Il valore aggiunto delle amministrazioni pubbliche

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Editoriale
Il valore aggiunto delle amministrazioni pubbliche
Elio Borgonovi
Il concetto di valore è centrale nella teoria economica. Il tema del valore aggiunto e della sua
formazione è tornato al centro del dibattito anche con riguardo alle amministrazioni pubbliche
per i seguenti motivi. La riflessione sui nuovi modelli di welfare e sull’equità mette in evidenza
come, per aumentare la capacità di rispondere a bisogni sempre più numerosi per un numero
sempre maggiore di persone, occorra aumentare la disponibilità di beni idonei a soddisfare tali
bisogni, di beni che abbiano un valore in termini di utilità che da essi si può trarre. Inoltre, un
elemento centrale di tali riflessioni viene sintetizzato nella affermazione assai diffusa secondo
cui “non si può distribuire, o redistribuire, la ricchezza che non si produce” e che qualsiasi
politica “riallocativa della ricchezza”, a seguito dell’interesse pubblico o per libera scelta di
soggetti privati, come nel caso di istituzioni non profit e impegnate sul fronte della sussidiarietà
nell’ambito della società civile, può essere efficace e non utopistica solo se esistono politiche
finalizzate all’aumento della ricchezza.
A loro volta, le più recenti analisi sulla competitività si muovono su due principali linee:
a) con riferimento alle imprese, si soffermano sulle strategie (di specializzazione, integrazione
verticale o orizzontale, di outsourcing, di innovazione, di creazione di reti) guidate dall’obiettivo-criterio di massimizzare (o ottimizzare) la “catena del valore”;
b) con riferimento al confronto tra Paesi, o aree geoeconomiche, si sottolinea come il differenziale di sviluppo economico sia riconducibile al diverso tasso di aumento della produttività: le
posizioni relative sul piano economico, cui spesso si collegano anche modificazioni sul piano
delle relazioni politiche, su quello culturale, dei valori dominanti, stanno cambiando in relazione
alla diversa capacità di produrre valore.
Sul piano più strettamente teorico si vanno affermando impostazioni che, partendo dalla corretta
e condivisibile esigenza che tutte le tipologie di aziende debbano perseguire l’obiettivo di impiegare le conoscenze tecniche, organizzative, manageriali per raggiungere più elevati livelli
di efficienza e/o di razionalità, arrivano alla formulazione della proposizione sintetica secondo
cui “tutte le aziende devono essere considerate come aziende di produzione”.
Da questa proposizione discende che nelle analisi sulle amministrazioni pubbliche, e in particolare nello specifico filone del bilancio sociale, si sono diffuse proposte di calcolo del “valore
aggiunto” come una delle dimensioni indicative del contributo dato alla società.
La proposizione secondo cui tutte le aziende sono di produzione appare efficace sul piano
comunicativo, ma perlomeno discutibile sul piano della teoria economica. Questa, infatti, si fonda
sulla distinzione tra processi di produzione, di consumo, di risparmio, di investimento.
La distinzione tra processi di produzione e di consumo è fondamentale ai fini dell’avanzamento
della conoscenza in quanto consente di superare, da una parte, l’astrattezza del concetto di
“utilità” e di “sacrificio” e, dall’altra, l’ostacolo della “non comparabilità interpersonale dell’utilità
e del sacrificio”. Tramite le operazioni di scambio è possibile dare una dimensione “oggettivata” ai giudizi di utilità e di sacrificio degli individui e attuare una comparazione esplicita tra le
valutazioni di diversi individui. Tralasciando il modello dell’economia del baratto e passando
direttamente a quella monetaria, si può sostenere che se un individuo è disposto a pagare un
corrispettivo pari a 100 unità monetarie per acquisire la proprietà o l’uso di un certo bene,
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questo bene ha una utilità diversa da quello di un bene per il quale lo stesso individuo è disposto
a corrispondere 50 unità monetarie: in termini semplificati e di prima approssimazione si può
dire che il primo bene ha una utilità (un valore) doppio del secondo bene. Se per lo stesso bene
un individuo è disposto a corrispondere un corrispettivo monetario pari a 200 unità, mentre un
secondo individuo è disposto a corrispondere solo 100 unità, si può sostenere che il bene ha
indicativamente per il primo individuo una utilità doppia rispetto al secondo, ovviamente se lo
scambio avviene “a parità di condizioni”, in particolare se i due soggetti hanno lo stesso reddito
disponibile e si trovano in condizioni comparabili (ad esempio, se il bene in questione è un
abito, nessuno dei due soggetti si trova in condizioni di non avere altri indumenti per ripararsi
dal freddo).
