musicoterapia

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MUSICOTERAPIA
Massimo Borghesi, Claudio Bonanomi
Storia
Ci sarebbero diverse storie della musicoterapia da raccontare: si potrebbe partire dal
mito di Orfeo e della sua cetra con la quale compì numerosi prodigi; oppure
potremmo interessarci dei primi reperti egizi sull’uso della musica per agire sul corpo
umano; o altrimenti potremmo prendere le nostre mosse dai concetti di ordine ed
armonia della cultura greca e del ruolo che alla musica era riconosciuto come mezzo
per ridurre il disordine; ancora, si potrebbe parlare della tarantella e di come questa
musica e questa danza fossero considerate nel meridione d’Italia, fin dal medioevo,
modalità terapeutiche d’elezione per la cura di un quadro sintomatologico
denominato tarantismo. Ma non è questa la storia della musicoterapia che ci preme
sottolineare.
Si potrebbe allora orientare il fuoco verso la metà degli anni settanta, periodo in cui
si sono costituiti in Italia i primi gruppi di lavoro sulla musicoterapia, con l’avvio di
studi e ricerche sistematiche e la costituzione delle prime forme associative.
Effettivamente la musicoterapia italiana ha un grande debito nei confronti di quei
pionieri; in particolar modo andrebbe ricordato il lavoro di Nora Cervi e della scuola di
Assisi, di Liliana Rossi Pritoni e del CEFIG Antoniano, di Giovanna Mutti e
dell’AIStMT. Ma neppure questa è la storia della musicoterapia che tratteremo. Negli
ultimi anni si sono moltiplicati i corsi di formazione, i convegni, le attività seminariali,
le pubblicazioni in materia, i siti Internet, in una maniera tanto stimolante quanto
disorganica. Neppure la mappatura di questa costellazione sarà oggetto delle nostre
attenzioni. In realtà, non parleremo per niente della storia della musicoterapia;
faremo invece una cronaca degli eventi d'
attualità. Il 28/10/1994 è nata a Napoli la
Confederazione Italiana delle Associazioni di Musicoterapia (CONFIAM). Lo scopo
principale della CONFIAM è quello di unire le diverse realtà istituzionali, geografiche
e applicative della musicoterapia al fine di un riconoscimento della disciplina e della
figura professionale dell’operatore che la pratica. A tale organismo aderiscono
associazioni e scuole rappresentative di tutto il territorio nazionale: AMO Bari, AMPS
(Catania), APIM (Genova), CeToM (Firenze), CRM (Napoli), CTMt (Trento), FEDIM
(Roma), IMMt (Bari), MUSIKE’ (Cuneo), SIM (Roma), TEATRARE (Salerno),
ARCMO
(Catanzaro),
L’ACCORDO
(Chiavari),
CEMB
(Milano),
LA
LINEA
1
DELL’ARCO (Lecco), CEFIG (Bologna), LA MUSICA INTERNA (Bologna), ANNI
VERDI (Roma). All’interno della CONFIAM i lavori sono articolati in commissioni
tematiche, ognuna delle quali monitorizza specifici aspetti della realtà musicoterapica
esistente ed elabora strategie per innalzarne il livelli di professionalità; la
commissione “formazione” ha svolto e svolge tuttora un ruolo fondamentale
nell’uniformazione e nella qualificazione dei corsi di musicoterapia; la commissione
“deontologia” ha curato l’elaborazione di un codice etico per musicoterapisti; la
commissione “ricerca” per delineare specifiche modalità della ricerca e della
comunicazione scientifica in musicoterapia; la commissione “profilo professionale”
per gli aspetti giuridici della professione. Il prodotto di questa sinergia è un percorso
molto avanzato per il riconoscimento della disciplina e della figura professionale a
livello delle massime istituzioni statali. Fondatore e presidente CONFIAM, presidente
della European Music Therapy Confederation (EMTC), vice presidente World
Federation of Music Therapy (WFMT), Gian Luigi Di Franco (Napoli) è la personalità
italiana che si è maggiormente adoperata in questi anni per la promozione di una
cultura cooperativa in ambito musicoterapico.
Definizioni
Cos’è la musicoterapia ? Bruscia (1989) ritiene utile distinguere una musica IN
terapia da una musica COME terapia. Nel contesto di una psicoterapia la musica
verrà impiegata come ausilio del lavoro terapeutico. Nel secondo caso, viceversa, la
musica costituisce il tramite principale per l’azione terapeutica. Secondo problema:
sempre secondo Bruscia, anche nell’ambito della musica come terapia è possibile
che la diversa provenienza degli operatori, musicisti o terapeuti, consenta di
distinguere, nel contesto di un progetto terapeutico, situazioni nelle quali la musica
assume un ruolo prioritario al punto da poter essere considerata terapeutica di per
se stessa (MUSICOterapia), da situazioni nelle quali la musica assume un ruolo
importante di facilitazione nel contesto di un lavoro preminentemente basato sullo
sviluppo della relazione (musicoTERAPIA).
musica IN terapia
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MUSICOTERAPIA
MUSICOterapia
musica COME terapia
musicoTERAPIA
Riguardo a questa classificazione dall’indubbia efficacia descrittiva, la posizione di
molti professionisti italiani può considerarsi più articolata. Si ritiene, infatti, che
l’incontro tra forme musicali e vita mentale si configuri come evento originale e
specifico; parimenti, dall’incontro fra la componente musicale e quella terapeutica, si
origina un linguaggio specifico e diverso da quello delle componenti di partenza.
