ISTITUTO TECNICO PER IL TURISMO EUROSCUOLA A.S. 2010/11 APPUNTI DI SCIENZA DELLE FINANZE CLASSE Va ITT Prof.ssa Mariacristina Cristini 1 Scienza delle Finanze Lo Stato è oggetto di studio da parte di diverse discipline: storia, scienze politiche, sociologia, diritto ed economia. Dal punto di vista economico lo Stato è un’azienda in quanto si avvale di persone e di beni in modo organizzato con lo scopo di soddisfare dei bisogni. La scienza delle finanze studia lo Stato dal punto di vista economico. Essa si chiede perché lo Stato deve soddisfate dei bisogni? Quali bisogni deve soddisfare? Per soddisfare questi bisogni lo Stato deve effettuare delle spese; inoltre ha delle entrate (le principali sono le imposte). La gestione delle entrate e delle uscite è l’attività finanziaria pubblica. Scienze delle finanze studia anche l’attività finanziaria pubblica. Scienze delle finanze è quindi una disciplina che studia l’attività economica e finanziaria dello Stato. Scienza delle finanze è strettamente legata ad altre due discipline: Economia politica e Politica economica. L’Economia Politica è una scienza positiva in quanto cerca di spiegare il funzionamento dell’economia (perche?). E’ una scienza sociale in quanto è legata alla società. Inoltre, i principali agenti economici sono gli individui. In quanto scienza sociale l’economia politica non è una scienza esatta. Essa si avvale di teorie, di scuole di pensiero (teoria classica, scuola neoclassica, scuola keynesiana, ecc.) La Politica Economica è scienza normativa in quanto si preoccupa di come si deve intervenire nell’economia. Es.: come si combatte l’inflazione? In politica economica esistono due principali autorità di politica economica ovvero due Istituzioni che hanno gli strumenti per intervenire nell’economia: 1. L’autorità di politica monetaria: è la Banca Centrale che controlla la quantità di moneta in circolazione. In Italia, prima del trattato di Maastricht la banca centrale era la Banca d’Italia; dopo il trattato è la Banca Centrale Europea (BCE). Più precisamente, a partire dal 1998 la conduzione della politica monetaria europea è stata affidata al Sistema Europeo delle Banche Centrali (SEBC), costituito dalla BCE e dalle banche centrali dei paesi che fanno parte dell’unione monetaria europea. Il trattato di Maastricht prevede che l’obbiettivo principale del SEBC sia quello di assicurare la stabilità dei prezzi (combattere l’inflazione). E’ stato cioè privilegiato l’obiettivo anti- inflazionistico rispetto a quello di stabilizzazione del ciclo economico e di difesa dei livelli occupazionali. I motivi di questa scelta sono da ricercare, da una parte alla forte influenza esercitata dalla scuola monetarista sulle linee di politica economica che si sono andate affermando a partire dagli anni ’80, e dall’altra alle pressione esercitate dalle autorità monetarie tedesche. Si è 2 infatti preferito il modello di banca centrale c.d. “tedesco”, che assegna la priorità, appunto, alla stabilità dei prezzi, rispetto a quello c.d. “anglo-francese” e anche italiano, che tende a perseguire invece una varietà di obiettivi come la stabilità dei prezzi e lotta alla disoccupazione. 2. L’autorità di politica fiscale: è la pubblica amministrazione1. Gli strumenti a sua disposizione sono le entrate e le uscite pubbliche cioè ogni qualvolta lo Stato modifica le proprie entrate/uscite influenza l’economia. Scienza delle finanze è una disciplina positiva in quanto si chiede il perché lo Stato deve offrire beni, soddisfare bisogni ed intervenire nell’economia. Essa è influenzata dalle scuole di pensiero economico e quindi dall’economia politica. Scienza delle finanze è anche una disciplina normativa in quanto cerca di capire come lo Stato deve intervenire nell’economia. Essa quindi è legata alla politica economica. 1 Per Stato si intende l’amministrazione centrale, gli enti di previdenza (INPS, INPDAP, INAIL) e le amministrazioni locali. 