Tralasciando le problematiche relative alle aziende di autoconsumo, che producono beni non
per cederli tramite lo scambio ad altri soggetti, ma per soddisfare direttamente i bisogni, e gli
altri aspetti collegati agli scambi e al modo in cui si formano i valori di scambio nell’ambito delle
diverse strutture di mercato, si ricorda che nei sistemi economici evoluti e fondati sulla divisione
e specializzazione delle funzioni sono definite aziende di produzione le entità organizzate che
trasformano e producono beni con la finalità di “cederli” a soggetti terzi, ad altre aziende che,
a loro volta, utilizzano quei beni per ulteriori trasformazioni o per destinarli al soddisfacimento
finale dei bisogni. Sono aziende di produzione in quanto il risultato della loro attività è misurato
da un “valore oggettivato” che nasce da libere scelte di convenienza economica da parte di chi
intende acquisire la proprietà o l’uso di un certo bene e di chi intende rinunciare alla proprietà
o all’uso dello stesso bene. Il contributo di tali aziende alla società è misurato appunto dal
“valore aggiunto” che esse producono, espresso dalla differenza tra “valore della produzione”
riconosciuto negli scambi di cessione dei beni prodotti e “valore dei fattori produttivi”, ossia
dei beni acquisiti da altri soggetti. Il valore aggiunto è il risultato della capacità di combinare
fattori produttivi, di trasformare le caratteristiche merceologiche dei beni o di realizzare beni non
esistenti in natura in modo da aumentare la loro idoneità a soddisfare bisogni, dalla capacità
di anticipare bisogni futuri, dalla attitudine ad accettare il rischio che, sul piano economico,
consiste essenzialmente nel produrre beni che non hanno un “valore di scambio” perché nessuno
li ritiene idonei a soddisfare un bisogno o li ritiene meno utili di altri beni. Le aziende sono di
produzione non perché producono beni fisici, ma perché producono beni che hanno un valore
di scambio autonomamente e liberamente negoziato con altre aziende.
La ricchezza di un Paese è pertanto costituita dalle somme di valore aggiunto delle unità economiche che lo costituiscono. Se il valore aggiunto è positivo, la ricchezza del Paese aumenta, se
il valore aggiunto di una impresa è negativo (per motivi vari), la ricchezza del Paese diminuisce
e il contributo di quella unità è negativo, ossia causa la “distruzione di ricchezza”.
Le aziende di consumo hanno la funzione economica di acquisire beni utili e di destinarli a
produrre utilità, benessere, felicità o comunque sensazioni fisiche e psicologiche positive. Nelle
aziende di consumo il valore prodotto dall’attività è di natura diversa dal valore attribuito ai beni
utilizzati ed è misurabile con modalità diverse: ad esempio il piacere di gustare un pranzo, la
sensazione di calore o di freschezza nell’indossare determinati indumenti, il piacere di ammirare
beni artistici e culturali, la sensazione di recuperare energie psicofisiche in occasione di una vacanza, l’ebbrezza di una corsa in auto ad alta velocità in autostrada, la soddisfazione di essere
una delle prime, e poche, persone che hanno fatto un viaggio spaziale come turista e non come
ricercatore o per impegno professionale, il senso di sicurezza di chi vive in ambienti protetti, il
benessere derivante da cure mediche e dal poter usufruire di una attività di assistenza.
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Per le aziende di consumo il concetto di valore aggiunto non è significativo, almeno nei
termini finora definiti dall’economia, in quanto non esiste un valore della produzione esprimibile
con lo stesso sistema di misurazione dei beni utilizzati, ossia il valore di scambio per i beni
direttamente acquisiti, o il valore stimato indirettamente, nel caso di utilizzo di beni acquisiti
per eredità o ricevuti in dono.
