19 1. TEORIE E METODOLOGIE DEL NOVECENTO 1.1. I REGISTI-PEDAGOGHI 1.1.1. Laboratorio teatrale: le origini L’origine del laboratorio teatrale va cercata tra i molti, singolari avvenimenti che caratterizzano la storia del teatro del Novecento. Nel nostro secolo infatti si assiste ad un’azione di rinnovamento del teatro, che prende le distanze da quello spettacolo divistico tutto giocato, a metà dell’Ottocento, sulla recitazione enfatica dell’attore, affannato in una corsa faticosa per la realizzazione di una produzione basata sul canone della quantità e sempre più distante dal contesto della società in cui si svolgeva. Ora invece, nell’ambito della ricerca estetica, si vanno delineando nuovi percorsi che si propongono di determinare un rapporto con gli uomini che abbia valore, che assuma significato, fino a giungere ad auspicare – grazie anche alle prefigurazioni di teorici come Appia e Craig, che hanno affrontato le riflessioni sul teatro dal punto di vista scenografico, o come Stanislavskij, Vachtangov, Mejerchol’d, Copeau, che hanno scelto il punto di vista dell’attore, o ancora come Brecht, che ha privilegiato quello del drammaturgo – una società che del teatro abbia bisogno. All’insegna del recupero di una complessità umana, sociale e culturale dell’arte stessa vista nella sua qualità di comunicazione espressiva e di realizzazione dell’uomo nasce quindi un nuovo teatro. Due sono le dimensioni che lo strutturano: al suo interno ha per centro l’attore; al suo esterno ha per obiettivo la comunicazione con lo spettatore. Chi recita – rispettando la dimensione espressiva del fare teatro –, 20 1. Teorie e metodologie del Novecento la sua relazione con gli altri compagni di scena e quella con gli spettatori sono nucleo di partenza e fine delle tensioni progettuali e sperimentali del teatro del Novecento: nasce l’attore in quanto uomo che usa consapevolmente se stesso per esprimere. All’inizio del secolo, presso i grandi teatri cittadini – ad esempio presso il Teatro d’Arte di Mosca, in Russia – esistevano scuole particolari, dedicate agli attori che sarebbero entrati a far parte delle compagnie locali. Generalmente, però, queste strutture avevano un limite: restavano legate alla specifica personalità di un determinato insegnante, senza mai prevedere un metodo consapevole, una solida base teorica, un organico disegno pedagogico; il loro scopo era unicamente quello di addestrare i futuri attori perché potessero lavorare in spettacoli allestiti in tempi brevissimi. Proprio nell’ambito di questo teatro, ad un tale modo di concepire la formazione degli attori si oppose Konstantin Sergeevic Aleksèev Stanislavskij; egli rivoluzionò le «tecniche teatrali» introducendo una metodologia di ricerca sperimentale sull’attore e sviluppando le felici intuizioni di alcuni suoi predecessori, come Appia e Craig. Il «sistema» di Stanislavskij è prassi pedagogica, trasmissione di un’esperienza attraverso l’azione, non teoria. La missione dell’attore consiste nel ricercare e nell’apprendere per poi formare nuovi attori, indicando loro la via della ricerca, pur senza dimenticare che la ricerca dovrà essere comunque e sempre personalizzata da chi vorrà intraprendere quel lungo lavoro su se stesso che prelude alla recitazione. Si racconta che gli attori di Stanislavskij, abili istrioni che osservati da lontano sembravano conoscere segreti misteriosi e strumenti inaccessibili, fossero in realtà e più semplicemente uomini che possedevano una certa morale, passati attraverso una particolare formazione che li aveva cambiati. E proprio da un avvenuto spostamento dell’attenzione, che dallo spettacolo come fine ultimo dell’esperienza teatrale si è focalizzata sull’attore come protagonista del processo di rinnovamento del teatro, nasce l’incontro senza precedenti tra pedagogia e teatro, come coincidenza di intenti e di interessi: il teatro diventa luogo della scoperta e valorizzazione delle possibilità espressive dell’uomo, luogo in cui la sua creatività e fantasia si manifestano liberamente. Gli studi, i laboratori, le scuole dei maestri del Novecento sorgono come spazi in cui scoprire e sviluppare la capacità