Questa concezione di musicoterapia riconosce sia l’importanza del mediatore sonoro
che quella di collocare quest’ultimo in un’adeguata cornice relazionale. Questa pari
importanza attribuita ai due elementi costitutivi del discorso musicoterapico non ci
consente di collocarci in un punto preciso dello schema di Bruscia. Terzo problema:
quale musica e quale terapia ? La parola in sé non ci è di grande aiuto, in quanto
comunemente accettata come termine ombrello sotto il quale riunire diversi
significati. In particolare va precisato che in quel “musico” vi è qualcosa di più ampio
della musica come comunemente la intendiamo; la definizione più comunemente
accettata è quella di universo sonoro, nella quale rientrano non solo musiche di
epoche e culture differenti dalla nostra, ma anche suoni corporei, rumori, stereotipie
fonetiche, e così via. Anche per il suffisso le cose non sono meno incerte: pare infatti
che in musicoterapia “terapia” sia da intendere come psicoterapia non verbale, ma
anche come riabilitazione, nel senso di tecniche per il recupero di abilità che sono
state secondariamente compromesse dall’evento morboso, ed anche, in una terza
significazione, come integrazione scolastica. Chi opera nel campo del disagio è
spesso chiamato a cogliere il senso di verità nascoste, difficili da raggiungere e
ancor più da correggere nella direzione di un maggior benessere. Lo sforzo dei
musicoterapisti è quello di sintonizzarsi con la persona oggetto di cure, utilizzando a
tal fine le loro competenze sonoro/musicali e relazionali nell'
ottica di una
comunicazione non verbale. Una volta stabilito un contatto questo potrà essere
articolato nel tentativo di stabilire una relazione significativa, la quale ci permetterà di
perseguire l’obiettivo di un buon grado di armonia della persona, nel senso di
sviluppo armonico di sensi, motricità, intelligenza ed affettività.
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Musicoterapia per l’integrazione
Nel programma ministeriale per la scuola elementare si afferma che: “Nell’ambito di
attività di educazione al suono e alla musica è da tenere presente il valore che
possono assumere eventuali interventi specialistici di musicoterapia rivolti a soggetti
in situazione di handicap” (Casadei, De Notariis, 1989). Per dirla con Zucchini (1989)
“il vocabolo musicoterapia è da intendere in questa accezione come intervento
pedagogico e non terapeutico, perché parliamo di interventi musicali a scuola
effettuati da insegnanti di educazione musicale che verrebbero svolti anche con
portatori di handicap”. Zingarelli definisce l'
integrare come “rendere qualcosa
completo, più valido aggiungendovi elementi”. In questo caso integrazione significa
essere consapevoli che la diversità non è un ostacolo da abbattere o normalizzare,
bensì una risorsa da incontrare.
Con quale musica possiamo allora favorire questo percorso che va dalle diversità
incomunicanti alle diversità dialoganti? Innanzi tutto diremmo con una musica
analogica, ovvero una musica che abbia la forma, il suono e l’affettività dei ragazzi ai
quali si rivolge, che li somigli. Quindi non parliamo di una musica colta, di un sapere
che arriva dall’alto, ma che avvicini i dati sensoriali, affettivi, cognitivi e motori dei
destinatari. Sarà quindi una musica che parte dall’idea di gioco, ludicamente
organizzata. Questo significa mettere al centro dell’attività musicale la motivazione
dei ragazzi, partire da qualcosa che ne valorizzi l’orientamento naturale. Musica
analogica, ludica, ma anche ecologica; una musica che si consuma, si suda, vera e
non virtuale; una musica dove si sbaglia e dopo che si è sbagliato si sente il suono
arrivare nel momento in cui la mano non l’avrebbe voluto; così si correggono dei
coordinamenti psicomotori, si avvertono le ripercussioni della propria azione
musicale sugli altri; come dire, l’errore è una risorsa riciclabile. Un’altra caratteristica
della musica per l’integrazione scolastica è la curiosità. Si tratta di una ricerca di
suoni, di scoperte, di composizioni; i bambini girano un tamburo, ci mettono la testa
dentro, ne graffiano le pelli; suonano i termosifoni, i vetri, le lavagne; e poi
assemblano, arricchiscono il loro repertorio di questa ricerca, di questa curiosità. E’
una musica che cerca i suoni, li monta, li smonta e poi magari li scarta, ma non per
l’imposizione di qualcuno, bensì per scelta, per invenzione, per fantasia: una musica
che è in grado di rappresentare il mondo immaginario dei bambini. Ci sono infatti
suoni che fanno paura, altri che sbalordiscono, altri ancora che divertono. Questi
suoni sono in grado di attivare funzionamenti sensoriali e simbolici pertinenti con le
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nostre personalissime identità profonde. La musica per l’integrazione è dialogo
autentico, quello in cui innanzi tutto si litiga, ed in cui la pace è frutto di una conquista
dinamica e non di istanze repressive; timbri, ritmi, intervalli ed intensità possono
certamente costituirsi come terreno di scontro e mediazione, di dissonanza e
pacificazione, di squilibrio ed armonizzazione. Certamente è una musica che
necessita del contributo di qualcuno che possieda anche un sapere, qualcuno in
grado di favorire esperienze assistite, calibrate esattamente per questo incontro che
è l’integrazione, qualcuno che suggerisca adeguati percorsi di lavoro. C’è da
precisare in coda a questo paragrafo che rimane ancora da chiarire, dopo anni di più
o meno accesi dibattiti, se questo tipo di interventi possano riferirsi all’ambito
epistemologico della musicoterapia, a quello dell’educazione, o se esista qualcosa di
distinto da queste due, che chiamiamo animazione musicale; certo è che gli
interventi di questo tipo in ambito educativo, comunque li si chiami, sono validi e
numerosi. Alcuni autori hanno particolarmente contribuito ad una chiarificazione della
materia in questione: Mario Piatti, del Conservatorio di Castelfranco Veneto, del
quale abbiamo apprezzato l’opera intellettuale in numerosi convegni, seminari e
pubblicazioni (1993); François Delalande per il suo volume sulle condotte musicali
(1993); Enrico Strobino, per la ricchezza degli stimoli che è in grado di fornire nei
suoi libri, dischi (1996) e laboratori.
