Capitolo 1 Il modello teorico della terapia cognitiva

Capitolo 1
Il modello teorico
della terapia cognitiva
Carmelo La Mela
Questo capitolo è costituito da 3 sezioni: 1) la prima descriverà il contesto culturale nel quale è nata e si è sviluppata la Terapia Cognitiva Standard (TCS); 2) la seconda parte illustrerà i principali assunti teorici della
TCS; 3) infine, la terza parte sarà dedicata a introdurre uno dei contributi
più interessanti e fertili per l’evoluzione della teoria e terapia cognitiva,
rappresentato da quella che è stata definita la “prospettiva relazionale”, la
quale vede confluire le riflessioni riguardanti la dimensione interpersonale, le implicazioni conseguenti alle ricerche della psicologia dello sviluppo
e dell’età evolutiva, e il contributo fornito dallo studio delle funzioni metacognitive.
In tal modo intendiamo introdurre lo spirito del presente volume: offrire una chiara descrizione dei princìpi fondamentali della TCS, ampliandone la prospettiva con quei contributi recenti – provenienti anche da
altre aree della ricerca scientifica – sul funzionamento mentale che danno
ragione dell’attualità di questo modello.
Il criterio guida nella formulazione della TCS è stato mettere a punto
un metodo di psicoterapia centrato sull’esperienza soggettiva consapevole, che fosse efficace, breve, fondato su osservazioni scientificamente
misurabili, replicabile e i cui risultati fossero valutati in studi controllati.
Questo criterio aureo, a nostro avviso, rimane a tutt’oggi il principio
che caratterizza l’essenza della terapia cognitiva e che sottolinea la totale
apertura del modello teorico a riformulazioni, afferenti pure ad aree di
ricerca e ad approcci diversi, che però non neghino il principio scientifico
galileiano e popperiano della verificabilità, riproducibilità e falsificabilità.
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Inoltre una teoria psicologica sul funzionamento mentale, che sottende un intervento psicoterapeutico, deve costantemente cercare conferme e compatibilità coi dati neuroscientifici che progressivamente stanno
arricchendo le nostre conoscenze in materia. La compatibilità e la possibilità d’integrare un modello psicologico di funzionamento mentale con
tali evidenze neuroscientifiche, rappresentano un passaggio ineludibile
per assegnare un fondamento scientifico alla cura psicologica dei disturbi emozionali.
1. Il contesto culturale
Il contesto culturale nel quale nacque la Terapia Cognitiva (TC)
– anni Sessanta del secolo scorso – era caratterizzato dalla prevalenza
del modello psicoanalitico e psicodinamico, a cui si andava contrapponendo la terapia comportamentale. In entrambi gli ambiti cresceva un
malcontento tra i clinici e i ricercatori, specie in ambiente statunitense, rispetto a tali paradigmi teorici che mostravano un limite concettuale nella
chiusura rispetto ai dati che la ricerca scientifica stava offrendo riguardo
al funzionamento mentale. In alcuni psicoanalisti, poi, emergeva un disagio riguardo alle resistenze messe in atto verso la necessità di aprirsi al
confronto con metodologie scientifiche che verificassero l’efficacia degli
interventi terapeutici.
Infine, dal punto di vista teorico, una forte somiglianza avvicinava la
prospettiva psicoanalitica a quella comportamentista: entrambe erano poco interessate al ruolo della dimensione conscia e consapevole dell’attività mentale come elemento fondamentale della vita psichica nel processo
d’intenzionalità e motivazione al comportamento.
Il presupposto psicoanalitico, che vedeva la spinta all’azione e la base del disagio psicologico nel conflitto tra istanze inconsce e consce, e
il modello comportamentista, fondato sull’ipotesi del condizionamento
operante classico, del tipo Stimolo-Risposta, davano risposte parziali
e insoddisfacenti ai quesiti posti dall’affiorante interesse nei confronti
dello studio dei processi cognitivi consci dei pazienti e a quali fossero
le rappresentazioni mentali consapevoli più vicine al vissuto psicopatologico.
Fu in quel clima culturale che la terapia della depressione elaborata da
Beck (1967) iniziò a suscitare l’interesse di terapeuti di ambiti diversi. L’enfasi impressa da questo tipo di terapia ai processi consci di elaborazione
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delle informazioni rappresentava un elemento innovativo nel trattamento
dei disturbi psicopatologici. Il rilievo attribuito all’esperienza soggettiva
conscia, la rilevanza dei processi di costruzione di significato rappresentarono una novità nell’approccio alla comprensione e al trattamento del
funzionamento psicologico e psicopatologico.
