttifica e si sviluppa; così anche fra voi dal giorno in cui avete ascoltato e conosciuto la grazia di Dio nella verità, che avete appresa da Epafra, nostro caro compagno nel ministero; egli ci supplisce come un fedele ministro di Cristo, e ci ha pure manifestato il vostro amore nello Spirito. Prima lettera ai Tessalonicesi Paolo, Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: grazia a voi e pace! Ringraziamo sempre Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere, continuamente memori davanti a Dio e Padre nostro del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità e della vostra costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo. Noi ben sappiamo, fratelli amati da Dio, che siete stati eletti da lui. Il nostro vangelo, infatti, non si è diffuso fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con potenza e con Spirito Santo e con profonda convinzione, come ben sapete che siamo stati in mezzo a voi per il vostro bene. E voi siete diventati imitatori nostri e del Signore, avendo accolto la parola con la gioia dello Spirito Santo anche in mezzo a grande tribolazione, così da diventare modello a tutti i credenti che sono nella Macedonia e nell'Acaia. Seconda lettera ai Tessalonicesi Paolo, Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicesi che è in Dio Padre nostro e nel Signore Gesù Cristo: grazia a voi e pace da Dio Padre e dal Signore Gesù Cristo. Dobbiamo sempre ringraziare Dio per voi, fratelli, ed è ben giusto. La vostra fede infatti cresce rigogliosamente e abbonda la vostra carità vicendevole; così noi possiamo gloriarci di voi nelle Chiese di Dio, per la vostra fermezza e per la vostra fede in tutte le persecuzioni e tribolazioni che sopportate. Questo è un segno del giusto giudizio di Dio, che vi proclamerà degni di quel regno di Dio, per il quale ora soffrite. È proprio della giustizia di Dio rendere afflizione a quelli che vi affliggono e a voi, che ora siete afflitti, sollievo insieme a noi, quando si manifesterà il Signore Gesù dal cielo con gli angeli della sua potenza in fuoco ardente, a far vendetta di quanti non conoscono Dio e non obbediscono al vangelo del Signore nostro Gesù. Prima lettera a Timoteo Paolo, apostolo di Cristo Gesù, per comando di Dio nostro salvatore e di Cristo Gesù nostra speranza, a Timòteo, mio vero figlio nella fede: grazia, misericordia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù Signore nostro. Partendo per la Macedonia, ti raccomandai di rimanere in Efeso, perché tu invitassi alcuni a non insegnare dottrine diverse e a non badare più a favole e a genealogie interminabili, che servono più a vane discussioni che al disegno divino manifestato nella fede. Il fine di questo richiamo è però la carità, che sgorga da un cuore puro, da una buona coscienza e da una fede sincera. Seconda lettera a Timoteo Paolo, apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio, per annunziare la promessa della vita in Cristo Gesù, al diletto figlio Timòteo: grazia, misericordia e pace da parte di Dio Padre e di Cristo Gesù Signore nostro. Ringrazio Dio, che io servo con coscienza pura come i miei antenati, ricordandomi sempre di te nelle mie preghiere, notte e giorno; mi tornano alla mente le tue lacrime e sento la nostalgia di rivederti per essere pieno di gioia. Mi ricordo infatti della tua fede schietta, fede che fu prima nella tua nonna Lòide, poi in tua madre Eunìce e ora, ne sono certo, anche in te. Per questo motivo ti ricordo di ravvivare il dono di Dio che è in te per l'imposizione delle mie mani. Dio infatti non ci ha dato uno Spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza. Lettera a Tito Paolo, servo di Dio, apostolo di Gesù Cristo per chiamare alla fede gli eletti di Dio e per far conoscere la verità che conduce alla pietà ed è fondata sulla speranza della vita eterna, promessa fin dai secoli eterni da quel Dio che non mentisce, e manifestata poi con la sua parola