fortebraccio teatro AMLETO DIE FORTINBRASMASCHINE di e con Roberto Latini regia Roberto Latini RASSEGNA STAMPA estratti 17 luglio 2016 LA MACCHINA LATINI Incastrata tra due colli, tra rosmarini e lavande, c’è una foglia capovolta, e nel suo ventre ligneo e mastodontico, va in scena Amleto + Die Fortinbrasmaschine, anteprima nazionale dell’ultima creazione latiniana, organizzata con la collaborazione di Santarcangelo Festival Internazionale del Teatro in Piazza. di Francesco Chiaro Nel 1979, al Théatre Gérard Philipe di Saint-Denis (Francia), andava in scena la prima assoluta di Die Hamletmaschine, opera dell’allora più grande scrittore di teatro vivente, Heiner Müller. La sua riscrittura dell’Amleto, liberamente ispirata ai versi del Bardo, contribuì allo sviluppo di un teatro postmoderno capace di reggersi su frammentienigmatici che andavano al di là del canone narrativo di quei tempi, rappresentando un immobilismo in cui il testo si riscopre dinamico e inesauribile (in cui è presente, insomma, «il caos del fuoco e la comprensione della fiamma»). Nel 2016, all’Arboreto di Mondaino, invece, va in scena l’anteprima nazionale di Amleto + Die Fortinbrasmaschine, operadell’affabulatore vocale Roberto Latini. Quella che nasce come una «scrittura scenica liberamente ispirata a Die Hamletmaschine di Heiner Müller», diventa ben presto una «deriva» teatrale e metateatrale persa nei mari di questi tempi, ricolmi di abbandonati e sopravvissuti al naufragio. Il regista, drammaturgo e interprete sceglie di filtrare il suo dramma attraverso lo sguardo di Fortebraccio, contraltare del danese spesso e volentieri dimenticato e sottorappresentato: anche lui orfano di padre, anche lui erede al trono, eppure privo di quella paralisi fattiva che assedia il principe e che sarà la causa delle sue sciagure. Partendo da questo doppio, allora, Latini intesse un filo narrativo che si interroga su ciò che viene dopo il silenzio della morte: «Where is this sight?», ripete atterrito il norvegese. Rispettando i cinque atti canonici (sia di Shakespeare che di Müller), Amleto + Die Fortinbrasmaschinesi sposta di quadro in quadro mostrando una qualità tipica del teatro elisabettiano, dove in una singola parola vengono assorbiti e riflessi tutti i livelli della coscienza umana: la prontezza. Qui, infatti, giace il tesoro dell’esperienza, quel prezioso legame con l’inconscio collettivo. Come dice Peter Brook: «una parola può essere più di un guanto. È un magnete. Quando si adagia su uno spazio interiore ancora vuoto, nel momento in cui viene pronunciata, può riportare in superficie materiale sepolto nell’inconscio». Detonando nello spazio, Latini si affida alle risonanze che sorgono in questi piccoli spazi cavi aperti da una parola sospesa nel vuoto e genera un’infinità di mondi, facendosi di fatto agitatore di sogni. Al netto di certe scelte scenografiche dall’elevata valenza simbolica, a metà tra «l’essere e il sembrare», l’anteprima di Mondaino offre un primo assaggio di quello che pare a tutti gli effetti un dramma già masticato in precedenza. Tra girotondi d’autore, microfoni appesi e lanterne volanti, infatti, sembrano poche le innovazioni concrete (a livello rappresentativo) che il pluripremiato romano riesce a restituire sulla scena, rimanendo così all’interno di una propria, rodata fenomenologia che, a momenti, si fa forse fin troppo criptica, danzando su caustici brandelli di alterità. A livello testuale, invece, la macchina Fortebraccio diffonde nell’etere un concatenarsi a dir poco sublime di contaminazioni e co-incidenze culturali e politiche che segnano una svolta essenziale nella ricerca entelechiana del suo teatro. Mescolando con prontezza («readiness is all», dopotutto) una selezione di scritti variegata e visionaria (Dichiarazione dei diritti umani, Eduardo De Filippo, Marylin Monroe, Blade Runner e altri), Latini fa riecheggiare le parole eterne del diseredato di Danimarca in contesti sospesi tra il postmoderno e l’assurdo, confermando l’idea mülleriana secondo la quale «le mie parole non dicono più niente. I miei pensieri succhiano sangue alle immagini. Il mio dramma non si terrà più», e al tempo stesso refutandola. Basti pensare alla geniale catarsi di un’Ofelia morente che, seppur negata per l’amore, apre il proprio cuore a un flusso di coscienza che si collega direttamente con quello di una Molly Bloom estatica sotto le mura di Gibraltar che parla, dà fiato, dà vita e dice sì, sì, sì. Amleto + Die Fortinbrasmaschine scardina ruoli, prende la Storia e la spezzetta, buttandone una parte, quella peggiore, e vivendo con l’altra. «Buonanotte, dolce principe». 28 luglio 2016 AMLETO È MORTO: VIVA È LA FORTINBRASMASCHINE di Vincenza Di Vita La “Macchina di Fortebraccio Teatro”, Amleto † Die Fortinbrasmaschine, è stata consegnata al pubblico, nella prima rappresentazione pubblica dello spettacolo, realizzato e donato dalla compagnia alla XXXV edizione delle Orestiadi di Gibellina, lo scorso 24 luglio. Una croce è annunciata nel titolo dell’opera, inserita tra il nome del più noto tra i principi danesi teatrali e la definitiva determinazione di Fortebraccio, che scaturisce dalla morte di Amleto. Ma la croce è anche presente in ogni elemento scenico, a partire dalla disposizione dei microfoni, doppiamente collocati e verticalizzati e posizionati in orizzontale, per arrivare a un’altra e inconsueta disposizione, data dalla distribuzione della voce, attuata dalla phonè – vera e propria dialettica del pensiero poetico, giocata seriamente – del generosissimo capocomico Roberto Latini. Una spada, ennesimo richiamo crociato, campeggia sulla maestosa e roteante scena, deus ex machina in cui il corpo di Latini viene continuamente ibridato. Un novello fool mascherato di bellezza compie acrobazie, donando una lettura politica, possibile solo nella “riscrittura della riscrittura”, attuata con Barbara Weigel. Questa traduzione linguistica è conferita anche dal corpo dell’attore, nel genere e nel numero molteplice e tradito, finché sia vivo medium per un possibile “dialogo con i morti”. Una triplice colonna di tubi metallici appare appena sotto l’enorme cerchio che campeggia al centro della scena, simbolo della compagnia che reca il nome di Fortebraccio, omonimo del personaggio che nella tragedia di Amleto appare quando il dramma è ormai compiuto, ordinando che si compiano le cerimonie per il funerale di Amleto. La colonna di metallo è sormontata da un microfono e sembra rappresentare una sacra famiglia o meglio una trinità tubolare annunciata dalla recita di un “Pater! Pater noster, qui es in cælis”, che prosegue con la enunciazione latina della Dichiarazione universale dei diritti umani, scritta come manifesto delle Nazioni Unite nel 1948. “Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza.” Il testo di Latini poi prosegue con un decisivo “fraternité, fraternité, fraternité… amen, quella