Università del Salento – Facoltà di Scienze della Formazione – Insegnamento di Teatro d’Animazione
(prof. S. Colazzo) - Dispense del Corso dell’a.a. 2007/2008 redatte dalla dott.ssa Veronica Miceli -
I registi-pedagoghi
Premessa
L’origine dell’apporto teatrale nel processo formativo e del laboratorio teatrale va ricercato
nei molti e profondi avvenimenti che hanno rivoluzionato il teatro del ‘900.
Il laboratorio, infatti, rappresenta il luogo per eccellenza dove condividere delle esperienze,
dove poter sperimentare un confronto con gli altri in una crescita individuale e collettiva.
Sugli allievi vigila il maestro che propone e segue, passo dopo passo, tutte le esercitazioni,
pensate per stimolare le risorse di ogni componente del gruppo: dall’attenzione alla
concentrazione, all’intuito, fino alle potenzialità più nascoste del corpo, strumento e tramite
privilegiato per raggiungere il “contatto” con lo spettatore.
In questo secolo si assiste, infatti,ad una azione sinergica di rinnovamento dello spettacolo
teatrale che si allontana dalla rappresentazione del testo, dalla recitazione enfatica incentrata
nella figura “grande attore-mattatore”, innescando un cambiamento dell’organizzazione del
teatro1.
Nel corso dei secoli, la figura e il ruolo del regista si sono evoluti in funzione dei mutamenti
del linguaggio teatrale stesso. Infatti, nell’antichità, e anche in epoca medievale, esisteva già
la figura di un responsabile dello spettacolo teatrale. Si trattava di una persona che curava la
recitazione degli attori e la messa in scena. Tuttavia, fino all’Ottocento (in Italia anche fin
quasi alla metà del Novecento), il ruolo del regista non era stato ancora chiaramente
identificato, cosicché non esistevano testi teorici che ne definissero le competenze in maniera
sistematica. Anzi, quello che viene chiamato il periodo “del grande attore”, che copre quasi
tutto il XIX secolo e parte del XX, si caratterizza addirittura per l’assenza del regista e il
dominio totale della scena da parte dell’attore, che ne svolgeva in parte la funzione.
La regia che si era limitata ad essere direzione artistica e coordinamento dell’allestimento di
uno spettacolo teatrale, nel Novecento si evolve come sguardo più specifico sul palcoscenico,
concentrato sui principi del movimento, sulla relazione tra i corpi degli attori, lo spazio ed il
tempo. Ogni singolo elemento del corpo dell’attore concorre alla drammatizzazione. Da
sottolineare che con l’affermazione della regia, soprattutto nei primi decenni del ‘900 e dagli
anni ‘50 in avanti, si rafforza l’elemento della sperimentazione, che, in tutta la sua varietà e
pensieri contrastanti, può essere individuata in due grandi direttrici maestre:
1) Quello che intreccia il rapporto tra il gruppo degli attori e quello degli spettatori (ad
esempio sulla loro prossimità e vicinanza);
2) Quello dei diversi livelli della drammaturgia (che ad esempio porta un regista a tralasciare
totalmente o a stravolgere il testo di base, nel momento della messinscena).
Le avanguardie teatrali espulsero il testo drammaturgico dal teatro, considerandolo un pretesto e ritenendo che l’attore e la sua performance contenessero l’essenza della teatralità, il
“testo” degno di essere analizzato.
1
Con i finanziamenti e l’affermazione della figura del regista “autore” il teatro viene innalzato al rango di “opera
d’arte totale”. Il nomadismo del teatro itinerante e la micro-società teatrale ad esso legata non ha più ragione di
esistere.
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L’evoluzione della figura del regista nel ‘900
Il teatro come opera d’arte vivente, che non presenta o evoca ma presenta quindi indica tende
a delineare percorsi di senso che spostano il processo creativo dal testo al corpo dell’attore ed
al regista come autore. Curare la regia di un’opera significa “capire un testo, estrarne una
sostanza teatrale e tradurla in quella materiale della scena”.
La rivoluzione teatrale del Novecento permise l’eliminazione della pedagogia diffusa, tipica
dell’Ottocento, secondo la quale l’attore apprende per contatto, rendendo pratica pedagogica
la formazione dell’attore.
Ad aprire la strada alla riforma drammaturgica fu il teatro simbolista che ricercava
l’astrazione poetica, ossia il legame nascosto tra le cose ed il percorso conoscitivo.
L’emergere del simbolo nell’esperienza teatrale, la negazione dell’attore, costituiscono il
primo passo per l’affermazione dell’autonomia del linguaggio scenico e della figura del
regista.
Per Maeterlinck (1862-1949) l’attore con il suo bios organico appare ingombrante ed
inefficace a rappresentare il testo. Il teatro come rappresentazione del testo e l’attore come
tramite organico sono negati nella loro autenticità. Per questo devono diventare simbolo.
L’attore deve negarsi alla propria materialità fisica e farsi “statua di cera” priva di
corrispondenza univoca tra significante e significato, quindi aperto alla conoscenza
pluridirezionale.
Un forte stimolo al rinnovamento della regia teatrale venne dal russo Konstantin Sergeevič
Alekseev, detto Stanislavskij. Il suo “naturalismo spirituale”, che si fonda soprattutto sulla
ricerca della verità interiore dell’attore, produsse un metodo, basato sull’utilizzo di particolari
tecniche del corpo, attraverso il quale l’attore raggiunge la condizione di pre-espressività,
che consente un nuovo tipo di immedesimazione con il personaggio. L’approccio di
Stanislavskij porta regista e attori a ricreare insieme il “testo dello spettacolo”, spogliandosi di
se stessi ed entrando completamente nel testo.
Alla fine dell’Ottocento, Stanislavskij fu il primo a sperimentare questo tipo di ricerca, vale a
dire il lavoro che ogni attore deve svolgere sul proprio corpo. Per Stanislavskij la condizione
naturale dell’uomo è quella secondo la quale:
1) il corpo risponde solo a esigenze proposte dalla mente;
2) il corpo risponde a tutte le esigenze proposte dalla mente;
3) reagendo alle esigenze proposte dalla mente, il corpo vi si adegua e cerca di
soddisfarle.
Ricreare sulla scena questo stato naturale, che il regista russo chiama “corpo-mente
organico”2, significa mettersi nella condizione della pre-espressività..
Contemporaneamente con Appia e Craig si modifica la concezione dello spazio teatrale che
non è più un a priori neutro, ma un linguaggio della scena che deve essere elaborato per poter
far parte del processo creativo proprio come la recitazione dell’attore o la composizione della
musica. Lo spazio diviene, quindi, sia soggetto di drammaturgia (è portatore di un proprio
linguaggio), sia oggetto di drammaturgia (è elemento di operazioni e adattamenti che lo
rendono di volta in volta funzionale allo spettacolo).
Adolphe Appia, scenografo ginevrino, è considerato il precursore della nuova scena. I suoi
allestimenti a tre dimensioni, la ricerca di un linguaggio gestuale plastico, il sapiente uso
dell’illuminazione scenica finalizzato a esaltare il movimento, sono alcuni degli elementi su
cui si fonderà il teatro d’avanguardia.
2
L’insieme del lavoro che l’attore compie su se stesso e sul personaggio sono chiamati da Stanislavskij
“sistema”. Esso trova espressione negli esercizi e nelle improvvisazioni volti ad ottenere la condizione di
equilibrio psico-somatico nel processo creativo.
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L’attore e autore inglese Edward Gordon Craig fu invece il primo a definire i principi della
regia moderna, cioè l’autonomia del regista (autore dello spettacolo) dal drammaturgo (autore
del testo) e il ritorno alla teatralità, intesa non come imitazione della realtà ma come
realizzazione artistica e scenografica. La nuova prospettiva conferisce un compito nuovo al
regista che non si limita più, come era accaduto fino ad allora, a portare sulla scena il testo
dell’autore, ma cerca di fornirne una propria interpretazione. Centrale nell’idea di teatro di
Craig fu la teorizzazione del concetto dell’attore “supermarionetta”, che rinunciasse a ogni
orpello recitativo per aderire totalmente al codice espressivo indicato dal regista e si muovesse
all’interno di una scenografia sobria ed essenziale. In questo senso il teatro è artificio e la
messa in scena è continua scomposizione e reinvenzione.
