Cultura gastronomica e valore del cibo nella società globale

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Cultura gastronomica e valore del cibo nella società globale
Tavola Rotonda
Cultura gastronomica e valore del cibo nella società globale
Milano, 17 marzo 2008
in collaborazione con Slow Food
con il contributo di Coop Italia
Sintesi della discussione a cura di Valentina Pisanty
Nella sua Fisiologia del gusto (1825), Brillat-Savarin definiva la gastronomia come “la
conoscenza ragionata di tutto ciò che si riferisce all’uomo in quanto si nutre”. Una simile
definizione accoglie al proprio interno una varietà di saperi disciplinari diversi i quali,
ciascuno dalla propria prospettiva, ci permettono di “analizzare il percorso che un cibo fa
dal campo alla tavola e viceversa”: oltre (ovviamente) alla cucina, la gastronomia attiene alla
botanica, alla genetica e alle scienze naturali; alla fisica e alla chimica; all’agricoltura, alla
zootecnica, all’agronomia, all’ecologia; alla fisiologia, alla medicina; al commercio, alla
tecnica e all’industria, ma anche alla sociologia, all’antropologia, e perfino all’economia
politica e alla geopolitica, “perché i popoli si alleano e combattono anche per sfruttare le
risorse della terra”.
Lungi dall’appiattire il concetto di gastronomia sugli aspetti ludici che invece prevalgono
nelle rappresentazioni mediatiche più diffuse (imperniate sulla figura dello chef televisivo),
la tavola rotonda trae avvio da una critica nei confronti della spettacolarizzazione culinaria,
intesa come “deriva povera del concetto di gastronomia”, nonché come punta emergente di
quella cultura del consumismo e dello spreco da molti deprecata in quanto portatrice di
ingiustizia sociale, di danni ambientali, di infelicità.
Al di là dello spunto polemico – perché ci si potrebbe chiedere che male ci sia a presentare la
preparazione del cibo in forma giocosa – resta il fatto che il cibo coinvolge una fitta rete di
saperi e di azioni (dall’atto agricolo al trattamento delle materie, dal commercio alla
distribuzione, fino alla preparazione delle pietanze e al loro consumo) che si prestano a
essere considerati come i diversi sottoprogrammi di un unico macro-processo ben più
articolato e complesso di quanto generalmente non si pensi quando si infila il vassoietto nel
forno a micro-onde. Uno degli obiettivi della nuova gastronomia è perciò di diffondere
conoscenza e di acuire consapevolezza circa le numerose competenze, scelte e catene di
azioni che confluiscono nell’“atto gastronomico” complessivamente inteso. Di lì, l’idea di
aprire in Italia un’università delle scienze gastronomiche che includa nel suo piano di studi
materie come la botanica, la genetica, la biologia e l’economia.
Il dibattito sul valore del cibo si inserisce in un discorso più ampio circa i danni ecologici e
sociali imputati alle derive del “mercatismo”. Il movimento dello Slow Food con cui si
identifica una parte della “comunità dei gastronomi” (la comunità mondiale di persone che
si occupano a vario titolo di cibo lungo l’intero arco della sua produzione e consumo) si
pone in netto antagonismo rispetto al produttivismo esasperato a cui si ispirerebbe gran
parte dell’attuale sistema industriale, e al consumismo altrettanto esasperato che tale
© Questo documento è stato realizzato in esclusiva per Aspen Institute Italia
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sistema solleciterebbe: “il valore determinante della modernità ha fatto in modo che da
homo sapiens l’elemento fondante sia l’homo consumer”.
Gastronomia ed ecologia
Secondo un rapporto redatto dalle Nazioni Unite nel 2005, il principale responsabile della
distruzione degli ecosistemi è la produzione del cibo. Per effetto di scelte politiche e
commerciali irresponsabili, la fertilità dei suoli diminuisce, le riserve di acqua sono sempre
più scarse, e molte specie vegetali e animali sono in via di estinzione (“nell’ultimo secolo
abbiamo perso l’80% delle specie genetiche di frutta e di verdura del patrimonio dell’intera
umanità”). Come opporsi a queste tendenze ecologicamente nefaste?