Le amministrazioni pubbliche svolgono nella società la funzione di garantire organizzazione
politico-sociale collegata al principio di sovranità, di tutelare i diritti umani, politici e sociali
riconosciuti da un certo modello di società, di produrre ed erogare servizi che rispondono a
bisogni collettivi, ossia non divisibili e non esclusivi nell’uso da parte degli individui, beni non
contendibili secondo la terminologia economica. Inoltre, alle amministrazioni pubbliche sono
state progressivamente riconosciute e attribuite funzioni relative al soddisfacimento di bisogni
di singoli individui o di gruppi di individui, a condizioni diverse (più favorevoli per i destinatari
finali) da quelle che si determinerebbero sulla base di un sistema di scambi. Ciò accade per quei
bisogni ritenuti di interesse generale (pubblico) sulla base di considerazioni tecnico-scientifiche (ad
esempio soggetti portatori di malattie epidemiche), giuridiche, sociali, economiche (persone che
non hanno la “capacità di pagare” per certi beni), umanitarie (concessione di rifugio politico),
etiche, morali. In tutti questi casi le amministrazioni pubbliche hanno la funzione di rispondere ai
bisogni utilizzando la ricchezza, quota del valore economico prodotto dal sistema delle imprese
o, in altri termini, quota del prodotto interno acquisita tramite il sistema di prelievo tributario o
intervenendo attraverso altri sistemi, ad esempio quello della fissazione di tariffe, che non sono
espressivi di un valore oggettivato da scambi autonomamente e liberamente determinati.
Non è questa la sede per trattare i complessivi problemi relativi ai sistemi tributari (principi
della capacità contributiva, della progressività o regressività dei tributi), al livello della pressione
tributaria e dei suoi effetti sulle attività economiche in generale e su quelle imprenditoriali in
particolare, al rapporto tra livello dei tributi e delle tariffe dei servizi pubblici e quantità/qualità
dei servizi erogati dalle amministrazioni pubbliche. Né si ritiene opportuno svolgere considerazioni sui livelli di efficacia delle amministrazioni (statali, regionali, locali, di altro tipo), assoluti
o comparati con altri sistemi amministrativi.
Si intende, invece, ribadire le forti perplessità sul piano teorico e concreto circa la rilevazione
del “valore aggiunto” nelle applicazioni del modello di rilevazione del Bilancio sociale, strumento
che da alcuni anni rappresenta una delle tendenze tramite cui si persegue la maggiore trasparenza della pubblica amministrazione nei confronti dei diversi gruppi di portatori di interessi. Sul
piano teorico, si sottolinea come la mancanza di uso degli elementi di misurazione, il “valore
della produzione”, impedisca la determinazione contabile del valore aggiunto. Il tema è ben
noto nei sistemi di contabilità nazionale sui quali il valore della produzione delle amministrazioni
pubbliche, e in generale delle entità pubbliche che non operano tramite il mercato, è calcolato
al costo dei fattori produttivi, con la duplice conseguenza che:
a) il valore della produzione e il valore dei consumi del settore pubblico si equivalgono;
b) un aumento del numero dei dipendenti o della loro remunerazione comporta un aumento
del prodotto interno lordo, anche in assenza di aumento dell’efficienza e della produttività di
tale settore.
In effetti, il concetto di “valore aggiunto” dell’amministrazione avrebbe significato ed utilità ai
fini della valutazione dell’attività amministrativa solo qualora fossero disponibili significative e
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accettabili misure del cosiddetto “valore d’uso” dei servizi erogati. In realtà esistono studi e
proposte di misurazione autonoma e indipendente del valore della produzione delle amministrazioni pubbliche, quali il “valore di mercato di servizi analoghi” (peraltro utilizzabile solo
nel caso di servizi individuali e non utilizzabile per i beni collettivi), indicatori espressivi della
“disponibilità a pagare” per i servizi pubblici da parte di diverse categorie di individui (in alcuni
studi pilota misurata con metodi sofisticati), indicatori quantitativi (anche normalizzati) elaborati
nella analisi costi-benefici, costi-efficacia, costi-qualità. Nessuno di tali metodi, tuttavia, ha il
rigore e la caratteristica di “oggettivazione” propria del valore di scambio e quindi non sono
ritenuti significativi ai fini di calcolo del “valore aggiunto” delle amministrazioni pubbliche. Anzi,
il loro utilizzo, invece di contribuire ad una maggiore trasparenza informativa, comporterebbe
l’elevato rischio (per chi scrive, la certezza) di fornire informazioni difficilmente comprensibili,
fortemente condizionate dalle ipotesi assunte per il calcolo, contraddittorie o difficilmente raccordabili con i dati contabili, manipolabili per ragioni politiche, ossia per ottenere valutazioni
positive sulle scelte dell’amministrazione.
Se sul piano generale non si ritiene significativo il calcolo del valore aggiunto, esso
potrebbe essere considerato significativo per tutti quei servizi soggetti a tariffazione. Si
potrebbe sostenere che il sistema delle tariffe (ad esempio differenziate per complessità di
servizi erogati come il caso dei Drg nel sistema di tutela della salute o sistemi simili per servizi
socio-assistenziali ed altro) consente di determinare un “valore della produzione” in base alla
quantità e qualità dei servizi erogati, confrontabili con i costi dei fattori produttivi acquisiti.