Vsevolod Mejerchol’d, allievo di Stanislavskij, pur conservando del maestro l’idea
dell’impostazione dell’attore attraverso le tecniche del corpo e sviluppando un proprio
metodo per il training attoriale denominato “biomeccanica”, approda ad una regia che spinge
alle estreme conseguenze la lezione di Craig. Per dare questa nuova impronta al teatro,
Mejerchol’d utilizza tutte le tecniche della recitazione, da quelle del teatro giapponese, alla
clownerie, alla Commedia dell’Arte.
Per il regista polacco Jerzy Grotowski il lavoro sul corpo deve precedere quello sulla voce.
Nel suo Teatro Laboratorio (1965-1976), gli attori utilizzavano esercizi ispirati al teatro
giapponese, alla biomeccanica e alle azioni sceniche di Stanislavskij; il nuovo metodo,
elaborato attraverso una continua sperimentazione, fu chiamato “tecnica della trance” poiché
mirava a far sì che l’attore si liberasse da tutti i propri blocchi psichici.
Lo sviluppo e l’utilizzo delle tecniche del corpo hanno introdotto un nuovo modo di intendere
l’immedesimazione in ambito teatrale. Dello studio di queste tecniche si occupa
l’antropologia teatrale.
In Italia la regia si afferma molto tardi, soltanto dopo un’agitata polemica che vide schierati
da una parte i sostenitori della necessità della funzione registica, come Silvio D’Amico e
dall’altra gli attori, insofferenti del primato del regista.
Nel 1939 la regia in Italia era ancora un concetto puramente teorico, in quanto erano ancora
solidi i criteri di fedeltà al testo drammaturgico, troppo spesso bistrattato dagli attori
“mattatori” dell’epoca, che tagliavano le battute o si appropriavano di quelle migliori, anche
se pensate per altri personaggi.
Soltanto nei primi decenni del Novecento, dunque, si cominciò ad avvertire in Italia
l’esigenza di una direzione culturale e artistica e le compagnie stabili si dotarono di attoridirettori che prefiguravano il regista. La nascita di un’esperienza di regia in Italia si ebbe
grazie all’azione dell’Accademia d’arte drammatica, voluta da Silvio D’Amico, dalla quale
uscirono molti registi che operarono nel secondo dopoguerra.
Sviluppi recenti
Il lavoro del regista, inteso come trasposizione del testo sulla scena è stata così l’idea
dominante di regia fino agli anni Sessanta del Novecento. Un nuovo modo di pensare il teatro,
in cui il testo perde di centralità e si afferma l’interdipendenza di testo e scena, prevalse con
l’esperienza della “scrittura scenica”, definizione che racchiude tutte le iniziative di teatro
che, si sono caratterizzate per l’assenza di un testo scritto o per la sua distorsione nei modi più
inattesi e sorprendenti.
Peter Brook, Eugenio Barba, Luca Ronconi, il gruppo americano del Living Theatre3, Jerzy
Grotowski e molti altri, appartengono alla“regia critica”, definizione che si contrappone al
modo tradizionale di fare regia, denominata “regia interpretativa”.
3
Julian Beck e Judith Malina fondano nel 1948 a New York il Living Theatre. Il gruppo metteva in scena l’atto
della creazione lavorando sulla forma aperta. L’implosione della scena, ottenuta anche tramite la partecipazione
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La regia interpretativa interpreta il testo che è alla base della rappresentazione. La coerenza
dell’opera teatrale è valutata in rapporto alla possibilità di trasmettere, attraverso il suo
allestimento scenico, il messaggio dell’autore. I tagli che il regista interpretativo opera sul
testo sono sempre funzionali alle esigenze del palcoscenico, in termini di spazio, durata e
difficoltà di realizzazione, ma il copione una volta definito, non viene più rivisto. Il regista
interpretativo effettua una scelta culturale nel momento in cui decide quale opera portare sulla
scena; a questa scelta saranno subordinate la direzione artistica e la direzione degli attori.
La regia critica prevede invece una scomposizione e una ricomposizione del testo. Una
volta effettuata la scelta dell’opera, si procede valutando tutto quello che può essere utile alla
rappresentazione. L’utilizzo di maschere, marionette su un copione naturalistico, ad esempio,
non è escluso, se il suo impiego contribuisce a realizzare uno spettacolo originale.
Un identico approccio viene adottato in merito alla recitazione. La concertazione di tutte le
azioni simultanee del “testo dello spettacolo” (performance) sono considerate un vero e
proprio intervento di drammaturgia: esso ha lo scopo di creare la tensione dello spettacolo, al
fine di coinvolgere l’attenzione emotiva ed estetica dello spettatore.
In Italia nel 1967 le tesi esposte al Convegno di Ivrea da Giuseppe Bartolucci compendiano i
principi che contrassegnano l’esperienza del nuovo teatro. Carmelo Bene, Ronconi, Scabia
sono tra i più importanti protagonisti di questo cambiamento.
Nel nuovo teatro convergono le esperienze di teatralizzazione e la comunicazione sociale,
lontano dalla rigidità ed aperto al divenire, alla partecipazione, al lavoro collettivo ed alla
interscambiabilità dei ruoli. È un teatro che occupa tutto lo spazio, che va oltre il palcoscenico
per agire nella strada. L’arte teatrale va oltre il testo utilizzando i diversi elementi che
concorrono all’evento spettacolare valorizzando i diversi linguaggi e forme espressive, come
la scena, lo spazio, il suono, la parola, i rumori, la musica, il gesto, gli oggetti, la luce, il
corpo. In poche parole la scrittura scenica apre le porte dell’immaginazione sociale alle
“diversità”, alle diverse abilità ed intelligenze, alle diverse materialità.
Il concetto di scrittura scenica viene rilanciato in Italia da Bartolucci che nel 1968 scrive il
testo “La regia scenica”, utilizzando questa breve frase come testata della rivista che diresse
dal 1971 al 1983.
Il percorso “emancipante” del teatro nel secondo Novecento: Grotowski, Barba
e Brook
Nella prima metà del Novecento, molti registi teatrali sostengono l’idea di rinnovamento del
teatro a partire dalla valorizzazione dell’attore e del suo essere, prima di tutto, un uomo.
L’amore profondo per l’arte a cui consacrare tutto il proprio tempo; l’intimo legame maestroallievo, regolato da stima e fiducia reciproche; l’inclinazione al sacrificio, necessaria per
difendere la vocazione teatrale; il prepotente interesse per la formazione dell’attore sostenuta
da una rigida disciplina; l’instancabile training fisico e spirituale (cioè la preparazione lenta e
progressiva che è alla base dell’arte recitativa e che cambia a seconda delle Scuole e dei
registi), ottenuto con gli esercizi quotidiani, costituiscono gli aspetti salienti dei Laboratori,
scuole-comunità in cui il maestro provvede a stabilire le condizioni ideali per educare l’uomo
e per trasmettergli principi etici, oltre che tecnici, indispensabili alla creazione teatrale.
attiva del pubblico, segna l’affermazione dell’uguaglianza tra gli esseri umani all’interno di una “cerimonia” di
gruppo che fonda l’unità di una comunità.
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Ai questi “maestri” come Copeau4 e Stanislavskij si ispireranno molti registi nella seconda
metà del secolo. Tra di essi emergono i nomi di Jerzy Grotowski, Eugenio Barba e Peter
Brook.
Il Teatro-Laboratorio fondato da Grotowski ad Opole, il Laboratorio dell’Odin Teatret
costituito da Eugenio Barba ad Oslo, il Centro Internazionale di Ricerca Teatrale nato a Parigi
su iniziativa di Peter Brook, devono molto, infatti, a Copeau, Stanislavskij ed alla loro
pedagogia teatrale.
Anche questi Centri hanno come obiettivo principale l’educazione dell’attore, considerato
nella sua interezza di uomo e di artista. In tale binomio i due aspetti non rimangono mai
disgiunti l’uno dall’altro e risultano necessariamente complementari ai fini della
comunicazione teatrale; all’interno di quest’ultima tra l’attore ed il pubblico tende a stabilirsi
una relazione reciproca, fatta di dare e di avere, al di là della forma specifica della
rappresentazione, quale ad esempio la commedia o una scena a soggetto, e del suo contesto,
quindi un teatro, una piazza, l’aula magna di una scuola.