Musicoterapia per la riabilitazione
Le tecniche più frequentemente utilizzate in questo ambito variano dalle esercitazioni
di pratica vocale e strumentale, a drammatizzazioni musico- teatrali, a lavori di
analisi e composizione di canzoni; ciò che consente di riconoscere queste differenti
attività come appartenenti ad un’unica area d’intervento è la filosofia generale che le
ispira e che consiste nel confidare in una prassi, uno schema, una serie di suoni, che
essendo già predisposti in forma strutturata, possono sollecitare non soltanto il
recupero di canali e competenze sottostimolati, ma anche il trasferimento della
strutturazione intrinseca in tali eventi sonori alle funzioni dell'
individuo, favorendone,
nei limiti del possibile, una ricomposizione armonica. L’intervento riabilitativo si
caratterizza (anche) per le grandi quantità di fiducia, ottimismo, pazienza,
incoraggiamento, che l’operatore profonde e delle quali sollecita l’espressione da
parte dei pazienti. A ciò spesso corrispondono sollecitazioni all’espressione, con
particolare riguardo alle funzioni motorie, neuropsicologiche e sociali. Tutto ciò indica
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questo genere di attività per quei pazienti che attraversano fasi di compenso della
patologia primaria. Per quanto concerne la motricità, si rilevano alcune difficoltà
ricorrenti dei pazienti durante la produzione musicale, sulle quali si possono utilizzare
proficuamente strategie riabilitative: a) controllo disarmonico di singoli gruppi
muscolari, quali funzionamento diaframmatico paradossale, rigidità di alcuni arti,
contrattura generalizzata del busto; b) alterazioni macroscopiche dello schema
corporeo, quali scissioni sagittali, in cui appare un’assoluta mancanza di
coordinazione tra emisoma destro e sinistro e scissioni longitudinali, in cui lo stesso
livello d’incongruenza motoria descritto si manifesta tra la parte superiore e quella
inferiore del corpo, con una linea di demarcazione generalmente collocabile
all’altezza del bacino. Per quanto concerne la patologia neuropsicologica, si possono
in questo contesto attuare strategie per migliorare il livello d’integrazione sensoriale
presente come coordinazioni visivo- motoria, uditivo- motoria e delle capacità di
discriminazione uditiva, in relazione alle successive possibilità di rielaborazione
cognitiva. E’ possibile in questo modo trattare anche compromissioni delle funzioni
logiche del pensiero come attenzione, memoria, confronto, seriazione, che in un
contesto di musicoterapia riabilitativa possono manifestarsi, ad esempio, come
incapacità a mantenere un ritmo quando l’operatore cessa di fornire indicazioni
numeriche sul medesimo, o come incapacità a rispettare le pause, sia nel canto che
suonando degli strumenti, come difficoltà di memorizzazione, o come incapacità ad
ascoltare ed ascoltarsi quando impegnati sul versante cognitivo, e così via. Un’altra
classe di difficoltà sulle quali vengono centrati moltissimi interventi musicoterapici è
quella concernente l’area della socializzazione. A questo riguardo sono tra l’altro
rilevabili: difficoltà ad integrare l’ascolto della propria ed altrui produzione sonora, ad
accettare la diversità “sonora” degli individui; timore di esibirsi pubblicamente e di
confrontarsi con gli altri, con le difficoltà di intensità sonora a questo collegate; lotte
per la conquista di un proprio spazio all’interno del gruppo, particolarmente per
coloro che ambiscono alla leadership, agite nelle scelte strumentali, nelle intensità, e
così via. Partire dalle parti sane e dalle competenze residue è una specie
d’imperativo generale per chi si occupi di interventi riabilitativi. Il lavoro di tutto il
gruppo prende solitamente le mosse dalla prestazione minima espressa, il che
implica, in termini operativi, la somministrazione di una prima consegna abbastanza
semplice che consenta all’operatore di osservare i pazienti; a questo punto
emergono difficoltà che lo orientano verso gli elementi musicali sui quali agire in
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senso semplificatorio. L’utilizzazione di strutture musicali a complessità crescente
porta con sé un coinvolgimento sempre maggiore per quantità e complessità delle
strutture neurologiche, motorie e cognitive. A titolo di esempio si può pensare al
passaggio da una pulsazione regolare eseguita con un solo arto, al coinvolgimento
di altri arti, dapprima in sincrono e successivamente in contrapposizione, alla
variazione di velocità, di intensità, di strutture ritmiche. Lavorare sulla plasticità dei
movimenti per l’esecuzione può facilmente consentire una scoperta di tensioni e
disarmonie motorie, anche in virtù del feedback che l’elemento sonoro è in grado di
fornire. Con questo tipo di lavoro è facile porre l’accento riabilitativo sulla necessità
dell’utilizzo di codici chiari ai fini di una comunicazione efficace, lavorando con
motricità, mimica, suoni e consegne verbali su tempi d’attacco, ritmo, variazioni e
segnali di chiusura. Gli esercizi possono venire proposti in primo luogo con una
presentazione grafica e verbale, poi con un’esemplificazione degli operatori, di
seguito attraverso sperimentazione individuale per giungere infine all’esecuzione
collegiale. Ulteriore ausilio visivo, acustico e cognitivo si può ottenere attraverso la
rimarcazione da parte degli operatori della scansione metronomica e le variazioni di
frequenza e dinamica contando le scansioni, variando l’intensità della voce e le
proprie posture in funzione delle indicazioni già espresse graficamente. Ogni singolo
può trovare in questa varietà la procedura a sé più consona. Ci si può dirigere verso
una riduzione degli ausili d’integrazione proposti dall’esterno, al fine di promuovere
una progressiva autonomizzazione di ricerca e produzione di strategie integrative tali
da permettere una corretta esecuzione del compito. Gran parte del lavoro riabilitativo
prende spunto dalla pratica canora. In genere si inizia con la selezione, da parte dei
pazienti o dell’operatore, di una canzone appartenente al repertorio della musica
popolare. Si lavora sul canto, sul respiro, sul timbro, sull’intensità e sull’intelligibilità
della voce, isolando i singoli parametri, contestualizzandoli alla canzone e riunendoli
in un'
esecuzione il più plastica ed empatica possibile. Ci siamo a questo punto resi
conto che parlando di interventi riabilitativi finalizzati alla socializzazione, si ripropone
la questione degli ambiti epistemologici di riferimento già esposta nel paragrafo
sull’integrazione. In questo caso riscontriamo numerose analogie con tecniche,
modalità operative e finalità dell’animazione musicale. A conferma di ciò segnaliamo
come tra gli autori da noi citati per la riabilitazione si trovino studiosi e ricercatori che
occupano un posto di rilievo nell’ambito dell’animazione musicale. La rilevazione di
tali
coincidenze
potrebbe
avviare
una
più
approfondita
osservazione
e
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considerazione delle specificità dell’approccio musicoterapico e dell’animazione
musicale che consentisse di meglio comprendere e definire come l’una e l’altra
operino in funzione riabilitativa. Anche nell’ambito delle applicazioni riabilitative della
musica riteniamo di dover segnalare alcuni autori nei confronti dei quali ci sentiamo
profondamente debitori: il professor Gino Stefani dell’Università di Bologna, per il
modello della Competenza Musicale Comune (1985); Maurizio Spaccazocchi (1999),
docente di Pedagogia della Musica al Conservatorio di Pesaro, alle cui lezioni e
laboratori si possono sperimentare proprietà dei suoni come gravità, massa,
direzione; Denis Gaita (1999), psicoanalista e musicista milanese per i suoi interventi
di riabilitazione musicale con pazienti psichiatrici.