mediante la predicazione che è stata a me affidata per ordine di Dio, nostro salvatore, a Tito, mio vero figlio nella fede comune: grazia e pace da Dio Padre e da Cristo Gesù, nostro salvatore. Per questo ti ho lasciato a Creta perché regolassi ciò che rimane da fare e perché stabilissi presbiteri in ogni città, secondo le istruzioni che ti ho dato. Lettera a Filemone Paolo, prigioniero di Cristo Gesù, e il fratello Timòteo al nostro caro collaboratore Filèmone, alla sorella Appia, ad Archippo nostro compagno d'armi e alla comunità che si raduna nella tua casa: grazia a voi e pace da Dio nostro Padre e dal Signore Gesù Cristo. Rendo sempre grazie a Dio ricordandomi di te nelle mie preghiere, perché sento parlare della tua carità per gli altri e della fede che hai nel Signore Gesù e verso tutti i santi. La tua partecipazione alla fede diventi efficace per la conoscenza di tutto il bene che si fa tra voi per Cristo. Lettera agli Ebrei Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio, che ha costituito erede di tutte le cose e per mezzo del quale ha fatto anche il mondo. Questo Figlio, che è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza e sostiene tutto con la potenza della sua parola, dopo aver compiuto la purificazione dei peccati si è assiso alla destra della maestà nell'alto dei cieli, ed è diventato tanto superiore agli angeli quanto più eccellente del loro è il nome che ha ereditato. Infatti a quale degli angeli Dio ha mai detto: Tu sei mio figlio; oggi ti ho generato? E ancora: Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio? Lettera di Giacomo Giacomo, servo di Dio e del Signore Gesù Cristo, alle dodici tribù disperse nel mondo, salute. Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove, sapendo che la prova della vostra fede produce la pazienza. E la pazienza completi l'opera sua in voi, perché siate perfetti e integri, senza mancare di nulla. Se qualcuno di voi manca di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data. La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all'onda del mare mossa e agitata dal vento; e non pensi di ricevere qualcosa dal Signore un uomo che ha l'animo oscillante e instabile in tutte le sue azioni. Prima lettera di Pietro Pietro, apostolo di Gesù Cristo, ai fedeli dispersi nel Ponto, nella Galazia, nella Cappadòcia, nell'Asia e nella Bitinia, eletti secondo la prescienza di Dio Padre, mediante la santificazione dello Spirito, per obbedire a Gesù Cristo e per essere aspersi del suo sangue: grazia e pace a voi in abbondanza. Sia benedetto Dio e Padre del Signore nostro Gesù Cristo; nella sua grande misericordia egli ci ha rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per una eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce. Essa è conservata nei cieli per voi, che dalla potenza di Dio siete custoditi mediante la fede, per la vostra salvezza, prossima a rivelarsi negli ultimi tempi. Perciò siete ricolmi di gioia, anche se ora dovete essere un po' afflitti da varie prove, perché il valore della vostra fede, molto più preziosa dell'oro, che, pur destinato a perire, tuttavia si prova col fuoco, torni a vostra lode, gloria e onore nella manifestazione di Gesù Cristo: voi lo amate, pur senza averlo visto; e ora senza vederlo credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre conseguite la mèta della vostra fede, cioè la salvezza delle anime. Seconda lettera di Pietro Simon Pietro, servo e apostolo di Gesù Cristo, a coloro che hanno ricevuto in sorte con noi la stessa preziosa fede per la giustizia del nostro Dio e salvatore Gesù Cristo: grazia e pace sia concessa a voi in abbondanza nella conoscenza di Dio e di Gesù Signore nostro. La sua potenza divina ci ha fatto dono di ogni bene per quanto riguarda la vita e la pietà, mediante la conoscenza di colui che ci ha chiamati con la sua gloria e potenza. Con queste ci ha donato i beni grandissimi e preziosi che erano stati