parola, fratello, mio fratello”. Incisivo modo di rappresentare una condizione così apparentemente lontana dalle cronache odierne, in un momento storico di guerra, quale è quello che viviamo, in cui il teatro di Fortebraccio prende una posizione multilingue sulle disunità politiche d’Europa, ma non solo. La Fortinbrasmaschine, opera antologica di Fortebraccio Teatro, si compie “fuori dagli occhi”, fuori da essi però “a cosa guardi?”, chiede Latini, interprete, regista e traditore prima della sua stessa poetica, poi anche di quella di Heiner Müller. Il testo originale di Hamletmaschine, datato 1979, ha inizio con un “Ich war Hamlet”, “Io ero Amleto”. Per Roberto Latini invece l’incipit è dato dalla disciplinata e potente dichiarazione: “Io non sono Amleto”. Latini è travestito da elegante e solenne interprete di kabuki. Nel prologo riprende alcuni importanti elementi di questa forma di teatro giapponese, con raffinato e commovente sentire, restituendo la magia di un’arte priva di tempo, ma densa di quella crudeltà artaudiana che solo l’istante di un teatro ben fatto vuole e può sapere donare. Il “ponte dei fiori” – lo “hanamichi”, la pedana sulla quale si posizionano gli artisti del kabuki – in Fortinbrasmaschine è altalena sospesa legata da magneti al cielo scenico, come per effetto di un incantesimo – i movimenti di scena sono di Marco Mencacci, che confidiamo non ci abitui mai allo stupore, che ci fa pensare a “quando il resto è silenzio”, sapiente attuatore delle magie di Cotrone ne I giganti della montagna, il pluripremiato precedente lavoro di Fortebraccio Teatro -, collocata dentro un gigantesco cerchio che costituisce il logomarchio-simbolo della compagnia. Usando questa passerella, sospesa a mezz’aria nel cerchio appeso come la figura che campeggia sul dodicesimo arcano dei tarocchi (anche denominato “Il Traditore”, oltre che “L’Appeso”), ma con la pianta del piede rivolta verso il pubblico, quindi nella direzione opposta e non piegata ma dritta verso la platea, appeso per le braccia come un trapezista, con i polsi ben evidenti e mai celati a mostrare le vene, Latini ci mostra perché Müller scrive: “Rompo la mia carne sigillata. Voglio abitare nelle mie vene, nel midollo delle mie ossa, nel labirinto del mio cranio. Mi ritiro nelle mie viscere. Prendo posto nella mia merda. Da qualche parte ci sono corpi fatti a pezzi perché io possa stare nella mia merda. Da qualche parte ci sono corpi dilaniati perché io possa starmene solo col mio sangue. I miei pensieri sono ferite nel cervello. Il mio cervello è una cicatrice. Voglio essere una macchina. Braccia per afferrare gambe per camminare nessun dolore nessun pensiero.” Latini-Forinbrasmaschine si lascia attraversare il capo dalle nuvole, a testa in giù. Invaso dal fumo, il palcoscenico diviene così un infero firmamento e, coronando il suo corpo rovesciato, la scatola scenica gli fa da aureola. Santo è Fortebraccio teatro, che come l’Orlando di Calvino ha anche compreso che il mondo è tondo, fatto per essere “girato” anche al contrario. Questo non compromette la comprensione, ma la visione. “Where is this sight?”, “Dov’è lo spettacolo?” non ci viene proprio in mente di chiedercelo, anzi lasciamo che un comico Bafometto sui tacchi, dotato di corna, si aggiri per il nostro divertito visionario viaggio, su uno schermo televisivo introdotto da quella opportuna aria del Rigoletto che canta: “Cortigiani, vil razza dannata”. Mentre appare il personaggio di Rutger Hauer che recita in Blade runner la nota battuta inglese sulle cose viste dai “non umani”, sebbene sia di madrelingua tedesca – ci rivela Latini – sul “tempo di morire”, “time to die”, ascoltiamo e comprendiamo un netto inglese, nocciolo tematico della tragedia di Amleto, in cui il teschio inesistente è in effetti tatuaggio scheletrico e duplice su leggings di Latini, che ancora una volta si cambia d’abito. La Fortinbrasmaschine posseduta da corpo-voce di Latini è anche marionetta cyberamplificata proiettata sul fondale dalle trame generate da uno specchio circolare di metallo, poggiato in proscenio che, grazie al sapiente uso di luci e tecnica di Max Mugnai, genera una radiografia gigantografata da “un silenzio ossuto” e a tratti movimentata nel modo che avevamo apprezzato nell’Ubu incatenato del 2007. Anche i costumi sono quelli di altre opere della compagnia: lo scheletro che abbiamo trovato nell’Ubu roi, le parrucche di Nnord ma non solo, la lucida immagine del microfono stretto in grembo come il bambino cadavere stretto al petto della Ilse/Latini dei Giganti, l’Amleto neutro plurale, per Ecuba, i vari Desdemona e Otello, ma morti, naturalmente si succedono in questa opera. Vivificato dai microfoni sospesi dall’alto, anche un lampadario del Teatro San Martino, diretto da Latini tra il 2007 e il 2012… Tutto questo ci comunica che anche e soprattutto le scelte e direzioni politiche supportano la poetica. La struttura del testo originale è rispettata e resa nei quadri originari, anche questo rende importante il lavoro di “riscrittura”, recando compiutezza fin dal suo debutto all’opera. Intanto una Ophelia in tulle bianco – come e diversamente il gigantesco abito-gonna di Bikini bum bum – in un abito impossibile da indossare perché già rigido come la morte del personaggio suicida, vestita di organiche apparenze, lei che infatti “scende per strada vestita di sangue”, che non riesce a cantare un “Happy birthday”, fermandosi all’“happy” e basta, lascia graziosamente muovere le sue vesti tra un vento fittizio, mentre scorrono per tutto il non tempo teatrale le magnifiche sonorità e composizioni di Gianluca Misiti, nella consueta codrammaturgia sonora, a cui i testi di Latini ci hanno disarmati (mai abituati!). Lei che il compleanno non lo festeggia più da tempo, persa com’è nel tempo, ha reso il suo battito vivo solo grazie al metallico suono di una sveglia, che la rende quasi Coppelia: androide che adesso è Fortebraccio e che “era Ophelia”. 