La musicoterapia per la terapia
La musicoterapia in questa accezione è finalizzata alla facilitazione di un progetto
integrativo dell’identità. (Grinberg L., Grinberg R. 1976).Il primo nucleo d’integrazione
della personalità è quello che si organizza sul piano spaziale. Esso corrisponde al
momento in cui diviene possibile una prima distinzione fondamentale tra sé e non
sé, con conseguente capacità di confrontarsi con gli oggetti esterni e di stabilire
differenze. Ciò presuppone un sufficiente grado di coesione fra le varie parti del sé,
quindi il superamento della frammentazione dei primi mesi di vita. Successivamente,
avviene quello che i Grinberg definiscono integrazione temporale. Attraverso di essa,
si compie il passaggio dalla dimensione dell’essere a quella del “divenire”. Ciò è alla
base della capacità di organizzare rappresentazioni di sé che si mantengono stabili
nel tempo e che costituiscono la base del sentimento d'
essere e rimanere se stessi,
nonostante i cambiamenti che contrassegnano il corso dell’esistenza. L’ultimo
gradino di questo processo è costituito dal raggiungimento dell’integrazione sociale e
quindi della capacità di rapportarsi con il mondo esterno, avendo la consapevolezza
di possedere una propria individualità ben definita, che si confronta con le altre
senza esserne minacciata. Il primo atto di un trattamento di musicoterapia per la
terapia riguarda la formulazione di un bilancio psicomusicale. Questo consiste in una
raccolta di informazioni finalizzate in primo luogo alla valutazione circa l’opportunità o
meno di un trattamento musicoterapico ed in secondo luogo ad orientare nelle prime
fasi l’eventuale trattamento. Si attua attraverso due fasi: a) colloquio; b) incontri
preliminari di valutazione. Il colloquio si svolge, all’inizio del trattamento, tra il
terapeuta ed il committente, quindi con il paziente, qualora sia lui a formulare la
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richiesta, con i genitori nel caso di minori non in grado di collaborare a questa parte
del lavoro, oppure con gli interlocutori istituzionali se da essi proviene la richiesta. Il
colloquio verte principalmente sull’anamnesi sonora del paziente e sulle aspettative
rispetto al trattamento. Gli incontri preliminari di valutazione, che possono variare da
uno a quattro secondo la complessità del caso, consistono nella proposta del setting
terapeutico, con tutte le risorse di cui dispone e nella osservazione delle modalità
d’interazione con questo del paziente. Dalla sintesi di questi due momenti scaturisce
il bilancio psicomusicale. In base a questo, in un secondo incontro con il
committente, si formulerà un patto terapeutico. La durata degli incontri individuali è di
45 minuti circa, mentre per quelli di gruppo è spesso più che doppia. In linea di
massima la cadenza è monosettimanale; in alcuni casi sono opportune due sedute
settimanali, quando si avverte il rischio di una dispersione temporale che, in alcuni
pazienti molto gravi, sussiste e che potrebbe minare l’efficacia ed il senso del lavoro
stesso, rendendolo nei vissuti del paziente costituito da eventi scollegati e non
facenti parte di un continuum relazionale. L’incontro di musicoterapia è in genere
organizzato attorno a tre passaggi fondamentali: il primo è lo stabilire un contatto con
l’incontro precedente; il secondo è lo spazio d’improvvisazione sonora (o di ascolto);
il terzo è la conclusione dell’incontro. La prima parte è soggetta a notevoli variazioni
secondo la gravità del paziente: nei casi in cui è possibile, c’è un recupero verbale
delle cose più significative della seduta precedente; più spesso ciò non accade, per
cui si effettua una sorta di riepilogo sonoro dell’incontro precedente, utilizzando quel
timbro, quella linea melodica, o quel frammento ritmico sul quale si era aperto un
dialogo nel corso dell’ultima seduta. La seconda parte, l’improvvisazione, occupa la
maggior parte del tempo; può talvolta, tuttavia, essere annunciata da una consegna,
il cui contenuto è l’invito ad una relazione con il terapeuta attraverso l’uso del
mediatore sonoro e la cui formulazione varia sensibilmente a seconda delle
possibilità di comprensione del paziente. Anche per la conclusione dell’incontro si
presentano le differenze già evidenziate per l’inizio di seduta tra pazienti in grado di
verbalizzare e quelli che non lo sono. Nel primo caso ci sarà un vero e proprio spazio
di discussione riguardante i contenuti della precedente improvvisazione sonora; nel
secondo invece sarà compito del terapeuta trovare codici in grado di segnalare
l’approssimarsi del termine dell’incontro.