creativa, come occasione di potersi sperimentare per gli attori, e per il regista-pedagogo come atto complesso della sua matura creatività artistica. Qui, del re- 1.1. I registi-pedagoghi 21 sto, si esplicita e trova adeguata soluzione quell’esigenza di continuità e di ordine che gli spettacoli non potrebbero soddisfare. Lo «Studio» – così è stato definito il laboratorio teatrale da Stanislavskij – nasce per cercare soluzioni a contingenti problemi professionali e diventa il centro di una nuova pedagogia teatrale che non si limita più alla preparazione, in vista dell’esecuzione, di pezzi teatrali in sé conclusi, ma inizia a ritenere gli esercizi esperienza attiva di teatro. Esercizi che fanno parte dell’allenamento dell’attore, come diceva Mejerchol’d, trenàz: sono necessari allo spettacolo, ma non ne fanno parte. Durante il tempo trascorso allo Studio ogni attore cerca di trovare molteplici possibilità espressive sia attraverso il corpo sia attraverso la voce, per poi tradurle in un voluminoso bagaglio fatto di opportunità – che gli apparterranno in quanto le avrà già sperimentate – da sfruttare, da utilizzare durante lo spettacolo. Il lavoro pedagogico del laboratorio è racchiuso in un processo avviato da alcuni stimoli forniti dal regista-pedagogo impegnato a dirigerlo, una figura-guida che, associata al ruolo determinante giocato dagli esercizi e dalla tecnica dell’improvvisazione, permette all’attore di porsi in una condizione di sperimentazione e di studio sempre nuova. Questi principi sono il cardine di tutto il lavoro: rappresentano lo stadio del processo creativo in cui si ricerca ciò che non si conosce, un mezzo per sostituire la ripetizione con la creatività, per crearsi una propria tradizione. A questo punto quel processo prevede un’ultima fase: l’attore s’immerge in una riflessione profonda, che gli consentirà di prendere coscienza di ciò che ha vissuto e conosciuto di se stesso. Il laboratorio teatrale è dunque un momento definito ed uno spazio protetto in cui si manifesta un intento educativo in linea con le teorie dei maggiori pedagogisti che hanno operato negli ultimi due secoli, come Froebel, Dewey, Montessori, i quali hanno rivalutato il valore formativo dell’esperienza dell’allievo. Negli incontri di laboratorio, supportati da una costante riflessione sul processo creativo, il maestroanimatore non insegna, ma mette a disposizione degli individui che formano il gruppo le proprie capacità tecniche e professionali. Gli allievi, opportunamente guidati, affrontano un percorso individuale attraverso il quale si pongono in ascolto di loro stessi e, eseguendo esercizi mirati, giungono alla scoperta dei propri limiti e delle proprie capacità, apprendono possibilità nuove, utili ad esprimere in modo efficace il proprio pensiero e i propri sentimenti. Laboratorio quindi non significa tanto un luogo quanto un lavoro, dal momento che costituisce 22 1. Teorie e metodologie del Novecento un’occasione per crescere, per imparare facendo, nella convinzione che l’aspetto più importante di questa esperienza sia da individuare nel processo e non nel punto d’arrivo. 1.1.2. Registi-pedagoghi Colui che inaugurò la tradizione dello Studio come momento formativo del percorso personale-professionale dell’attore fu dunque Stanislavskij, che per primo si dedicò alla ricerca di un «sistema» che si ponesse alla base del lavoro di costruzione della professionalità dell’attore e che desse senso al teatro. La ricerca del grande regista scaturì da una domanda fondamentale: se fosse possibile individuare i mezzi utili ad indurre, in maniera volontaria e consapevole, lo stato creativo. In seguito a numerosi studi basati sulla sperimentazione, questa metodologia, seppur ancora in via di costituzione, si rivelò fondata proprio sull’attore in quanto persona, il quale, nell’approfondimento della sua arte, partiva proprio da se stesso, dalla sua creatività. Tutto il lavoro realizzato con il «sistema» funzionava per gli attori come un ingente accumulo di esperienze interiori ed esteriori che nel lungo periodo di preparazione dello spettacolo sedimentava e fermentava fino a lasciare un segno preciso