30 luglio 2016 AMLETO + DIE FORTINBRASMASCHINE di Paolo Randazzo Il nuovo spettacolo di Roberto Latini, “Amleto + Die Fortinbrasmaschine”, ha debuttato in prima nazionale, domenica 24 luglio a Gibellina nel contesto della XXXV edizione delle Orestiadi. Sulla scena, da solo, lo stesso Latini, le musiche e la complessiva tessitura sonora sono di Gianluca Misiti, il disegno luci e l’apporto tecnico di Max Mugnai. Ancora una volta uno spettacolo importante, denso di senso, fecondo di pensieri. Un lavoro che, data la sua complessità, pone non pochi problemi a chi ne voglia scrivere restando nel campo della responsabilità critica e voglia, al contempo, tenersi lontano dal repertorio plaudente delle frasi fatte. Chi conosce il lavoro di Latini si rende conto immediatamente di come e di quanto questo spettacolo rientri, con geometrica esattezza, nel vivo dispiegarsi della sua poetica teatrale. Non è difficile riconoscere - ed apprezzare - in esso tutti i segni del linguaggio di Latini: il suo stare in scena, i movimenti, la tensione, il suo recitare/raccontare a microfono scoperto, il suo senso del canto e del ritmo, il suo risiedere totalmente dentro le musiche e i suoni sempre straordinari di Misiti. È evidente poi – ed è certo l’elemento più significativo - quell’amore per la drammaturgia di Shakespeare che, da decenni, caratterizza la formazione artistica prima e poi il lavoro di Latini e dell’intero ensemble “Fortebraccio”. E però no, non si tratta di mettere in scena delle pur grandissime drammaturgie, né di costruire semplici allestimenti di testi immortali: si tratta invece di arrischiarsi (e trascinare in questo rischio il pubblico) nel mare di in un dialogo reale con la poesia del Bardo, restare scoperti di fronte alla sua complessità, consentire che questo dialogo ci sorprenda con la sua lama, ci colpisca con la durezza della sua densità estetica. Un dialogo che non poteva che sfociare in delle “riscritture” di testi shakespeariani (oppure anche di classici, antichi e non): riscritture funzionali, necessarie alla ricerca teatrale, riscritture che rintracciano nel presente, e interrogano e problematizzano, la vitale densità dell’antico. In quest’ottica e secondo questa modalità del resto va letto anche lo spettacolo appena precedente, il pirandelliano e bellissimo “I Giganti della Montagna” (in scena, sempre a Gibellina, sabato 23 luglio). Un dialogo che non poteva non incontrare – sì, era solo una questione di tempo – la più grande delle riscritture contemporanee di Amleto, ovvero l’Hamletmaschine di Heiner Müller. Perché questa necessità? Perché Müller, nel 1977, dialogando con Shakespeare e non solo, ha costruito quel vertiginoso dispositivo poetico, prospetticamente orientato al presente e, più ancora, al futuro dell’Europa e dell’Occidente, che Latini, a sua volta, prova oggi a riscrivere: non con una messinscena, ma con la concretizzazione – tramite materiali poetici, scenici, filosofici, politici – di un dialogo con Muller e Shakespeare sul mistero della storia, della contemporaneità e dell’arte nella storia e nella contemporaneità. Una riscrittura (dialogica), insomma, di una riscrittura (dialogica), come giustamente Latini presenta questo lavoro. Ed è questo il nodo e il cuore di questo spettacolo: oggi, complice forse l’accelerazione dei cambiamenti culturali dovuta alla velocità e alla pervasività dei mass media, siamo in grado di comprendere, se non del tutto certo meglio, il mistero delle immagini e delle parole di Müller; solo oggi la vertiginosa profondità di quella struttura testuale (Album di Famiglia; L’Europa delle donne; Scherzo; Pest a Buda Battaglia per la Groenlandia; Nell’attesa selvaggia, Dentro la orribile armatura, Millenni), di quelle parole, di quelle immagini, di quelle “rovine d’Europa”, persino di quei “bla bla bla”, si chiarifica nella sua tragica evidenza, si apre alla possibilità di una riscrittura come questa e alla necessità di una comunicazione autentica e positiva col pubblico. Una necessità che Roberto Latini riesce a cogliere e sfidare da par suo. 30 luglio 2016 LA “LIBERTÀ” DI LATINI NELLE TRAME DI AMLETO di Claudia Provvedini VOLTERRA (Pisa) – Operazione di grande gioco perverso è quella messa in moto da “Amleto + Die Fortinbrasmachine” (ma nella locandina il nostro segno + corrisponde a una disinvolta croce medievale), lo spettacolo di e con Roberto Latini in scena a VolterraTeatro e ricavato dal lavoro fine anni ’70 di Heiner Mueller, presentato nel ’90 al Deutsches Theater di Berlino Est, poi da lui stesso più tardi ricomposto in un “Hamlet/Maschine”, e ora, in un passaggio da padri in figli, nuovamente messo alla prova della scena. Il primo gioco di Latini è di inserire nel titolo, con un tocco di autobiografia artistica, il nome di Fortebraccio che è anche quello della sua compagnia, ma anche di distanziarsi, con questo richiamo al non-personaggio, figlio, straniero, estraneo, che arriva in scena quando “il resto è silenzio”, che chiude una carneficina di famiglia, dalla macchina della trama dell’Amleto scespiriano per oliarla e darle irrispettosa velocità. Vediamo così elementi muelleriani come l’Ofelia annegata con obi rosso e yukata bianco, loop del racconto di omicidi a catena e tutti sbagliati attuati dal principe di Danimarca, citazioni di gesti e intonazioni alla Carmelo Bene, ma anche macchine luminose e sonore alla Robert Wilson, grande alter-ego (whisky o vodka) del drammaturgo regista tedesco. “Una funzione del dramma è l’evocazione dei morti- Il dialogo con i morti non deve interrompersi fino a che non ci consegnano la parte di futuro che è stata sepolta con loro” (Heiner Mueller, 1986). foto di Stefano Vaja Da questa sarabanda emerge sempre il corpo di Roberto Latini che, liberatosi dal costume classico giapponese e da ogni debito con i testi originari, si disegna come un atleta che a testa in giù rotea con le gambe sopra e sotto una griglia, con abilità da attore non da danzatore, superando la fatica e mostrando l’esercizio fisico senza reticenze. Ha sospeso sopra la testa un cerchio magico luminoso che diventa poi una scansione del tempo senza storia, ferma i gesti, li ripete, appare in tacchi alti rossi e copricapo con corna, cita passaggi in tedesco (non sempre perfetto ma cruciale). foto di Stefano Vaja Il “vagabondaggio dentro una lettura” di cui parlava il critico Franco Quadri per la messinscena dell’originale Hamletmaschine, la “implacabile macchina del tempo dove i sopravvissuti di Elsinore… ripetono se stessi incapaci di morire” acquista nell’edizione volterriana di Roberto Latini un altro tipo di implacabilità: quella del Teatro che rimanda a se stesso, senza messaggi, spremiture etiche, abbandonato al puro spostamento di senso, autoreferenziale finché si vuole con un’eco di Bene-maschine, più delicato, meno guitto, ma pur sempre padrone della trama in nome di una libertà totale dell’attore, agente trasgressivo e trasmigratore. Visto a Volterra, Teatro Persio Flacco, il 28 luglio 2016 31 luglio 2016 AMLETO DIE FORTINBRASMACHINE - di e con Roberto Latini di Nicola Arrigoni "Amleto die fortinbrasmachine", di e con Roberto Latini Non si vorrebbe anticipare alcunché di Amleto die Fortimbrasmachine di Roberto Latini per lasciare allo spettatore il piacere assoluto di una prova di attore di inusuale intensità. Si vorrebbe svelare il meno possibile di questa riscrittura di Amleto che viaggia con coraggio e vertigine fra Shakespeare e Heiner Muller, passando per Marilyn Monroe, Blade Runner, Totò, Leo de Berardinis, Carmelo Bene... Questa renitenza inattuabile vorrebbe solo tutelare il piacere e lo stupore assoluti percepiti assistendo allo spettacolo in scena a Chiusi. Roberto Latini si presenta fasciato in una camicia di forza, con un caschetto biondo che è omaggio a