Un attore non può riuscire ad entrare in rapporto con gli altri (i compagni di lavoro prima, gli
spettatori dopo) se non lavora a fondo su se stesso e sul proprio corpo. Imparare a conoscersi,
rispettarsi, modificarsi, avere fiducia di sé è altrettanto importante dell’agilità fisica, della
scioltezza muscolare e della vivacità vocale, traguardi raggiunti grazie al training e alla vita di
gruppo.
Jerzy Grotowski.
L’insegnamento del regista polacco è basilare per comprendere gran parte del teatro del
secondo Novecento. Per un teatro povero è il titolo del libro costituito da trecento pagine di
interviste, testimonianze, resoconti di spettacoli nel quale Jerzy Grotowski racconta la sua
idea di teatro che può essere espressa in questa frase tratta dal testo suddetto.:
“Un attore nasce di nuovo, non solo come attore ma come uomo”.
Innanzi tutto, nel suo pensiero, un attore che sta compiendo un percorso di formazione è
fondamentalmente un uomo in crescita. Durante tale percorso il regista stesso si assume la
responsabilità di seguire l’evoluzione dei suo allievi, di condurli ad un’esplorazione totale
delle proprie capacità fisiche e psichiche e di accompagnarli lungo il percorso creativo.
Grotowski cerca di raggiungere la sua idea in un luogo da lui stesso fondato nel 1959 nella
cittadina di Opole, situata nella Polonia occidentale, che definisce Laboratorio (“TeatroLaboratorio delle 13 file”). Nel momento in cui inizia le sue sperimentazioni egli ha solo
ventisei anni ed è ancora sconosciuto, ma la fama delle sue ricerche si diffonde in breve
tempo tanto che nel 1965 il Laboratorio si trasferisce nella città universitaria di Wroelaw,
capitale culturale polacca dei territori orientali, e consegue lo status di “Istituto di ricerche
sulla recitazione”.
Ciò che rende grande il nome di Grotowski sta nel fatto che egli ha proseguito nella ricerca
iniziata all’inizio del secolo da Stanislawskij riguardante non solo le caratteristiche ed il
significato della recitazione ma anche i processi fisici ed emotivi ad essa connessi.
Secondo il regista polacco il solo modo per recuperare l’essenza del teatro consiste nel far
emergere i due elementi che rendono possibile la comunicazione teatrale: l’attore ed il
pubblico.
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Jacques Coupeau rifiuta l’idea di teatro sottomesso al testo letterario. È necessario per l’attore dialogare con il
testo, condividendo la propria esperienza con il gruppo, che diventa così una “comunità etica” (vedi Compagnia
di Copiaus). Inoltre è fondamentale riconoscere al teatro il ruolo di luogo fisico e metaforico di arte e
formazione.
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Egli definisce il suo teatro “un teatro povero”, in cui l’attore e lo spettatore si possono
confrontare attraverso un percorso interiore indirizzato alla ricerca individuale di se stessi e di
significati universali mediante il recupero di una dimensione rituale di incontro.
Il laboratorio di Grotowski
Il laboratorio di Grotowski è caratterizzato da un silenzio assoluto e da un’atmosfera serena e
calma. Al suo interno si svolge il training quotidiano, durante il quale gli allievi provano i duri
esercizi fisici ideati espressamente dal maestro con il fine di aiutare gli attori a liberare le
capacità espressive: grazie ad essi gli allievi scoprono le possibilità del corpo di cui il teatro
non può fare a meno.
Camminare ritmicamente facendo ruotare le mani e le braccia, correre sulle punte dei piedi,
camminare con le ginocchia piegate afferrandosi le caviglie o con le gambe tese e rigide come
se fossero tirate da fili immaginari, sono solo alcune delle esercitazioni con cui gli allievi “si
riscaldano”. Ne seguono altre per sciogliere i muscoli e snodare la colonna vertebrale. In
questa direzione l’esercizio più comune è “il gatto”: si basa sull’osservazione di un felino che
si sveglia e si stira. L’attore è disteso bocconi in stato di rilassamento completo, le gambe
sono aperte, le braccia ad angolo retto rispetto al corpo, le palme rivolte verso terra. Piano
piano “il gatto” si desta. Avvicina le mani al petto, tenendo i gomiti in alto, e mentre accosta
le gambe alle mani alza le anche. Si solleva e distende la gamba sinistra lateralmente. Ripete
lo stesso movimento con la gamba destra. A questo punto allunga la schiena spostando il
centro di gravità prima sulla colonna vertebrale e poi sempre più in alto fino alla nuca. Infine
si volta e ricade sulle spalle rilassandosi completamente. L’allenamento procede con salti e
capriole e tiro alla fune. Gli attori immaginano di avere una corda tesa davanti ai loro occhi.
Avanzano. Non sono le braccia o le mani a tirare il corpo, ma il tronco che si sposta verso le
mani fino a quando la gamba che è indietro tocca il pavimento con il ginocchio. È questo uno
dei tanti esercizi di plasticità del corpo, di disponibilità alle relazioni tra l’individuo, il
compagno, il gruppo e l’ambiente, basata sul principio fondamentale dei “vettori contrari”.
Mediante tali esercizi, l’attore, vincendo gli ostacoli fisici, impara ad isolare le diverse parti
del corpo e a dare loro vita propria, in modo che queste non reagiscano automaticamente ma
siano in grado di produrre, ciascuno nello stesso tempo, movimenti autonomi e perfino
contrari e comunicare immagini opposte ad esempio le mani si avvicinano al corpo, le gambe
si allontanano o viceversa. Il principio è l’alternanza del ritmo, la sincronicità e asincronicità
dei movimenti.
Durante tali esercitazioni nella stanza spoglia e silenziosa la concentrazione è al massimo. Si
fanno esercizi di immedesimazione. Grotowski li chiama “esercizi di composizione”, ossia
ideogrammi gestuali che scaturiscono da un gioco associativo tra un’immagine mentale, ad
esempio quella del fiore, e il movimento fisico che la esprime uno degli allievi che “si
trasforma” in un fiore: “l’intero corpo vive, trema, vibra dell’imperioso processo di fioritura
[...] i piedi sono le radici, il corpo è lo stelo e le mani formano la corolla”.
Diventare un fiore significa, dunque, riportare alla memoria l’immagine di un fiore,dandogli
colore e luce con la fantasia, costruire con il corpo i dettagli che la compongono (radici, stelo,
corolla, petali, ecc.) fino a quando l’attore diventa egli stesso un fiore.
Dopo questi esercizi nel laboratorio si fanno esercizi vocali: lo spazio si anima di cinguettii di
uccelli, rombi di motori, scrosci di acqua, prodotti dagli allievi potenziano le proprie risorse
vocali. La modulazione di rumori meccanici e di suoni naturali eseguiti con incredibile varietà
di ritmi e toni, alti, bassi, rapidi, lenti, scanditi e urlati, li aiuta, infatti, a dilatare la gamma
sonora e a percepire gli impulsi profondi che provocano i suoni evocati.
Oltre agli esercizi vocali, Grotowski impegna il suo gruppo a studiare l’articolazione della
dizione differenziandola, di volta in volta, a seconda del tipo umano preso in esame: alcuni
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allievi fanno una parodia della dizione dei propri conoscenti; alcuni ritraggono, con la sola
pronuncia, un avaro, un ghiotto, una persona adirata, felice, ecc.; altri ancora, parlano
accentuando delle particolarità psicosomatiche, mancanza di denti, malattie di cuore,
nevrastenia, disturbi ossessivo-compulsivi, ansie. La frase viene vissuta e somatizzata
influenzando il ritmo del polso, del cuore, della circolazione e della respirazione.
Quest’ultima, in particolare, è molto importante per ottenere la liberazione della voce e
l’aumento della portata sonora. Secondo Grotowski la respirazione più completa e più
funzionale ad accumulare una quantità d’aria sufficiente per recitare con ritmo e senza spreco
di energia è quella pettorale-addominale.
Gli spettacoli
Le messe in scena di Grotowski sono molto note; tra esse si possono ricordare “La tragica
storia del dottor Faust” di Christpher Marlowe, “ Il principe Costante” di Pedro Calderon de
La Barca, “Apocalypsis cum figuris” di Stanislaw Wyspianski. È fondamentale notare però
che per il regista polacco il testo è semplicemente un pretesto per andare oltre: esso assume
la funzione di un “bisturi che permette di aprirci, di trascendere il nostro io [... ] di scoprire
ciò che è celato in noi e di andare verso gli altri”; diventa una partitura che l’attore, mentre
crea, ricompone con suoni, gesti e variazioni personali.