Una presentazione storica della nascita e dello sviluppo della TC non
può esimersi dal dedicare ad Albert Ellis una nota iniziale col riconoscimento di una sorta di primogenitura nei confronti della stessa TC, così
come riconosciuto dallo stesso Beck (Clark, Beck e Alford 1999).
Ellis, nel 1962, formulò un modello di psicoterapia, da lui definito Terapia Razionale Emotiva (Rational-Emotive Therapy, RET). Egli elaborò l’ipotesi in virtù della quale, alla base dei disturbi psicopatologici, vi erano dei
contenuti mentali patogeni, che definì convinzioni irrazionali, e propose
che l’intervento terapeutico fosse esplicitamente e direttamente fondato
su tecniche cognitive di messa in discussione di tali convinzioni irrazionali
e delle loro implicazioni sul funzionamento quotidiano.
In quegli anni Ellis interruppe la sua formazione psicoanalitica per dedicarsi alla definizione di un intervento psicoterapeutico centrato sull’identificazione e sull’esplicita messa in discussione degli schemi cognitivi
sottendenti il disagio emotivo lamentato dal paziente. Durante la terapia,
Ellis aveva iniziato inoltre a dare ai propri pazienti dei “compiti a casa”,
caratterizzati da “esperimenti comportamentali”, che chiedeva loro di attuare tra una seduta e l’altra, miranti a disconfermare le convinzioni irrazionali alla base del comportamento disfunzionale del paziente e della sua
sofferenza, e che permettevano così di potenziare il lavoro svolto durante
le sessioni terapeutiche.
Negli stessi anni Aaron Beck (1967) mise a punto un trattamento psicologico che si dimostrò molto efficace per la cura della depressione di
grado moderato e severo, supportato da prove empiriche provenienti da
ricerche controllate che ne evidenziavano i risultati.
Sia Ellis che Beck individuarono il focus dell’intervento nell’indagine
sistematica delle rappresentazioni coscienti e preconsce che precedono,
accompagnano e seguono immediatamente uno stato emotivo problematico. In particolare, Beck si rese conto che se il terapeuta avesse indagato,
attraverso domande precise e puntuali, cosa il paziente pensasse realmente
nel momento in cui viveva un’esperienza emotiva negativa e lo avesse incoraggiato a rivolgere l’attenzione sui propri pensieri, avrebbe avuto una
porta d’accesso facilitata per la comprensione del disturbo emotivo presentato dal paziente. Giunse quindi alla convinzione che «l’uomo possiede
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la chiave della comprensione e soluzione del suo disturbo psicologico entro il campo della sua coscienza» (Beck 1976).
2. Il modello teorico cognitivo
Il modello teorico cognitivo, rifacendosi alla psicologia cognitiva incentrata sul processo di elaborazione delle informazioni, definisce il funzionamento come espressione di un sistema di conoscenze costituito da strutture, funzioni e processi coinvolti nella costruzione delle rappresentazioni
mentali e nell’elaborazione e trasformazione di queste rappresentazioni e
delle informazioni provenienti dall’ambiente esterno, con lo scopo di un
miglior adattamento all’ambiente fisico e sociale.
Le strutture mentali, definite “schemi cognitivi”, attivati dall’interazione
con gli eventi, portano alla produzione di prodotti cognitivi – i contenuti
mentali – rappresentati da credenze e convinzioni su di sé, sugli altri e sul
mondo, e da pensieri “automatici”.
I pensieri automatici rappresentano una sorta di dialogo interiore, che
scorre in modo involontario, veloce e parallelo al flusso di pensieri di cui
abbiamo piena consapevolezza, contenendo un giudizio sulla situazione
che stiamo vivendo, su noi stessi o sugli altri.
Secondo la teoria cognitiva, le emozioni sono in stretta sintonia col contenuto dei pensieri automatici.
Nelle fasi di scompenso sintomatico sono attivi sia schemi disfunzionali
che caratterizzano la specifica modalità di attribuzione di significato, sia
processi cognitivi che alterano l’elaborazione delle informazioni in maniera
da mantenere il disturbo in atto.