in ciascuno di loro, qualcosa che si manifestava nella parte che interpretavano, ma che andava anche e soprattutto oltre. Il metodo di lavoro consisteva, in termini generali, nell’avvicinarsi dell’attore al personaggio attraverso lo studio dei sentimenti di quest’ultimo, cercando la verità mediante il recupero del proprio sentire: l’attore trovava nella sua memoria emotiva i sentimenti in questione, avvalendosi di azioni fisiche che in lui suscitavano tali stati emozionali. In secondo luogo egli cercava di immedesimarsi nell’«altro» grazie al «magico se», un esercizio particolare che lo calava nella situazione voluta. Ad insegnare il «sistema» presso il Teatro d’Arte di Mosca potevano essere gli attori stessi o alcuni seguaci che non avevano alcun rapporto diretto con l’arte teatrale (medici o psicologi). La conseguenza più grave: spesso gli insegnamenti non erano efficaci perché si basavano sulla mera ripetizione delle esperienze e delle parole del maestro, non sul lavoro e sull’elaborazione personale. Un tale modo di rapportarsi al metodo stanislavskijano si rivelò quindi infruttuoso, dal momento che: «[...] il sistema di Konstantin Stanislavskij deve essere studiato solo nella 1.1. I registi-pedagoghi 23 pratica», come ribadito dalle parole di Evgenij Vachtangov, ritenuto il migliore fra i pedagoghi e i registi che si formarono con il maestro. Egli si accostò molto giovane al teatro e fino alla sua morte, avvenuta quando non aveva neppure quarant’anni, non cessò mai di dedicargli tutto il suo tempo e tutta la sua passione. Lavorò strenuamente alla propria formazione di attore e tenne come regista-pedagogo molti Studi nei quali mise in pratica gli insegnamenti di Stanislavskij, tentando anche di superarli continuandone la ricerca. I suoi laboratori erano pervasi da quell’atmosfera particolare, consona al principio di «studietà» e cioè: rispetto primario della persona e dell’ambiente; correttezza non solo formale verso i compagni. Il termine «studietà» definisce una situazione di lavoro in cui agiscono i membri di uno Studio artistico e contemporaneamente il «Principio dello studio», quel nucleo fatto di teoria e prassi che vitalizzò la tecnica teatrale russa durante i primi due decenni del secolo. Il laboratorio era concepito da Vachtangov come un luogo di formazione etica prima ancora che di formazione teatrale, una scuola in cui educare l’uomo e non solo l’attore, in cui sviluppare la socialità del gruppo a partire dalle risorse interiori di ciascun ragazzo, prima ancora che dagli esercizi e dagli studi di improvvisazione, impostazione della voce, dizione, canto, musica, ginnastica, scherma, storia del teatro e del costume, studi che, peraltro, venivano effettuati quotidianamente nel laboratorio al fine di raggiungere una preparazione completa in vista degli spettacoli. Il seguace di Stanislavskij distingueva così la scuola dal teatro: la prima, in cui ci si educava all’attività creativa, serviva a determinare le caratteristiche individuali dell’allievo, a svilupparne le doti naturali, a dargli un metodo per affrontare il lavoro in teatro; in essa non si insegnava a recitare, ma si preparava il campo per la «creazione» che sarebbe avvenuta poi, sulla scena. Quando Vachtangov si dedicava come regista alla preparazione di una pièce teatrale, esortava gli attori che lavoravano con lui a studiare il loro personaggio partendo ciascuno da se stesso: chiedeva insistentemente sincerità, relazioni vere con il partner. In linea con il «sistema» del maestro, sosteneva che il modo più efficace di accostarsi al pezzo da recitare consistesse nel suddividerlo in diversi frammenti, definendo i compiti da eseguire, e nel concentrarsi su un obiettivo, avendo sempre presente una motivazione che spingesse ad agire. Un altro ex-allievo del primo Studio di Stanislavskij, Vsevolod Mejerchol’d, riscoprì, come aveva fatto Vachtangov, la Commedia dell’Im- 24 1. Teorie e metodologie del Novecento provviso, oltre al Kabuki giapponese, e ne sottolineò l’uso della gestualità, indispensabile per realizzare un teatro in cui gli attori si muovessero come saltimbanchi, artisti del circo, atleti, valorizzando