3 L’ATTIVITA’ ECONOMICA DELLO STATO Per analizzare l’attività economica dello Stato è necessario comprendere quali sono i motivi per cui lo Stato deve intervenire nell’economia. La risposta a questa domanda dipende dalle diverse teorie economiche. Le principali teorie sulla finanza pubblica Le due principali scuole di pensiero economico sono la teoria neoclassica e la teoria keynesiana. La teoria neoclassica (teoria ortodossa) e la finanza neutrale La teoria neoclassica nasce nel 800 e ha tra i suoi principali esponenti Marshall, Walras, Pareto e Say. Secondo i neoclassici prezzi dei beni e delle risorse sono perfettamente flessibili ovvero variano molto velocemente quando la domanda è diversa dall’offerta in modo tale da riportare in brevissimo tempo l’equilibrio nel mercato. Ad esempio se c’è un eccesso di domanda il prezzo aumenta molto rapidamente; la crescita del prezzo aumenta l’offerta e riduce la domanda e quindi si ristabilisce l’equilibrio. La conseguenza dei prezzi perfettamente flessibili è che l’equilibrio che raggiunge il mercato è sempre efficiente. Ciò significa che nel paese non si sprecano mai risorse e la produzione aggregata (PIL) è sempre quella di pieno impiego. Per dimostrare il legame tra prezzi perfettamente flessibili e efficienza i neoclassici analizzano il mercato delle risorse più importante cioè quello del lavoro. Il mercato del lavoro che essi descrivono è quello del 800 dove non esistono contratti di lavoro e più in generale un diritto del lavoro che tuteli i lavoratori. Non c’è un salario minimo e le imprese sono libere di licenziare quando lo desiderano i lavoratori. Di fatto, l’azienda sceglie ogni giorno i propri lavoratori che vengono pagati alla fine della giornata. Nel mercato del lavoro del 800, se c’è disoccupazione, cioè un eccesso di offerta di lavoro, rispetto alla quantità di lavoratori domandata dalle imprese (es. 120 sono i lavoratori mentre 100 sono domandati dalle imprese) cosa succede? In base alla legge del mercato, l’eccesso di offerta provoca una immediata caduta dei salari (il prezzo del lavoro). La risorsa lavoro è meno cara e questo stimola le aziende ad assumere nuovi lavoratori. I salari continuano a ridursi sino a quando la disoccupazione scompare. Tutto ciò avviene in brevissimo tempo (pochi giorni). Ma ciò significa 4 che si ritorna velocemente al pieno impiego (piena occupazione) ovvero tutta la risorsa lavoro viene occupata. Di conseguenza, non c’è spreco di risorse cioè i mercati sono efficienti. QUALI SONO LE CONSEGUENZE DELLA TEORIA NEOCLASSICA PER QUANTO RIGUARDA IL RUOLO DELLO STATO NELL’ECONOMIA? La risposta viene data dalla FINANZA ORTODOSSA. CONSEGUENZE: 1.La legge di SAY: Secondo gli ortodossi la produzione aggregata è sempre di pieno impiego ovvero corrisponde a quella realizzata senza spreco di risorse. Le aziende infatti producono sempre senza sprecare nessuna risorsa. Indicando con Q la quantità di beni e servizi prodotti e offerti nel paese, se i mercati sono efficienti allora la produzione è sempre quella di pieno impiego (pari a 100), indipendentemente dai prezzi. La curva di offerta è cioè una retta perfettamente verticale. Grafico 1 Il grafico mostra come la produzione aggregata è determinata dall’offerta: Legge di Say. Nel grafico 2 viene rappresentata anche e la curva di domanda per trovare l’equilibrio: Grafico 2 Se la domanda varia, ad esempio aumenta passando da D a D1, la produzione aggregata non si modifica e aumentano solo i prezzi. Secondo la Legge di SAY quindi la domanda influenza solo i prezzi e non il PIL. E’ solo l’offerta infatti a determinare la produzione aggregata di un paese. 5 2. I mercati sono sempre in grado di assicurare un equilibrio efficiente. Di conseguenza, lo Stato non deve intervenire nell’economia per assicurare l’efficienza in quanto i mercati sono efficienti. Questo non significa però che lo Stato non deve intervenire nell’economia. Significa solo che lo Stato non deve intervenire per assicurare efficienza. Secondo i neoclassici esistono altri due motivi per cui lo Stato deve intervenire nell’economia e cioè: A)Lo Stato deve intervenire per assicurare equità (secondo teorema dell’economia del benessere) B)Vi sono dei beni e dei servizi che la collettività domanda ma che le imprese non sono in grado di produrre o non desiderano produrre per gli eccessivi costi. I beni e i servizi che le imprese non sono in grado di produrre sono la giustizia, le relazioni estere, la difesa e l’ordine pubblico. Questi beni sono chiamati beni indivisibili ed hanno 3 caratteristiche: 1. sono beni che le imprese non possono produrre 2. sono beni che tutti i cittadini domandano (la domanda è collettiva e non individuale) 3. sono beni che lo Stato non può offrire al singola ma all’intera collettività. I beni invece che le imprese non hanno convenienza economica a produrre sono le infrastrutture (es. costruzione di ponti, strade, aeroporti, ecc) a causa degli elevatissimi costi e dei tempi lunghi di realizzazione. Si tratta di beni importanti per il paese in quanto le infrastrutture stimolano la crescita economica; per questo motivo lo Stato deve assumersi l’onere della spesa per infrastrutture. Secondo la teoria neoclassica quindi la spesa pubblica deve essere destinata a offrire i beni indivisibili e alla costruzione di infrastrutture. IL VINCOLO DI BILANCIO DELLO STATO La finanza ortodossa ritiene che quando offre i beni e servizi, lo Stato debba sempre rispettare un vincolo: il pareggio nel bilancio cioè le uscite dello Stato rappresentate dalla spesa pubblica devono essere pari alle sue entrate. Ciò per due ragioni: 1. Quando i cittadini acquistano un bene prodotto dai privati pagano un prezzo pari al valore economico del bene. Anche quando ottengono un bene o servizio dallo Stato devono pagare un prezzo. Questo prezzo è pari alla spesa sostenuta dallo Stato per produrre quel servizio. Il “prezzo” sono le imposte. 