Nei soggetti inclini allo sviluppo di sintomi psicopatologici, l’organizzazione cognitiva è caratterizzata dalla presenza di alcuni schemi, interconnessi tra loro, che rappresentano fattori di vulnerabilità e di predisposizione
allo scompenso psicopatologico.
Il modello cognitivista, riguardo alle modalità di tale scompenso, in sintonia col modello diatesi-stress, sostiene che alcuni schemi disfunzionali,
normalmente latenti e non attivi, quando vengono attivati da eventi stressanti negativi si esprimono con contenuti mentali ed emotivi negativi e
modalità distorte (bias) di processamento dell’informazione, che portano a
sistematiche interpretazioni negative.
Di seguito saranno presentati, descrivendoli per punti, alcuni dei presupposti principali del modello teorico cognitivista. Tali presupposti costi-
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tuiscono gli assunti primari della teoria che fa da fondamento a quella che
attualmente viene definita TCS (Clark, Beck e Alford 1999).
1.La capacità di elaborare le informazioni e la costruzione di rappresentazioni mentali della realtà è fondamentale per l’adattamento all’ambiente. Una premessa
fondamentale della TC è che il processo di elaborazione delle informazioni e di attribuzione di significato alla realtà è un elemento fondamentale per l’adattamento e la sopravvivenza degli esseri umani. Con
l’espressione “elaborazione delle informazioni” s’intende l’attività svolta dalle strutture, dai processi cognitivi per la costruzione di rappresentazioni mentali della realtà a partire dagli elementi sensoriali derivanti
dall’ambiente esterno e da quello interno (Clark, Beck e Alford 1999).
Il sistema cognitivo di elaborazione delle informazioni è finalizzato al
raggiungimento di 2 scopi esistenziali: a) il primo scopo è rappresentato
dal soddisfacimento di bisogni basici che rivestono un ruolo cruciale
per la sopravvivenza dell’uomo. L’organizzazione cognitiva, a questo livello, consiste in schemi concernenti i bisogni fondamentali dell’essere
umano e della sua vita sociale, come la sopravvivenza, la riproduzione,
il predominio e la socializzazione (Beck, Freeman et al. 1990); b) la
seconda funzione del sistema cognitivo è inerente alle attività mentali
con finalità autoriflessive. A questo livello, troviamo rappresentati gli
obiettivi personali, le aspirazioni esistenziali, i princìpi e i valori morali.
Secondo Beck, questo tipo di elaborazione tende ad avvenire a livello
conscio ed è altamente controllato e intenzionale. È un’attività regolata
da schemi più elaborati e flessibili di quelli caratterizzanti il raggiungimento dei bisogni primari. A tale livello troviamo la capacità propria
degli esseri umani di pensare in modo analitico e di risolvere i problemi,
nonché la creatività.
2. Il processo di elaborazione delle informazioni permette la costruzione di una rappresentazione soggettiva della realtà. Abbiamo detto che gli scopi e le funzioni
di un sistema cognitivo sono rappresentati da un adattamento all’ambiente fisico e sociale mediante la capacità di affrontare e risolvere problemi attinenti ai bisogni fondamentali della vita e alla costruzione di un
senso coeso e coerente di sé e della propria identità.
L’adattamento all’ambiente richiede la costruzione di un sistema di rappresentazioni della realtà ricco e articolato, che costituisca una specie di
“mappa” di regole di conoscenza, sintetizzatesi in base alle esperienze
fatte, sulla quale si fondino delle aspettative riguardo alle modalità di
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funzionamento del mondo e della realtà, e che dunque consenta una
buona predittività sul futuro. La TC individua una delle funzioni principali del sistema cognitivo nella costruzione di rappresentazioni della
realtà che non necessariamente sono oggettivamente vere, precise e accurate, ma costituite da soggettive attribuzioni di significato alla realtà.
Il principio privilegiato dalla teoria cognitiva riguardo alle rappresentazioni mentali è quello dell’adattamento. Il terapeuta cognitivo non è
particolarmente interessato alla veridicità oggettiva della descrizione di
una situazione problematica da parte di un paziente. La questione più
importante è se la persona sia in grado o meno di concettualizzare
la situazione in modo da facilitare le proprie capacità di fronteggiare
e padroneggiare gli eventi. La teoria cognitiva, quindi, asserisce che i
significati attribuiti alla realtà sono sempre delle approssimazioni personali e soggettive più o meno accurate. Ciò che distingue i soggetti
affetti da disturbi psicologici dai soggetti sani è il grado in cui, nei primi,
la presenza di distorsioni cognitive condiziona il significato conferito
alle esperienze, influenzando negativamente la capacità di affrontare gli
eventi.