il proprio corpo e imparando a dominarlo sfruttandone rigorosamente tutte le capacità tecniche. Mejerchol’d prese le distanze dalle forme statiche del teatro simbolista e si avvicinò ad un teatro più dinamico, allestito all’interno di uno spazio scenico spalancato all’azione. Il suo atteggiamento nei confronti della creatività dell’attore si basava sulla fisiologia, piuttosto che sull’ispirazione. Egli stesso definì i suoi esperimenti sulle nuove tecniche di recitazione «biomeccanica»: come disciplina essa cominciava là dove terminava l’esercizio, quando dall’esecuzione dei gesti si passava a collegare il movimento con l’intenzione, da cui nasceva la relazione, in un ciclo che teneva conto di spazio, tempo e partner. Per Mejerchol’d infatti era fondamentale lo studio dello spazio scenico, che diventava promotore di senso, funzionale al movimento sulla scena; proprio in relazione allo spazio egli indagava l’attore. La stessa biomeccanica è una ricerca condotta sull’attore, le cui reazioni ed emozioni sono subordinate ad una corretta disposizione fisica, che deve essere adeguata allo spazio e alla situazione. Il procedimento è strettamente legato al principio della riflessologia (sollecitazione - risposta fisica reazione psichica), che riproduce esattamente il lavoro dell’attore (intenzione - esecuzione fisica - reazione psichica), in cui la fase centrale assume un’importanza determinante. Momenti-cardine dello Studio diventano allora la coordinazione ed il perfetto allenamento dello strumento di trasmissione, ossia del corpo: nei suoi laboratori Mejerchol’d insegnava i principi della biomeccanica affinché gli attori apprendessero, attraverso esercizi e sperimentazioni personali, un metodo di lavoro che li aiutasse, nella preparazione di una pièce, a trovare la sfera gestuale adeguata, convinti che tale sistema fosse comunque funzionale a qualsiasi sistema rappresentativo. Contemporaneo di Stanislavskij, in ambito occidentale, il francese Jacques Copeau è da considerarsi un’importante figura di regista-pedagogo. Egli infatti pensò ad una pedagogia teatrale attraverso la quale educare i suoi allievi-attori al senso che il teatro aveva assunto in origine e quindi lontano dal teatro privo di autentiche motivazioni del suo tempo. Questa aspirazione lo spinse a lasciare Parigi e a costituire una piccola comunità di lavoro con l’intento di dedicarsi alla ricerca della purezza insita nell’espressione teatrale, veicolo di messaggi e desiderio di ascolto, vicina a chi del teatro senta realmente il bisogno. 1.1. I registi-pedagoghi 25 Verso la metà di questo secolo si mise in luce un altro importante studioso di teatro: il drammaturgo e regista Bertolt Brecht. Delineò una nuova tecnica relativa alla costruzione del dramma, fondata sul principio di provocare lo «straniamento» in luogo dell’immedesimazione, reazione voluta allo stile di recitazione che si rifaceva a Stanislavskij. L’attore che recitava adottando questa nuova tecnica rappresentava i sentimenti ed i comportamenti del suo personaggio in modo singolare, arrivando all’immedesimazione in alcuni momenti e guardandolo come dall’esterno in altri, tanto da sorprendere lo spettatore, il quale generalmente assumeva un atteggiamento critico nei confronti di ciò che gli veniva presentato. Il pensiero di Brecht nacque da una riflessione che egli fece sul teatro del suo tempo domandandosi se tale forma d’arte avesse ancora in sé i suoi due elementi costitutivi, il divertimento associato all’istruzione, e notando come questi ultimi, invece di coesistere in modo complementare, fossero ormai in contrasto tra loro. Attraverso studi e sperimentazioni egli giunse ad affermare che, perché acquistasse un significato socialmente utile, il teatro doveva essere posto nella condizione di tracciare, con mezzi artistici, un disegno del mondo e modelli di convivenza umana tali da fornire allo spettatore la possibilità di capire e affrontare con coscienza l’ambiente sociale in cui viveva. Proprio perché Brecht pensava alla rappresentazione teatrale come a uno strumento di conoscenza della realtà sociale, dei meccanismi che la muovevano e che avrebbero