Breve storia dei sistemi elettorali in Italia

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Breve storia dei sistemi elettorali in Italia
VITTORIA CALABRÒ
1. Premessa
Sistema elettorale maggioritario o proporzionale? Se maggioritario, a turno unico all’inglese o con ballottaggio alla francese? Se proporzionale, alla
tedesca o alla spagnola? E ancora, alleanze tra gli schieramenti da definirsi
prima delle consultazioni elettorali o dopo il voto?
Ampio è stato lo spazio dedicato, soprattutto nelle ultimi mesi del governo Prodi, sulle pagine dei giornali e nei servizi televisivi, a quesiti del genere
a testimonianza delle diverse posizioni espresse sia dagli esponenti della
maggioranza che dell’opposizione su un tema, quale quello della legge elettorale, che da tempo anima la scena politica italiana ma sul quale l’accordo appare particolarmente difficile. Prova ne sia l’acceso dibattito che di recente ha
coinvolto i diversi schieramenti politici in merito alla scelta della normativa
da utilizzare in occasione delle prossime consultazioni per il rinnovo del Parlamento europeo, previste per il 7 giugno 2009.
La motivazione alla base del forte interesse per argomenti che a prima vista potrebbero sembrare più tecnici che politici è facilmente intuibile. Il sistema elettorale, infatti, non serve solo ad individuare il meccanismo con cui
i voti vengono trasformati in seggi ma, influendo sulle modalità con cui gli
elettori esprimono il loro voto, fa sì che i partiti che si presentano alle elezioni ottengano maggiore o minore rappresentanza parlamentare, potendo così
vantare, di conseguenza, un maggiore o un minore peso politico1.
A ragione, dunque, il sistema elettorale può essere definito come la chiave
di volta del sistema parlamentare e di governo in quanto incide sia sul numero che sulla struttura dei partiti oltre ad avere importanti ripercussioni sulla
natura e sulla stabilità della maggioranza2. Non è un caso, infatti, che in più
di una occasione la classe politica italiana, incapace di rinnovarsi o semplicemente desiderosa di rafforzare la propria presenza all’interno del Parlamento, ha pensato di poter risolvere i problemi e le incoerenze del paese modificando o cambiando legge elettorale, quasi che questa fosse la panacea di tutti
i mali della società. Una costante che ha accompagnato le vicende politico1
Cfr. quanto sostenuto da Pasquino, 1986, 339. Sul punto si rinvia anche a Fisichella, 1965,
Tentoni, 1991, 56-61 e Piretti, 1998, 3-9.
2
A questo proposito si rinvia a quanto si legge in Maranini, 1995, 146.
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istituzionali italiane, anche se con modalità profondamente differenti, dagli
anni successivi all’Unità fino ai nostri giorni.
Ecco perché può risultare particolarmente utile soffermarsi ad analizzare,
anche se brevemente, sia i differenti sistemi elettorali adottati nel nostro paese in questo ampio arco temporale che le diverse tappe del lento, ma graduale, allargamento del suffragio.
Per individuare il punto di partenza di questo percorso dobbiamo procedere a ritroso fino al 1848, anno in cui vedeva la luce l’editto elettorale Balbo,
emanato per il Regno di Sardegna ma destinato a segnare a lungo la storia del
Regno d’Italia.
2. Dal Regno di Sardegna all’Unità d’Italia: caratteri e contenuti
dell’editto elettorale Balbo
Con proclama dell’8 febbraio 1848 Carlo Alberto, re del Piemonte, annunciava ai sudditi la sua decisione di concedere una carta costituzionale:
«Con parere dei nostri ministri e dei principali consiglieri della nostra corona abbiamo risoluto e determinato di adottare le seguenti basi di uno Statuto fondamentale per stabilire nei nostri Stati un compiuto sistema di governo
rappresentativo»3.
Le linee guida enunciate nel proclama venivano recepite dallo Statuto albertino emanato il 4 marzo 1848 che, all’art. 2, ribadiva il concetto di un
«Governo Monarchico Rappresentativo», prevedendo la presenza di un Parlamento bicamerale articolato in Camera dei Deputati e Senato del Regno
che, ai sensi dell’art. 3, dovevano esercitare, con il re, il potere legislativo4.
Mentre il Senato era composto da «membri nominati a vita dal Re, in numero non limitato, aventi l’età di quarant’anni compiuti», scelti all’interno di
21 categorie espressamente elencate dall’art. 33 (fra cui, figuravano, ad esempio, arcivescovi, deputati dopo 3 legislature o 6 anni di servizio, ambasciatori, ministri o ancora «persone che da tre anni pagano tremila lire d’imposizione diretta in ragione dei loro beni, o della loro industria»5), la Camera
3
Il testo del proclama si legge in 1848-1998 dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana 1998, 26.
4
Art. 3: «Il potere legislativo sarà collettivamente esercitato dal Re e da due Camere; il Senato e quella dei Deputati» (1848-1998 dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana
1998, 63).
5
Cfr. l’art. 33: «Il Senato è composto di membri nominati a vita dal Re, in numero non limitato, aventi l’età di quarant’anni compiuti e scelti nelle categorie seguenti: 1. Gli Arcivescovi e
Vescovi dello Stato; 2. Il Presidente della Camera dei Deputati; 3. I Deputati dopo tre legislature
o sei anni di esercizio; 4. I Ministri di Stato; 5. I Ministri Segretarii di Stato; 6. Gli Ambasciatori;
7. Gli Inviati Straordinari, dopo tre anni di tali funzioni; 8. I Primi Presidenti e Presidenti del
Magistrato di Cassazione e della Camera dei conti; 9. I Primi Presidenti dei Magistrati d’appello;
10. L’Avvocato Generale presso il Magistrato di Cassazione e il Procuratore Generale dopo cinque anni di funzioni; 11. I Presidenti di Classe dei Magistrati di appello, dopo tre anni di funzioni; 12. I Consiglieri del Magistrato di cassazione e della Camera di conti, dopo cinque anni di
funzioni; 13. Gli Avvocati Generali o Fiscali Generali presso i Magistrati di appello, dopo cinque
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era elettiva e composta, secondo quanto disposto dall’art. 39, da «Deputati
scelti dai Collegi Elettorali conformemente alla legge».
Per «l’esecuzione del presente Statuto», così come sancito dall’art. 83, e
per completare la struttura del nuovo regime rappresentativo, era, dunque, indispensabile emanare una legge che delineasse le modalità di elezione dei
Deputati e definisse, al contempo, i requisiti necessari per poter esercitare
l’elettorato attivo e passivo.
Il provvedimento, preparato da un’apposita commissione sotto l’ispirazione e l’opera di Camillo Benso, conte di Cavour, veniva varato il giorno successivo alla formazione del primo governo costituzionale guidato da Cesare
Balbo.