L’uso dei biofuel viene unanimemente condannato dal gruppo di discussione, così come il
protezionismo che finora ha contraddistinto la Politica Agricola Comunitaria (“il modo con
il quale l’Europa distrugge l’agricoltura africana”). Sugli Ogm i pareri sono invece
contrastanti (utili per sfamare il mondo se saggiamente gestiti vs. innaturali e pertanto
dannosi per l’ecosistema e per la biodiversità). C’è chi osserva che, posto che la popolazione
mondiale aumenta mentre i terreni coltivabili non possono essere ampliati, “bisogna
assolutamente fare ricorso alla scienza, alla ricerca, alla tecnologia” per nutrire i circa 800
milioni di persone che oggi vivono in condizioni di sottoalimentazione. Ciò non dispensa
dal prendere tutte le cautele e dal fare tutti gli accertamenti necessari per evitare che la
delicata questione dei cibi sintetici o geneticamente modificati venga piegata alle esigenze
esclusive del mercato. Tuttavia esisterebbe anche un abuso di segno opposto, che consiste
nel “fare facili affermazioni, che soddisfano e vengono accettate facilmente, ma purtroppo
danno dei messaggi molto fuorvianti”. Il rifiuto aprioristico degli Ogm e dei cibi curati da
medicinali viene attribuito (da alcuni) a resistenze ideologiche piuttosto che a scelte
scientificamente ponderate: “se l’uomo si cura e se l’animale si cura non si capisce perché la
pianta, che è un essere vivente, non possa essere curata”. A ciò si aggiunga che, per come
stanno le cose oggi, quello dei prodotti “bio” è un mercato di nicchia, come tale accessibile
solo alle fasce più agiate della popolazione.
I “nuovi gastronomi” contro-obiettano che, al di là di ogni valutazione salutistica o etica in
merito agli Ogm, questi ultimi minacciano gravemente la biodiversità e sarebbero perciò
l’arma di una subdola strategia commerciale volta a impadronirsi dell’intera filiera
produttiva, a partire dai semi. La proposta è di ripensare radicalmente i processi di
produzione e di distribuzione agro-alimentare, inquadrandoli in una prospettiva “olistica”
che tenga conto di tutti i fattori coinvolti nell’atto gastronomico, ivi compreso il fattore
umano. Se, infatti, si accetta che “uno dei nodi fondanti di un recupero verso una società più
giusta” passa attraverso “un rapporto nuovo tra uomo e natura”, l’obiettivo precipuo della
nuova gastronomia è di sperimentare – attraverso il circuito del cibo – un modello di
sviluppo sostenibile, slegato dall’idea di crescita economica a tutti i costi, ma connesso
all’idea di crescita umana. Di quale tipo di crescita si sta parlando?
Gastronomia e nuovo umanesimo
“Abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo, abbiamo bisogno di un nuovo concetto: che
l’economia torni ad essere ancella della politica” anziché il contrario. Quale modello
politico-sociale si addica a una simile svolta è una questione aperta alla discussione.
Il punto di partenza è la denuncia, da parte del movimento dello Slow Food, della
scomparsa della tradizione contadina nei paesi industrializzati, e non solo: “in ogni angolo
del pianeta la civiltà contadina è stata distrutta… il mondo rurale è stato vilipeso e
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maltrattato”. I sostenitori dell’umanesimo gastronomico definiscono – forse un po’
iperbolicamente – tale processo come “il più grande genocidio del pianeta”, e ne
attribuiscono le cause al “conflitto tra la civiltà contadina e la modernità”. In questa nuova
versione della querelle tra antichi e moderni, il ruolo di protagonista spetta ai contadini, e
per estensione alle tradizioni rurali che essi incarnano, mentre il ruolo di antagonista viene
assegnato al sistema industriale contemporaneo, espressione – si afferma – di un “pensiero
unico” egoistico e globalizzante.