potuto cambiarla, fu considerato l’artefice di un teatro – che doveva convincere e non ammaliare – definito «didattico» ed «epico». Ad alcuni incontri finalizzati all’allestimento dei suoi spettacoli egli invitò non solo attori di professione, ma anche gente comune, come operai, studenti, bambini; ciò che accomunava tutti era la motivazione politico-sociale che li spingeva ad essere lì e la volontà di farla conoscere agli altri, stimolandoli ad interrogarsi e a prendere posizione. Tutto allora sulla scena doveva avere il significato voluto, non solo le singole parole, ma anche i gesti, sempre estremamente precisi e tratti dalla comune realtà dell’attore e dello spettatore perché fossero facilmente compresi. Continuando ad indagare questo secolo, non sarà difficile scorgere importanti personaggi che attualmente si stanno dedicando a ricerche sperimentali in ambito teatrale, frutto dell’evoluzione dell’arte dell’attore. Assai rilevante è l’attività del regista Peter Brook, che ha avuto un ruolo importante nella seconda riforma del teatro, avvenuta negli anni 26 1. Teorie e metodologie del Novecento Sessanta, e che ha continuato ad esercitare il suo influsso sul teatro mondiale (dagli anni Cinquanta) fino ad oggi. Dall’inizio della sua attività, Brook preferisce il «fare» e il suo Studio ad ogni altra formazione; per lui, infatti, tutto proviene dall’esperienza, e l’esame analitico trova ragione d’esistere solo a posteriori. Nella preparazione degli attori che lavorano con lui all’allestimento degli spettacoli, l’allenamento non si limita allo studio del testo, ma assume importanza determinante perché comprende l’approfondimento della conoscenza della sensibilità e dell’affettività di ciascuno. Per Brook «essere attore è anche coltivare il proprio essere, perché questo essere è visibile nella creazione», un modo di intendere l’arte teatrale che si manifesta in quella che lui stesso definisce «l’estetica del ravvicinamento». In essa la recitazione viene concepita come evento vissuto in presenza del pubblico, attento e partecipe di questa esperienza; l’attore deve recitare lasciando trasparire la sua natura interiore, pur avendo coscienza di essere sempre un poco più avanti dello spettatore nella riflessione sulla vicenda rappresentata. Per realizzare questo, presso il Centro CIRT diretto dal regista, vengono eseguiti esercizi ed improvvisazioni che sono tanto più efficaci quanto più l’individuo concepisce il teatro come esperienza formatrice ed è consapevole del fatto che anche il suo modo di vivere abbia attinenza con la sua arte. L’attività del Centro assomiglia al lavoro meticoloso e appassionato dell’artigiano: Brook, insieme con il gruppo, la cui dimensione collettiva viene preferita a quella individuale, modella le materie del teatro, parole e gesti, cercando con estrema attenzione di arricchirle, di migliorarne la fluidità in modo che non si fossilizzino su un’unica forma senza tendere alla totale perfezione. Nel modo di procedere appena citato per il regista acquista un’importanza fondamentale la relazione, e all’«arte come relazione» tende il suo teatro, in ogni momento, a qualsiasi livello: è un intreccio di relazioni in movimento. Nell’attuale panorama teatrale merita un accenno particolare lo studioso e regista Jerzy Grotowski, la cui fama è diffusa negli ambienti teatrali non solo europei. Lavorando da alcuni anni in Italia, quasi rinchiuso nel suo Teatr Laboratorium di Pontedera, egli stesso riconosce il laboratorio come unico luogo in cui sia possibile attuare una complessa ricerca, come luogo in cui: […] si vuole essere scoperto, svelato, nudo; sincero col corpo e col sangue, con l’intera natura dell’uomo, con tutto ciò che potete chiamare a 1.1. I registi-pedagoghi 27 piacere intelletto, anima, psiche, memoria e simili. Questo incontro, andare incontro, essere disarmato, non aver paura uno dell’altro, in nulla. Le parole di Grotowski descrivono così il suo Workcenter, una specie di romitaggio artistico in cui pochi allievi accuratamente selezionati si dedicano ad una ricerca personale, guidata da alcuni assistenti, secondo un progetto pedagogico che va oltre