Il sistema elettorale introdotto dal regio editto 17 marzo 1848, n. 6806, si
basava sul collegio uninominale maggioritario a doppio turno con ballottaggio. Il territorio del Regno veniva suddiviso in 204 collegi ciascuno dei quali
esprimeva un solo vincitore (un deputato ogni 200.000 abitanti circa). Era eletto al primo turno chi otteneva la metà più uno dei voti espressi, purché tale
cifra fosse uguale o superiore a 1/3 degli aventi diritto al voto7. Nel caso in
cui nessuno raggiungesse il quorum richiesto, si procedeva, secondo il disposto dell’art. 93, ad un secondo turno, o ballottaggio, cui venivano ammessi i
due candidati più votati al primo turno. Per essere eletti al ballottaggio era
sufficiente la maggioranza relativa, bastava, cioè, ottenere anche un solo voto
in più dell’altro concorrente8.
Nella scelta del sistema elettorale, il legislatore piemontese aveva rivolto
la sua attenzione, così come accaduto per la redazione dello Statuto, ai modelli d’oltralpe.
Il collegio uninominale a doppio turno di elezione, era, infatti, tipico
dell’esperienza francese e appariva come una sorta di perfezionamento del
anni di funzioni; 14. Gli Uffiziali Generali di terra e di mare. Tuttavia i Maggiori Generali e i
Contr’Ammiragli dovranno avere da cinque anni quel grado in attività; 15. I Consiglieri di Stato,
dopo cinque anni di funzioni; 16. I Membri dei Consigli di Divisione, dopo tre elezioni alla loro
presidenza; 17. Gli Intendenti Generali, dopo sette anni di servizio; 18. I Membri della Regale
Accademia delle Scienze, dopo sette anni di nomina; 19. I Membri ordinarii del Consiglio superiore d’Istruzione pubblica, dopo sette anni di esercizio; 20. Coloro che con servizii o meriti eminenti avranno illustrata la patria; 21. Le persone che da tre anni pagano tremila lire
d’imposizione diretta in ragione dei loro beni o della loro industria» (1848-1998 dallo Statuto
albertino alla Costituzione repubblicana 1998, 64).
6
Per il testo dell’editto si veda Le grandi leggi elettorali italiane 1848-1993, 1994, 15-43.
7
Cfr. l’art. 92: «Alla prima votazione niuno s’intende eletto, se non riunisce in un favore più
del terzo delle voci del total numero dei Membri componenti il Collegio, e più della metà dei
suffragi dati a votanti presenti all’adunanza» (Le grandi leggi elettorali italiane 1848-1993,
1994, 37).
8
Così l’art. 93: «Dopo la prima votazione, dove niuna elezione sia seguita, l’Ufficio in persona del Presidente proclama i nomi dei due Candidati che ottennero il maggior numero de’ suffragi, e si procede ad una seconda votazione nel modo avanti espresso. In questa votazione i suffragi non potranno cadere se non sopra l’uno o l’altro dei due or detti Candidati. La nomina seguirà in capo a quello dei due Candidati che avrà in suo favore il maggior numero dei voti validamente espressi» (ibidem).
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plurality system inglese in base al quale era la maggioranza relativa dei votanti a determinare, direttamente e senza il ricorso a ulteriori consultazioni
(ed era stato quest’ultimo aspetto che aveva suscitato le principali riserve),
l’esito della competizione elettorale. Il ballottaggio consentiva, invece, di
correggere, se non addirittura di capovolgere, grazie ad accordi volti a recuperare i voti confluiti su candidati terzi, il risultato della prima consultazione.
In questa logica, il collegio uninominale a doppio turno diveniva un elemento
di notevole rilevanza nell’ancora incerta configurazione del regime frutto
dell’applicazione più o meno fedele del testo statutario9.
Potevano esercitare il diritto di voto, ai sensi dell’art. 1 dell’editto Balbo, i
cittadini maschi, di età non inferiore ai 25 anni, che godevano, «per nascita, o
per origine», dei diritti civili e politici, che sapevano leggere e scrivere e che
pagavano un censo annuo non minore di 40 lire per il Piemonte e di 20 lire
per le altre province del Regno, cioè Savoia, Nizza, Oneglia, S. Remo, Genova, Chiavari, Levante, Novi, Savona, Albenga e Bobbio.
Oltre alla categoria di elettori per censo, l’art. 3 prevedeva quella per capacità: fra quanti potevano esercitare il diritto di voto «indipendentemente da
ogni censo» rientravano, ad esempio, i membri delle accademie, i professori
universitari, i docenti delle scuole o gli ufficiali «giubilati» dell’esercito e
della marina con il grado di capitano10.
A questi si aggiungevano, poi, secondo quanto stabilito dall’art. 4, anche
gli elettori per censo e capacità, cioè, i laureati, i notai, i causidici, gli ufficiali «giubilati» dell’esercito e della marina o gli impiegati a riposo con una
pensione compresa tra le 600 e le 1200 lire che versavano almeno la metà
dell’imposta minima prevista (20 lire per il Piemonte e 10 per le province)11.
I soggetti in possesso dei requisiti richiesti erano pochi e, di conseguenza,
l’elettorato risultava molto ristretto, essendo pari all’1,57% circa della popolazione del Regno. La scelta del legislatore di ammettere al voto solo un esi9
Si vedano, a questo particolare proposito, le riflessioni svolte da Maranini, 1995, 145-148.
«Sono ammessi all’elettorato, indipendentemente da ogni censo: 1. I membri effettivi, residenti e non residenti delle R. Accademie di scienze, lettere e belle arti, la cui nomina sia approvata dal Re. 2. I Professori tanto insegnanti, che emeriti, ed i Dottori di Collegio delle diverse facoltà componenti le Università degli studi. 3. I Professori insegnanti od emeriti nelle Regie Accademie di belle arti di Torino e Genova. 4. I Professori insegnanti od emeriti delle scuole Regie
fuori delle Università. 5. I Professori insegnanti od emeriti delle scuole provinciali di metodo. 6.
I membri inamovibili dei Magistrati e Tribunali. 7. I membri delle Camere di Agricoltura e di
commercio, delle R. Accademie di agricoltura e di medicina, e della Direzione dell’Associazione
agraria, ed i Direttori dei Comizii agrarii. 8. Gli Uffiziali giubilati di ogni milizia sì di terra che
di mare, il cui grado non sia inferiore a quello di Capitano. 9. Gl’Impiegati civili in riposo godenti a tal titolo di annua pensione non minore di lire mila dugento» (Le grandi leggi elettorali
italiane 1848-1993, 1994, 17).
11
«Sono altresì ammessi all’elettorato alla condizione che paghino la metà dell’annuo censo
fissato all’articolo primo del presente Editto … 1. Tutti coloro che hanno conseguito il supremo
grado accademico di laurea, od altro equivalente in alcuna delle facoltà componenti le Università
del Regno. 2. I Notai esercenti ed i Causidici collegiati presso i Magistrati e Tribunali. 3. Gli Ufficiali giubilati delle Regie Truppe di terra e di mare. 4. Gl’Impiegati civili in riposo godenti a
questo titolo di una pensione dalle L. 600 alle 1.200» (ibidem).