Proprio l’atto di recitare si trasforma in un’esperienza spirituale, una ricerca che consente e
richiede un itinerario dell’attore alla scoperta di se stesso attraverso il training. Il ruolo del
maestro consiste nell’osservare con pazienza i suoi allievi, proporre loro gli esercizi, ma,
soprattutto, aspettare che ciascuno sia pronto per eseguirli. Il teatro allora diventa per gli
attori, il regista stesso, un incontro con gli spettatori e quindi tra uomini che cercano e si
aprono con fiducia e rispetto ad altri uomini.
Grotowski regista: Akropolis e il Principe Costante
Akropolis, pubblicato nel 1904, è un testo di Stanislaw Wyspianski, drammaturgo, poeta e
pittore simbolista. Di tutti gli spettacoli diretti da Grotowski, Akropolis è senz’altro quello
che si distacca maggiormente dal suo prototipo letterario: l’unica cosa che rimane del testo
dell’autore è lo stile poetico. Il dramma è stato trasferito in condizioni sceniche
completamente diverse da quelle ideate dal poeta. Secondo il metodo del contrappunto, esso
è stato arricchito di associazioni di idee da cui scaturisce il trapianto dell tessuto verbale
dell’opera nell’organismo di una messa in scena che gli risulta estranea sotto molti aspetti.
Si effettua il trapianto in modo che il linguaggio sembra scaturire in modo naturale dalle
circostanze imposte dal teatro.
L’azione del dramma si svolge nella Cattedrale di Cracovia. Durante la notte della
Resurrezione, i personaggi degli arazzi e delle sculture rivivono episodi dell’Antico
Testamento e dell’antichità, radici primordiali della tradizione europea. L’autore ha pensato
la sua opera come visione panoramica della cultura mediterranea la cui trama caratteristica è
simboleggiata dall’Acropoli polacca. In questa visione del “cimitero delle tribù”, come è stato
definito dallo stesso Wyspianski, le concezioni del regista e quella del poeta si trovano a
coincidere: entrambi intendono raffigurare la somma di una civiltà e verificarne i valori
prendendo come termine di paragone il contenuto dell’esperienza contemporanea.
“Contemporaneo” per Grotowski, indica la seconda metà del secolo Ventesimo. La sua
esperienza è quindi di gran lunga più crudele di quella di Wyspianski, e perciò egli sottopone
i valori secolari della cultura europea ad una verifica severa.
Il punto in cui confluiscono non è la serena e riposante atmosfera della cattedrale, dove il
poeta fantasticava e meditava in solitudine sulla storia del mondo, ma il frastuono di un
mondo di estremi, la confusione poliglotta in cui il nostro secolo ha proiettato quegli stessi
valori in un campo di sterminio.
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I personaggi fanno rivivere i momenti culminanti della nostra storia culturale, ma non tornano
in vita dalle effigi immortalate nei monumenti del passato, ma dal fumo e dalle esalazioni di
Auschwitz. Nella presentazione scenica, tutti i punti luminosi sono stati spenti ad arte: la
visione finale della speranza è annientata dall’ironia blasfema. L’opera può essere intesa come
un appello alla memoria etica dello spettatore, al suo subconscio morale.
Possiamo inoltre citare un’altra produzione di Grotowski, Il Principe Costante, basata su un
adattamento di Juliusz Slowacki del testo di Calderòn de la Barca, che ebbe un’importanza
notevole nell’evoluzione del teatro-laboratorio. Il regista non intende attenersi al testo
originale di “Il Principe Costante”, ma dare una sua personale versione dell’opera: il rapporto
fra la sua sceneggiatura ed il testo originale è perciò lo stesso che quello fra una variazione
musicale ed il tema originale.
Nella scena d’apertura, il Primo Prigioniero collabora con i suoi persecutori. Dapprima,
mentre giace su di un letto egli viene simbolicamente castrato e poi, dopo aver indossato
un’uniforme, entra a far parte della compagnia. Alla gente che lo circonda e che lo guarda
come se fosse una bestia rara, il Secondo Prigioniero, il Principe, oppone solo resistenza
passiva e gentilezza, tutto volto verso un più elevato ordine spirituale. Egli sembra non reagire
alle azioni malvagie e brutali delle persone che lo circondano: non discute con loro, li ignora
rifiutando di diventare uno di loro. Sembra in tal modo che i suoi nemici lo tengano in pugno,
in realtà non esercitano alcun potere su di lui, sebbene vittima delle loro male azioni egli
conserva intatta la sua indipendenza e purezza fino all’estasi.
La sistemazione del palcoscenico e del pubblico sta a metà fra l’arena e la sala operatoria: per
questo si può avere l’impressione di assistere, osservando l’azione che si svolge in basso, a
qualche sport crudele in un’antica arena romana, oppure ad un’operazione chirurgica.
All’inizio della rappresentazione il principe è vestito di un camice bianco e di un mantello
rosso, che a tratti può essere trasformato in un sudario. Alla fine della rappresentazione egli è
nudo, privo di qualsiasi difesa tranne la sua identità umana. I sentimenti della società verso il
Principe non sono uniformemente ostili, ma sono piuttosto l’espressione di un sentimento di
diversità ed alienazione unito ad una specie di attrazione. Tale combinazione contiene in sé la
possibilità di reazioni estreme quali la violenza e l’adorazione.
Tutti si contendono il “martire”, ed alla fine della rappresentazione lottano gli uni contro gli
altri per possederlo come se si trattasse di un oggetto prezioso. Nel frattempo, l’eroe assiste a
infinite dispute e viene sottomesso alla volontà dei suoi nemici. Non appena l’azione è
compiuta, la gente che ha tormentato a morte il Principe rimpiange il proprio operato e
compiange il suo destino. Gli uccelli predatori si trasformano in tortore. Alla fine, nonostante
le persecuzioni e le stupide umiliazioni cui era stato sottoposto, egli diventa un inno vivente in
omaggio all’esistenza umana. L’estasi del Principe consiste nella sua sofferenza, cui egli può
resistere solo offrendo se stesso alla verità, in un atto d’amore. Così, nonostante il paradosso,
la rappresentazione vuole essere un tentativo di trascendere l’atteggiamento tragico, il che
consiste nel rigettare tutte quelle componenti che possono indurre ad accettare l’aspetto
tragico.
Grotowski ritiene che, sebbene non si sia attenuto fedelmente al testo di Calderòn, egli abbia
conservato il significato profondo dell’opera. La rappresentazione è la trasposizione delle
intime contrapposizioni e dei tratti più caratteristici dell’epoca barocca come il suo aspetto
visionario, la sua musicalità, il suo apprezzamento degli aspetti concreti ed il suo
spiritualismo. Questo spettacolo è anche una specie di esercizio che permette di verificare il
metodo di recitazione di Grotowski: tutto è fuso nell’attore nel suo corpo, nella sua voce e
nella sua anima.
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Università del Salento – Facoltà di Scienze della Formazione – Insegnamento di Teatro d’Animazione
(prof. S. Colazzo) - Dispense del Corso dell’a.a. 2007/2008 redatte dalla dott.ssa Veronica Miceli -
Il lavoro di ricerca
Durante il lavoro nel laboratorio il regista si accorge che, nonostante il training, i suoi attori
non riescono a realizzare l’apertura verso il pubblico, da lui auspicata; per questo motivo egli
decide di non creare più nessun altro spettacolo ed orienta la ricerca in una direzione diversa.
Nel 1970 riorganizza la sua compagnia composta da giovani senza nessuna esperienza teatrale
e finalizza la sua attività alla realizzazione di conferenze, seminari, stages, al di fuori del
sistema produttivo spettacolare:
“Siamo arrivati alla conclusione [...] che dobbiamo abolire il biglietto di ingresso e che coloro
che vengono da noi dovrebbero pensare di recarsi in un luogo speciale dove è possibile
lasciarsi alle spalle la propria vita quotidiana [...], dove possiamo essere completamente noi
stessi”.