il prodotto teatrale. Lo studio avviene in una solitudine silenziosa, individuale, nonostante la vita comunitaria. La condizione a cui ogni allievo perviene in seguito alla sua ricerca lo trascende come persona, e l’arte diviene veicolo di qualcosa di assoluto, nella più pura delle trasparenze. È in questo momento che si intravede la traccia di un maestro che sembra non ammettere restrizioni alla sua ricerca. Il teatro, pur essendo presente, diventa funzione del laboratorio: non più l’attore per costruire il teatro, ma il teatro per cercare attori che diventano la materia stessa del laboratorio. Tutto questo trova origine nella riflessione suggerita, nel nostro secolo, dalla rifondazione etica dell’«arte attorica», nata dall’esigenza di conoscere chi sia in realtà l’attore e chi sia la persona che viene prima dell’attore. Due le tendenze: la ricerca sull’attore che conosce se stesso non solo come artista, ma anche in quanto uomo, attraverso un lavoro finalizzato alla rappresentazione, come è stato per Stanislavskij; e la ricerca che, attraverso l’arte teatrale, pur mantenendo la rappresentazione come conclusione del processo, scopre l’uomo – prima e oltre l’attore –, ovvero l’origine del suo atto creativo, in un’occasione di conoscenza e di elevazione spirituale, come è attualmente per Grotowski. Entrambe le tendenze sono intrise di etica e tecnica. Indagando la ricerca dello studioso polacco, si comprende che il suo «teatro povero» non è orientato verso un come fare teatro, ma verso un perché, verso un senso del fare teatro: il teatro considerato come mezzo per superare la dimensione puramente terrena dal momento che egli stesso, essendo profondamente religioso, ha cercato, in un particolare frangente della sua vita, di trasformare la sua arte in un mezzo che lo avvicinasse a Dio. Nel laboratorio di Pontedera gli esercizi non sono preparatori all’atto, all’azione umana: hanno senso quando sviluppano il perfezionamento del gesto, del movimento, ma non gli fanno perdere la spontaneità della ricerca creativa personale del performer, come viene chiamato l’allievo che fa, ripete e ripete ancora. La ricerca deve assolutamente essere individuale: prima di arrivare ad una creazione collettiva, è necessario essere consapevoli del fatto che cia- 28 1. Teorie e metodologie del Novecento scuno possieda un proprio ambito soggettivo. Il fine del quotidiano allenamento, rigido ed estremamente impegnativo, è il raggiungimento di quella condizione particolare definita dall’espressione: «corpo-invita». Ripreso da Eugenio Barba, ex-allievo di Grotowski, il concetto di corpo-in-vita costituisce il punto d’arrivo del lavoro dell’attore: l’esperienza dell’unità fra dimensione interiore e dimensione fisica o meccanica dell’uomo. L’attore, avviato un processo che parte dall’illusione della dualità tra corpo e spirito nell’uomo, arriva a superarla mediante un training molto impegnativo su se stesso: passa da una spontaneità inculturata, cioè quotidiana, che è naturale, ad una spontaneità acculturata, cioè extra-quotidiana, che diventa rappresentativa. Raggiunta questa seconda natura, l’intenzione e l’azione, la mente e il corpo non sono più distinguibili, nemmeno per lo spettatore, il quale viene colpito non dall’inconsueta dinamica fisica che l’attore gli mostra, ma dall’organicità che ne emerge. Per arrivare a questa dimensione, il lavoro non verterà soltanto sul corpo o soltanto sulla voce, ma soprattutto sulle energie sottostanti. L’allenamento fisico e l’allenamento mentale non devono e non possono esistere separatamente; l’attore stesso dovrà allora costruire un ponte che unisca la sponda fisica alla sponda mentale del processo creativo. Ogni atto creativo, dice Barba, è realizzato tramite una preliminare regressione ad un livello primitivo, un processo di negazione o di disintegrazione che prepara il balzo verso il risultato: tale momento è definito «precondizione» creativa. Nell’ambito dell’Antropologia Teatrale di cui Barba si occupa presso l’I.S.T.A. – un organismo permanente di ricerca sull’attore, che ha sede in Danimarca –, questo livello è legato al concetto di «pre-espressività», momento