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guo numero di cittadini ben si inseriva nel contesto del liberalismo moderato
dal momento che era convinzione comune che i diritti di partecipazione politica non andassero riconosciuti a tutti, al pari dei diritti civili, ma solo a coloro che potevano esercitarli in modo responsabile perché in possesso di requisiti culturali e di indipendenza personale ed economica. Il principio teorico
che aveva supportato questa scelta era che solo il freeman, cioè l’uomo libero
e padrone di sé, poteva assicurare il miglior servizio politico. Un criterio ben
sintetizzato nelle parole di Cesare Balbo: «come il lavorare la terra è del contadino; e i legni del legnaiolo; e il ferro del magnano; ed ogni mestiere d’ogni
operaio; così di chi ha sostanze da vivere senza mestiere nessuno è di servire
alla patria ed al principe nei pubblici uffici»12.
L’elettorato passivo, invece, non sembrava essere sottoposto a particolari
limiti. L’art. 97 dell’editto Balbo stabiliva, infatti, che chiunque poteva essere
eletto deputato purché in possesso dei requisiti previsti dall’art. 40 dello Statuto, cioè aver compiuto 30 anni, essere suddito del re e godere dei diritti civili e politici. Il successivo art. 98 forniva, però, l’elenco delle categorie di
soggetti cui era precluso l’ufficio di deputato: fra questi, ad esempio, i funzionari stipendiati e amovibili dell’ordine giudiziario, i membri del corpo diplomatico in missione, gli intendenti, di divisione e di provincia, o i consiglieri d’intendenza13.
Paradossalmente, il testo normativo non faceva alcun riferimento al fatto
che gli aspiranti deputati sapessero leggere e scrivere.
Di fatto, però, anche l’elettorato passivo presupponeva requisiti di censo.
L’art. 50 dello Statuto sanciva, infatti, che «Le funzioni di Senatore e di
Deputato non danno luogo ad alcuna retribuzione od indennità»14. La gratuità
della carica implicava che l’eletto disponesse di una solida base economica
cui attingere per trasferirsi, per tutta la durata della legislatura, nella capitale
per poter partecipare ai lavori parlamentari. Questo avrebbe influito sensibilmente sulla composizione della Camera dei Deputati. In occasione dell’inaugurazione della I legislatura, ad esempio, l’8 maggio 1848, fra i 204 Deputati
eletti figuravano, fra gli altri, 90 avvocati, 25 fra magistrati e docenti universitari di materie giuridiche, 7 medici, 9 ingegneri, 2 notai, circa 30 nobili impegnati nell’amministrazione delle loro terre e pochi impiegati pubblici15.
12
La citazione è tratta da Pombeni, 1995, 76.
Art. 98: «Non possono essere eletti Deputati: 1. I funzionari stipendiati ed amovibili
dell’ordine giudiziario. 2. I Membri del Corpo Diplomatico in missione. 3. Gl’Intendenti Generali di Divisione, gl’Intendenti di provincia, ed i Consiglieri d’Intendenza. 4. Gl’Impiegati stipendiati dell’ordine amministrativo che esercitano un impiego di grado inferiore a quello
d’Intendente Generale, ad eccezione degli Uffiziali del Genio civile e delle miniere non inferiori
al grado d’Ingegnere capo, e degli Uffiziali sanitari che siano membri del Protomedicato, e dei
Consigli di sanità. 5. Gli Ecclesiastici aventi cura d’anime, o giurisdizione con obbligo di residenza. 6. Gli Uffiziali di qualunque grado non potranno essere eletti nei distretti elettorali sui
quali esercitano un comando» (Le grandi leggi elettorali italiane 1848-1993, 1994, 38).
14
1848-1998 dallo Statuto albertino alla Costituzione repubblicana 1998, 65.
15
I dati sono riportati da Maranini, 1995, 145.
13
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Per quanto concerne gli adempimenti legati al voto, l’art. 82 dell’editto
prevedeva che ciascun elettore scrivesse di suo pugno, o facesse scrivere ad
un altro votante da lui indicato, il nome del candidato prescelto su un bollettino, una sorta di scheda ante litteram, che poi veniva inserito in un’apposita
urna.
Dal momento che non erano ancora comparse le cabine, gli elettori esprimevano la propria preferenza sedendo ad un tavolo posto accanto a quello
adibito ad ufficio preposto alle operazioni di voto16.
A seguito dell’unificazione politica e della nascita del Regno d’Italia, la
normativa contenuta nell’editto Balbo veniva estesa, con legge elettorale politica del 31 ottobre 1860 e con Regio decreto del 17 dicembre dello stesso
anno, a tutto il territorio del nuovo Stato, che veniva suddiviso in 443 collegi17. Nel 1880 i collegi passavano a 508.
3. Da Depretis a Di Rudinì: i cambiamenti degli anni Ottanta e Novanta
dell’Ottocento
A una sostanziale modifica della normativa introdotta nel 1848 si giungeva nel 1882, durante il governo guidato da Agostino Depretis, leader della
Sinistra storica.
Tra il gennaio e il maggio di quell’anno, infatti, venivano varati due
provvedimenti che confluivano, poi, nel T.U. del 24 settembre 1882, n. 999.
Il primo dei due provvedimenti, la legge 22 gennaio 1882, n. 593, estendeva l’elettorato attivo ai maschi ventunenni alfabetizzati che pagavano 19,80
lire di imposta diretta18. Ai sensi dell’art. 2 erano esonerati dal fornire la prova di alfabetizzazione (cioè «aver sostenuto con buon esito l’esperimento
prescritto dalla legge e dal regolamento sulle materie comprese nel corso elementare obbligatorio») 11 categorie di professionisti fra cui, ad esempio,
maestri e professori, notai, farmacisti, ufficiali o sottoufficiali in servizio o in
congedo nonché i decorati al valor civile e militare e i reduci ai quali era stato
riconosciuto il diritto di fregiarsi della medaglia commemorativa delle guerre
16
Art. 82: «Ogni elettore dopo di aver risposto alla chiamata riceve dal Presidente un bollettino spiegato, sopra il quale scrive, o fa scrivere da un altro elettore di sua scelta il suo voto: piegato poscia il bollettino, lo consegna a mani del Presidente, che lo pone nell’urna a tal uso destinata. La tavola a cui siede l’elettore scrivendo il voto, è separata da quella dell’Ufficio:
quest’ultima, cui siedono il Presidente, gli Scrutatori ed il Segretario è disposta in modo che gli
elettori possano girarvi attorno durante lo squittinio dei suffragi» (Le grandi leggi elettorali italiane 1848-1993, 1994, 35).
17
Sul punto si veda Pombeni, 1995, 81.
18
È quanto emerge dalla lettura congiunta degli artt. 1 («Per essere elettore è richiesto il
concorso delle seguenti condizioni: 1. Di godere, per nascita o per origine, dei diritti civili e politici del Regno … 2. Di aver compiuto il ventunesimo anno d’età; 3. Di saper leggere e scrivere;
4. Di avere uno degli altri requisiti determinati negli articoli seguenti») e 3 («Sono parimente elettori, quando abbiano le condizioni indicate ai numeri 1°, 2° 3° dell’articolo 1: 1. Coloro che
pagano annualmente per imposte diretta una somma non minore di lire 19.80»): Le grandi leggi
elettorali italiane 1848-1993, 1994, 50 e 52.