Lawrence Olivier e subito si avverte che l'Amleto a cui si sta per assistere è di più di Amleto e di una qualsiasi tentazione di rileggere gli interrogativi del principe di Danimarca. Roberto Latini in camicia di forza è contemporaneamente il fantasma del padre Amleto e Amleto stesso, è fabula e racconto, è l'attore che accetta il gioco della finzione come disperato bisogno di verità. Latini tiene come punti di riferimento i capitoli di Hamletmachine di Muller ma li fa esplodere in una sequenza di azioni in cui la parola detta e quella registrata, il dire amplificato e la presenza non mediata dell'attore sono un tutt'uno di un meccanismo impietoso e di tortura dell'essere e non essere. La tragedia di Amleto per Latini è tragedia di figli passati dalla parte dei padri, è l'impossibilità di riabbracciare il padre, ma anche il dolore della perdita e del lutto per la madre/matrigna. Amleto è pensiero, è eredità impossibile dei padri, è contenitore di mondi. Ecco allora che Amleto è uno, nessuno e centomila: per Latini è Il fantasma del padre, è colui che attende guardando il mare e avendo alle spalle le rovine dell'Europa, è Fortebraccio impossibilitato a intervenire prima che Amleto muoia; e come Amleto porta lo stesso nome del padre, un peso che è anche passaggio di testimone insopportabile e forse insostenibile. Tutto questo è agito da Latini con atletica performante intensità, vive sulla scena di un profondità dello stare sul palco che toglie il fiato, commuove fino alle lacrime nel monologo di Ofelia e dei fiori, nel pianto di Ecuba e nel dolore del suo Polidoro. La macchina di Amleto costruita da Roberto Latini è bellezza assoluta, è emozione pura e pensiero che si fa teatro. La scena in cui la morte/Amleto porta il padre in armatura sulla carrozzella è di straziante bellezza, è la traduzione di Amleto che parla:bla bla bla con alle spalle le rovine dell'Europa. Un interno familiare per dire del marcio che c'è in Occidente. Roberto Latini regala al teatro d'arte un Amleto con cui bisognerà fare i conti.... Sublime 01 agosto 2016 DA DOPO TESTORI LA TEMPESTA AD AMLETO, INCONTRANDO di Fabio Francione VOLTERRA (Pisa) – In attesa che si compiano le opposte e finali versioni epifanico-teatrali dell’ultimo lavoro di Armando Punzo e della Compagnia della Fortezza, Dopo la tempesta. L’opera segreta di Shakespeare, di cui si darà conto a breve, s’arriva a Volterra con quel sentimento decadente e dannunziano che evapora immediatamente nel momento in cui si entra al Teatro Persio Flacco, contraltare aperto, ideale alla concentrazione carceraria che è là e non va dimenticato essere cifra stilistica e utopicamente realistica del VolterraTeatro,giunto alla sua trentesima edizione, con il progetto, foriero e progressivo di intuizioni “La città ideale”: una parte del progetto si squaderna nel ro.ro.ro speciale edito per l’occasione e curato dal dramaturg della “Fortezza”, Rossella Menna, con il ruolo di convogliare a composizione libera, una serie di contributi sul tema chiesti a chi del festival è protagonista. Dunque, molto di quello visto trova in un certo senso il proprio corrispettivo teorico in questi “fogli volanti”. Progetto Europeo Pas de Deux Culture Durable Foto di Stefano Vaja Un buon viatico alla comprensione di un festival con l’intenzione di espandere la propria ricerca alla stessa città dell’alabastro, che si dimena tra una conclamata vocazione turistica e la congiunturale crisi economica europea – presente dovunque – e riflessa in una caotica programmazione culturale. Ed anche chi scrive è stato coinvolto nel programma del festival, trovandosi nel duplice ruolo di autore e critico si trova necessariamente a doversi misurare in un ruolo inedito e collocato in una “terra di nessuno” che gli consente di entrare liberamente in argomento. E grazie ad un degno colpo di teatro scova all’improvviso una Volterra testoriana, trovando in ogni angolo del Persio Flacco, il drammaturgo – scrittore lombardo come tanti anni prima si ritrovò a Stoccolma, Ruggero Jacobbi a dover fare buon viso ad uno Strindberg onnipresente. Massimiliano Civica I concittadini ideali E non è solo la sala con le locandine dei melodrammi più rappresentati a far il gioco di Testori, ma sono anche i “Concittadini ideali” di Massimiliano Civica con il loro afflato religioso e civili a collocarsi in un alveo diligentemente testoriano al pari della riscrittura, e qui Giovanni Testori è stato maestro insuperabile nel gioco scenico-linguistico, dell’Amleto di Roberto Latini, prelevata dall’Hamletmachine di Heiner Müller e qui diventata “Amleto + Die Fortinbrasmachine”. Un ribaltamento techno-apocalittico della visione amletica di un mondo in disfacimento attraverso gli occhi del principe di Norvegia, l’invasore Fortebraccio. Lo spettacolo sarà nella prossima stagione del Teatro Litta di Milano e in scena al Festival Bmotion di Bassano del Grappa il 29 agosto. 07 agosto 2016 30 agosto 2016 NEL REGNO DI FORTEBRACCIO Sul palco del teatro Remondini, è andato in scena ieri sera, lunedì 29 agosto, il primo degli appuntamenti di B.Motion dedicati al teatro. di Laura Vincenzi Roberto Latini in Amleto + Die Fortinbrasmachine (fonte Operaestate.it) Sul palco del teatro Remondini, è andato in scena ieri sera, lunedì 29 agosto, il primo degli appuntamenti di B.Motion dedicati al teatro, che indagano, in questa edizione 2016 dell'ultima sezione di OperaEstate Festival Veneto, i “Monsters” che albergano nei grandi classici, usati come pretesti per parlare della follia contemporanea. La Compagnia Fortebraccio Teatro, un gruppo che da anni lavora alla sperimentazione del contemporaneo e alla ricerca di scritture sceniche originali, ha portato in scena Amleto + Die Fortinbrasmachine, ispirato alla celebre tragedia di Shakespeare e alla sua riscrittura creata dal commediografo tedesco Heiner Müller negli anni ’70, intitolata: Die Hamletmachine (La macchina di Amleto). Nella riscrittura di Roberto Latini (fondatore della Compagnia, regista e interprete dello spettacolo) e Barbara Weigel prosegue il lavorio di scardinamento dei ruoli, il racconto di chi non sta più al gioco e narra la sua storia proiettandola altrove ideato da Müller, e l’Amleto ridiventa territorio di confine. «Io non sono Amleto», proclama Latini nel prologo dello spettacolo, travestito da interprete di kabuki, e iniziando con una sconfessione il suo lavoro sul testo originale di Müller. Lo spettacolo si snoda strutturato in capitoli, come l’opera a cui si ispira: in scena vanno i personaggimaschere protagonisti dell’Amleto, “rifrequentati come mitici antenati, una sorta di miti-genoma della nostra cultura”, scrive la Wiegel. Il palcoscenico dominato da un enorme cerchio-aureola cangiante e illuminato – è il simbolo della compagnia –, i protagonisti della vicenda sono circondati da croci (una compare già nel titolo, e poi nei microfoni ad