2. Essi considerano il disavanzo (spese maggiori delle entrate) come un eccesso di spesa rispetto a quella necessaria per assicurare i beni indivisibili domandati dalla collettività e le infrastrutture. 6 Ma per produrre più beni e servizi rispetto a quelli necessari, bisogna sottrarre fattori della produzione al settore privato. Poiché si è in pieno impiego, ciò provoca una riduzione della quantità di beni privati destinati al consumo (C) e agli investimenti ( I ). La caduta dei C e degli I rappresenta l’onore del disavanzo. Esempio: in una nazione sono disponibili 100 lavoratori, 80 occupati nel settore privato e 20 dipendenti pubblici. Se lo Stato decide di aumentare la spesa pubblica deve produrre più beni. Per farlo deve sottrarre lavoratori al settore privato. Se sottrae 10 lavoratori, ora il settore privato ha solo 70 lavoratori e può quindi produrre meno beni privati. La teoria keynesiana e la Finanza funzionale Keynes (La Teoria Generale del 1938) non crede nella capacità del mercato di assicurare l’efficienza. Ciò appare evidente con la Grande Crisi del 1929. Il tasso di disoccupazione negli USA raggiunge il 25% e il livello di produzione aggregato crolla di quasi la metà. Ciò significa, secondo Keynes, che il mercato non è sempre in grado di assicurare il completo utilizzo dei fattori produttivi ovvero il pieno impiego. Keynes contesta alla teoria neoclassica l’ipotesi che i prezzi dei beni e dei fattori produttivi siano perfettamente flessibili. Secondo Keynes i prezzi non sono flessibili ma viscosi: quando la domanda è diversa dall’offerta i prezzi variano ma molto lentamente. Ad esempio se c’è un eccesso di domanda i prezzi si riducono ma, poiché lo fanno molto lentamente, il tempo per ritornare all’equilibrio è molto lungo. La conseguenza del fatto che i prezzi sono viscosi è che l’equilibrio nel mercato può non essere efficiente. Cioè è possibile che in equilibrio non vengano utilizzate tutte le risorse disponibili e vi sia quindi una produzione aggregata inferiore al pieno impiego. Per dimostrare il legame tra prezzi viscosi e inefficienza del mercato Keynes studia, come hanno fatto i neoclassici, il funzionamento del mercato del lavoro. Il mercato del lavoro descritto da Keynes è quello del 900, diverso da quello del 800. Nel 900 i movimenti dei lavoratori portano alla nascita di un diritto del lavoro che tutela i lavoratori, assicurando ad esempio un salario minimo. Inoltre, nel mercato del lavoro i salari vengono fissati per diversi anni dai contratti collettivi tra aziende e sindacati. Se c’è disoccupazione, allora l’eccesso di offerta di lavoro, non provoca una caduta dei salari in quanto i salari sono fissi per contratto e la disoccupazione permane. Ma questo significa che le aziende non utilizzano tutta la risorsa lavoro disponibile cioè c’è spreco di risorse e inefficienza. La produzione aggregata del paese non è quindi necessariamente sempre di pieno impiego. 7 QUALI SONO LE CONSEGUENZE DELLA TEORIA KEYNESIANA PER QUANTO RIGUARDA IL RUOLO DELLO STATO NELL’ECONOMIA? La risposta viene data dalla FINANZA FUNZIONALE. 1. La critica alla Legge di SAY. Keynes critica la legge di SAY secondo la quale è solo l’offerta a determinare la produzione aggregata. Secondo Keynes infatti la curva di offerta non è perfettamente verticale ma al contrario è molto piatta prima del pieno impiego e solo dopo il pieno impiego diventa verticale. Grafico 3 La produzione effettuata ed offerta (Q) può anche essere inferiore a quella di pieno impiego. In particolare, prima del pieno impiego le aziende non utilizzano tutte le risorse disponibili. Quindi se la produzione cresce, i costi di produzione crescono molto poco (es. perché utilizzo gli impianti che ho già a disposizione) e di conseguenza, i prezzi. La curva di offerta è perciò molto piatta prima del pieno impiego. Al contrario, dopo il pieno impiego, qualsiasi tentativo di aumentare la produzione si traduce in una elevata crescita dei costi e quindi prezzi, in quanto le risorse sono già tutte utilizzate. Di conseguenza, la curva di offerta è molto inclinata. La curva di offerta keynesiana porta ad una importante conseguenza: come si vede nel grafico 3 il livello di produzione aggregata dipende non solo dall’offerta ma anche dalla domanda. 