Ad esempio, una ragazza perfezionista che utilizza una modalità dicotomica nell’elaborazione delle informazioni interpretando sempre la
realtà come o perfetta o tutta sbagliata, potrebbe avere l’idea che solo
se riesce a ottenere risultati eccellenti a scuola potrà essere apprezzata
e stimata dai propri genitori, talché un voto anche di poco inferiore al
massimo verrà da lei valutato come il segno delle proprie incapacità,
inadeguatezza e scarsa stimabilità.
Il modello teorico cognitivo sostiene che gli esseri umani costruiscono
la propria rappresentazione della realtà tramite una soggettiva attribuzione di significato agli eventi che avviene attraverso l’attivazione degli
schemi cognitivi.
3.Il processo di elaborazione delle informazioni avviene a vari livelli di coscienza. La
TC non parla di “inconscio”, cioè di informazioni non accessibili alla
consapevolezza, ma postula che il processo di attribuzione di significato avvenga a livelli diversi di consapevolezza e con un’accessibilità
differente ai diversi contenuti mentali. A un estremo troviamo il livello
preconscio, non intenzionale, automatico e non immediatamente presente
all’autoconsapevolezza, mentre all’altro estremo troviamo il livello conscio, con un’attività mentale altamente intenzionale e accurata (Clark,
Beck e Alford 1999).
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Il livello preconscio, caratteristico dei pensieri automatici negativi, opera prevalentemente senza un controllo da parte del livello cognitivo più
elevato e dei processi intenzionali superiori. È dunque a livello preconscio che operano gli schemi più profondi riguardanti il sé e le modalità di adattamento alla vita sociale. Il livello di elaborazione conscio è
invece d’immediata accessibilità all’autoconsapevolezza e rappresenta
quell’attività mentale al centro della nostra attenzione e concentrazione,
monitorata dai processi di controllo e intenzionalità. Tale livello di attività mentale, aumentando il controllo e il monitoraggio sui contenuti e
sull’elaborazione, migliora la capacità di adattamento.
L’attività mentale è espressione di un continuo processo d’interrelazione tra questi due livelli di elaborazione preconscia e conscia.
La psicoterapia cognitiva agisce a livello conscio per effettuare modifiche sui contenuti dell’elaborazione preconscia delle informazioni; il
terapeuta dovrà prendere le mosse dal contenuto del livello conscio,
allo scopo di rendere pienamente consapevoli i contenuti presenti a un
livello preconscio.
Da qui deriva, come vedremo nel cap. 3, l’attenzione, fin da subito nel
lavoro terapeutico, per i pensieri automatici negativi che accompagnano
gli episodi critici (in Beck il termine “automatico” viene usato come
sinonimo di “preconscio” ed esprime la bassa accessibilità alla consapevolezza dei contenuti mentali presenti a tale livello).
4.L’esperienza soggettiva è rappresentata da un’associazione comprensibile e coerente
di pensieri, emozioni e comportamenti. Le diverse informazioni provenienti
dall’ambiente fisico e sociale, attraverso le sensazioni somatiche, senso-percettive ed emotive, vengono elaborate dal sistema cognitivo dando un senso all’esperienza.
Questa capacità del sistema cognitivo di organizzare tra loro le varie
informazioni è un processo che favorisce l’adattamento della persona
all’ambiente e la costruzione di un senso d’identità personale.
I pensieri e le emozioni che accompagnano costantemente l’esperienza
soggettiva di sé sono tra loro associati da un nesso di comprensibilità
e congruità: ad esempio, se penso di essere stato offeso, proverò un
sentimento di rabbia; se invece provo un sentimento di tristezza, il pensiero avrà a che fare con una perdita, per esempio la fine di un rapporto
amoroso.
Una necessaria sottolineatura riguarda il fatto che la teoria cognitiva
non sostiene che le emozioni derivino dalle cognizioni – un tema che ha
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spesso rappresentato uno dei punti di grande critica alla TC –, ma ipotizza la centralità del sistema cognitivo nell’organizzare le diverse informazioni che arrivano al sistema, una sua funzione di “principio-guida”
organizzatore delle componenti emozionali, comportamentali e fisiologiche. Rispetto al rapporto tra cognizione ed emozione, il modello
cognitivo assume inoltre che esso possa essere descritto in termini di
determinismo reciproco. Questa reciproca interazione può comportare
che siano i contenuti mentali ad attivare le componenti emotive associate, ma anche che il provare determinate emozioni in modo intenso
attivi una serie di pensieri coerenti con lo stato d’animo (il cosiddetto
effetto mood congruent).