promessi, perché diventaste per loro mezzo partecipi della natura divina, essendo sfuggiti alla corruzione che è nel mondo a causa della concupiscenza. Per questo mettete ogni impegno per aggiungere alla vostra fede la virtù, alla virtù la conoscenza, alla conoscenza la temperanza, alla temperanza la pazienza, alla pazienza la pietà, alla pietà l'amore fraterno, all'amore fraterno la carità. Prima lettera di Giovanni Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l'abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta. Questo è il messaggio che abbiamo udito da lui e che ora vi annunziamo: Dio è luce e in lui non ci sono tenebre. Seconda lettera di Giovanni Io, il presbitero, alla Signora eletta e ai suoi figli che amo nella verità, e non io soltanto, ma tutti quelli che hanno conosciuto la verità, a causa della verità che dimora in noi e dimorerà con noi in eterno: grazia, misericordia e pace siano con noi da parte di Dio Padre e da parte di Gesù Cristo, Figlio del Padre, nella verità e nell'amore. Mi sono molto rallegrato di aver trovato alcuni tuoi figli che camminano nella verità, secondo il comandamento che abbiamo ricevuto dal Padre. E ora prego te, Signora, non per darti un comandamento nuovo, ma quello che abbiamo avuto fin dal principio, che ci amiamo gli uni gli altri. E in questo sta l'amore: nel camminare secondo i suoi comandamenti. Questo è il comandamento che avete appreso fin dal principio; camminate in esso. Terza lettera di Giovanni Io, il presbitero, al carissimo Gaio, che amo nella verità. Carissimo, faccio voti che tutto vada bene e che tu sia in buona salute, come va bene per la tua anima. Molto infatti mi sono rallegrato quando sono giunti alcuni fratelli e hanno reso testimonianza che tu sei verace in quanto tu cammini nella verità. Non ho gioia più grande di questa, sapere che i miei figli camminano nella verità. Carissimo, tu ti comporti fedelmente in tutto ciò che fai in favore dei fratelli, benché forestieri. Essi hanno reso testimonianza della tua carità davanti alla Chiesa, e farai bene a provvederli nel viaggio in modo degno di Dio, perché sono partiti per amore del nome di Cristo, senza accettare nulla dai pagani. Lettera di Giuda Giuda, servo di Gesù Cristo, fratello di Giacomo, agli eletti che vivono nell'amore di Dio Padre e sono stati preservati per Gesù Cristo: misericordia a voi e pace e carità in abbondanza. Carissimi, avevo un gran desiderio di scrivervi riguardo alla nostra salvezza, ma sono stato costretto a farlo per esortarvi a combattere per la fede, che fu trasmessa ai credenti una volta per tutte. Si sono infiltrati infatti tra voi alcuni individui – i quali sono già stati segnati da tempo per questa condanna – empi che trovano pretesto alla loro dissolutezza nella grazia del nostro Dio, rinnegando il nostro unico padrone e signore Gesù Cristo. Ora io voglio ricordare a voi, che già conoscete tutte queste cose, che il Signore dopo aver salvato il popolo dalla terra d'Egitto, fece perire in seguito quelli che non vollero credere, e che gli angeli che non conservarono la loro dignità ma lasciarono la propria dimora, egli li tiene in catene eterne, nelle tenebre, per il giudizio del gran giorno. Apocalisse di Giovanni Rivelazione di Gesù Cristo che Dio gli diede per render noto ai suoi servi le cose che devono presto accadere, e che egli manifestò inviando il suo angelo al suo servo Giovanni. Questi attesta la parola di Dio e la testimonianza di Gesù Cristo, riferendo ciò che ha visto. Beato chi legge e beati coloro che ascoltano le parole di questa profezia e mettono in pratica le cose che vi sono scritte. Perché il tempo è vicino. Giovanni alle sette Chiese che sono in Asia: grazia a voi e pace da Colui che è, che era e che viene, dai sette spiriti che stanno davanti al suo trono, e da Gesù Cristo, il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra. A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.