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d’indipendenza e per l’unità d’Italia. A quanti pagavano l’imposta di 19,80 lire venivano, poi, equiparate, secondo quanto sancito dall’art. 3, anche altre
categorie di contribuenti, fra cui gli affittuari di immobili o di fondi rustici.
La legge 7 maggio 1882, n. 775, invece, sostituiva il sistema uninominale
con il sistema plurinominale a scrutinio di lista. Una scelta, questa, che portava ad un ampliamento territoriale delle circoscrizioni che, però, si riducevano di numero, passando da 508 a 135. All’interno delle singole circoscrizioni potevano essere eletti 2, 3, 4 o 5 deputati. Per aggiudicarsi il seggio i
candidati dovevano raggiungere il quorum previsto, pari a 1/8 degli elettori19.
Se nessuno dei concorrenti superava il quorum richiesto, si procedeva al ballottaggio tra quei candidati che, in numero doppio rispetto ai deputati da eleggere, avevano ottenuto il maggior numero di voti20. Al fine di favorire la
rappresentanza delle minoranze, nei 36 collegi maggiori (dove venivano eletti
5 deputati) veniva introdotto il cosiddetto voto limitato col sistema dei 4/5:
ciascun elettore, cioè, esprimeva 4 preferenze, in modo tale da riservare, previo raggiungimento del quorum, 1 seggio alla minoranza. Nei restanti 99 collegi, l’elettore esprimeva tante preferenze quanti erano i seggi da attribuire21.
L’allargamento del suffragio introdotto con la legge del 1882 era stato auspicato non solo dagli uomini della Sinistra storica, che ne avevano fatto uno
dei punti fondamentali del programma di governo, ma anche da numerosi altri esponenti politici, consapevoli della necessità di procedere ad un ampliamento della partecipazione popolare alla vita pubblica in modo graduale, al
fine di evitare che il voto delle moltitudini incolte e prive di coscienza politica potesse essere strumentalizzato dalle forze reazionarie e conservatrici. Non
è un caso, infatti, che questo provvedimento venisse varato qualche anno dopo l’entrata in vigore, nel 1877, della legge Coppino che rendeva l’istruzione
elementare, anche se con una serie significativa di limiti, obbligatoria e gratuita.
L’abbassamento del limite di età rispondeva, inoltre, ad un preciso disegno politico, quello cioè di conquistare le simpatie e i voti dei più giovani, ritenuti più vicini alle idee “progressiste” di cui la classe liberale si faceva
19
Art. 74: «Il presidente dell’ufficio della prima sezione, proclama in conformità delle deliberazioni dell’adunanza dei presidenti, eletti nel limite del numero dei deputati assegnati al collegio, coloro che hanno ottenuto il maggior numero di voti, purché questo numero oltrepassi
l’ottavo del numero degli elettori iscritti» (ibidem, 73).
20
È quanto stabilito dall’art. 75: «Se tutti i deputati assegnati al collegio non sono stati eletti
nella prima votazione, il presidente dell’ufficio della prima sezione proclama in conformità alle
deliberazioni dell’adunanza dei presidenti, il nome dei candidati che ottennero maggiori voti in
numero doppio dei deputati che rimangono da eleggere; e nel giorno a ciò stabilito dal regio decreto di convocazione, si procede ad una votazione di ballottaggio tra i candidati stessi» (ibidem).
21
Art. 65: «L’elettore chiamato, recasi ad una delle tavole a ciò destinate e sulla scheda consegnatagli scrive: a) quattro nomi nei collegi che devono eleggere quattro o cinque deputati; b)
tre nomi nei collegi che devono eleggere tre deputati; c) due nomi nei collegi che devono eleggere due deputati» (ibidem, 72).
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promotrice e, di conseguenza, meno disposti, rispetto agli anziani, a seguire
le suggestioni della propaganda eversiva nostalgica del passato.
Con l’introduzione dello scrutinio di lista, gli esponenti della Sinistra storica ritenevano di poter demolire il potere di quei notabili che costituivano il
fulcro dell’oligarchia moderata e che risultavano favoriti proprio dal collegio
uninominale che tendeva a facilitare l’elezione di chi, nello stesso collegio, si
trovava ad occupare una posizione di naturale rappresentatività.
Lo scrutinio di lista, in realtà, si sarebbe rivelato inidoneo a fronteggiare
le condizioni della vita pubblica del tempo. Mancando, infatti, quegli apparati
organizzativi di base permanente (i partiti, non bisogna dimenticare, avrebbero fatto la loro comparsa solo qualche anno più tardi), non era possibile predeterminare liste omogenee di candidati che potessero orientare il voto
dell’elettorato, favorendo, invece, quelle combinazioni, fondate su accordi e
alleanze di persone appartenenti ad aree politiche diverse, che erano destinate
a creare l’ambiente trasformistico dominante la seconda fase del governo Depretis22.
L’abbandono del sistema introdotto nel 1882 veniva decretato con legge 5
maggio 1891, n. 210. Perfettamente in linea con la politica conservatrice
messa in atto da Antonio Starrabba, marchese Di Rudinì, l’art. 2 del provvedimento sanciva, infatti, il ritorno all’antico, prevedendo nuovamente la suddivisione del territorio del Regno in 508 collegi uninominali23 che venivano
ridisegnati, secondo il disposto dell’art. 4, «in proporzione della popolazione
legale», accertata dal censimento del 1881, e in modo che «nessun collegio
comprenda comuni appartenenti a provincie diverse». Un’operazione che veniva realizzata attraverso un’accorta manovra di manipolazione volta a bilanciare zone tradizionalmente antigovernative e territori che, per la forte egemonia esercitata da alcuni notabili, risultavano in linea con gli orientamenti
ministeriali.
Con le leggi 28 giugno 1892, n. 315, e 11 luglio 1894, n. 286 (entrambe
confluite nel T.U. 28 marzo 1895, n. 83) venivano introdotti anche alcuni
correttivi attinenti il numero minimo di voti per l’elezione al primo turno e
una serie di disposizioni relative alla composizione delle sezioni elettorali24.
4. Il nuovo secolo: suffragio universale e sistema proporzionale
Nessun cambiamento di rilievo si registrava fino al 1912 quando, durante
il 4° governo guidato da Giovanni Giolitti, dopo il fallimento del progetto di
riforma del Senato del Regno avanzata da Giorgio Arcoleo (che proponeva di
fissare a 350 il numero dei componenti, di cui 1/4 di nomina regia e 3/4 eletti
da ristretti collegi elettorali fra ex deputati, professori universitari e proprieta22
È quanto sostiene, ad esempio, Ghisalberti, 2002, 183-187.
Art. 2: «Il numero dei collegi elettorali politici per tutto il Regno è di 508. Ciascun collegio elegge un deputato» (Le grandi leggi elettorali italiane 1848-1993, 1994, 77).