8 Grafico 3 Il grafico mostra come non sia più valida la legge di Say. La produzione aggregata (PIL) realizzata in un paese non dipende solo dall’offerta si determina dall’incontro tra l’offerta e la domanda. Se la curva di domanda è D si ha pieno impiego e quindi efficienza. Se la curva di domanda è D1 si ha sotto produzione: fase di crisi economica caratterizzata dalla disoccupazione. Se la curva di domanda è D2 si ha una crescita eccessiva dei prezzi: fase di espansione economica o inflattiva. Variazioni nella domanda causano quindi variazioni nella produzione aggregata (PIL). Quando la domanda si riduce si ha sottoproduzione e quindi crisi economica; al contrario quando la domanda cresce troppo rispetto alle capacità produttive del paese si osserva inflazione. Il grafico permette quindi di spiegare i cicli economici. 2. Lo Stato deve intervenire nell’economia per assicurare l’efficienza. Come? Agendo sulla domanda (D). Lo Stato cioè deve intervenire per correggere i cicli economici. Ma come? Per rispondere a questa domanda è necessario analizzare in dettaglio la domanda aggregata. La domanda aggregata keynesiana Nell’analisi keynesiana la domanda aggregata diventa importante in quanto concorrente con l’offerta a determinare la produzione aggregata. Per questo motivo Keynes analizza in dettaglio la domanda aggregata. Riprendiamo la definizione di PIL come spesa: PIL+Importazioni=Domanda interna+Esportazioni ovvero: PIL=Domanda interna+(Esportazioni-Importazioni) In una economia chiusa (senza relazioni con il settore estero), la domanda di beni coincide con la domanda interna, cioè: 9 PIL=Domanda interna All’interno di un paese chi domanda beni e servizi sono le famiglie, le imprese e lo Stato. Di conseguenza, la domanda interna (D) è pari a: D=Consumi delle famiglie ( C)+ Investimenti delle imprese (I)+ Spesa pubblica (G) Dove: C dipende dal reddito disponibile ovvero dal reddito al netto dei tributi e dei trasferimenti che lo Stato fa alle famiglie (reddito disponibile=reddito-tributi+trasferimenti). Se il reddito disponibile delle famiglie aumenta, i consumi delle famiglie aumentano e quindi anche D. I rappresenta la quantità di beni e servizi acquistati dalle imprese che a sua volta dipende dal reddito disponibile delle imprese (reddito disponibile=reddito d’impresa-tributi+trasferimenti). Se il reddito disponibile aumenta, gli investimenti delle imprese aumentano e quindi anche D. G rappresenta La spesa pubblica in beni e servizi dello Stato ed è una variabile esogena cioè non dipende da altre variabili economiche, ma solo dalle decisioni dello Stato. La domanda aggregata keynesiana permette di capire cosa deve fare lo Stato per assicurare efficienza cioè quale deve essere la sua politica fiscale. • Se c’è crisi economica lo Stato deve aumentare la domanda. COME? Deve attuare una politica fiscale espansiva che consiste nel: 1. Aumentare G. Ciò porta ad un incremento di D che stimola le imprese a produrre di più. La disoccupazione si riduce. 2. Ridurre i tributi/aumentare i trasferimenti per aumentare il reddito disponibile delle famiglie e delle imprese e quindi C e I e quindi D. • Se c’è inflazione lo Stato deve ridurre la domanda. COME? ? Deve attuare una politica fiscale restrittiva che consiste nel: 1. Ridurre G. Ciò porta ad una riduzione di D. 2. Aumentare i tributi/ridurre i trasferimenti per ridurre il reddito disponibile delle famiglie e delle imprese e quindi C e I e D. IL VINCOLO DI BILANCIO DELLO STATO Secondo la finanza ortodossa lo Stato deve sempre rispettare un vincolo: il pareggio nel bilancio cioè le uscite dello Stato rappresentate dalla spesa pubblica devono essere pari alle sue entrate. La finanza keynesiana chiamata anche finanza funzionale critica tale affermazione. Secondo Keynes infatti le entrate e le uscite dello Stato devono essere funzionali alla situazione economica del paese. Di conseguenza: 10 In fase di recessione lo Stato deve aumentare la spesa pubblica e ridurre le imposte; ma questo significa fare disavanzi pubblici. Keynes critica quindi l’affermazione neoclassica per cui il bilancio dello Stato deve essere sempre in pareggio. Il disavanzo non genera però alcun onere in quanto, non sottrae risorse al settore privato; al contrario, il disavanzo pubblico permette di sfruttare