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L’improvvisazione
Dovremo innanzitutto intenderci sul termine: il “Nuovo Zingarelli” alla voce
improvvisare parla di composizione musicale “per immediata ispirazione senza
studio o preparazione”; la “Nuova Enciclopedia della Musica Garzanti” propone una
definizione analoga parlando di “libera invenzione di un brano musicale nel momento
stesso dell’esecuzione”. In queste definizioni viene evidenziato il rapporto tra
improvvisazione e fantasia, tra improvvisazione e casualità; questo è l’elemento che
forse maggiormente si presta a definire la contrapposizione tra condotte
improvvisative ed esecuzioni di partiture. Vorremmo recuperare comunque anche
l’altra parte del discorso improvvisativo, in cui l’improvvisazione si fonda su schemi
armonici, strutture ritmiche e impasti timbrici e dinamici in buona parte preordinati. In
questo caso l’improvvisazione consiste certamente in un atto di fantasia del
momento esecutivo, la quale si esplica però attraverso la scelta di una tra le varie
opzioni musicali consentite dal sistema di riferimento. Per dirla con Sloboda (88), il
compositore ricerca accuratamente la migliore soluzione possibile, mentre chi
improvvisa cerca istantaneamente una soluzione tra quelle legittime. Questo non
dovrebbe per nulla svilire il ruolo creativo dell’improvvisatore, restituendogli tuttavia
quella competenza che sta a monte di tale attività. Nel contesto musicoterapico
accade qualcosa di analogo: all’interno di un sistema di riferimento, che possiamo
considerare costituito dal setting e dalla relazione terapeutica, si sviluppa una
comunicazione sonora all’interno della quale si possono presentare elementi
innovativi, elementi, per l'
appunto, improvvisativi; questi si costituiranno come scelta
subitanea tra opzioni comunque comprese nel sistema di riferimento. Non ci piace
pensare che il musicoterapista agisca “senza studio o preparazione” ma, al contrario,
che una buona preparazione gli consenta di elaborare in maniera creativa il
materiale sonoro e relazionale in suo possesso, optando, talvolta rapidamente, per
una delle possibilità, certamente con un atto improvvisativo, ma che non rimanda
tanto al concetto di casualità quanto a quello di collegamento inconscio tra terapeuta
e paziente. Ci pare diffusa la tendenza a denominare improvvisazione tutto quanto di
sonoro accade all’interno del setting musicoterapico; crediamo tuttavia che in questa
parola siano riassunti diversi comportamenti tecnici, alcuni dei quali hanno ben poco
d’improvvisato. C’è, nel fare di molti musicoterapisti che conosciamo, una prima fase
del lavoro in cui il paziente esplora lo strumentario ed il terapista svolge
prevalentemente attività d’osservazione. Questo pare avere un corrispettivo nello
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sviluppo di quello che molti considerano il prototipo di relazione al quale ispirarsi in
terapia; dopo la nascita sono possibili precocissime relazioni madre/bambino basate
su rappresentazioni sensomotorie: il bimbo, che già aveva inscritto nella memoria i
suoni relativi alla voce materna del periodo fetale, percepisce dall’esterno la stessa
ed interagisce primitivamente con questa, indipendentemente dal significato, in virtù
del riconoscimento. Analogamente, paziente e terapista scelgono suoni come
fossero lettere di un alfabeto nuovo. Quindi, improvvisazione in questa fase significa
esplorazione. Ci sono anche fasi strettamente imitative nella costruzione e nello
sviluppo di una relazione musicoterapica, nel corso delle quali entrambi i membri
della relazione si rispecchiano, nel tentativo di definire un codice comunicativo.
Anche questa condotta pare essere confermata dal confronto con i comportamenti
che madri e figli mettono in opera nelle situazioni felici. Quelle rappresentazioni di cui
si era parlato per la fase di esplorazione, precedono e rendono possibili i processi di
imitazione, seconda tappa evolutiva sia del rapporto madre/bambino che di quello
musicoterapista/paziente. Secondo i più recenti orientamenti di psicologia dello
sviluppo (Stern ‘87, Bretherton ‘92) il bambino comincerebbe molto presto a imitare
l’adulto grazie alla transmodalità percettiva e grazie a ciò riuscirebbe a cogliere la
qualità formale del comportamento imitato. Il passaggio dalle rappresentazioni
sensomotorie alle imitazioni ci pare assai simile a quello osservabile nella pratica di
molti musicoterapisti dalla fase dell’esplorazione a quella del rispecchiamento (o
sintonizzazioni esatte). Durante questa seconda fase del rapporto i musicoterapisti
tentano di cogliere la qualità formale della produzione sonora dei loro pazienti
attraverso l’imitazione delle sonorità da questi ultimi prodotte. Con l’imitazione
segnalano di essere sullo stesso livello, segnalano di parlare la stessa lingua.
Tuttavia quelle “parole” devono ancora assumere pienamente significato. Potremmo
pertanto affermare che in questa fase del lavoro improvvisare significa imitare. C’è
una terza significazione del termine improvvisare che si può manifestare quando la
comunicazione è efficace, ossia quando il codice è definito, i contenuti vengono
veicolati tra gli interlocutori e le novità derivanti dallo scambio di questi possono
generare sviluppi imprevisti, i quali però possono venire compresi ed ulteriormente
elaborati e non generano incomprensione e sconforto come accadrebbe invece se
altrettanti
novità
si
presentassero
in
fasi
meno
evolute
della
relazione
musicoterapica. Ci pare di poter identificare due tipi di condotte improvvisative
pertinenti a questo terzo significato. Il primo consiste nella creazione ex novo di una
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produzione su quella dell’interlocutore, per cercare un’intesa sonora, per costruire un
nuovo discorso. Ad esempio, all’interno di una seduta, la paziente ha proposto una
novità, un suono nuovo per quella già lunga relazione, un flauto suonato con la voce;
la risposta prodotta a quello stimolo è stata altrettanto nuova, ed è consistita in una
certa scelta armonica effettuata con la chitarra simultaneamente al suono della
paziente. Una novità, una scelta rapida, un’improvvisazione, che non derivavano