24
Cfr. quanto scrive L. Tentoni in Le grandi leggi elettorali italiane 1848-1993, 1994, 75-76.
23
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ri di grande censo)25 e l’abbandono dell’idea di una modifica del sistema elettorale uninominale reintrodotto da Di Rudinì, veniva concesso il cosiddetto
suffragio universale.
L’art. 1 della legge 30 giugno 1912, n. 665, infatti, estendeva il diritto di
voto a tutti i cittadini maschi ventunenni capaci di leggere e scrivere nonché
agli analfabeti che avessero compiuto il servizio militare o superato il 30° anno di età26. Requisiti, questi ultimi, ritenuti sufficienti al raggiungimento della
maturità necessaria per esprimere un voto libero e consapevole. Grazie a questo consistente allargamento e nonostante restassero ancora escluse alcune
categorie di soggetti (bisogna ricordare che Giolitti aveva affidato ad una
commissione presieduta dal senatore Gaspare Finali il compito di studiare
l’opportunità di concedere il voto amministrativo alle donne27), l’elettorato
aumentava sensibilmente, passando da 3 milioni a più di 8 milioni.
Il provvedimento in questione risultava, inoltre, particolarmente importante in quanto istituiva l’indennità parlamentare, grande aspettativa della sinistra, che consentiva anche ai rappresentanti delle classi meno abbienti di
potersi mantenere nella capitale per espletare il mandato parlamentare.
La legge dettava delle regole precise anche in merito alla composizione
dei seggi che, ai sensi dell’art. 52, non era più lasciata all’auto-organizzazione degli elettori ma veniva predisposta dalla magistratura28, oltre a stabilire
che la scheda elettorale, la cui stampa era a carico del candidato, dovesse essere inserita, secondo quanto disposto dall’art. 51-bis, in una busta «di tipo
unico, preparata su carta, bianca all’esterno e colorata all’interno, dalla Officina governativa carte–valori».
Il suffragio veniva ulteriormente allargato con la legge Orlando del 16 dicembre 1918, n. 1985, con cui si ammettevano al voto tutti i cittadini maschi
25
Può essere utile ricordare che alcune proposte di riforma del Senato del Regno erano state
avanzate già durante tutto l’Ottocento.
26
Così l’art. 1: «Sono elettori quando abbiano le condizioni richieste al n. 1 dell’art. 1 della
legge elettorale politica (Testo unico 28 marzo 1895, n. 83): 1° coloro, che abbiano compiuto il
trentesimo anno di età; 2° coloro, che abbiano prestato servizio effettivo nel R. esercito, nel corpo R. equipaggi o in altri corpi, il cui servizio sia valido agli effetti dell’obbligo militare, per un
tempo non inferiore a quello pel quale sono trattenuti alle armi rispettivamente i militari del R.
esercito, vincolati alla ferma biennale, e i militari del corpo R. equipaggi, vincolati alla ferma
normale di leva […] Hanno diritto di essere inscritti anche coloro, che compiono il trentesimo
anno di età non più tardi del 31 maggio dell’anno in cui ha luogo la revisione della lista» (Le
grandi leggi elettorali italiane 1848-1993, 1994, 110).
27
Per un quadro d’insieme delle vicende che portavano all’ammissione delle donne all’elettorato attivo e passivo, si rinvia al contributo di M.A. COCCHIARA, Donne e cittadinanza politica: una prospettiva storica. Breve storia del diritto di voto alle donne in Italia, in questo stesso
volume (supra, pp. 83-127), e alla bibliografia ivi citata.
28
«In ciascuna sezione è costituito un ufficio elettorale composto di un presidente e di un vice presidente, designati dal primo presidente della Corte d’appello nella cui giurisdizione trovasi
il Comune capoluogo del collegio, fra i magistrati giudicanti od inquirenti compresi nel distretto
della Corte stessa, ma non elettori nel collegio, di quattro scrutatori e di un segretario»: così l’art.
52 (Le grandi leggi elettorali italiane 1848-1993, 1994, 118). Sulla composizione dei seggi si
vedano anche gli artt. 52-bis, 52-ter e 52-quater (ibidem, 118-120).
294
Vittoria Calabrò
ventunenni, senza richiedere altri requisiti oltre il raggiungimento della maggiore età29.
A un sostanziale mutamento del sistema elettorale si giungeva, invece,
dopo la fine della I guerra mondiale, durante il ministero guidato da Francesco Saverio Nitti
Con la legge 15 agosto 1919, n. 1401, si sanciva, infatti, l’abbandono del
collegio uninominale a doppio turno con ballottaggio e si introduceva il sistema proporzionale con scrutinio di lista. Un cambiamento che avrebbe avuto importanti ripercussioni sul piano della rappresentanza politicoparlamentare, dal momento che le elezioni del 16 novembre 1919 avrebbero
sancito la vittoria di socialisti e cattolici, registrando, invece, una pesante
flessione per le forze governative (liberali, democratici, riformisti), per la
prima volta in minoranza con soli 252 seggi su 50830.
Sulla base di quanto disposto dalla nuova normativa, il territorio dello
Stato veniva suddiviso in 54 circoscrizioni, costituite, ai sensi dell’art. 1, da
una o più province contigue, al cui interno, in ragione del numero di abitanti
che vi insistevano, dovevano essere eletti «almeno dieci deputati» 31. Il numero di seggi attribuiti ai singoli raggruppamenti politici era proporzionale ai
voti da questi ottenuti in applicazione del cosiddetto metodo d’Hondt o del
quoziente più alto.
A tutela dell’elemento personalistico, gli artt. 2 e 15 vietavano ai candidati di presentarsi in più di 2 circoscrizioni, pena la nullità dell’elezione32. Ai
sensi del terzo comma dell’art. 7, gli elettori potevano, però, avvalersi del cosiddetto voto disgiunto, esercitare, cioè, il diritto di preferenza per uno dei
candidati della lista prescelta, o anche votare un candidato appartenente ad un
altro partito33.
29
Cfr. quanto sancito dall’art. 2: «Sono elettori tutti i cittadini che abbiano compiuto il 21°
anno di età o lo compiano non più tardi del 31 maggio dell’anno in cui ha luogo la revisione delle liste» (ibidem, 135).
30
I dati sono riportati da Ghisalberti, 2002, 335.
31
Così l’art. 1: «L’elezione dei deputati è fatta a scrutinio di lista con rappresentanza proporzionale. Ciascun collegio è costituito da una provincia, o da più provincie contigue, in guisa
da eleggere almeno dieci deputati. Però per le prime elezioni generali che avverranno dopo
l’entrata in vigore della presente legge, potranno essere costituite in collegi, col procedimento
indicato nell’art. 17, provincie che abbiano non meno di cinque deputati» (Le grandi leggi elettorali italiane 1848-1993, 1994, 137).
32
Si veda, a questo proposito quanto disposto dal terzo e quarto comma dell’art. 2 («Nessun
candidato può essere inscritto in più di una lista dello stesso collegio … Nessuno può accettare la
candidatura in più di due collegi») e dal primo comma dell’art. 15 («Le elezioni di chi ha accettato la candidatura in più di due collegi sono nulle»): Le grandi leggi elettorali italiane 18481993, 1994, 138 e 143.