Queste parole, scritte da Grotowski nel testo “Per un teatro povero”, costituiscono i semi
concettuali che prenderanno forma nel para-teatro aperto all’esterno ed in cui gli individui
possano stabilire una comunicazione autentica. Nel para-teatro l’attore paradossalmente
scompare per lasciare spazio all’attuante o Performer, ossia “l’uomo d’azione” e non “l’uomo
che fa la parte di un altro”.
Intanto la sua fama continua a crescere e, mentre numerosi gruppi teatrali si ispirano al suo
insegnamento, nel 1984 per ordine del governo polacco il Laboratorio di Wroclaw viene
sciolto. Il maestro si stabilisce a Pontedera e nella cittadina toscana il lavoro di ricerca
prosegue tuttora grazie all’opera di Tomas Richards.
Eugenio Barba e l’Odin Teatret
Il maggior promotore e divulgatore dell’opera di Grotowski in Europa è senza dubbio,
l’italiano Eugenio Barba; emigrato giovanissimo, egli si forma nel Laboratorio di Opole, dove
ha modo di condurre una verifica costante delle teorie del maestro polacco e di assimilarne
l’insegnamento attraverso la pratica teatrale. Nato a Brindisi il 29-10-1936 da padre
gallipolino (Emanuele, ufficiale della Milizia, pronipote dell’omonimo umanista fondatore del
Museo civico) e da madre romana (Vera Gaeta, figlia di un Ammiraglio di stanza a Brindisi),
durante la guerra si trasferì con la famiglia a Gallipoli, dove visse in una dignitosa indigenza
per la morte del padre.
Si fermò ad Oslo per lavorare (come garzone e saldatore d’officina), per studiare letteratura
francese e laurearsi in Storia delle religioni, non prima di aver sposato idee marxiste.
Nel 1956 si imbarcò per l’Estremo Oriente, l’India e l’Africa, dove, spinto dal “sentimento
del diverso”, dello straniero che scruta un altro straniero, “si ubriaca di musica e di
immagini”. L’anno successivo torna ad Oslo dove seguì l’ambiente universitario e teatrale e
ottenne una borsa di studio per frequentare lezioni di regia a Varsavia.
Per molto tempo viaggiò scoraggiato per la Polonia finché scoprì a Opole il “Teatro delle 13
File”, diretto dal regista polacco Jerzy Grotowski, del quale dal 1960 seguì a Varsavia un
corso triennale di direzione teatrale.
Dopo quattro anni di tirocinio Barba si trasferisce ad Oslo, nel 1964, dove fonda il
Laboratorio Interscandinavo per l’attore, meglio conosciuto come Odin Teatret che si
caratterizza come un Centro di preparazione dell’attore, distante dal teatro istituzionale e
accademico. Il gruppo, infatti, è selezionato tra i giovani che non hanno superato la prova di
ammissione alla Scuola Nazionale di Teatro. Lontani dagli ambienti artistici ufficiali, questi
“dilettanti” condividono con Barba l’idea di darsi compiti sempre più impervi, accanendosi
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per superare gli ostacoli della professione. L’Odin Teatret è propriamente un Teatro-Scuola in
cui, diversamente dalle tradizionali scuole di teatro, si antepone al talento la volontà di
sacrificare se stessi per l’Arte, proprio come accade nei Teatri classici orientali dove dei
bambini di sei, otto, dieci anni sono immessi nella professione e dopo dieci anni di intenso
apprendistato e disciplina severa emergono come artisti la cui espressività suggestiva diventa
il sogno più grande di ogni grande attore europeo.
Ad Oslo e ad Hostelbro (in Danimarca), dal 1966 nuova patria dell’Odin, gli attori si allenano
circa undici ore al giorno, dalle nove del mattino alle otto di sera, con una sola pausa dalle
quattro alle cinque del pomeriggio. Esercizi di acrobazia, ginnastica, sport, balletto classico,
plastica, improvvisazione, igiene vocale e concentrazione si susseguono a ritmo frenetico
scandendo il tempo all’interno del Laboratorio.
Gli allievi secondo Barba devono essere consapevoli della missione che vanno ad
intraprendere e considerare un onore l’esperienza di partecipare all’avventura teatrale, tanto
da rendersi disponibili a finanziarla per proprio conto se necessario. Calmi e pazienti essi si
preparano ad affrontare lunghi anni di training, investendo completamente le proprie forze ed
energie.
Eugenio Barba, artista e intellettuale poliedrico, viaggiatore curioso e instancabile, è uno dei
più autorevoli registi e teorici dello spettacolo teatrale del secondo Novecento.
Ha rappresentato nelle maggiori città italiane, europee e di ogni continente, insegnando
“ricerca sul teatro” con dotte conferenze in molti Atenei: Torino, Bologna, L’Aquila, La
Sapienza di Roma, Lecce (a lui si deve la nascita del laboratorio sperimentale dei Koreja, oggi
affermato teatro stabile leccese). È autore di opere e saggi sulla storia del teatro: Alla ricerca
del teatro perduto (1965), Aldilà delle isole galleggianti (1985), La canoa di carta (1993),
Teatro, solitudine, mestiere, rivolta (1996), La terra di cenere e diamanti (1997), L’arte
segreta dell’attore (1997).
Nel 1980, dopo aver individuato, come teorico del “terzo teatro” (itinerante e in spazi aperti),
il carattere internazionale di una cultura d’avanguardia, fondò una scuola internazionale,
frequentata da studiosi e studenti di tutto il mondo, l’Ista (International School of Theatre
Antropology), dedicata all’antropologia teatrale come studio dei comportamenti
extraquotidiani dell’uomo.
Nelle sue opere teatrali ha sempre affrontato, in forma personale e con l’ausilio creativo degli
attori, problematiche socio-politiche, legate alle angosce del nostro tempo, riassumibili nella
condanna della violenza del potere e dell’oppressione dei più deboli. L’Odin è uno dei
maggiori punti di riferimento dell’arte teatrale sperimentale dell’ultimo trentennio: sulla sua
scia ha preso vita dagli anni ‘70 il vasto movimento internazionale del terzo teatro.
Tutti i suoi spettacoli sono portatori di un principio ispiratore: “Ognuno porta nel ventre dei
morti, ma questi si agitano, si muovono, sta all’individuo dar loro voce, sono una specie di
memoria”.
La sua scuola teatrale, improntata ad un severo studio della realtà esistenziale e della
psicologia umana, è fatta di energia vitale, sorprendenti innovazioni, passionale gestualità,
con
una
tecnica
teatrale
impostata
su
metodi
rivoluzionari.
Ricerca il dinamismo con una varietà di azioni, atteggiamenti estemporanei, effetti speciali:
suoni, voci, luci, musiche, colori, tempi, costumi, canti, danze e poesie.
Teatro nuovo e diverso, ma più umano, aperto alla realtà multietnica, dalla nordica alla sardosalentina e all’afro-asiatica, sognando un mondo senza differenze o confini, senza prepotenze.
Ha partecipato alla Biennale di Venezia (1975) ed ha rappresentato persino a Lecce e a
Carpignano Salentino, dove, accolto con entusiasmo, ha richiamato Grotoswki e i maggiori
interpreti
teatrali
insieme
con
gli
esponenti
della
cultura
europea.
È stato insignito del dottorato da varie Università (Varsavia, La Havana, Montreal, Messico,
Copenaghen), ma la più autorevole onorificenza è la Laurea Honoris Causa conferita il 6-11-
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1998 a Bologna in “Discipline delle arti, della musica e dello Spettacolo” con la seguente
motivazione: “Eugenio Barba è un artista, uno studioso e un politico del teatro, fondatore di
una tradizione del fare teatrale che da più di trent’anni incarna assieme agli attori dell’Odin
Teatret”. Tra gli altri riconoscimenti ricevuti in tutto il mondo si segnalano: Premio Targa
d’argento “L’uomo e il mare” (1985, mai ritirato) per aver dato lustro a Gallipoli e al Salento
con la sua attività teatrale di livello internazionale; Premio “Internazionale Pirandello” (2000)
assegnato dalla città di Palermo al maggior interprete dell’arte pirandelliana; Premio “Città di
Roma” (2003) al maggiore rappresentante contemporaneo della storia del teatro.
Il training.