però dal caso, bensì erano il frutto di rapide rielaborazioni del repertorio delle
risposte consentite in quella precisa relazione, rielaborazioni che hanno prodotto
novità lecite (ed efficaci) rispetto al contesto. Il secondo tipo di condotta
improvvisativa ricorrente è quella basata su reciproche trasformazioni. Un esempio
che riteniamo esplicativo è quello di un dialogo sonoro con un’altra paziente,
anch’essa in terapia da lunga data, con la quale si è avviata una sequenza di
reciproche trasformazioni a partire da una sua prima offerta vocalica che conteneva
elementi tensivi sui quali si voleva incidere; si sapeva la direzione, si sapeva che
saremmo andati verso una minor tensione, ma non si sapeva attraverso quali strade
avremmo effettuato il nostro percorso. Una vocale veniva leggermente trasformata,
ripresa con questa sua trasformazione dall’altro ed ulteriormente modificata e così
per numerose trasformazioni, ognuna delle quali era per l’appunto una novità
assoluta per entrambi, un’improvvisazione, ma ancora una volta non derivava dal
nulla, bensì sceglieva tra le opzioni comprese nel progetto sonoro/relazionale. Per
riprendere la metafora del linguaggio potremmo dire che a quest’ultimo livello
d’improvvisazione diventa possibile articolare alfabeto e vocabolario al fine di
costruire frasi significative. Improvvisare significa pertanto, in questa terza
accezione, comunicare nel senso più completo del termine. E ancora una volta
l’ormai nota correlazione con il rapporto madre bambino ci assiste: il bambino
percepiva stimoli sensoriali massivi che grazie al gioco delle imitazioni si sono
organizzati in strutture percettive (estetiche) riconoscibili, le quali articolate all’interno
di una relazione affettiva assumono un gradiente edonico (piacere/dispiacere); si
vedono così nascere le prime rappresentazioni sensomotorie, tappa che condurrà
alla capacità di simbolizzazioni. E’ quindi una relazione altamente significativa che
permette agli schemi prerappresentativi ed imitativi di accedere alla funzione
regolativa delle emozioni. La progressiva acquisizione della consapevolezza di sé e
dei propri affetti, che trasferisce sempre più a livello mentale i vissuti emotivi che
originariamente erano esperiti in modo più globale, conduce infine a poter attribuire
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alle esperienze sensopercettive ed emotive un significato simbolico (Postacchini et
al. ’98). Il simbolo, per formarsi, necessita di un ordine dei segni, di un’articolazione
musicale del sonoro, di un codice linguistico del pensiero; nello stesso tempo, la
funzione simbolica appare essere più correlata con un’attribuzione connotativa di
senso, che non con una formazione specifica di significato. Pertanto, il simbolo in
quanto tale attinge dalla dimensione cognitiva la materia di cui è costituito, ma
l’utilizzo che ne viene fatto è analogo ai processi della creazione, dell’invenzione,
della fantasia, del sogno e dell’improvvisazione. Ed era esattamente il punto in cui
volevamo arrivare: l’improvvisazione appare nelle pratiche musicoterapiche quando
un “alfabeto” sonoro è stato selezionato, con questo si sono poi costruite delle
“parole” da imitare, anche se ancora prive di significati, ed infine una relazione
attenta ha man mano arricchito quelle “parole” di affetti attraverso il gioco di
collegamenti che alcuni chiamano delle sintonizzazioni armoniche e altri empatia,
giungendo all’articolazione di un “linguaggio” attraverso il quale veicolare sensi, che
sicuramente attingono al patrimonio già condiviso, ma talvolta ricombinano gli
elementi noti in forme originali, le quali si avvicinano molto al concetto di
improvvisazione da cui eravamo partiti.
L’ascolto
C’è un’attività creativa anche in un certo tipo di ascolto dell’opera musicale, che
permette un traffico simbolico analogo a quello del sogno e della creatività artistica;
in questo confronto interiore è insito un potenziale elaborativo di precoci conflitti
depressivi che si manifesta nei casi più fecondi con l’articolazione di simboli di cui
l’artista è capace (Segal 1991). L’artista si esprime attraverso un sistema di relazioni
formali che sviluppa molteplici stratificazioni di senso, le quali riemergono nelle
infinite narrazioni esprimibili dalla scelta creativa che il fruitore può operare all’interno
dei contenuti. L’opera d’arte si presta quindi alle manipolazioni di quanti ne vogliono
fruire, desiderosi di gustarla e di possederne una personale rappresentazione. Si
possono avere diverse condotte d’ascolto musicale; per un primo gruppo di queste
parleremo di ascolto in stato di regressione, legato ad assetti psicologici difensivi.
L’ascolto regressivo è caratterizzato da (e al tempo stesso determina) stasi ed
immutabilità, mancanza di critica, di elaborazione e di consapevolezza. Risulta con
esso favorito lo stimolo a desiderare musiche che possono mantenere questa
condizione. In una mente o in un gruppo con una posizione schizoparanoide
facilmente l’ascolto produrrà tendenza alla stasi, all’arresto e alla stereotipia di
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pensiero e motricità. Ascolti di tipo regressivo, facile preludio o già manifestazione di
condotte patologiche, corrispondono ad un atteggiamento e ad una disposizione
mentale regressiva, la quale inoltre si rafforza e perpetua nella selezione di materiali
musicali idonei a fornire risposte immediate a bisogni non differibili. Nell’ascolto
regressivo non v’è pertanto spazio per le simbolizzazioni, che rappresentano
intrinsecamente un’assenza che non può essere tollerata. L’ascolto in sé assume
un’importanza relativa, prevalendo una ritualità priva di codici di riconoscibilità
simbolica ed un’espressione diretta delle emozioni del corpo; si assiste pertanto ad
un sistema di comportamenti, tra i quali l’ascolto musicale, finalizzati all’evacuazione
di contenuti psichici spiacevoli, che innescano una circolarità indifferenziata, tra
contenuto mentale e modalità espressive, che non tollera frustrazioni, non genera
simboli né pensieri significativi, bensì sentimenti e legami distruttivi. Tale assetto
mentale può assumere varie forme (e travestimenti); può infatti presentarsi come
ascolto tecnico, in cui l’attività analitica riduce notevolmente le possibilità di