quei fattori produttivi, come il lavoro, che altrimenti non sarebbero pienamente utilizzati. In fase di espansione quando la domanda cresce troppo rispetto alle capacità produttive del paese lo Stato dovrà invece ridurre la spesa pubblica e aumentare le imposte; ma questo significa effettuare avanzi pubblici La finanza deve quindi essere funzionale alla situazione economica del paese. La grande crisi del 1929 La grande crisi ebbe inizio con il crollo della Borsa di New York il 24 ottobre 1929 (giovedì nero) a cui fece seguito una ulteriore caduta della Borsa valori il 29 di ottobre (martedì nero). La crisi fu devastante: negli USA la produzione aggregata calò in pochi anni del 47%. La crisi venne “esportata” nei paesi europei. In Italia il crollo del PIL fu del 33%, in Francia del 28%, in Germania, il paese europeo più colpito dalla crisi, del 47%. Il tasso di disoccupazione raggiunse valori intorno al 20%. Nel 1932 in USA i disoccupati erano circa 25 milioni, a cui bisogna però aggiungere i lavoratori agricoli che, anche se non disoccupati, erano quasi ovunque sottooccupati (importanti sono ad esempio i lavoratori stagionali). Molte furono le famiglie che rimaste senza lavoro, non furono in grado di pagare i mutui e che quindi videro la propria casa espropriata; molte furono costrette a trasferirsi per trovare lavoro. Emblematico al riguardo è il lungo viaggio che Joad e della sua famiglia compiono nel romanzo di Steinbeck “Furore”, dall’Oklahoma alla California. Ma cosa causò la grande crisi? La grande crisi del 1929 è stata la prima crisi moderna. Le precedenti crisi furono infatti causate da carestie che determinarono un crollo nella produzione (caduta dell’offerta). Al contrario, la grande crisi fu provocata da un eccesso di offerta. 11 Dopo la prima guerra mondiale, gli Stati Uniti divennero il paese più importante dal punto di vista economico e politico, togliendo il primato alla “vecchia Europa” e in particolare, all’Inghilterra. Il centro del mondo si trasferì da Londra a New York. La sua Borsa valori divenne la principale piazza d’affari mondiale: tutti investivano in titoli ed azioni quotate a Wall Street, compresi i paesi europei. Alla fine della prima guerra mondiale, gli USA conobbero un periodo di crescita economica legato soprattutto al settore automobilistico. La crescita nel settore delle automobili ebbe effetti positivi anche su altri settori come quello della gomma, del petrolio, dei trasporti, e metallifero. La crescita fu causata da importanti innovazioni tecnologiche (es. automobile e innovazioni nell’industria elettrica che portarono a raddoppiare la produzione di energia tra il 23 e il 29) e da un nuovo modello di organizzazione del lavoro (Taylorismo) che mirava a ridurre i tempi morti e i movimenti inutili. Con il taylorismo fu introdotta la catena di montaggio il cui effetto fu quello di aumentare la produzione (nel film Tempi Moderni di Chaplin viene mostrato l’effetto alienante sui lavoratori di questi nuovi metodi di divisione del lavoro). La prima azienda che adottò la catena di montaggio fu la Ford . Le innovazioni tecnologiche e i nuovi metodi di produzione determinarono una crescita sostanziale della produzione di beni e quindi dell’offerta. La crescita dell’offerta non fu però accompagnata da un incremento della domanda: i consumi delle famiglie continuarono a rimanere bassi a causa dei ridotti salari percepiti dai lavoratori. Le aziende continuavano ad accumulare scorte di prodotti finiti in magazzino, che rimanevano invenduti. La grande crisi economica fu quindi causata da un eccesso di offerta: l’eccesso di offerta provoco il crollo dei prezzi, con gravi conseguenze sulle imprese che videro dimezzare i propri profitti. Il primo segnale della crisi: La crisi provoco nuovi licenziamenti: i bassi salari e l’elevata disoccupazione ebbero come effetto quello di provocare una caduta del reddito disponibile delle famiglie e quindi della domanda di beni. Ciò provocò il fallimento di molte aziende che non riuscivano più a vendere i propri prodotti. La risposta inizialmente data dai governi americani ed europei alla crisi fu del tutto inadeguata: non furono dati aiuti alle famiglie, preferendo fare affidamento sulla carità privata e non vi fu alcun tentativo di ostacolare la tendenza delle aziende a ridurre i salari. Ciò non fece che ampliare gli effetti negativi della crisi. Fu solo con l’elezione del nuovo presidente americano, Franklin Delano Roosevelt, nel 1933 che vennero attuati gli adeguati interventi di politica economica per contenere gli effetti negativi della grande