5.L’adattamento all’ambiente, fisico e relazionale, è lo scopo all’origine della formazione degli schemi. Gli schemi rappresentano una caratteristica di tratto
duratura e stabile nel tempo, che permette di conferire significato alle
diverse circostanze e ai vari stati d’animo la cui attivazione o latenza
dipende dalla presenza o assenza di uno stimolo attivante.
Gli schemi sono definiti come una struttura cognitiva finalizzata a codificare e a valutare gli stimoli agenti sull’organismo, e consentono di
dare un significato alla realtà, che permetta l’adattabilità all’ambiente.
Rappresentano l’esito di un’attività mentale che fin dalla nascita cerca di
trovare regolarità negli eventi che accadono, per aumentare una capacità di previsione sugli eventi futuri e quindi avere un maggior controllo
e adattamento all’ambiente.
Gli schemi si sviluppano, aumentando la loro complessità e predittività,
mediante la continua interazione tra l’individuo e l’ambiente circostante,
fisico e sociale. Nell’organizzazione cognitiva, lo sviluppo degli schemi è
da intendersi in termini di sempre maggiore elaborazione e connessione
con altri schemi. Inoltre la TC non postula che gli schemi si costituiscano e sviluppino solo ed esclusivamente nell’interazione con l’ambiente,
bensì che esistano delle «inclinazioni biologiche o genetiche, ovvero un
prototipo delle stesse, che costituiscono la struttura elementare sulla
base della quale l’esperienza modula lo sviluppo dell’organizzazione
cognitiva» (Clark, Beck e Alford 1999). Un’affermazione come questa
sottolinea la distanza tra il modello teorico della TC e il costruttivismo
radicale. La TC sostiene, sì, l’importanza della costruzione soggettiva
della realtà attraverso una personale attribuzione di significato, ma non
condivide l’epistemologia del costruttivismo radicale, secondo cui non
esiste alcunché al di fuori dell’esperienza soggettiva.
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3. La prospettiva relazionale
Fin qui abbiamo descritto alcuni degli aspetti peculiari della TCS. Introduciamo adesso alcuni temi originati da ambiti di riflessione diversi che
confluiscono tra loro, offrendo una prospettiva relazionale alla teoria e terapia cognitiva, e che rappresentano alcuni dei contributi più fertili allo
sviluppo dell’originario impianto teorico, aprendo alla possibilità di trattamento di aree psicopatologiche prima difficili per la TCS.
Contribuiscono alla definizione di una “prospettiva relazionale” elementi provenienti dalla teoria dell’attaccamento, dalla ricerca di psicologia evoluzionistica alla base delle ipotesi sull’organizzazione anatomo-funzionale
del cervello e infine dalla ricerca sulle funzioni metacognitive.
Il successo della psicoterapia cognitiva standard nel trattamento di molti disturbi di asse I aveva lasciato ai margini della riflessione dei clinici e
dei ricercatori alcuni aspetti teorici che avrebbero richiesto invece maggior
considerazione. Uno dei presupposti principali che interessavano i clinici
e teorici cognitivisti concerneva la teoria della motivazione sottostante al
comportamento umano. E uno dei principali temi di riflessione riguardava
il fatto che l’approccio teorico cognitivo, centrato sul modello dell’elaborazione delle informazioni, non aveva approfondito gli aspetti motivazionali
sottendenti il comportamento, risolvendo il problema, come abbiamo visto, col parlare di generiche finalità di adattamento all’ambiente.
A differenza della TC, tali interrogativi erano stati centrali per la teoria
psicoanalitica classica. In essa, la teoria motivazionale è rappresentata dalla
metapsicologia fondata sul modello delle pulsioni inconsce e sul modello
dell’energia psichica. Il comportamento umano è espressione del conflitto
tra le pulsioni inconsce mirate al soddisfacimento del principio di piacere e
le istanze dell’io e del super-io.