33
«L’elettore può manifestare la preferenza per candidati della lista da lui prescelta, anche se
completa, oppure può aggiungere alla scheda, se la lista da lui prescelta è incompleta, candidati
appartenenti ad altre liste, ma sempre in guisa da non eccedere il numero dei deputati da eleggere»: ibidem, 140.
Breve storia dei sistemi elettorali in Italia
295
La legge prevedeva, inoltre, che il voto fosse obbligatoriamente espresso
su schede a stampa raffiguranti i contrassegni delle liste concorrenti34.
5. Le modifiche al sistema introdotte durante il fascismo
Il sistema proporzionale introdotto da Nitti veniva utilizzato solo in occasione delle consultazioni del novembre 1919 e del 15 maggio 1921, dal momento che l’avvento del fascismo portava ad un ulteriore cambiamento.
Benito Mussolini, infatti, che il 31 ottobre 1922 aveva ricevuto da re Vittorio Emanuele III l’incarico di formare il nuovo governo, decideva di modificare il meccanismo elettorale per incrementare la presenza dei deputati fascisti in Parlamento (solo 35 dopo la consultazione del 1921).
La legge 18 novembre 1923, n. 2444, conosciuta come “legge Acerbo”,
veniva approvata in tempi brevi.
Oltre a sancire l’aumento del numero dei deputati, che ai sensi dell’art. 40
passavano da 508 a 535, essa disponeva l’introduzione di un sistema su base
maggioritaria. Prevedendo la creazione di un collegio unico nazionale comprendente l’intero territorio del Regno35, riservava, infatti, alla lista che avesse conseguito la maggioranza relativa dei voti (era sufficiente il 25% di quelli
validamente espressi) i 2/3 dei seggi della Camera (pari a 356 su 535), suddividendo i restanti 179 seggi, pari a 1/3, tra i partiti della minoranza in base alla percentuale dei voti da questi ottenuti.
L’art. 90, inoltre, abbassava il limite di età per l’elettorato passivo da 30 a
25 anni36.
Le elezioni del 6 aprile 1924, svoltesi utilizzando questo nuovo sistema,
consacravano la vittoria del PNF che non si aggiudicava solo i 356 seggi previsti dal premio di maggioranza, avendo abbondantemente superato il quorum richiesto, ma, grazie ad un’altra lista, presentata nelle circoscrizioni di
Toscana, Lazio e Umbria, Abruzzo e Molise e Puglia con lo scopo di partecipare alla ripartizione proporzionale dei seggi riservata alle minoranze, riusciva a conquistarne altri 19.
Avendo così raggiunto l’obiettivo prefissatosi, l’anno successivo Mussolini decideva, con legge 15 febbraio 1925, n. 122, di abolire la legge Acerbo e
di ripristinare il sistema uninominale a turno unico, senza ballottaggio. Era
34
«La scheda deve … presentare tracciato sulle due faccie un cerchio di centimetri sei di diametro, diviso in due segmenti. Nel primo segmento di centimetri due deve essere stampato sulle
due faccie con inchiostro nero e con uniforme carattere tipografico di uso comune il contrassegno, anche figurato, Nell’altro segmento vi saranno sulle due faccie tante linee orizzontali quali
sono di nomi che possono essere preferiti o aggiunti per ciascun collegio a norma del quinto
comma dell’art. 7»: così l’art. 6. Ibidem, 139-140.
35
Così l’art. 40: «Il numero dei deputati per tutto il Regno è di 535. Tutto il Regno forma un
Collegio unico nazionale» (ibidem, 157).
36
«Chiunque può essere eletto deputato purché in esso concorrano i requisiti voluti dall’art.
40 dello Statuto, salvo per l’età che è ridotta ad anni 25, compiuti entro il giorno delle elezioni, e
salve le disposizioni della legge 13 giugno 1912, n. 555». Così l’art. 90 (ibidem, 184).
296
Vittoria Calabrò
sua convinzione, infatti, che il ritorno a quel sistema avrebbe contribuito a
stroncare definitivamente l’opposizione socialista, comunista e popolare,
rendendo ancora più forte il suo partito.
Il sistema elettorale veniva ancor più drasticamente innovato con la legge
17 maggio 1928, n. 1019, che introduceva il cosiddetto sistema plebiscitario.
All’art. 1 il nuovo provvedimento stabiliva che «il numero dei deputati per
tutto il Regno è di quattrocento. Tutto il Regno forma un collegio unico nazionale».
All’elettorato veniva presentata una sola lista comprendente 400 nominativi, selezionati dal Gran Consiglio del Fascismo tra gli oltre 1000 proposti,
secondo quanto sancito dagli artt. 3 e 4, dalle «Confederazioni nazionali di
sindacati legalmente riconosciute», da «enti morali legalmente riconosciuti»
o da «associazioni […] che abbiano importanza nazionale, e perseguano scopi di cultura, di educazione, di assistenza o di propaganda». Gli elettori dovevano limitarsi a rispondere al quesito contenuto sulle schede che, ai sensi
dell’art. 6, dovevano riportare «il segno del Fascio Littorio e la formula: “approvate voi la lista dei deputati designati dal Gran Consiglio del Fascismo?”». Il voto si esprimeva in calce con sì o con un no. Se il listone otteneva la maggioranza dei voti, tutti i 400 candidati, in blocco, venivano eletti
deputati. In caso, contrario, ipotesi del tutto remota, peraltro, si procedeva ad
una votazione con liste concorrenti.
Il provvedimento stabiliva, inoltre, che potessero esercitare il diritto di
voto anche i cittadini minori di 21 anni, ma maggiori di 18, sposati e con prole, purché in possesso di uno dei requisiti previsti dall’art. 10: pagare un contributo sindacale o essere amministratori o soci di una società o altro ente che
pagava un contributo sindacale; pagare almeno 100 lire annue di imposte dirette; percepire uno stipendio o una pensione; essere membri del clero cattolico o ministri di altro culto ammesso dallo stato37.
Il T.U. del 2 settembre 1928, n. 1993, disponeva, poi, che all’elettore venissero consegnate due schede una per il sì (bianca all’esterno e tricolore
all’interno) e una per il no (bianca su entrambi i lati). Entrato in cabina, egli
doveva mettere in un contenitore la scheda che non intendeva utilizzare e,
37
«Hanno diritto di voto nelle votazioni previste dagli articoli 6 e 9 i cittadini italiani maggiori dei ventuno anni, e quelli minori dei ventuno, ma maggiori dei diciotto, ammogliati con
prole, gli uni e gli altri quando siano in possesso di uno dei seguenti requisiti: a) paghino un contributo sindacale, a termini della legge 3 aprile 1926, n. 563, ovvero siano amministratori o soci
di una società o di altro ente, che paghi un contributo sindacale a termini della legge stessa; nelle
società in accomandita per azioni ed anonime, solo le azioni nominative, intestate da almeno un
anno, conferiscono il diritto elettorale; b) paghino almeno cento lire annue di imposte dirette allo
Stato, alle Provincie ed ai Comuni, ovvero siano da almeno un anno proprietari o usufruttuari di
titoli nominativi del debito pubblico dello Stato o di titoli nominativi di prestiti provinciali o comunali, per la rendita di 500 lire; c) percepiscano uno stipendio o salario o pensione o altro assegno di carattere continuativo a carico del bilancio dello Stato, delle Provincie, dei Comuni o di
altro ente sottoposto per legge alla tutela o alla vigilanza dello Stato, delle Provincie o dei Comuni; d) siano membri del Clero cattolico, secolare o regolare, ovvero ministri di un altro culto
ammesso nello Stato» (ibidem, 195-196).