depressione. Roosevelt dette inizio ad un nuovo modo di attuare la polita economica chiamato New Deal”. L’ispiratore di questo nuovo corso fu l’economista 12 Jonh Maynar Keynes, che criticò le precedenti teorie economiche, e in particolare, quella neoclassica secondo la quale i mercati erano efficienti. Secondo Keynes lo Stato doveva intervenire nell’economia per correggere la domanda di beni. Più precisamente, in presenza di crisi economica, lo Stato doveva aumentare la spesa pubblica e ridurre le imposte. Ciò avrebbe aumentato la domanda di beni e quindi indotto le aziende a produrre di più. L’opera di Keynes e il conseguente New Deal diedero origine all’interventismo statale basato sulla convinzione che i mercati non erano sempre efficienti e quindi lo Stato doveva intervenire nell’economia con lo scopo di assicurare il pieno impiego delle risorse. Le conseguenze della grande crisi 1) Fine del liberalismo e inizio dell’interventismo statale. In Italia l’intervento dello Stato raggiunse forme anche più dirette come la creazione dell’I.R.I, Istituto pubblico nato per aiutare le aziende in crisi e diventato poi il principale gruppo industriale italiano. 2) La crisi finanziaria: la crisi economica provocò una grave crisi finanziaria in quanto causò il fallimento di alcune importanti banche e il conseguente clima di sfiducia da parte dei correntisti che diede luogo a quel fenomeno chiamato la corsa agli sportelli. Prima della crisi economica, diverse banche, chiamate banche industriali, possedevano titoli ed azioni di imprese industriali. Il crollo della Borsa e il fallimento di molte aziende industriali, fece si che i titoli e le azioni possedute da tali banche non valessero più nulla. Questo portò al fallimento di alcune banche industriali, le quali non furono più in grado di restituire i soldi dei depositati bancari. Ciò provoco il panico tra i correntisti: tutti quelli che avevano depositi presso le banche corsero a ritirarli. Ma una banca non è in grado di restituire in tempi brevi tutti i soldi depositati dai correntisti in quanto una parte viene utilizzata per concedere prestiti a medio/lungo tempo. La corsa agli sportelli rischiava di causare il fallimento dell’intero sistema bancario. Per evitare ciò i governi furono costretti ad attivare meccanismi di salvataggio delle banche in crisi. I.R.I. in Italia nasce proprio con questo scopo. Inoltre, i governi approvarono nuove Leggi che , come la Legge bancaria del 1933 che pone dei vincoli alle attività che le banche possono detenere (es. sono vietate partecipazioni in imprese industriali). 13 Il monetarismo Successivamente alla pubblicazione della “Teoria generale” di Keynes, la dottrina keynesiana si affermò sia in ambienti accademici che in quelli governativi. Una scuola di pensiero economica alternativa a quella keynesiana dalla scuola di Chicago, chiamata monetarista, che ha come principale esponente Milton Friedman. I monetaristi non credono che la politica fiscale sia in grado di influenzare l’economia. Un problema che si osserva nella realtà concreta è il ritardo tra l’attuazione degli interventi volti a modificare l’offerta di moneta e i loro effetti sull’economia I ritardi infatti possono causare due tipi di inconvenienti: 1. il primo è un rischio di sovradosaggio; infatti, se le autorità di politica economica mettono in atto una politica espansiva e questa ritarda i suoi effetti, esse sono tentate di insistere nella loro politica di intervento a sostegno dell’economia; e ciò potrebbe portare un forte squilibrio inflazionistico; 2. il secondo è quello dell’asincronie temporale; infatti, gli effetti di una politica espansiva potrebbero manifestarsi quando l’economia avesse già superato da sola la fase di depressione; allora gli stimoli arriverebbero quando non vi fosse più necessità, o peggio quando vi fosse necessità di un intervento opposto, con la conseguenza che l’effetto finale potrebbe consistere in una pressione inflazionistica I monetaristi da un tale ragionamento traggono un duplice suggerimento: 1. Non attuare politiche economiche per correggere gli squilibri di breve durata: sovraddosaggi e asincronie sono infatti più probabili quando il ciclo economico è corto. 