Anche per Barba, come per gli altri maestri del Novecento, il training rappresenta l’elemento
cardine intorno al quale ruota la sua concezione teatrale. Secondo il regista esso non è una
tecnica che insegna a recitare, che rende gli attori dei bravi attori, non è neppure un insieme di
movimenti ginnici stereotipati che preparano in modo meccanico alla creazione; il training è
piuttosto un laborioso processo di autodefinizione personale che si manifesta attraverso delle
reazioni fisiche. È l’attore in quanto uomo con i suoi bisogni interiori a dare significato al
training e a superare la pura e semplice fisicità del movimento. Non è l’esercizio in se stesso
che conta, ma la giustificazione data da ciascuno al proprio lavoro, una giustificazione che,
anche se banale o difficile da spiegare è fisiologicamente percettibile, evidente per
l’osservatore.
Semplicemente il training è un test, una prova in grado di verificare, giorno dopo giorno, se
l’allievo è pronto ad impegnare se stesso come individuo, membro del gruppo e attore.
All’inizio il training è collettivo: tutti eseguono i medesimi esercizi contemporaneamente e
allo stesso modo. Poi, man mano che il lavoro procede, il regista si rende conto che ciascuno
ha un ritmo particolare (mentale e fisico) diverso nei vari componenti del gruppo. Così il
training diventa individuale e gli esercizi, pur rimanendo identici, cambiano di valore e di
significato. L’attore si autodisciplina, cerca cioè di eseguire le esercitazioni nella maniera più
consona alla propria persona e al proprio corpo.
L’allenamento si basa su azioni elementari, che stimolano la reazione del corpo degli attori e
impegnano tutto il gruppo ad “aprirsi” reciprocamente spirito di collaborazione.
Una particolarità dell’Odin consiste nel fatto che non ci siano maestri e pedagoghi, ma che gli
allievi stessi elaborino il loro training, da eseguire con assiduità e costanza, pur seguendo le
indicazioni di Barba.
Il clima cooperativo di ciò che oggi chiamiamo comunità di pratica si traduce nel dialogo e
supporto dei più anziani che, mettendo la loro esperienza a disposizione dei giovani, li aiutano
dando loro consigli per superare le difficoltà.
Gli esercizi
Alcuni esempi di esercizi possono essere significativi per capire quale tipo di training
svolgono gli allievi di Barba. Uno di essi ha la finalità di obbligare alla precisione: si tratta di
toccare con il piede il petto del compagno cercando di non fargli male. Chi esegue l’azione si
sforza di compierla con delicatezza e meticolosità, chi la “subisce” cerca di superare il riflesso
di difesa e si dispone senza paura a “ricevere” il gesto. Questo genere di situazioni prepara gli
allievi ad agire con intelligenza fisica emotiva e sociale insieme, agendo con l’intuito, la
precisione ed il rispetto per gli altri.
Il secondo esempio è costituito da una catena di esercizi acrobatici: gli attori eseguono balzi,
capriole, fanno salti mortali, imparano a cadere sul pavimento senza peso. Il valore
psicologico di tali esercitazioni è molto forte: esse sembrano difficilissime da eseguire e
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spesso si ha la sensazione di non poterle compiere nella maniera giusta. In fondo si tratta solo
di un delicato gioco di energia. Ancor prima di recitare, l’attore è chiamato alla mobilitazione
di tutte le sue forze fisiche, psichiche e intellettuali. Questo impegno energetico avviene in
modo invisibile a livello pre-espressivo, ossia prima dell’espressione compiuta, e diventa poi
visibile nella fase espressiva che per l’attore è il momento della “rappresentazione”.
L’impegno energetico è supportato da tutti i membri del gruppo.
L’ISTA (Intemational School of Theatre Anthropology)
Dopo aver raggiunto un certo grado di completezza nella preparazione dell’attore ed aver
concretizzato delle relazioni umane all’interno del gruppo, consistenti nell’avere acquisito
sia il coraggio di avvicinarsi l’uno all’altro da parte degli allievi sia un forte legame
consolidato nel tempo anche grazie alla vita in comune, Barba porta la sua attività all’esterno,
fuori dal Teatro di Hostelbro.
Un’attività che spazia dagli spettacoli alle tournées “di strada” in paesi stranieri e in piccoli
centri dell’Italia meridionale, all’organizzazione di corsi, seminari, pubblicazione di una
rivista e di libri, produzione di film didattici sul teatro, fino alla costituzione dell’ISTA
(International School of Theatre Anthropology). Essa si fonda sull’idea del massimo scambio
di esperienze quali ad esempio quelle esistenti tra orientali e occidentali, tra generazioni più
anziane e generazioni più giovani, tra il teatro tradizionale e teatro di gruppo. Ogni anno, in
luoghi diversi, antropologi, studiosi, maestri e allievi di tutto il mondo si riuniscono per
mettere a confronto tecniche ed esperienze teatrali differenti.
Barba ed il suo gruppo perseguono il loro cammino lontani dalle strutture pubbliche e distanti
da qualsiasi legge di mercato; essi cercano di superare i limiti sia fisici sia psichici individuali,
di costruire un nucleo di valori, cioè un’identità personale, in relazione alle proprie radici
culturali, ad una tradizione in cui si riconoscono, e per questi motivi si confrontano con realtà
diverse per lingua, ideologia, religione, modo di vita nel tentativo di ritrovare se stessi e la
possibilità dello scambio proprio nella diversità.
Peter Brook ed il CIRT (Centro Internazionale di Ricerca Teatrale)
Nato a Londra nel 1925 da genitori di origine russa, dopo essersi laureato ad Oxford in
letteratura comparata, iniziò ad occuparsi di teatro e di cinema.
Il regista londinese Peter Brook ha messo in scena più di settanta rappresentazioni dal 1942,
quando ancora diciassettenne dirige il Doctor Faust di Christopher Marlowe, fino al più
recente Oh les beaux jours (Giorni felici) di Samuel Beckett.
Trasferitosi da Londra a Parigi, crea il Centro Internazionale di Ricerca Teatrale, dove
convergono attori provenienti da ogni parte del mondo, inglesi, americani, spagnoli,
portoghesi, giapponesi, arabi, africani, che esaminano il valore comunicativo del teatro al di là
delle distanze etniche, concettuali e linguistiche.
Questa “comunità nomade” attraversa il mondo ed entra in contatto con persone che non
avevano mai assistito a spettacoli teatrali prima di allora. Memorabile resta il viaggio in
Africa tra Niger, Nigeria, Mali, Togo e Dahomey, in cui la compagnia senza un copione e
senza aver fissato niente a priori, recita nei villaggi, nel deserto, nella foresta tropicale.
La sfida è globale e li riguarda come attori, come individui e come gruppo. Non solo occorre
sfruttare al massimo tutti i mezzi espressivi per coinvolgere gli abitanti del luogo ma è
necessario sviluppare un grande spirito di adattabilità. Le precarie condizioni igieniche, la
carenza di acqua, la mancanza di comodità, unite agli inevitabili problemi di convivenza, sono
per loro ostacoli quotidiani.
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Il teatro di Brook
In Brook è radicata la convinzione che il teatro sia essenzialmente uno scambio vivo tra chi
agisce e chi guarda: entrambe le parti partecipano ad un “coro telepatico” all’interno del quale
si trasmette una forte energia creativa che circola e viene condivisa.
Il teatro in questo senso si afferma sempre più come momento rituale in cui il gruppo si
autodefinisce creando regole, valori, complicità, empatia fisica, emotiva, culturale.
I simboli creati al di fuori dei luoghi tradizionali del fare e vedere teatro mettono in atto un
circolo di azioni rituali che, come direbbe Randall Collis, si fondano sullo scambio di
effervescenza, contiguità e di energia emotiva.
Affínché tale congiunzione comunicativa e culturale si verifichi ogni volta ci sia un incontro
tra un pubblico ed un attore, quest’ultimo impara attraverso un training quotidiano ad
interagire con se stesso, con i partners del gruppo e con il pubblico.
Questi tre livelli di interazione sono definiti da Brook “le tre fedeltà”: la fedeltà della
concentrazione, sorgente profonda dell’ispirazione; la fedeltà al compagno in scena cui
bisogna adattarsi costantemente; la fedeltà allo spettatore, in rapporto al quale l’interprete
deve aprirsi.