Breve storia dei sistemi elettorali in Italia
297
dopo aver ripiegato l’altra, consegnarla al presidente perché fosse inserita
nell’apposita urna38.
Il sistema veniva definitivamente snaturato nel 1939 quando, con la legge
129 del 19 gennaio, la Camera dei Deputati veniva soppressa e sostituita dalla Camera dei fasci e delle corporazioni39. Organo di semplice consulenza
normativa, era del tutto privo di rappresentatività, dal momento che i suoi
600 membri, chiamati consiglieri nazionali, venivano scelti ope legis tra i più
alti esponenti del PNF e delle corporazioni. La loro carica durava, infatti, secondo quanto stabilito dall’art. 8, fino a quando non decadevano «dalla funzione esercitata nei Consigli che concorrono a formare la Camera dei Fasci e
delle Corporazioni».
6. 1945–1993: le nuove regole per l’elezione di deputati e senatori
Negli anni compresi tra la caduta del regime, avvenuta la notte fra il 24 e
il 25 luglio 1943, e le consultazioni del 2 giugno 1946 durante le quali il popolo italiano veniva chiamato alle urne per decidere sulla forma istituzionale
e per eleggere i deputati dell’Assemblea Costituente, si lavorava per dotare il
paese, nonostante le difficoltà dovute al perdurare della guerra, di nuove regole democratiche.
Durante il II governo presieduto da Ivanoe Bonomi, con decreto legislativo luogotenenziale n. 23 del 1° febbraio 1945, il suffragio diveniva veramente universale, dal momento che le donne ventunenni venivano, finalmente,
ammesse al voto40.
Qualche mese più tardi, la Consulta Nazionale, istituita il 5 aprile 1945,
esprimeva il proprio parere su un progetto di legge elettorale, da utilizzarsi
per le consultazioni del 2 giugno 1946, approntato da una commissione interna al Ministero per la Costituente.
Un progetto, quest’ultimo, che confluiva nel testo del decreto legislativo
luogotenenziale del 10 marzo 1946, n. 74, con cui si definivano le modalità di
elezione per i deputati dell’Assemblea Costituente.
38
Art. 94: «Riconosciuta l’identità personale dell’elettore, il presidente, astenendosi da ogni
esemplificazione, avverte l’elettore che deve scegliere la scheda preferita tra quelle a lui fatte
pervenire a cura delle associazioni ed organizzazioni di cui all’art. 88. Gli elettori, che si presentano all’ufficio elettorale senza essersi provvisti preventivamente di schede, non possono prendere parte alla votazione. L’elettore, recatosi ad una delle cabine destinate alla votazione, sceglie la
scheda preferita, la ripiega secondo le indicazioni in essa contenute, la chiude, inumidendo la
parte ingommata, e poscia, abbandonato il tavolo, la consegna al presidente. Questi constata la
chiusura delle scheda e, ove non sia chiusa, invita l’elettore a rientrare in cabina perché la chiuda; quindi vi applica la firma ed il bollo della sezione e la pone nella prima urna» (ibidem, 204205).
39
«La Camera dei Deputati è soppressa con la fine della XXIX Legislatura. È istituita, in sua
vece, la Camera dei Fasci e delle Corporazioni»: così l’art. 1 (ibidem, 210).
40
Sul punto cfr., ancora una volta, COCCHIARA, Donne e cittadinanza politica, cit., pp. 115117.
298
Vittoria Calabrò
Il sistema prescelto era quello proporzionale a liste concorrenti che mutuava l’impianto dalla legge varata da Nitti nel 1919, ampliando tuttavia le
circoscrizioni e passando dal metodo d’Hondt a quello Hagenbach-Bischoff o
del quoziente rettificato (+1). Il sistema veniva corretto con l’introduzione di
un collegio unico nazionale per l’utilizzo dei voti residui.
Il provvedimento dichiarava elettori tutti i cittadini di 21 anni, con le sole
eccezioni dei casi di incapacità e indegnità, stabilendo che l’elettorato passivo fosse formato da tutti i cittadini di 25 anni, con le eccezioni dovute
all’esercizio di funzioni pubbliche o a indegnità per attività fasciste41. L’esercizio del voto, secondo quanto stabilito dall’art. 1, «è un obbligo al quale nessun cittadino può sottrarsi senza venir meno ad un suo preciso dovere verso il
Paese in un momento decisivo della vita nazionale». L’art. 3 fissava in 573 il
numero dei deputati costituenti: i seggi assegnati, tuttavia, sarebbero stati solo 556, non potendo chiamare alle urne gli elettori di Bolzano, Trieste e della
Venezia Giulia, aree in cui la piena sovranità dello Stato italiano non era stata
ancora pienamente ripristinata.
All’Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946 toccava, poi, il compito
di votare una legge da utilizzarsi per l’elezione del primo parlamento repubblicano.
Con riferimento alla Camera dei Deputati, la legge n. 6 del 20 gennaio
1948, poi confluita nel T.U. 5 febbraio 1948, n. 26, ribadiva la scelta del sistema proporzionale a liste concorrenti utilizzato per la Costituente42. L’unica
differenza era rappresentata dal correttore che passava da +1 a +3.
La legge 6 febbraio 1948, n. 29, stabiliva, invece, che i Senatori dovevano
essere eletti su base regionale in collegi uninominali. Per conquistare il seggio, ciascun candidato doveva ottenere almeno il 65% dei voti calcolati sui
votanti, schede nulle e bianche comprese. Nel caso di mancato raggiungimento del quorum, i seggi venivano attribuiti col metodo d’Hondt.
Il numero di Deputati e Senatori veniva determinato in base alla popolazione43.
I limiti di età per l’elettorato passivo venivano fissati dagli art. 56 e 58
della Costituzione: 25 anni per la Camera e 40 per il Senato.
Le elezioni del 18 aprile 1948 sancivano la vittoria della Democrazia Cristiana che, ottenendo il 48,5% dei voti alla Camera, pari a 305 seggi su 574, e
il 48,1% dei voti al Senato, pari a 131 seggi, diventava il partito di maggioranza assoluta44.
41
Sul punto si veda il disposto degli artt. 4 e 7: Le grandi leggi elettorali italiane 18481993, 1994, 235 e 238.
42
«La Camera dei Deputati è eletta a suffragio universale con voto diretto, libero e segreto,
attribuito a liste di candidati concorrenti. La rappresentanza è proporzionale»: così l’art. 1 (ibidem, 284).