2. Abbandonare la discrezionalità a favore della regola. I monetaristi sottolineano inoltre come i disavanzi possano comportare degli oneri per la collettività come il debito pubblico. La Public Choice Una teoria che ha fortemente condizionato scienza delle finanze negli ultimi 20 anni è la “public choice” il cui esponente principale, James M. Buchanan, ha in più occasioni voluto ricordare di essersi formato sui testi di economisti italiani. Il proposito di questa scuola è di analizzare la condotta della classe politica in relazione agli obiettivi che essa realmente persegue. La public choice critica un’ipotesi che viene di norma adottata da tutte le principali scuole di pensiero. Secondo gli economisti lo Stato interviene nell’economia per massimizzare il benessere 14 dei cittadini. Le sue finalità sono cioè di interesse generale (stabilità dei prezzi, piena occupazione e simili). In realtà, la classe politica segue comportamenti massimizzanti, ma di massimizzazione del consenso: lo Stato non interviene per massimizzare il benessere collettivo ma per massimizzare il consenso ovvero per ottenere più voti possibili. In particolare, la ricerca del consenso spinge spesso la classe politica a: 1. decisioni di spesa destinati solo al proprio specifico elettorato o ai corrispondenti gruppi di pressione, che vengono finanziati da tutti i cittadini. (contrapposizione tra i benefici concentrati della spesa pubblica ed i costi invece diluiti della stessa). Ad esempio, si supponga il caso di una spesa di 500 milioni di euro, di cui beneficeranno in parti eguali 10.000 persone. Se il costo di questa spesa viene ripartito su una collettività di 25 milioni di contribuenti, l’onere pro-capite è di 20. euro; invece, il vantaggio di coloro che ne beneficiano è di 50 milioni pro-capite. Coloro che beneficiano della spesa si accorgono di ciò, mentre coloro che pagano la spesa no. 2. A finanziare la spesa ricorrendo al debito pubblico e/o alla moneta (benefici visibili e i costi invisibili della spesa). La spesa pubblica può essere finanziata in tre modi: aumentando i tributi, indebitandosi o con moneta. Uno Stato che vuole ottenere il consenso non finanza la spesa con i tributi perché l’elettorato percepisce i vantaggi della spesa ma anche i suoi costi ovvero i maggiori tributi che deve pagare!. Invece, se la spesa è finanziata indebitandosi o con moneta, la collettività non ne percepisce altrettanto chiaramente i costi rappresentati dal maggior debito pubblico e dall’inflazione. Di conseguenza lo Stato è incline all’espansione della spesa in deficit. Secondo la Public Choice è necessario limitare la discrezionalità della classe politica imponendo delle regole istituzionali, come ad esempio l’obbligo di mantenere in pareggio il bilancio pubblico, o di limitare il ricorso al debito ed alla creazione di moneta per il finanziamento dei disavanzi, o di richiedere qualificate maggioranze nelle decisioni di finanza pubblica, o di limitare al governo la facoltà di proporre nuove spese, sono esempi di questo tipo di regole. Con la Public Choice, dunque si riafferma quanto indicato dai monetaristi ovvero l’esigenza di vincolare la discrezionalità del settore pubblico con l’introduzione di regole. In questo contesto si è delineato un importante indirizzo di pensiero noto come “costituzionalismo economico“, che suggerisce l’introduzione nella Costituzione dei singoli paesi di norme che vincolino direttamente o indirettamente al rispetto delle regole. Così, nel campo monetario un obbligo indiretto è quello che emergerebbe con l’introduzione di norme che ponessero quale obiettivo prioritario da perseguire la stabilità dei prezzi, così come avviene per la Banca Centrale 15 Tedesca o per la Banca Centrale Europea; mentre nel campo del bilancio pubblico una regola suggerita è quella del perseguimento dell’equilibrio del bilancio pubblico. Quest’ultima rappresenta una regola anch’essa accettata in sede europea con il Trattato di Amsterdam del 1997 che vincola i paesi aderenti all’unione monetaria economica ed europea a realizzare nel medio periodo un saldo vicino al pareggio o positivo. In realtà, le indicazioni che provengono dalla scuola monetarista, nelle sue varie articolazioni, sono oggi ampiamente recepite in quasi tutte le economie industrializzate. Alla base di questa svolta si è posta la consapevolezza delle conseguenze perverse del disordinato dilatarsi dell’azione statale sulla vita economica, la cui manifestazione più evidente si è avuta con la crescita incontrollata dei disavanzi pubblici e del debito pubblico. 16 Il debito pubblico in Italia Il disavanzo è la differenza tra entrate e uscite pubbliche verificatesi in un determinato periodo, in genere l’anno. Il debito pubblico è la somma dei disavanzi passati e correnti ed è pari al valore complessivo dei titoli emessi dallo stato. Esistono tre modi per finanziare il disavanzo: 1. Moneta: quando la banca centrale finanzia il tesoro ad esempio acquistando titoli pubblici. Il costo è l’inflazione 2. Debito pubblico: lo Stato emette titoli pubblici. Alla scadenza si impegna a restituire il capitale + gli interessi. Il debito pubblico è quindi rappresentato dal valore complessivo dei titoli pubblici emessi dallo Stato. 