asta intrecciati, nella spada), simboli che sorvegliano il dialogo coi morti che tesse Latini, che guarda anche coi loro occhi all’oggi e al futuro di un’Europa e non solo dove “c’è del marcio”, dove continuano a crescere rigogliose “piante malefiche”. Il Pater noster, un passo della Dichiarazione universale dei diritti umani recitato in Latino, “Fraternité”, gridato tre volte: emblemi della nostra civiltà occidentale che non bastano ad arginare e a sconfiggere questa crescita dolorosa, informe, che pare immortale. Il tempo scorre sul palco scandito da rintocchi, respiri, battiti, atti-azioni in sequenza, ma la tragedia messa in scena appare magicamente sospesa, e non priva di tratti di commedia umana. «Voglio essere una macchina. Braccia per afferrare gambe per camminare nessun dolore nessun pensiero», scrive Müller in Die Hamletmachine, e Latini, a un certo punto si appende come un trapezista a testa in giù, in un mondo al contrario, dominato dagli arcani. Risaltano suggestivi e a tratti sorprendenti le soluzioni di luci e tecnica, curati da Max Mugnai, e i movimenti di scena suggeriti da Marco Mencacci, Federico Lepri e Lorenzo Martinelli. Latini domina il palcoscenico con corpo e voce, si maschera, si traveste: sulla passerella sospesa compare tra gli altri anche un’Ofelia-Marylin, che con la gonna bianca al vento prova a cantare “Happy… happy“ chissà che cosa, il disco si incanta. Su uno schermo, l’apparizione del volto in lacrime di Rutger Hauer, nella famosa sequenza di Blade runner (film-icona tratto da un racconto di Philip Dick) dove interpreta un androide e dice che “ha visto cose che voi umani... ”, si declina più tardi nel volto coperto da un’armatura di un Amleto ormai vecchio e muto, sulla sedia a rotelle. C’è un misto di eleganza e di tristezza in questo spettacolo; armonico l’accompagnamento musicale di Gianluca Misiti. La potenza del testo originale tedesco si ammansisce e diventa quasi un canto in questa derivazione di Fortebraccio, padri e patrie assenti forse da troppo tempo, tutti in attesa del ritorno di Polidoro. Applausi. 30 settembre 2016 Roberto Latini. Io non sono Amleto Roberto Latini con Amleto+Die Fortinbrasmaschine indaga l’opera shakespeariana alla luce della riscrittura di Heiner Müller. E la fa propria. di Simone Nebbia Io non sono Amleto Non sto al gioco Non recito più alcun ruolo Amleto, chi era costui? Cos’è, Amleto? Poveraccio sempre trattato ora da individuo ora da oggetto di dibattito, il personaggio. È un chi o un cosa, Amleto? E lui non aspetta la risposta, esce fuori dal gioco teatrale e non recita: semplicemente è, o così dice, così vorrebbe, ma non si tratta di una trasformazione, non c’è nessuna mutazione possibile per l’eroe tragico, c’è la coscienza dell’impossibile: recitare il finito, interpretare l’uomo, nella propria infinita natura di opera d’arte. Un lavoro al contrario questo Amleto+Die Fortinbrasmaschine che Roberto Latini – a firma Fortebraccio Teatro ma con l’aiuto drammaturgico di Barbara Weigel, visto a Volterra Teatro 2016 – dedica prima a William Shakespeare e al suo personaggio più enigmatico ed emblema di un’idea di teatro, poi ancora a Heiner Müller che dall’opera ha tratto Die Hamletmaschine, la “macchina di Amleto”, alla fine degli anni Settanta. Da quest’ultima trae la struttura in capitoli entro cui far esplodere le luci di Max Mugnai e liberare la potenza compositiva di Gianluca Misiti, autore di musiche in cui è miscelato un suono ora dolce ora sinistro, il piano solo che si fa invadere da sonorità elettroniche indiscrete. Un cerchio di luce accoglie in mezzo alla scena. Ma chi? Cosa? Questo è il punto. Roberto Latini compone uno spettacolo che affonda nelle intenzioni di Heiner Müller, cerca cioè di utilizzare l’opera del regista tedesco allo stesso modo in cui lui aveva utilizzato Shakespeare, facendone una macchina in grado di essere affermazione del presente, biografia del tempo nell’atto di essere rappresentato. Ecco dunque che il carattere esemplare di Amleto passa nei canoni e si riversa nelle esperienze individuali, assimila del classico gli stilemi e si propone come raffinazione dell’esperienza in termini intellettuali, ma senza mai perdere i confini di una solida e concreta appartenenza. L’opera, la vita. E cos’è un’opera se non il veicolo – la macchina – per spostarsi da un luogo all’altro dell’evoluzione spirituale dell’individuo? Anche l’anima ha bisogno di un passaggio. E Amleto offriva a Müller le lancette da posizionare nel proprio orologio, perché detonasse il classico, l’esemplare, nella propria contemporaneità. Fortebraccio è invece il personaggio promesso, sfumato lungo tutto l’arco della vicenda amletica, tuttavia non appare se non appena dopo, quando la morte ha colto Amleto e nella sua storia non c’è più spazio d’azione. C’è, diversamente, da rendergli onore tragico, ma soprattutto è quello il momento in cui si smette la vicenda e inizia la problematizzazione, la macchina, il mito: Amleto diviene l’Amleto, l’indagine conoscitiva può procedere oltre i confini dell’opera e farsi assoluto. E dunque la Die Fortinbrasmaschine, per la compagnia che da Fortebraccio prende nome, non è altro che la raccolta di un’offerta, la resa di un’eccedenza, ossia quanto – fuoriuscito dall’opera di Müller – sa fornire gli strumenti per indagare sé stessi, il lascito che il proprio teatro ha prodotto, l’afflato con lo stato attuale di questa arte contemporanea. Ma si spoglia, questo Amleto, anche di sé stesso. Del proprio mito. Egli si riprende un po’ i caratteri che da categoria dispongono un nuovo risoluto accesso nell’uomo. Nell’intensità magnetica delle immagini pittoriche, Latini si erge a paradigma del proprio stesso teatro, lo interroga, lo riduce a marionetta che il filo costringe e manovra, mentre insieme, dall’uso logoro del teatro e dalla convenzione, come un salto oltre tempo, oltre opera, si libera. 