che precede logicamente lo stadio espressivo; è fondamentalmente una realtà conoscitiva: serve all’uomo di teatro per orientare il suo lavoro, che sfocerà comunque in espressione. È importante osservare come, nella maggior parte degli individui, questo stato di pre-espressività sia nascosto dietro ai molti condizionamenti che la vita di tutti i giorni ha fortemente radicato. Per fare in modo che esso emerga ad un livello che almeno si avvicini a quella purezza pressoché totale che conoscono solo i bambini più piccoli, è necessario lavorare proprio in un laboratorio teatrale, con esercizi che demoliscano le barriere, causa di falsi comportamenti, magari di difesa, che l’individuo innalza perché non ha coscienza di chi egli sia in realtà. 2.1. I principi fondamentali 89 2. UNA TEORIA: L’APPORTO TEATRALE NEL PROCESSO FORMATIVO 2.1. I PRINCIPI FONDAMENTALI Il teatro è arte. Fondamento dell’arte teatrale è il gioco. Mostrare la vita significa «giocare» questa vita. 2.1.1. L’attore-persona Uno dei principi fondamentali della teoria qui esposta è la costruzione dell’attore-persona; l’obiettivo principale è lo sviluppo della creatività e della fantasia attraverso un lavoro condotto, su basi scientifiche, dall’attore-soggetto su se stesso. Da tale premessa deriva necessariamente il fatto che la finalità ultima e irrinunciabile perseguita dalla teoria non è quella di trasformare l’uomo in attore-oggetto plasmandolo in vista della produzione di spettacoli confezionabili e vendibili sul mercato, ma quella di permettergli di valorizzare le sue qualità individuali rispettandone la personalità. Il lavoro può essere rappresentato dalla seguente formula: PRE-ESPRESSIVITÀ + METODOLOGIA = SVILUPPO DELLA CREATIVITÀ INDIVIDUALE L’insieme degli individui creativi è in grado di generare anche uno spettacolo, ma in questo modo il prodotto finito assume un valore relativo rispetto al processo di formazione dell’individualità nella performance. La diversità di questa prospettiva rispetto alle teorie teatrali anche più recenti, ad esempio quelle di Barba e di Grotowski, sta proprio nella priorità da esse accordata alla rappresentazione come oggetto fi- 90 2. Una teoria: l’apporto teatrale nel processo formativo nale del percorso; mentre in questa nuova teoria l’obiettivo finale è lo sviluppo del soggetto. I destinatari, bambino, adolescente, giovane e adulto, conservano la loro espressività naturale come motivo di fondo; su di essa infatti viene costruito l’attore-persona, senza manipolazioni o forzature psicologiche. Fondamentale per lo sviluppo della fantasia e della creatività è la conservazione della propria espressività, che costituisce il punto di partenza, l’elemento cardine per il confronto con l’altro. Come è intuibile, questo percorso è essenzialmente educativo in quanto implica un lavoro su se stessi e «con» gli altri, compiuto a livello di pre-espressività: riguarda le azioni dell’attore-persona, l’uso che egli è capace di fare della sua presenza fisica. «Pre-espressivo» è un termine che viene dell’Antropologia Teatrale; il contesto antropologico è dunque determinante per la definizione degli ambiti di azione. Come già detto, si deve all’opera di Eugenio Barba la «creazione» del concetto di Antropologia Teatrale e dell’I.S.T.A. (International School of Theatre Antropology), nel 1979, la cui attività è centrata sulla ricerca dei principi fondamentali che sottostanno all’utilizzo del corpo nelle situazioni di rappresentazione. Si tratta di unire gli sforzi di attori e studiosi di varie discipline e di varie zone del pianeta per cercare di comprendere i processi che avvengono nell’organismo dell’attore-persona e lo rendono «in vita», trarne delle leggi e quindi riuscire a servirsene per la formazione dell’attore-persona stesso. Più in generale l’Antropologia Teatrale si occupa dello studio del comportamento umano a livello biologico e socio-culturale in una situazione di rappresentazione. Sono stati indagati i fenomeni della recitazione orientale – dal momento che in Oriente esistono tecniche codificate per l’attore, mentre in Europa troneggiano mode, convenzioni ed individualismi che rendono