3. Imposte: le imposte riducono il reddito disponibile e quindi il consumo. Il costo è quindi la caduta di C. Quando si giudica l’entità del debito pubblico, è necessario confrontarlo con il PIL. Il PIL misura del valore della produzione aggregata e, poiché ciò che viene prodotto viene distribuito alle risorse produttive sotto forma di reddito, misura il livello del reddito di una nazione (il PIL è la somma dei redditi da lavoro dipendente e autonomo, dei redditi da capitale, dei redditi fondiari, dei redditi d’impresa e delle imposte). Una nazione (USA) con elevato PIL può infatti avere lo stesso debito Pubblico di una nazione con basso PIL (Etiopia); in questo caso il debito pubblico non può essere confrontato. Infatti il paese con elevato PIL sarà facilmente in grado, grazie al reddito prodotto, di far fronte al debito (è come confrontare il debito della FIAT con quello del mio meccanico!!!). Ciò spiega perché molte grandezze economiche vengono sempre confrontate con il PIL. Ad esempio per misurare la pressione fiscale in un paese si sommano le imposte dirette e indirette ai contributi e si divede l’importo con il PIL. Un valore del 40% significa che il 40% dei redditi di un paese va allo Stato sottoforma di entrate tributarie. Il debito pubblico in Italia inizia a crescere a partire dagli anni 70. Negli anni 60 il debito pubblico rappresentava infatti solo il 40% del PIL. La crescita del debito pubblico è causata da due gravi crisi economiche verificatesi nel 1973 e nel 1978. Le crisi sono provocate dalla nascita dell’OPEC il cartello dei paesi produttori di petrolio i quali si accordano nell’aumentare il prezzo del petrolio. Tra il 1973 e il 1982 il prezzo del petrolio passa da 3 dollari al barile a 34 dollari al barile. Nei paesi industrializzati ciò provoca un aumento dei costi di produzione: le aziende rispondono alla crescita dei costi riducendo la produzione (aumenta la disoccupazione) e trasferendo parte 17 dell’incremento sui prezzi (si genera inflazione). Le due crisi da offerta provocano quindi stagflazione (aumento della disoccupazione e dei prezzi). Come risponde lo Stato? Attuando politiche fiscali espansive che inevitabilmente accrescono il disavanzo pubblico. Negli anni 70 comunque, nonostante i continui disavanzi, il debito pubblico non raggiunge livelli preoccupanti. Le ragioni di ciò sono: 1. La Banca d’Italia non era indipendente dal governo, il quale poteva chiedere alla banca centrale di finanziare il disavanzo con moneta. La conseguenza era la crescita dei prezzi. 2. L’inflazione in Italia era molto elevata (a due cifre). Ciò avvantaggia il debitore (lo Stato) perché riduce il valore del prestito nel tempo. 3. I tassi d’interesse erano bassi. Negli anni 80 la situazione cambia radicalmente. Nel 1981 con il divorzio tra Banca d’Italia e governo, la Banca d’Italia diventa indipendente dal governo e non è quindi più obbligata a finanziare con moneta il disavanzo pubblico. Il divorzio è provocato dall’eccessiva inflazione che raggiunge il 20% nel 1980. La Banca d’Italia inizia ad attuare politiche monetarie restrittive; l’inflazione gradualmente si riduce raggiungendo il 2% nel 2000. La riduzione dell’inflazione però riduce la convenienza per il debitore (lo Stato) ad indebitarsi. Infine, i tassi d’interesse aumentano in modo consistente. La crescita dei tassi d’interesse fa aumentare la spesa pubblica generata dagli interessi sul debito pubblico. Se nella prima metà degli anni 80 il disavanzo era provocato da una eccessiva spesa primaria (spesa senza interessi) rispetto alle entrate, nella seconda metà degli anni 80 il disavanzo è provocato principalmente dalla spesa per interessi. Sorge in Italia il problema della sostenibilità del debito pubblico: gli elevati interessi che lo Stato deve pagare lo costringono a indebitarsi ulteriormente cioè il debito si auto-alimenta; si entra in quella che gli economisti hanno chiamato “spirale della morte” ovvero il debito cresce solo a causa della crescita nella spesa per gli interessi. Solo a partire dagli anni 90 lo Stato italiano inizia una seria azione di risanamento dei conti pubblici, consistente nel ridurre in modo drastico le spese e nell’aumentare le entrate, in particolare le imposte (nel 1994 il debito pubblico/PIL era pari al 122% mentre nel 2008 si è ridotto al 108%). La pressione fiscale raggiunge il 42% del PIL. 18