08 ottobre 2016 Amleto + Die Fortinbrasmaschine - Teatro Vascello (Roma) di Enrico Vulpiani Roberto Latini e Fortebraccio Teatro portano in scena al Teatro Vascello, nell'ambito della rassegnaLe Vie dei Festival, la loro personale reinterpretazione dell’opera “Die Hamletmaschine” di Heiner Müller, composta sul finire degli anni 70 attorno allo shakesperiano tormento di Amleto. “Un Amleto incapace di sostenere il dolore dell'assassinio del padre trascina il carro della sua infinita pena, e un Roberto Latini nella bellissima metafora di Amleto/atleta ruota su se stesso con il suo lutto, come un ginnasta sugli anelli.” Le Vie dei Festival presenta AMLETO + DIE FORTINBRASMASCHINE di e con Roberto Latini drammaturgia Roberto Latini, Barbara Weigel regia Roberto Latini musiche e suoni Gianluca Misiti movimenti di scena Marco Mencacci, Federico Lepri, Lorenzo Martinelli luci e tecnica Max Mugnai produzione Fortebraccio Teatro in collaborazione con L'arboreto - Teatro Dimora di Mondaino, ATER circuito Regionale Multidisciplinare Teatro Comunale Laura Betti, Fondazione Orizzonti d'Arte “AMLETO + DIE FORTINBRASMASCHINE è la riscrittura di una riscrittura…” dice Latini - “la caccia all'inquietudine nel fondo profondo del nostro centro, per riscriverci, in un momento fondamentale del nostro percorso… una giostrina su cui far salire tragedia e commedia insieme.” E se Amleto si rifiutasse di essere e di non essere? Se sussurrasse con potenza d’anima la sua ribellione? Immerso in una destrutturazione solitaria del proprio io, l’Amleto di Fortebraccio si contorce contro l’ineluttabile; una spada minaccia la sua libertà, sulla sua lama scivola il fantasma del padre, di Claudio… un enorme cerchio di luce sembra tracciare i confini, oltre i quali non è consentito osare, un delicato sbuffo di memoria scompone, soggioga l’abito, la maschera di Ofelia. La voce ipnotica di Latini scava… scava… nelle profondità nascoste, murate, negli oblii, negli abissi, esplode nella solitudine dell’età adulta, disincantata ma per questo lucida. Il (non)Amleto tenta di innalzarsi, si fa lieve, si lascia sollevare, si divincola dalla condanna a marionetta, esce da sè, si osserva dall’esterno, cammina con scarpe disallineate, un incedere precario ma ostinato, tenacemente disarticolato, si affaccia sul nulla e scopre che forse la salvezza è lasciarsi andare… Anche grazie alle sempre splendide musiche di Gianluca Misiti, Roberto Latini riesce a condurre lo spettatore in una dimensione disturbante e meravigliosa, sospende in platea un necessario scuotimento della ragione a vantaggio dei sensi, ti tende la mano, per nuotare o annegare insieme, ma se hai la ventura di sollevare quel super-io dall’acqua, quella boccata d’aria ti scoprirà i nervi e ti sferzerà di vita. 01 dicembre 2016 Amleto † Die Fortinbrasmaschine allo Spazio X di Caserta di Luigi Furno Ha lasciato la sua impronta sulla pietra, e poi vi è passato sopra Proverbio lamba, Zambia L’incandescenza nivea del buio scalfita da qualche luce improvvisa o lenta, in divenire, la silhouette pallida e tornita di Roberto Latini seduto in un angolo, il biancore del cerone che scherma il volto come una lastra di luce, la profonda e nera mandibola del boccascena che divide e attira con la sua ipnosi centripeta: così gira il mondo nel “Amleto † Die Fortinbrasmaschine [versione radio]” allo Spazio X di Caserta a cura del Teatro Civico 14, si presenta come l’esaltazione dell’ossimoro che garantisce la precarietà e la sicurezza, lo spiraleggiare centrifugo di muscoli e tozzi bombardamenti di florilegio di parole. La prima parola, appunto, è “Amleto”, ma lo si afferma per stemperarlo, per cestinarlo in quanto “recita”. Non è più tempo di “essere Amleto” in scena, o solo in scena?, per questo dilaga lentamente come una gelatina o un virus. «Io non sono Amleto», le prime parole di Latini, «Non sto al gioco/Non recito più alcun ruolo». Così, l’attore in scena, smonta la costruzione derubando il pezzo cardine dell'Amleto shakespeariano, cioè, toglie di mezzo dal testo Amleto disarcionandolo dalla carica di “personaggio” per ritrovarselo, tra le mani, come una cavia su cui sperimentare. La morte ha colto Amleto e nella sua storia non c’è più spazio d’azione. C’è, diversamente, da rendergli onore tragico, ma soprattutto è quello il momento in cui si smette la vicenda e inizia la problematizzazione, la macchina, il mito: Amleto diviene l’Amleto, l’indagine conoscitiva può procedere oltre i confini dell’opera e farsi assoluto. Amleto, chi è costui? Cos’è Amleto? Immaginiamo insieme la storia di una negazione. Iniziamo con un interrogativo: si può da una negazione per giungere ed affermare un qualcosa? Amleto lo si è sempre guardato, e spesso osteggiato, come l’incarnazione della pietà filiale slabbrata fino al patologico. Non è scellerato, infatti, se lo si è spesso trattato come l’etimo stesso del patologico, la sua trasposizione mondana. Amleto è un discorso (logos) sulla malattia passionale (pathos) che sfocia nella devastante ossessione autodistruttiva. Lungo questo sentiero non c'è uno spartitraffico o un bivio che dirami e la storia, in fin dei conti, si arena. A Latini, però, questa verità banale non è sufficiente. Nell’”Amleto † Die Fortinbrasmaschine” il soggetto amletico viene rivestito, metaforicamente, di un guardinfante – atroce impalcatura a forma di campana che nel corso di svariati secoli ha sostenuto le ampie vesti femminili – che lo rende troppo ingombrante per trovare posto solo nei manuali di nosografia patologica e così rubricarlo a semplice caso da cui evincere una sintomatologia; viene fatto bersaglio di una grande caccia alla sparizione dell'essere e il «To be or not to be» oltrepassa «il problema, la questione, il dilemma», divenendo, appunto, un'aporia di traslitterazione, di traduzione. Si assiste, così, in scena, alla spoliazione del personaggio del dramma storico, liberandolo dal essere trattato ora da individuo ora da oggetto di dibattito psicanalitico. Quello che resta è un chi o un cosa? La risposta – che è Amleto stesso - si lascia attendere, esce fuori dal gioco teatrale e, semplicemente, non recita: semplicemente è, o così dice, così vorrebbe, ma non si tratta di una trasformazione, non c’è nessuna mutazione possibile per l’eroe tragico, c’è la coscienza dell’impossibile: recitare il finito, interpretare l’uomo, nella propria infinita natura di opera d’arte. Ma Latini stoppa subito questo gioco gnoseologico. Attraverso Amleto si va solo, lo dice subito, verso una direzione obbligata, cioè, l’amletico. L'amletico è un'aporia, una porta/varco che ha le fattezze della noesi husserliana. Il Fortinbrasmaschine, opera antologica di Fortebraccio Teatro, ha come pretesto il tradimento «fuori dagli occhi» - fuori da essi però «a cosa guardi?», chiede Latini - della poetica di Heiner Müller. Il testo originale di Hamletmaschine, da cui prende spunto il lavoro di Latini, datato 1979, ha inizio con un «Ich war Hamlet», “Io ero Amleto”. Roberto Latini capovolge l’affermazione e la rende al presente, vivida e glaciale come un iceberg che in piena incoscienza ci ha puntato. Ma non c’è modo di sfuggire dall'amletico. “Io non sono Amleto” è un modo molto amletico per non essere Amleto. Die Hamletmaschine, opera di un grande scrittore di teatro, Heiner Müller, è una riscrittura dell’Amleto, liberamente ispirata ai versi del Bardo. L’opera ha dato un grosso contributo allo sviluppo di un teatro postmoderno capace di reggersi su frammenti enigmatici che sono andati al di là del canone narrativo del suo tempo, rappresentando un immobilismo in cui il testo si riscopre dinamico e inesauribile (in cui è presente, insomma, «il caos del fuoco e la comprensione della fiamma»). Amleto offriva a Müller le lancette da posizionare nel proprio orologio, perché detonasse il classico, l’esemplare, nella propria