difficoltoso il procedere degli studi – e successivamente sono state teorizzate tre leggi fondamentali che ricorrono nel corpo-in-vita dell’attore-persona (definite approfonditamente nel capitolo precedente). Proprio in quest’ambito si impone fortemente la questione dell’educazione preliminare dell’attore-persona e dell’uomo. Se il senso della recitazione viene dall’istinto e la sua qualità dall’intelligenza e dal gusto, è logico attribuire a questa parte della formazione di un allievo tutta l’importanza che merita, forzandolo, nella misura del possibile, ad approfondire un po’ meglio quest’arte che spesso egli dichiara di aver scelto per ragioni diverse e alla quale probabilmente, né per estrazione, né per educazione, è stato mai preparato. 2.1. I principi fondamentali 91 Uno degli strumenti più efficaci per insegnare la teoria e la pratica della recitazione teatrale è costituito dall’improvvisazione, anche se talvolta utilizzata in maniera impropria e sviata dal suo scopo, che è essenzialmente educativo. Questo strumento deve essere usato non solo come esercizio pratico per acquisire spigliatezza, senso dell’opportunità, naturalezza, ma anche come veicolo d’introspezione e fonte di meditazione sui problemi, per favorire lo sviluppo della personalità di ogni allievo. L’improvvisazione infatti obbliga chi la pratica a scoprire i propri mezzi espressivi. Per costruire il nuovo attore-persona bisogna passare attraverso la storia delle sue metodologie, bisogna cioè recuperare i segreti dell’arte di recitare guardando al passato per costruire il futuro, per trovare inedite forme di espressione. Il nuovo è rappresentato dalla multimedialità dei linguaggi, intesi però nella loro essenza «primitiva», senza cioè presupporre necessariamente l’uso di macchinari e strumenti artificiali. Il centro di tutto rimane l’uomo nella sua naturalità. Il concetto trasmesso dalla multimedialità è l’idea che muove l’attore-persona, ma l’unico strumento che a lui serve per creare è il suo corpo. Pensare al teatro come multimedialità di linguaggi non vuol dire pensare a qualcosa che ricorda il montaggio cinematografico, ma significa dare origine ad una serie di percorsi partendo da un unico ambito. E se ricorrere al principio del montaggio vuol dire ottenere un prodotto attraverso la somma di linguaggi, di «pezzi» diversi che alla fine non saranno più recuperabili senza distruggere il prodotto finito, seguire il principio della multimedialità significa lavorare come in un programma «windows» per computer: si parte da un ambiente di lavoro e da lì si aprono diverse finestre che mettono in comunicazione con altri ambienti, per poi chiuderle, ritornare alla partenza e aprire un ciclo continuo. Si tratta di un’attività ininterrotta di esplorazione all’interno dei diversi mezzi espressivi. In questo senso multimedialità significa fare in modo che i vari linguaggi (musica, scenografia, video, parola, danza ecc.) si comportino come dei piani che si intersecano ma non si sovrappongono, e comunque non danno come risultato un montaggio finito. Ogni strumento espressivo che partecipa alla scena deve seguire i principi fondamentali della teoria esposta. In tal senso anche l’utilizzo della scenografia, della musica, dell’immagine contribuisce allo sviluppo della creatività e della fantasia nel rispetto dell’uomo, inteso nella sua naturalità. I significati e gli scopi assunti dai tanti mezzi capaci di 92 2. Una teoria: l’apporto teatrale nel processo formativo «farci esprimere» saranno dunque altrettanto numerosi e diversificati. La scenografia si sforzerà di attuare scelte non esclusivamente estetiche, ma funzionali alla presenza umana: si costituirà cioè non come qualcosa da guardare, ma come qualcosa da usare; la musica cercherà le proprie radici, il suono naturale, ed avrà una funzione di sostegno della figura umana sulla scena. L’immagine infine, ovvero la fotografia e il video, come uno strumento magico, dovrà cercare di catturare l’anima dell’uomo: non fermarsi quindi alla superficie delle cose, non trasformare la persona in un oggetto da guardare e ammirare, ma fissarne le emozioni, il calore, l’energia.