43
Cfr. gli artt. 1, 2 e 3: ibidem, 292-293.
44
Si vedano i dati riportati da Bonini, 2007, 163-164.
Breve storia dei sistemi elettorali in Italia
299
Nel 1952, sul finire della I legislatura, in un momento in cui, a seguito delle
elezioni amministrative, alla dura opposizione delle sinistre si univa una consistente avanzata della destra, Alcide De Gasperi, temendo che la DC non avrebbe
potuto bissare il successo del 1948, maturava la decisione di rafforzare la coalizione di centro, proponendo una modifica della legge elettorale vigente.
Così egli, infatti, spiegava le motivazioni che lo avevano portato a quella
scelta:
Devo farvi ora una confessione sulla vera ragione del perché abbiamo presentato questa legge di riforma elettorale. Lo abbiamo fatto perché […] abbiamo
visto il congiungimento delle due ali, delle due estreme. Noi abbiamo avuto
[…] la preoccupazione che due ali […] potessero unirsi nella negazione, nel
dire di no, nel rendere impossibile un governo, e nel rendergli difficile la vita;
che si creasse così anche in Italia una situazione che spesso si manifesta altrove: la paralisi del regime parlamentare45.
Per questo motivo il ministro degli Interni, Mario Scelba, approntava una
proposta di legge che introduceva un correttivo al principio proporzionalistico, prevedendo un premio di maggioranza per il partito (o coalizione di partiti che si fossero presentati apparentati, cioè sotto lo stesso contrassegno, in
almeno 5 circoscrizioni) che avesse ottenuto il 50% +1 dei voti. Il premio,
pari a 380 seggi, cioè al 66% dei Deputati alla Camera, doveva essere ripartito proporzionalmente tra i partiti apparentati.
Appariva subito chiaro a tutti che la previsione di un premio così alto avrebbe avuto almeno due conseguenze di rilievo: la DC, il partito più forte
della coalizione di centro, sarebbe passata da una posizione di maggioranza
relativa ad una posizione di maggioranza assoluta che le avrebbe consentito
di governare senza l’apporto degli alleati; il premio di maggioranza avrebbe
finito con l’annullare gli effetti delle riserve di maggioranze qualificate stabilite dalla Costituzione per l’attuazione degli istituti innovativi e garantisti.
Nell’ambito del dibattito parlamentare che avrebbe portato all’approvazione della legge, l’opposizione avrebbe mosso dure accuse, ben sintetizzate
dalla parole del leader del Partito Comunista Italiano, Palmiro Togliatti:
Questa legge è il primo atto di natura legislativa col quale si tende a sovvertire
il nostro ordinamento costituzionale […] L’unico precedente è quello della
legge Acerbo […] Tutti possono proporsi lo scopo di modificare la Costituzione dichiarandolo e seguendo le strade che la Costituzione stessa indica.
Nessuno può proporsi lo scopo di modificarla attraverso un tranello, un trucco
elettorale, una truffa. Questo è, nel diritto politico, un illecito46.
Sotto il profilo più squisitamente tecnico-giuridico, la legge si presentava
come una violazione del 2° comma dell’art. 48 della Costituzione («Il voto è
45
46
La citazione è tratta da Bonini, 1994, 165.
Ibidem, 157-158.
300
Vittoria Calabrò
personale ed eguale, libero e segreto»), dal momento che il voto del cittadino
che avesse scelto uno dei partiti della coalizione di maggioranza avrebbe avuto un peso specifico maggiore di quello di chi decideva di dare il proprio sostegno alle liste di minoranza.
Nonostante il durissimo scontro, prima la Camera e poi il Senato approvavano la legge 31 marzo 1953, n. 148, che veniva utilizzata per le elezioni del 7
giugno 1953. In quell’occasione, però, i 4 partiti apparentati (DC, PSDI, PLI,
PRI) non riuscivano ad ottenere il 50% +1 dei voti che avrebbe consentito alla
legge di esplicare i suoi effetti, facendo scattare il premio di maggioranza47.
Quasi un anno dopo, le legge 31 luglio 1954, n. 615, abrogava la legge
Scelba, richiamando in vigore il T.U. 5 febbraio 1948.
Dopo le vicende del biennio 1952-53, il tema della riforma elettorale sarebbe rimasto, per circa 25 anni, materia di esercitazione e di confronto per
gli studiosi.
Gli unici interventi di rilievo erano, infatti, quelli introdotti dalla legge
costituzionale 9 febbraio 1963, n. 2, e dalla legge 8 marzo 1975, n. 39.
La prima, modificando gli artt. 56, 57 e 60 della Costituzione, fissava in
630 il numero dei Deputati, in 315 quello dei Senatori e la durata della legislatura, per entrambe le Camere, in 5 anni. La legge del 1975, invece, abbassando la maggiore età da 21 a 18 anni, realizzava l’ultimo allargamento del
suffragio della storia italiana. Il limite per esercitare il diritto di voto per il
Senato rimaneva, invece, fissato, secondo quanto stabilito dal 1° comma
dell’art. 58 della Costituzione, a 25 anni.
A mutare profondamente la normativa relativa all’elezione di Deputati e
Senatori intervenivano, tra il 1991 e il 1993, 2 referendum abrogativi.
Nonostante gli inviti a disertare le urne, raggiunto il quorum del 62,5%
dei votanti, il 9 giugno 1991 veniva abrogata, con il 95,6% dei voti, la norma
sulla preferenza plurima per l’elezione dei Deputati. Crollava, così, un importante strumento nelle mani dei partiti che, con il meccanismo delle cosiddette
cordate, controllavano i risultati elettorali. Si introduceva, così, un elemento
di moralizzazione del sistema elettorale, ponendo fine al noto mercato delle
preferenze plurime.
Nel corso della XI legislatura, in occasione del referendum del 18 e 19
aprile 1993, gli italiani decidevano, poi, di abrogare la norma della legge elettorale del Senato relativa al quorum del 65%.
Alla luce dei risultati referendari, il Parlamento eletto il 5 aprile 199248,
nonostante le accuse di delegittimazione rivolte soprattutto dalla Lega di
Umberto Bossi per il fatto che in esso sedevano numerosi politici coinvolti
nelle vicende di Tangentopoli, varava una riforma elettorale destinata a introdurre, nell’estate del 1993, le nuove norme per l’elezione della Camera dei
Deputati e del Senato.
47
48
Per gli esiti della consultazione del 7 giugno 1953 si veda Bonini, 2007, 164.
Sul punto si rinvia ancora una volta a Bonini, 2007, 171.
Breve storia dei sistemi elettorali in Italia
301
Le leggi n. 276 e 277 del 4 agosto 1993, che riservavano una quota di
seggi anche agli italiani residenti all’estero, introducevano un sistema elettorale ‘misto’, detto anche maggioritario zoppo: un ancor timido tentativo di
passaggio al maggioritario con la riserva di una quota del 25% di proporzionale, che consentiva anche il recupero dei voti.
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