espressione affettiva; allo stesso modo un ascolto idealizzato, in cui la musica viene
magnificata alla stregua di mitico Eden, garantisce dal contatto con le proprie
autentiche istanze emotive. I rapporti possibili tra materiale musicale e dolorosi
contenuti mentali possono essere evitati anche con operazioni di rimozione che si
manifestano nei termini di ascolti distaccati o anche di ascolti inibiti, in cui
nonostante lo sforzo attivo dell’ascoltatore vi è una ridottissima capacità di
attribuzione di sensi. Un ascolto in assetto ipnotico assicura una pressoché completa
sospensione dell’attività rappresentativa ed ideativa, lo stesso effetto viene ottenuto
da un ascolto esclusivamente vissuto in termini di agiti corporei; la frammentazione
degli elementi peculiari del brano, presente in un ascolto di tipo scisso, consente una
personalissima (e spesso bizzarra) ricostruzione delle tematiche emergenti, fino al
punto di renderle irrecuperabili o quasi nei loro contenuti angosciosi per il paziente e
completamente trasformate in trame tanto illogiche quanto manifestamente
difensive. Nell’ascolto proiettivo assistiamo invece all’espulsione da parte del
paziente di contenuti inconsci inaccettabili che vengono collocati nel brano e poi,
oltre che non riconosciuti, vengono talvolta anche aggrediti come minacciosi. Per il
secondo gruppo di condotte si può parlare di ascolto creativo, condizione in cui
vengono utilizzate modalità introiettive, costruttive, di apprendimento, in cui, per dirla
con Rauhe (1987), vi è un’azione sinergica delle capacità d’appropriazione
strutturale, empatica e semiconscia ; tutto ciò rinvia direttamente all’assetto mentale
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descritto come posizione depressiva (Klein 1957).Ciò corrisponde all’emergere di
una funzione elaborativa, contenitiva e, dal punto di vista affettivo, al costruire le
premesse per una relazione di tipo genitale maturo, la quale consente di
sintonizzarsi con la reale profondità dei sentimenti di un’altra persona. Possiamo
quindi associare l’ascolto creativo ad una condizione di armonia complessiva, sia
cognitiva che affettiva della persona o del gruppo in questione. Anche questo assetto
mentale può manifestarsi in varie condotte d’ascolto: si parla di ascolto integrato per
descrivere quelle situazioni in cui elementi contraddittori e conflittuali, presenti in un
brano musicale, vengono colti e posti in rapporto tra di loro. L’ascolto conoscitivo
descrive occasioni in cui la musica diventa strumento di crescita personale, ponendo
in evidenza parti del sé delle quali il soggetto era poco o nulla consapevole. L’ascolto
nostalgico delinea tematiche depressive proposte dal brano fino a costituirsi come
opportunità elaborativa di un lutto o una separazione. Qualora si favorisse un ascolto
creativo all’interno di un setting terapeutico, si arricchirebbe questa predisposizione
mentale di un dato affettivo, costituito dalla relazione terapeutica e dalle riedizioni di
quelle relazioni significative per il paziente, che questa viene a rappresentare. In tale
contesto i terapeuti scelgono brani musicali con i quali stabilire sintonizzazioni
affettive con i loro pazienti; le sintonizzazioni affettive in questo caso sono forme di
intese psico- musicali all’interno delle quali si accordano le qualità simboliche della
musica con la vita mentale del gruppo o dell’individuo, per poter scoprire quelle che
Gaita (1991) chiama le "forme felici", quelle che evocano direttamente gli affetti.
L’ascolto aperto a queste comunicazioni di tipo affettivo tollera la fatica di attendere,
di produrre simboli, di trasformare l’agire in pensiero ed il bisogno in desiderio, ed è
capace di quella ricomposizione del materiale musicale che è poi attivatrice del
potenziale creativo insito in ogni processo di vera creazione. L’ascolto creativo è
quindi costruttivo, simbolopoietico, ricompone figure musicali a partire dagli elementi
dati, è trasformativo, potenzialmente terapeutico se collocato all’interno di un setting,
ove un terapeuta, che favorisca tale l’assetto, chiarifica i meccanismi e le dinamiche
in atto ed interpreta le difese (quando a livello verbale e quando con specifiche
strategie musicali) (Borghesi 1998). Trasformativo, ovverosia una emozione che si
trasforma in un’altra, e non catarsi, purificazione, guarigione, magia. L’ascolto
creativo fa silenzio intorno e la musica può aprire varchi all’interno grazie ai quali
riusciamo a meglio connettere comportamenti e pensieri coscienti con i bisogni più
profondi ed autentici. Si può pertanto parlare di ricomposizione artistica
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(simbolopoietica) dell’opera d’arte da parte del fruitore, il quale ha un suo stile, una
sua logica, un suo istinto che opera e rimanipola ogni volta il capolavoro, che viene
così ad appartenere un poco anche a lui. E’ un ascolto creativo, che sceglie i luoghi,
i tempi e i modi dell’ascolto, che seleziona un repertorio e una traduzione in
sequenza di questo, ne fruisce lasciando che l’incontro tra i simboli della cultura, il
massaggio delle vibrazioni, il genio del compositore e le intimità presenti e recondite
dell’ascoltatore, generino una esperienza psicofisica unitaria ed altamente
rappresentativa. I debiti di riconoscenza nel caso della musicoterapia per la terapia si
fanno davvero numerosi; oltre agli autori già citati nel testo, segnaliamo l’opera di
Pier Luigi Postacchini, psicoterapeuta e musicista bolognese, per la teorizzazione
dell’armonizzazione dell’handicap in musicoterapia (1997); Michel Imberty per il suo
volume “Suoni Emozioni Significati” (1986); Rolando Benenzon (1984) per i concetti
di “ISO” “oggetto intermediario” e “oggetto integratore” ; “Loredano Matteo Lorenzetti,
per il contributo fornito come epistemologo della musicoterapia (1989); Gerardo
Manarolo,
psichiatra,
presidente
dell’Associazione
Professionale
Italiana
Musicoterapeuti (APIM), che si è occupato della sistematizzazione degli interventi di
musicoterapia ricettiva (1996); Edith Lecourt dell’Università di Strasburgo, per i due
testi editi dalla Cittadella Editrice (1992; 1996); Mauro Scardovelli per il “dialogo
sonoro” (1992).