L’antidoto suggerito è il recupero delle tradizioni e dei saperi locali, intesi sia in senso agrogastronomico (diversificazione dei raccolti in base alle risorse ambientali, “naturalizzazione”
delle tecniche e del trattamento dei cibi, creazione di reti di micro-distribuzione locale,
promozione del “fresco”, ecc.), sia in senso più genericamente culturale. Il che
evidentemente sollecita tutta una serie di domande, non approfondite in questa occasione,
circa il tipo di società alla quale aspirano gli odierni detrattori della modernità. Ad esempio,
ci si potrebbe chiedere se l’auspicato recupero della tradizione contadina si estenda anche ai
modelli familiari (come è noto, la famiglia contadina è tendenzialmente patriarcale) o ai
codici etici (come dimostra bene la nostra tradizione narrativa, la cultura contadina europea
è largamente improntata sul valore della furbizia), se tale recupero delle antiche tradizioni si
concili con la realtà e le esigenze della vita contemporanea (impostata, che piaccia o meno,
su ritmi di lavoro che offrono poco tempo alla preparazione laboriosa dei cibi), e se il
localismo non rischi di assecondare la tendenza, presente nelle correnti tradizionaliste di
qualsiasi gruppo, di coltivare autonomamente la propria identità culturale, limitando il più
possibile i contatti e gli scambi con il mondo esterno.
Valorizzare la gastronomia italiana
Al di là (o al di qua) dei meriti e dei demeriti della cultura contadina, una domanda
sollevata da diversi partecipanti alla discussione riguarda lo scarso interesse che la politica
italiana dimostrerebbe nei confronti del settore agro-alimentare. Tenuto conto dello
straordinario credito internazionale di cui gode il cibo italiano (“la cucina italiana
rappresenta l’ambasciatore per eccellenza del Paese all’estero”), e considerando il fatto che
l’Italia è il secondo produttore europeo (dopo la Francia) per quanto riguarda i prodotti
agricoli, sorprende la relativa assenza di strategie politiche ed economiche volte a
promuovere la gastronomia italiana nel mondo. La diffusione della cucina italiana fuori dai
confini nazionali è stato un fatto spontaneo, legato alle correnti migratorie, ma non si è
tradotta in una linea politica consapevolmente mirata a valorizzare all’estero i tratti
distintivi del sistema agro-alimentare italiano. Qualcuno osserva che “l’Italia è un Paese
eccellente nella produzione del cibo ma non sappiamo valorizzarlo. Non sappiamo
valorizzarlo perché non sappiamo vendere. Non sappiamo vendere perché non sappiamo
comunicare”.
I prodotti alimentari italiani (perlopiù realizzati da aziende che contano meno di 15
dipendenti) non sono sufficientemente distribuiti. Si propone di cominciare a considerare
una giusta filiera del profitto, perché altrimenti molte aziende andranno a produrre
all’estero dove i costi dell’energia e della manodopera sono più convenienti: “il problema di
filiera è un problema gravissimo che, se non si tutela la parte agricola e tutta la filiera, il
sistema sicuramente non potrà più reggere, né a livello nazionale, né tantomeno a livello
internazionale, nonostante la qualità italiana sia ormai valutata in maniera positiva in tutto il
mondo”.
Come difendere le piccole produzioni eccellenti dalle pressioni della competizione
internazionale? Come stimolare l’export alimentare? Tra le soluzioni proposte vi è chi
© Questo documento è stato realizzato in esclusiva per Aspen Institute Italia
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raccomanda di investire più risorse nella ricerca e sviluppo in campo alimentare, dirottando
una parte degli investimenti sulle attività delle aziende piccole e medie. Altri suggeriscono
di aprire scuole di cucina per la formazione di chef italiani all’estero, di creare un logo (sulla
falsariga delle denominazioni già esistenti: Res tipica, cibi protetti, DECO, STG, PAT…) che
consenta al prodotto autentico dell’agricoltura italiana di distinguersi in qualche modo dal
resto dell’offerta, di implementare il sistema delle etichettature, e di introdurre una serie
aggiuntiva di regole (chilometro 0, Farmer’s Market, vendita diretta…) le quali, pur non
risolvendo l’insieme dell’offerta, fungano da stimoli innovativi nei settori in cui l’Italia può
primeggiare.
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