Tali affermazioni si avvicinano fortemente al concetto in cui può essere sintetizzata la
concezione del teatro di Brook: l’arte come relazione, anzi come una rete di relazioni in
movimento, viva, che si costituisce ogni volta che interagiscono tra loro le parti descritte in
precedenza.
Il teatro tra relazione ed ascolto
L’attore narratore
L’attore che si forma con Brook è fondamentalmente un attore-narratore
Questo genere di recitazione ha cominciato ad ispirare il regista fin dal suo viaggio in Africa,
durante il quale ha potuto costatare come le culture africane e quelle orientali hanno da
sempre praticato l’arte del narrare, piuttosto che possedere un vero e proprio teatro.
La narrazione, in questa accezione non è tanto il terreno sul quale l’identità non trasparente a
se stessa si riconosce, quanto piuttosto il luogo di (re)invenzione del proprio io. L’attore
narratore ha sempre qualcosa da raccontare e lo spunto può nascere fuori o dentro di sé5.
Egli pensa pertanto ad un attore che, mettendosi in relazione con il pubblico mentre si accinge
a recitare un testo qualsiasi, sia in grado di mantenersi a metà tra l’immedesimazione nella
storia, nel personaggio ed una totale estraneità ad essi, in una sorta di alternanza reciproca
caratterizzata da un’identificazione solo incompleta e da una distanza momentanea.
L’arte del narratore consiste nel tenere gli spettatori con il fiato sospeso mediante la sua
abilità interpretativa. Per questi motivi indica un training in cui si alternano esercizi vocali e
gestuali. Gli esercizi vocali, ad esempio, tendono a preparare la voce mediante un allenamento
costante sulla respirazione, sui ritmi delle sillabe e delle vocali, in modo che la “parola” risulti
più incisiva. Gli esercizi gestuali spaziando dal “comune riscaldamento” a tecniche più
specifiche, yoga, tai-chi, danza indiana, educano l’attore a percepire le intenzioni dei
compagni.
Esemplare, in questo senso, l’esercizio con le canne di bambù. In cerchio (per eccellenza
modello di comunione e comunicazione) il gruppo si scambia delle canne di bambù
velocemente. Ognuno, in pochi secondi, deve intuire i proponimenti di colui che gli sta
accanto ed essere pronto ad accogliere qualsiasi variante introdotta; per raggiungere tale
obiettivo sono indispensabili attenzione e massima concentrazione. A sviluppare queste doti
5
Cfr. C. GIANCANE, Maschere e identità. Educare attraverso il teatro, Pensa, Lecce, 2001.
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collaborano anche gli esercizi di improvvisazione, che preparano gli attori ad essere pronti
all’imprevisto, a saper creare in qualsiasi momento e luogo un evento teatrale.
Il teatro di Brook nel suo concreto realizzarsi esprime l’avventura individuale e lo spirito di
comunità dell’attore in scena e fuori dalla scena.
Nell’incontro con lo spettatore, al confine dello spazio contrassegnato dalla “finzione”,
dall’immaginazione6, l’uomo-attore realizza emblematicamente il viaggio della propria
identità come narrazione di sé, della propria storia di vita tramite la voce, il gesto, l’emozione.
Il teatro di Brook è fondamentalmente narrazione intesa come incessante ricerca di sé e del
proprio personale Simorg7 nel cammino dell’esistenza.
La Conferenza degli uccelli
Tra tutte le opere di Brook, La Conferenza degli uccelli, ispirata dall’antico poema persiano di
Farid Ad-Din Attar, è quella che meglio riassume l’attività del maestro e del suo gruppo di
attori. Il debutto dello spettacolo avviene ad Avignone nel 1979.
Per Brook e la sua compagnia, il testo costituisce un punto di riferimento importante e
consente di suscitare una serie di riflessioni sul lavoro che i membri del Centro hanno
intrapreso ormai da anni.
In quattromilacinquecento versi il poeta Attar, di professione profumiere e uomo assai colto,
narra un viaggio intrapreso da uno stormo di uccelli guidati da un’Upupa.
Un viaggio molto particolare che prende spunto da una situazione di crisi: i volatili hanno
bisogno di un re. Riuniti in conferenza lo individuano nel favoloso uccello Simorg (uccello
mitico e dai magici poteri che vive su un albero presso il lago Varksk) e si mettono in
cammino per raggiungere la sua corte. Mille dubbi assalgono gli uccelli prima della partenza e
numerosi sono i tentativi dell’Upupa di impartire regole e disciplina ai volatili restii a
rinunciare alle abitudini della vita giornaliera: sordi al richiamo del viaggio, l’anitra preferisce
il suo stagno, la pernice le sue pietre, l’usignolo la sua rosa, il gufo il suo ramo, la cocorita la
sua gabbia.
Soltanto quando l’Upupa, l’unica capace di non accontentarsi del quotidiano, ammonisce la
loro superbia e il loro orgoglio, il viaggio ha inizio davvero. Gli insegnamenti morali
dell’uccello, che funge da guida, saranno fondamentali per lo stormo e li aiuteranno a varcare
le sette Valli che conducono al regno del Simorg. Il “Grande uccello”, infatti, si rivelerà a
coloro che sapranno vincere le difficoltà della valle della Ricerca, dell’Amore, della
Comprensione, dell’Indipendenza, dell’Unità, dello Stupore e della Povertà. Molti non
riusciranno a sopportare le fatiche di un tale percorso e si ritireranno; altri, incoraggiati a
resistere alle passioni, perverranno alla destinazione.
Nella fiaba di Attar la gioia della scoperta del Simorg è riservata a pochi eletti. Trenta uccelli
su centomila riescono ad arrivare a destinazione e una sorpresa incredibile colpirà i loro occhi.
Arrivati alla soglia della settima valle si accorgono che il Simorg è uno specchio in cui si
riflette la loro immagine (non è un caso che in persiano la parola si morg significhi trenta), e
soltanto in quel momento capiscono che il fine del viaggio è la ricerca di se stessi.
La metafora è esplicita. Il viaggio, l’avanzamento lento per gradi, il sentiero formato da sette
valli sono le tappe simboliche che conducono alla “fusione” tra l’uomo e l’essere vitale.
Gli attori si allenano, ognuno sceglie un uccello-personaggio, ne mette a punto una prima
caratterizzazione e, infine, si confronta con gli altri dando vita a scene collettive.
6
In questo senso si delinea il rapporto intimo tra gioco e ritualità. Per maggiori chiarimenti si veda il saggio
introduttivo di S. COLAZZO, “Gioco e teatro: il corpo e le emozioni a scuola”, in A. STOMEO Intrecci: teatroeducazione-new media, Amaltea Edizioni, Castrignano dei Greci, 2006.
7
Simorg rappresenta la metafora dell’identità e della spiritualità che l’uomo cerca e che ritrova quando si trova
di fronte allo specchio che riflette la sua figura, i suoi obiettivi, la perseveranza, la sua scelta di vita.
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È fondamentale nel teatro di Brook l’uso di maschere balinesi, costruite appositamente per
l’occasione, come espediente per spingere gli interpreti ad entrare in contatto con le proprie
capacità motorie ed espressive liberandosi da canoni e cliché. La maschera fornisce l’essenza
del personaggio da rappresentare, la sua stessa presenza come supporto per la recitazione.
Oltre alle maschere, il regista si serve di marionette costituite di elementi mobili e “poveri”,
scialli e sciarpe, che rappresentano una sorta di “estensione del corpo” dell’attore
suggerendogli spunti per il lavoro di creazione8.
Lo spettacolo passa per il rifiuto di ogni inutile decoro scenografico, lo spazio scenico diviene
vuoto, ma non in senso di mancante, in quanto riempita da immagini date dai corpi, dalle
parole e dall’energia degli attori in dialogo con gli spettatori che ascoltano partecipando al
rituale comunicativo. Il teatro totale di Brook si pone in relazione con il desiderio del
contatto, con le esigenze del pubblico. In questa direzione si muove il Teatro delle Townships
che incoraggia l’esprimere del desiderio di riscatto per la condizione di umiliazione derivata
dall’apartheid in Africa. Qui la realtà sociale non ha bisogno di essere messa in primo piano,
il contesto in cui si svolge è talmente forte da inglobare la situazione umana. La genesi della
scena prende forma dall’immediato, dalla realtà del vissuto emotivo degli attori che esaltano
per mezzo della verità dei corpi e della parola la condizione vitale, che giunge direttamente
dalla strada, dall’asprezza della vita.