Valutazione dei risultati
La musicoterapia è una disciplina scientifica o umanistica? Nel primo caso sarà
necessario verificare se in essa risultino contemplati quei criteri che la scienza
considera essenziali, come l’adozione di un linguaggio formale rigoroso ma dotato di
contenuto empirico, la ripetibilità degli eventi, la loro misurabilità, e così via; ciò
consentirà di considerare le proposizioni come vere o false in relazione ai loro
predicati e ai loro oggetti. Le medesime proposizioni saranno suscettibili di
contraddizione, consentendo in tal modo il progresso della ricerca scientifica, la
quale, secondo Popper (1971), non è mai completamente verificabile e può
svilupparsi solo per progressive trasformazioni conseguenti alle uniche verità
possibili, che sono proprio quelle derivanti dalla falsificazione di alcuni dei propri
enunciati. In mancanza di tale criterio le proposizioni e le proposte operative che ne
derivano, possono essere utili o inutili, e, qualora utili, degne del massimo rispetto,
sotto il profilo pragmatico, ma non rispondenti ai criteri di ciò che è considerato
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scientifico. Alla necessità della scienza di ricorrere ad un linguaggio formale rigoroso
fa da contrappeso l’uso del discorso poetico, considerato da Meltzer (1971) come
essenziale alla comunicazione psicoanalitica, il quale non mira a convincere ma a
suggestionare, non a dimostrare ma a condividere. Afferma Fornari (1985): “Nella
definizione dello statuto della propria verità, la psicoanalisi si trova più a dipendere
dalla verità del mito che non da quella della filosofia e della scienza: ma per farla
accettare in era scientifica, la si deve vestire di scienza”. Nel caso dell’adozione del
modello scientifico si dovrebbero identificare alcune tipologie di utenti, sottoporle a
trattamenti musicoterapici nel tempo e confrontare i risultati ottenuti con quelli di un
gruppo di controllo ed anche con gruppi sottoposti ad altre forme di arteterapia. Nel
caso invece si facesse riferimento ad un modello umanistico, la qualità degli
interventi potrebbe essere verificata nel concreto della situazione di cura, nella quale
il modello teorico e le scelte tecniche devono confrontarsi con la specificità di quel
singolo caso. Purtroppo, la valutazione dei risultati viene fatta solitamente con
modalità ben più empiriche di quelle auspicate, quindi con un elevato rischio di
“contaminazione”. E’ possibile infatti che si verifichi “l’effetto dello sperimentatore”,
quello per cui i ricercatori tenderebbero inconsapevolmente alla conferma dei risultati
attesi. Potrebbero anche essere attribuite alla musicoterapia quelle trasformazioni
della persona legate al normale svolgersi dell’età evolutiva; accade poi che vengano
attribuiti alla musicoterapia i risultati derivanti da un trattamento complesso, che
coinvolge diverse figure professionali e diversi trattamenti simultaneamente. Ancora,
occorre essere attenti nei confronti del rischio di attribuire ai propri sistemi di valori
una validità universale: un musicoterapista, per il quale l’aver saputo suonare uno
strumento sia stato fonte di soddisfazioni, rischia di estendere questo valore a tutti gli
esseri umani: poniamo dunque che uno dei suoi pazienti impari a suonare quello
strumento; nella mente di quel musicoterapista l’equazione “saper suonare =
benessere” è indissolubile, e quindi presenterà il dato “apprendimento della pratica
strumentale” come risultato di altissima qualità. Può darsi che lo sia; ma può anche
darsi che quell’apprendimento sia il frutto di un disarmonico ammaestramento, che
incurante degli equilibri complessivi della persona, abbia forzato tutte le risorse del
paziente per qualcosa che aveva più attinenza con il benessere del presunto
terapeuta che non con il suo. I risultati che pazientemente perseguiamo hanno
spesso a che vedere con emozioni, stati e propensioni d’animo, pensieri, modalità di
funzionamento sensoriale e motorio, e che queste cose sono per loro natura
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difficilmente esprimibili e quantificabili con il linguaggio della logica. C’è da
aggiungere che molti pazienti non sono in grado di esprimere ciò che sentono. E
ancora, occorre dire qualcosa anche su esportabilità e durata dei risultati. Non
possiamo nasconderci che, se siamo alle prese con un quadro di grave isolamento
comunicativo strutturatosi nel corso di molti anni, difficilmente potremo porci un
obiettivo terapeutico che vada oltre la prevenzione terziaria e dovremo pensare che
le isole di relativo rilassamento che il paziente esibisce all’interno della seduta
rappresentano il massimo di apertura verso l’esterno, non riproducibile in altri
contesti che egli consideri appena meno protetti del setting terapeutico. Ciò che
pragmaticamente suggeriamo è di confrontare gli esiti del lavoro con gli obiettivi
preliminarmente fissati. In un modello come questo fin qui presentato, che mette al
centro del proprio interesse la promozione di uno stato di armonia generale
dell’individuo, gli obiettivi possono essere sostanzialmente collocati su due livelli: 1)
uno basico costituito dal raggiungimento di una migliore conoscenza della struttura
dell’handicap; 2) uno avanzato, rappresentato dal raggiungimento di una migliore
integrazione.
Riusciamo a capire meglio come il soggetto utilizza gli analizzatori? Quali sono le
sue strategie cognitive? Quale è la sua disponibilità affettiva? Abbiamo raggiunto un
livello di sintonizzazione che ci consente di cogliere i bisogni, far capire le nostre
proposte e comprendere se sono bene accette? Successivamente, se la prima
verifica avrà dato esito positivo, dovremo cominciare a chiederci se l’integrazione
spaziale risulta raggiunta completamente, parzialmente o per nulla. Qualora risulti
soddisfacente valuteremo se lo stato complessivo del paziente consente di mirare
all’ottenimento dell’integrazione temporale e di quella sociale. Qualora invece
neppure l’integrazione spaziale sia perseguibile, ci chiederemo se lo stato armonico
di funzionamento che noi consideriamo indispensabile al benessere si è manifestato
almeno occasionalmente, se le sintonizzazioni hanno mostrato di aprire il varco ad
un contatto che pareva impossibile. Se sì, diremo che sono questi i risultati del
nostro lavoro; con questi faremo un bilancio dell’intervento e sugli stessi fonderemo i
progetti per gli eventuali successivi lavori con quel dato paziente.
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