contemporaneità. Quella di Roberto Latini e Barbara Weigel, autori del testo, è «scrittura scenica liberamente ispirata a Die Hamletmaschine di Heiner Müller» che si dissolve ben presto in una «deriva» teatrale e metateatrale persa nei mari di questi tempi, ricolmi di abbandonati e sopravvissuti al naufragio. Latini prende a pretesto (prendere ciò che lo anticipa: pre/testo) la drammaturgia di Müller e la passa in un tritacarne semiologicamente affilato per scontornarne il testo in frammenti minimi e disarticolati. Dichiara il regista: «Voglio rimanere il più possibile nell’indefinito, accogliere il movimento interno al testo e portarlo sul ciglio di un finale sospeso tra il senso e l’impossibilità della sua rappresentazione». L’aspetto molto interessante del modo di fare teatro di Latini, che è l’aspetto che lo aggancia ad una modalità di fare teatro contemporaneo, è la totale assenza nel suo lavoro di sottotesti psicologici. Quello che ricerca affannosamente è una profonda dimensione dell’individuo, un’orma nitida dell’essere, una descrizione pantografica della condizione umana, non le piccole e miserevoli latenze psicologiche. Non c’è dunque da stupirsi se i personaggi che interpreta in scena sono sempre extra-quotidiani: fantasmi, imperatori folli, sanguinari assassini. L’andamento di frazionamento per elementi omogenei e aggreganti lo avvicinano molto al lavoro del filosofo-matematico Imre Toth. In un testo uscito in Italia nel 1997, “No!”, Toth fa della filosofia con la colla e forbici scrivendo un libro fatto solo di citazioni. “No!” è un palinsesto di parole e immagini di cinquecento pagine che rompe con ogni sistematicità e crea un flusso di testi tratti da Husserl, Tristan Tzara, Orwell, Cantor, Gauss, Tommaso d’Aquino e da tanti altri, alcuni anche inventati dall’autore. Sulla traccia segnata da Toth, molto probabilmente inconsapevole, si muove la testualità di “Amleto † Die Fortinbrasmaschine” per diffondere un concatenarsi di contaminazioni e co-incidenze culturali e politiche che segnano una svolta essenziale nella ricerca entelechiana del teatro di Latini. Mescolando con prontezza («readiness is all», dopotutto) una selezione di scritti variegata e visionaria (Dichiarazione dei diritti umani, Eduardo De Filippo, Marylin Monroe, Blade Runner, Ulisse di Joyce e altri), Latini fa riecheggiare le parole eterne del diseredato di Danimarca in contesti sospesi tra il postmoderno e l’assurdo, confermando l’idea mülleriana secondo la quale «le mie parole non dicono più niente. I miei pensieri succhiano sangue alle immagini. Il mio dramma non si terrà più», e al tempo stesso rifiutandola. Basti pensare alla geniale catarsi di un’Ofelia morente che, seppur negata per l’amore, apre il proprio cuore a un flusso di coscienza che si collega direttamente con quello di una Molly Bloom estatica sotto le mura di Gibraltar che parla, dà fiato, dà vita col cuore che batte come impazzito e sì dice sì voglio sì. Latini è un fantasma in scena travestito da elegante e solenne interprete di kabuki. Nel prologo riprende alcuni importanti elementi di questa forma di teatro giapponese restituendo la magia di un’arte priva di tempo ma densissima di quella crudeltà artaudiana che lo lega al magma di un teatro vitalistico. Già dal nome dello spettacolo - Amleto † Die Fortinbrasmaschine – vengono seminate tracce per una impossibile costruzione di senso. Una croce annuncia, dopo la morte di Amleto, la definitiva determinazione di Fortebraccio. Il regista, drammaturgo e interprete, sceglie, infatti, di setacciare il suo dramma attraverso lo sguardo di Fortebraccio, contraltare del principe di Danimarca: anche lui orfano di padre, anche lui erede al trono, eppure privo di quella paralisi fattiva che assedia il principe e che sarà la causa delle sue sciagure. «L’Amleto è una tragedia di orfani», spiega Latini, «protagonisti e antagonisti di un tempo in cui i padri vengono a mancare. Anche “Die Hamletmaschine”, ormai, da figlio è diventato padre. Questo ha a che fare con la nostra generazione, da Pasolini in poi, con la distanza che misura condizione e divenire, con il vuoto e la sua stessa sensazione. Siamo Fortebraccio, figlio, straniero, estraneo e sopravvissuto e arrivando in scena quando il resto è silenzio». Partendo da questo doppio, allora, Latini intesse un filo narrativo che si interroga su ciò che viene dopo il silenzio della morte: «Where is this sight?». «Potremmo tradurlo come «dov'è questo spettacolo?», afferma Roberto Latini, «ma anche come: dov'è questa visione? o dove devo guardare per vedere quello che devo vedere?». Heiner Müller, nel 1986, rispondeva così: “Ciò che è morto, non è morto nella storia. Una funzione del dramma è l’evocazione dei morti - il dialogo con i morti non deve interrompersi fino a che non ci consegnano la parte di futuro che è stata sepolta con loro”. E ancora, nel testo del suo Die Hamletmaschine: «Rompo la mia carne sigillata. Voglio abitare nelle mie vene, nel midollo delle mie ossa, nel labirinto del mio cranio. Mi ritiro nelle mie viscere. Prendo posto nella mia merda. Da qualche parte ci sono corpi fatti a pezzi perché io possa stare nella mia merda. Da qualche parte ci sono corpi dilaniati perché io possa starmene solo col mio sangue. I miei pensieri sono ferite nel cervello. Il mio cervello è una cicatrice. Voglio essere una macchina. Braccia per afferrare gambe per camminare nessun dolore nessun pensiero». Un altro elemento presento nella grafia del titolo è la croce. La croce, segno di morte e resurrezione, è presente in ogni elemento scenico, a partire dalla disposizione dei microfoni, doppiamente collocati e verticalizzati e posizionati in orizzontale, per arrivare a un’altra e inconsueta disposizione, data dalla distribuzione della voce, attuata dalla phonè – vera e propria dialettica del pensiero poetico, giocata seriamente – del generosissimo Roberto Latini. In conclusione, dunque, la Die Fortinbrasmaschine, per la compagnia che da Fortebraccio prende nome, prende le fattezze di un’offerta, la resa di un’eccedenza, ossia quanto – fuoriuscito dall’opera di Müller – sa dotarsi di strumenti per scandagliare i propri abissi. Come dice il compianto Vittorio Sermonti nel suo ultimo romanzo, “Se avessero”: «Comunque, la apparizione definitiva del teatro, quella che non ti fa più tornare indietro e far finta di niente fu proprio Shakespeare… Facendo un po’ lo scemo, oggi ancora mi domando: non sarà che con i tempi che corrono, meglio sarebbe – dato che metterlo in scena è inevitabile – metterlo in scena da soli, in piedi, col colletto sbottonato, leggendo tutte le parti con la proprio unica voce?» Ed è quello che fa Roberto Latini. 