La necessità di superare la mancanza di una solida teoria della motivazione al comportamento e di una teoria generale del funzionamento e dello
sviluppo mentale premorboso, la scarsa attenzione accordata alla dimensione emotivo-affettiva dell’esperienza soggettiva, hanno generato nella
seconda parte degli anni Ottanta profonde riflessioni e un cambiamento
nei princìpi teorici e nelle tecniche della psicoterapia cognitiva. Una prima
risposta a tali interrogativi è stata offerta dall’attenzione prestata da clinici
di area cognitivista (Guidano e Liotti 1983; Safran e Segal 1990) alla teoria
dell’attaccamento di Bowlby (1969). La teoria dell’attaccamento ha fornito alla psicoterapia cognitiva un modello formidabile per comprendere il
funzionamento e lo sviluppo della mente, ha assegnato un fondamento
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empiricamente valido a una teoria della motivazione al comportamento
interpersonale e ha permesso di cogliere le dinamiche interpersonali all’interno della relazione terapeutica.
Gli elementi costitutivi della teoria dell’attaccamento, caratterizzati da
un nucleo di valori biologicamente ed evoluzionisticamente determinati,
da scopi adattivi di vicinanza e protezione, e da regole di condotta apprese
implicitamente e memorizzate nei modelli operativi interni, appaiono pienamente compatibili con una teoria psicologica cognitivista, caratterizzata
dallo studio delle strutture e dei processi con cui si organizzano e si elaborano le informazioni per scopi preordinati.
La teoria dell’attaccamento di Bowlby e le successive ricerche della Ainsworth Salter (et al. 1978) che ne hanno verificato la fondatezza empirica
hanno fornito un supporto forte ed empiricamente fondato alla concettualizzazione e allo studio delle motivazioni che sottendono il comportamento
umano. È sulla scia dell’opera di Bowlby che ha avuto impulso lo studio di
altri sistemi che regolano l’architettura motivazionale interpersonale (Gilbert 1989; Lichtenberg, Lachmann e Fosshage 1992; Liotti 1994/2005;
Panksepp 1998).
Tra i primi a cogliere la possibilità di ampliare l’orizzonte teorico cognitivista tramite l’integrazione della teoria dell’attaccamento col modello
cognitivo, sono stati Guidano e Liotti (1983). Il loro lavoro si è concentrato
sull’importanza delle esperienze relazionali di attaccamento come momento centrale nella costruzione degli schemi di sé e interpersonali, nonché sulla modalità con cui, lungo il percorso evolutivo, tali schemi si organizzano
tra loro in organizzazioni tipiche, atte a contribuire alla costruzione di un
senso di sé stabile e coerente nel tempo.
Il modello proposto da questi autori, che metteva al centro della concettualizzazione della genesi e dell’organizzazione del sistema cognitivo
la dimensione interpersonale dell’esperienza soggettiva, sarà poi ripreso e
articolato da Safran, il quale, parlando di «ciclo interpersonale» e di «ciclo
interpersonale problematico», intenderà sottolineare le modalità disfunzionali con cui i pazienti edificano relazioni che vanno a confermare proprio le
credenze patogene che essi hanno su di sé e sugli altri. Le implicazioni sul
piano terapeutico che tali riflessioni hanno prodotto si riflettono su molteplici piani: uno dei principali riguarda la relazione terapeutica.
La relazione terapeutica, in questa prospettiva, assume un’importanza
nuova e centrale nel processo terapeutico. Infatti, non solo rappresenta il
contesto empatico e collaborativo influente nel facilitare l’applicazione delle tecniche cognitive e comportamentali, così come teorizzato nell’approc-
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cio standard. Qui – di più – la relazione tra paziente e terapeuta diventa
l’oggetto privilegiato dell’esplorazione e della comprensione delle modalità
cognitive emotive e comportamentali con le quali il paziente vive la propria
vita relazionale. Essa rappresenta inoltre un vero e proprio strumento terapeutico attraverso il quale il paziente può sperimentare esperienze emotive nuove che disconfermino credenze e patterns relazionali disfunzionali.
Diventa infine il contesto privilegiato per il lavoro di miglioramento delle
capacità metacognitive e di regolazione del controllo emotivo.