Luca Ronconi
Abbiamo visto che dalla crisi della fiducia verso il testo, da una lettura “sospettosa” (sulla
base di Marx, Freud e dello strutturalismo) si innesca una irreversibile crisi della
rappresentazione e delle sue forme, che investe sia il teatro di regia sia il nuovo teatro.
La “decostruzione” dell’evento teatrale è stata operata anche dal regista Luca Ronconi che
mette in discussione, in particolare con il Laboratorio di Prato nella i diversi elementi della
tradizionale costruzione teatrale (lo spazio, il personaggio, il testo), alla ricerca di una
rifondazione.
Luca Ronconi esordisce appena ventenne come attore, dopo il diploma all’Accademia d’Arte
Drammatica di Roma. Il suo esordio nella regia è affidato al collage di due commedie
goldoniane, La puttana onorata e La buona moglie, riunite sotto quest’ultimo titolo (1963), in
una versione naturalistica e privata delle maschere. Con I Lunatici (1966) di Thomas
Middleton e William Rowley è salutato dalla critica come uno degli esponenti di punta
dell’avanguardia teatrale in Italia. È lo spettacolo che imposta leitmotiv dei futuri spettacoli: la
concezione della regia come un atto affrancato dal testo, pur mantenendone il più possibile la
sua integrità. La messinscena rifiuta l’interpretazione storicistica o psicologica e tende a
ricavare dal testo una visione sintetica del suo significato complessivo, elaborandola anche sul
fronte scenografico e recitativo (palesemente antinaturalistico). È lo spettatore ad effettuare
un lavoro di montaggio, incitato dall’impianto attoriale, verso la comprensione delle
molteplicità di significanti del testo.
Nel 1967 il nome di Ronconi appare tra il folto gruppo di cineasti, scrittori, artisti e teatranti
che sulla rivista “Sipario” rivendicano una nuova funzione per il teatro, in aperta opposizione
alla sclerosi artistica ed organizzativa della scena.
A partire dagli anni ‘60 si delinea l’interesse per l’attività pedagogica, con l’esordio nei corsi
di recitazione dell’Accademia Silvio d’Amico. Queste esperienze trasfondono la linea
8
Vedi G. OLIVA, Il Laboratorio Teatrale, Milano, LED, 1999.
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registica in saggi-spettacolo di alto livello, costituendo al contempo il trampolino di lancio per
nuove leve attoriali.
La convinzione etica del valore e del senso del teatro nella società contemporanea, porta
Ronconi ad affermare che “… è necessario che la scena riscopra e riaffermi con energia la sua
più autentica natura di luogo deputato ad una conoscenza complessa, maturata attraverso
l’esperienza”.
L’approccio didattico procede di pari passo con il ruolo del regista, che attribuisce allo
spettatore una funzione paritaria rispetto a chi si trova in scena: il teatro è il luogo della
comunicazione e questa non può limitarsi alla sola presenza degli attori.
Infatti, costoro promuovono azioni e relazioni che non si esauriscono nelle azioni il senso e la
significazione dell’opera. Lo spettacolo di Ronconi rifiuta l’univocità di significato: è lo
spettatore tramite un lavoro di interpretazione9 che svolge un lavoro di montaggio, reso
possibile solo in presenza di una forte ed unitaria relazione tra gli attori e gli spettatori.
Nel 1992 Ronconi fonda e dirige la scuola del Teatro Stabile di Torino. A Roma organizza un
corso di perfezionamento per attori e dal 1998, approdato al Piccolo Teatro di Milano, dirige
la Scuola per attori.
Per la stagione 2001/2002 Ronconi realizza l’edizione teatrale di Infinities: Il testo è
commissionato all’astrofisico inglese John D. Barrow, che declina il concetto di infinito in
cinque “camere” di significato. Il titolo richiama smaccatamente ad una molteplicità di
situazioni che trascendono il presente della messinscena teatrale. Lo spettacolo si articola in
cinque scene, cinque microdrammi che parlando della variabilità della natura delle cose,
riflettendo anche sulla potenza generatrice del teatro. Ciascuno dei microdrammi avviene in
una stanza con caratteristiche scenografiche diverse e secondo differenti articolazioni spaziotemporali.
Il processo creativo autorale: L’Orlando furioso
Il teatro di Ronconi occupa tutto lo spazio andando oltre la scena, creando spazi di incontro e
di liturgia popolare. A tal proposito è interessante ricordare l’emblematica opera teatrale
L’Orlando Furioso presentato al Festival dei Due Mondi di Spoleto e che lo inpose come
figura di spicco sulla scena del teatro internazionale. Lo spettacolo è tratto dal poema del
1516 di Ariosto e debuttò il 4 luglio del 1969. Fu lo spettacolo che rivoluzionò la scena
teatrale italiana portando il linguaggio del sogno e della fantasia sul palcoscenico.
L’Orlando furioso ha rappresentato e tuttora rappresenta il cambiamento nella maniera di
concepire lo spazio teatrale, abolendo la separazione tra attori e pubblico e trasformando lo
spettacolo in una “festa collettiva”. Le piazze in cui andava in scena diventano luoghi di
comunità in cui si ha una rimescolanza di ruoli.
Per la prima volta ironia e straniamento Brechtiano10, che fin ora si riteneva impossibile
attuare in compresenza, convivono nella scena, in strada, attraverso il distacco che fa pensare
e rompe le tradizionali logiche espositive e narrative, ed il clima di cerimonia popolare che
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Il testo dello spettacolo diventa momento conoscitivo aperto alla narrazione in cui l’io, come dice Heidegger,
“diviene coscienza di sé come domanda”, immerso nell’evento interpretativo non esercitando alcun diritto di
prelazione nei confronti del testo, anzi aperto alla polisemia dei significati.
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Bertold Brecht affronta nelle sue opere teatrali l’induzione alla coscienza dell’ambiente sociale in cui vivono
lo spettatore e l’attore. Il linguaggio si unisce all’incisività del gesto attraverso la tecnica dello straniamento:
l’atteggiamento dell’attore prende le distanze da ciò che avviene nella scena. L’attore abbandona i toni patetici
ed empatici del dramma intimista per sostituirli con la recitazione critica. In questo senso si toglie al
personaggio ed alla vicenda qualsiasi elemento sottointeso facendone oggetto di stupore e curiosità. In questo
modo l’attore scopre ed associa immagini e significati culturali, oltrepassando la rappresentazione teatrale per
denunciare temi di natura sociale.
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Università del Salento – Facoltà di Scienze della Formazione – Insegnamento di Teatro d’Animazione
(prof. S. Colazzo) - Dispense del Corso dell’a.a. 2007/2008 redatte dalla dott.ssa Veronica Miceli -
invita all’immedesimazione. Lo straniamento non toglie patos all’urgenza emotiva dei
personaggi poiché è supportata da un ritmo incalzante.
Tramite le ottave ariostesche, che ricordano i cantori popolari della toscana si ironizza sulla
non attualità dei ruoli, della cultura e dei linguaggi che sono l’origine della follia di Orlando.
“Fu lo spettacolo che cambiò il teatro, purtroppo non ha avuto epigoni” dice Edoardo
Sanguinetti, che nel 2006 riscrive l’opera per il teatro di Ronconi.
Voci diverse, come quella di Roberto Alonge, attribuiscono a Ronconi un peccato di
megalomania nel rifiuto dell’autore-drammaturgo. Pareri differenti, ma che contribuiscono a
farci conoscere meglio questa grande figura di regista.
Nel 1974 Ronconi porta lo spettacolo teatrale in televisione. L’adattamento e la sceneggiatura
sono di Sanguinetti e di Ronconi, mentre nelle vesti di interpreti sono presenti Massimo
Foschi, Mariangela Melato, Ottavia Piccolo.
Lo spettacolo adattato televisivamente viene realizzato in cinque puntate e mantiene
l’intrinseca struttura circolare del poema dell’Ariosto con un esaltazione dell’atmosfera
favolosa.
Tra i numerosi riconoscimenti attribuitegli si ricorda il VI Premio d’Europa per il Teatro di
Taormina Arte nel 1998; Progetto sogno nel 2000, Lolita nel 2001 ed Infinites nel 2002 hanno
ottenuto il Premio UBU come migliori spettacoli teatrali.
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