L’ipotesi ha qualche fondamento sul piano puramente tecnico-contabile, ma mantiene limiti
strutturali sul piano della logica economica. Infatti:
a) le tariffe sono determinate con atto amministrativo, in modo unilaterale dall’amministrazione pubblica e non esprimono il valore economico (di utilità di uso) attribuito dai cittadini/utenti dei servizi;
b) le tariffe applicate dalle amministrazioni pubbliche possono essere utili ed efficaci nel responsabilizzare sul piano del recupero di più soddisfacenti livelli di efficienza ed economicità,
ma per loro natura hanno lo scopo di differenziarsi dalle politiche dei prezzi adottabili da
imprese che operano sul mercato: ciò in quanto l’intervento pubblico ha ragione di essere
solo se attua politiche (comprese le tariffe) che pongono rimedio ai fallimenti o ai limiti del
mercato rispetto a determinati target di utenti. Se così non fosse, non vi dovrebbe essere intervento pubblico e quelle aree di servizi dovrebbero essere riportate nella sfera del mercato
completamente liberalizzato;
c) poiché le tariffe sono obbligatorie, vi potrebbe essere una variazione del valore aggiunto
delle aree di attività considerate non a seguito di più elevata efficienza o di migliore capacità
di comprendere, interpretare e rispondere ai bisogni dei cittadini, ma semplicemente utilizzando il potere sovraordinato che consente alle amministrazioni pubbliche di aumentare le
tariffe ed elevare il valore aggiunto.
Il dato di valore aggiunto, quindi, appare significativo e applicabile solo con riferimento ad
“imprese a proprietà pubblica” che operano in settori completamente liberalizzati in competizione con imprese private, altre imprese a proprietà pubblica, imprese “miste” pubblico-privato,
oppure nei casi in cui sia possibile identificare anche organizzativamente “aree di servizi”
che operano su mercati liberalizzati in concorrenza con imprese private (situazioni queste
ultime molto rare nella realtà attuale delle amministrazioni pubbliche, specie in Italia).
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Sulla base delle considerazioni sopra esposte, si ritiene che il calcolo del valore aggiunto
per le amministrazioni pubbliche, sanità, settore non profit, università e altri settori di pubblico
interesse sulla base della logica di trasferimento del modello CBS, o altri modelli, messi a
punto per le imprese, costituisca esercizio tanto inutile quanto inopportuno, poiché, si ripete,
invece di contribuire a dare una valutazione più completa sulla qualità della gestione, potrebbe addirittura dare una visione distorta, ossia far apparire migliori di altre amministrazioni
che tali non sono.
Si ritiene molto più significativo e utile, ai fini di chiarezza e trasparenza informativa e di
responsabilizzazione, inserire nei Bilanci sociali dei settori pubblici e di pubblico interesse, dati
e analisi sulla struttura della spesa “per destinazione” (per servizi finali) anziché per natura,
sulla struttura delle entrate (per valutare il grado di autonomia e la qualità delle politiche di
prelievo, se da tributi o da tariffe), sui rapporti tra alcune classi di entrate e alcune classi di
uscite, sui livelli di efficienza di settori critici di attività (quelli che assorbono maggiori volumi
di risorse o che incidono maggiormente sulla qualità di vita dei cittadini), sul rapporto servizi
erogati/domanda complessiva (espressa o non espressa), indicatori di soddisfazione rilevati
direttamente o indirettamente.
La contabilità pubblica è complessa da comprendere sul piano tecnico anche per gli addetti ai lavori. Recentemente si sono moltiplicate le proposte di semplificazione (bilanci per
i cittadini, bilanci per il governo) e strumenti informativi aggiuntivi (bilancio di programma,
di missione, ecc.). Il Bilancio sociale si inserisce in questa linea di tentativi di miglioramento
delle informazioni. Occorre, tuttavia, considerare attentamente situazioni in cui si ritiene di
facilitare le possibilità di valutare (e migliorare) le amministrazioni tramite nuovi strumenti.
Se essi non sono semplici e non sono facilmente riconducibili e raccordabili ad altri strumenti
informativi, si corre il rischio di una “Babele degli strumenti” senza possibilità reale dei portatori dei diversi interessi di stimolare un reale cambiamento.
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