09 dicembre 2016 AMLETO + DIE FORTINBRASMASCHINE di Antonio Santamato Inscenare Shakespeare non è mai facile, chi si cimenta o sa in cosa va in contro, e affronta l’argomento con rispetto e intelligenza, oppure non sa ciò che fa, soprattutto, se il personaggio da interpretare si chiama Amleto… non è il caso di Roberto Latini. L’attore, il regista, lo scenografo in questione, supportato da un grande team, unisce le varie sfaccettature di Amleto componendo, con la tavolozza di colori che regge in mano, un autentico capolavoro. Ti prende portandoti per mano fino alla fine con mai un calo d’intensità, il tutto accompagnato da atmosfere magiche e suoni che trascendono dal periodo elisabettiano e viaggiano sulla linea del tempo contemporanea. Suoni, Musica, che non riempie mai un vuoto, o scavalca l’attore - in grado di essere in simbiosi con la Musica – sempre al centro della scena. Musiche orchestrate, grazie a un attento Gianluca Misiti, che lasciano comunque spazio ai silenzi, lunghi, profondi, che, a volte sono più rumorosi e amplificano le emozioni, permettendoti di sentire il respiro e il battito del cuore. Tra un intervallo e l’altro, le luci spente e il silenzio non lasciano scampo e ti inchiodano alla poltrona rendendoti spettatore attivo, partecipe, in grado di poterti vedere dal palcoscenico. "Ciò che è morto, non è morto nella storia. Una funzione del dramma è l’evocazione dei morti - il dialogo con i morti non deve interrompersi fino a che non ci consegnano la parte di futuro che è stata sepolta con loro." Heiner Müller L’accostamento delle musiche trasporta Amleto in un futuro malinconico e privo delle speranze nutrite nel passato, ormai si accorgerà di essere diventato padre di se stesso, si accorgerà di essere la figura che invocava vendetta al proprio figlio. Il passaggio è traumatico e delirante, Roberto Latini qui mostra la sua bravura da attore con una voce cruda, arida, senza emozioni e ricca, comunque, di sentimento. Amleto vive, Amleto muore, Amleto vive e muore, Amleto muore e vive. Amleto siamo noi, eroi al confine fuori dalla vita comune. C’è bisogno di teatro, c’è bisogno d’immaginazione. Torniamo a esserne attratti. Oramai Amleto è destinato al viaggio nel “paese inesplorato dalla cui frontiera nessun viaggiatore fa ritorno.” 10 dicembre 2016 “AMLETO † DIE FORTINBRASMASCHINE”: ROBERTO LATINI RAGGIUNGE LA PERFEZIONE AL TEATRO PALAZZO DI BARI di Pasquale Attolico Trovarsi di fronte ad un’opera d’arte, ad un assoluto capolavoro, dona sempre fortissime emozioni, ma talvolta disorienta, soprattutto se vi sono contenuti e talmente tanti riferimenti da rendere quasi (se non del tutto) impossibile riuscire a coglierli senza perderne alcuno. “Amleto † Die Fortinbrasmaschine”, lo spettacolo di e con Roberto Latini giunto al Teatro Palazzo di Bari per l’annuale stagione del Teatro Pubblico Pugliese, appartiene sembra ombra di dubbio a questa categoria, perfetto sotto ogni punto di vista, al punto che si può decidere di abbandonarsi alla bellezza estetica, grazie anche ai movimenti di scena di Marco Mencacci, ed all’arte recitativa ovvero di tentare di capire le decine di input che giungevano dal palco. Noi, nel nostro piccolo abbiamo provato ad accedere al secondo livello ed abbiamo raccolto, in ordine sparso ed indubbiamente impreciso, qualche stimolo, alcune chiavi di lettura, a partire da quel simbolo presente nel titolo che è un “più” quando indica l’unione di due opere magistrali quali l’Amleto shakespeariano e l’Hamletmaschine che Heiner Müller scrisse nel 1979, che qui, in questa “riscrittura della riscrittura”, realizzata da Latini con la complicità di Barbara Weigel, diviene la macchina di Fortebraccio, personaggio che giunge a chiudere il dramma ordinando che si compiano le cerimonie per il funerale dello sfortunato Principe e che dà il nome anche alla Compagnia teatrale impegnata, ma si trasforma in una croce richiamata in diversi elementi scenici, dalla disposizione dei microfoni alla spada (di Damocle?) che pende sulla testa del protagonista prima di essere da questi sguainata. Un protagonista che definiremmo riluttante, sin da quando, in apertura di piéce, confessa al pubblico di non essere Amleto, affermazione a cui crediamo, propensi a sentirlo più come il capocomico della Compagnia giunta nel castello del fratricida novello Re di Danimarca e, con tutta probabilità, da quel momento intrappolato in un circolo vizioso, in un cerchio senza inizio e senza fine, in cui è condannato a recitare per sempre lo stesso testo in cui confluiscono anche pezzi del Padre Nostro in latino come della Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948, a ripetere in eterno gli assurdi personaggi di una vicenda che non gli appartiene, in cui niente è come sembra e nessuno è solo uno: sarà così (o almeno a noi è sembrato fosse) uno splendido attore della tradizione kabuki, un equilibrista, un disperato Rigoletto, opportunamente introdotto dall’aria “Cortigiani, vil razza dannata”, ovvero (forse) un mostruoso Loki, fratellastro per eccellenza, che suggellerà un amara quanto reale ed attuale considerazione sulla incomprensibilità della parola fraternità, sarà (in un suo doppio televisivo) il replicante del sublime finale del capolavoro di Ridley Scott Blade runner che con il suo “è tempo di morire” introdurrà il celeberrimo amletico monologo, sarà finanche un’infelice Ofelia, che nel culmine della sua follia si tramuterà in una Marilyn Monroe colta in un’incerta dedica musicale, sino a divenire Eduardo e Luca De Filippo alle prese con l’amato / odiato presepe di Casa Cupiello, di certo omaggio ai due Maestri del teatro italiano, che va a sommarsi ad un altro devoto saluto al Genio di Carmelo Bene, spesso citato con il suo mitico Hommelette for Hamlet, di cui di certo Latini è il più degno erede, anche e soprattutto per lo straordinario utilizzo della voce che, a nostra memoria, al momento non ha pari tra i suoi colleghi. Solo sulla scena, coadiuvato, accarezzato, se non stimolato, dalle splendide architetture del suono di Gianluca Misiti e delle luci di Max Mugnai, Latini è l’attore per eccellenza, più che perfetto in ogni istante della performance, sublime affabulatore che, nel rapporto con il suo pubblico, sembra aver sposato proprio gli intenti del Principe danese nei confronti della sua fragile madre, svelati da Shakespeare nel terzo atto; così Latini sembra metterci davanti agli occhi uno specchio nel quale rimirare la parte più segreta di noi stessi, per poi torcerci il cuore, se è fatto di materia penetrabile e non ancora refrattario ad ogni sentimento, spaccandocelo in due e costringendoci a gettar via la parte d’esso guasta e viver più puri con l’altra. C’è un senso di compiuto ed, allo stesso tempo, di irrisolto nell’Opera di Latini, scevro dall’inutile bla bla che contraddistingue i nostri tempi ma anche indefinito, parole che sanno contenere – come detto – bellezza allo stato puro ma anche vertiginosa profondità, in un caleidoscopico ed interminabile scomporre e ricomporre che – noi speriamo – si prolunghi all’infinito.