La ricerca sulla relazione di attaccamento madre-bambino ha avuto
un’ulteriore implicazione clinicamente fondamentale: quella di concentrare
la sua attenzione su una particolare capacità umana, definita “metacognizione”. Negli anni Ottanta, la ricercatrice americana Mary Main ha iniziato
a studiare le madri di bambini che mostravano un pattern di attaccamento
sicuro. Ha dimostrato che madri con migliori capacità di comprendere lo
stato mentale del proprio bambino e che gli si rivolgevano come a un soggetto dotato di uno stato mentale proprio, avevano col figlio una relazione
di attaccamento migliore, «sicura», secondo la classificazione degli specifici patterns di attaccamento. Questi bambini in seguito sviluppavano una
funzione metacognitiva migliore rispetto ai bambini con pattern insicuro,
caratterizzata da una più elevata capacità di comprendere e di riflettere sugli
stati mentali propri e altrui.
Tali osservazioni hanno permesso di correlare lo studio sulla capacità
metacognitiva di riflettere sui propri stati mentali (Flavell 1979) alla qualità
della relazione tra madre e bambino nei primi anni di vita. Gli studi che
da allora si sono occupati di questo tema hanno profondamente ampliato
il concetto di metacognizione, studiandone il funzionamento pure in età
adulta e verificando l’associazione anche con molti quadri psicopatologici.
La possibilità di mettere a punto degli interventi terapeutici per migliorare
il funzionamento metacognitivo all’interno di una regolazione attenta della
relazione terapeutica, ha aperto il varco alla cura di numerose situazioni
cliniche per le quali il trattamento cognitivo non appariva efficace, come
quelle dei pazienti gravi e con disturbi di personalità.
Come abbiamo visto in precedenza, la TC è centrata sull’identificazione
e modificazione dei contenuti mentali e delle distorsioni nell’elaborazione
delle informazioni, ma dando così per scontato che un paziente sia capace
di descrivere correttamente i propri vissuti emotivi, le proprie credenze e i
propri pensieri associati, insomma che abbia un buon funzionamento metacognitivo. E, in effetti, la principale tecnica nell’esplorazione del vissuto
problematico del paziente – la tecnica dell’ABC – presuppone che il pa-
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ziente abbia la capacità d’individuare i propri pensieri e le proprie emozioni
definendoli in modo corretto, abbia cioè una buona capacità metacognitiva
di automonitoraggio dei propri contenuti mentali, siano questi pensieri o
emozioni. Ma ciò, evidentemente, non è sempre vero: la pratica clinica
quotidiana ci mostra come tale capacità sia fortemente compromessa, ad
esempio, nei pazienti psicotici o con gravi disturbi di personalità, o negli
alessitimici, rendendo in questi casi assai difficile porre le premesse per
un intervento terapeutico di modificazione dei pensieri e delle modalità
disfunzionali di elaborazione dell’informazione.
L’attenzione verso l’abilità tipicamente umana di riflettere sui contenuti
mentali è attualmente al centro della riflessioni di molti terapeuti di ambito
sia cognitivista che psicoanalitico, e rappresenta il presupposto teorico per
interventi terapeutici attualmente validati e dimostratisi efficaci nel trattamento di disturbi fino a oggi difficilmente approcciabili (Dimaggio et al.
2013; Allen, Fonagy e Bateman 2008).
In Italia, Semerari e il suo gruppo sono stati coloro che maggiormente
si sono occupati della capacità definita “funzione metacognitiva”, dandone
una definizione alquanto dettagliata: «la capacità dell’individuo di compiere
operazioni cognitive euristiche sulle proprie ed altrui condotte psicologiche, nonché la capacità di utilizzare tali conoscenze a fini strategici per la
soluzione di compiti e per padroneggiare specifici stati mentali fonte di
sofferenza soggettiva» (Semerari 2000).
La prospettiva relazionale sposta anche l’obiettivo terapeutico. In quest’ottica, infatti, l’obiettivo non è più visto nella modificazione delle credenze disfunzionali alla base del disturbo e dei fattori di mantenimento cognitivi e
comportamentali, un obiettivo insomma top-down, mirante a modificare la sofferenza emotiva e somatica. In quest’ottica, piuttosto, il focus del cambiamento
è a un livello emotivo, mediante nuove esperienze vissute in ambito relazionale che permettano una migliore regolazione emotiva e metacognitiva.
L’intreccio di questi elementi costitutivi dell’esperienza umana vede
oggi una considerazione maggiormente focalizzata sulle emozioni e sulle espressioni somatiche dei processi psicologici. Inoltre, l’aumento delle
evidenze circa la plasticità del cervello nell’intero corso della vita e le acquisizioni riguardanti le neuroscienze e la psicologia dello sviluppo mettono
l’esperienza emotiva al centro di una psicoterapia efficace.
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