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Questo documento è stato tratto dal sito: http://www.quaestiones.com/
Riassunto de Il Colonialismo Italiano da Adua all’Impero
(LUIGI GOGLIA - FABIO GRASSI)
L’ avvento al potere di Mussolini nell’ ottobre del 1922 non segnò un immediato
mutamento nella politica coloniale del governo italiano; tuttavia questa data segnò l’ inizio
di graduali cambiamenti negli elementi ideologici, nelle direttive programmatiche, nei
rapporti economici e sociali, nella politica verso gli indigeni.
Nell’ arco di tempo dal 1922 al 1940 è opportuno individuare tre distinte fasi: 1) gli anni
della transizione (1922-36); 2) gli anni della definizione (1927-36); 3) gli anni della
maturità (1936-40).
1. Per quanto riguarda il primo periodo, il governo fascista non adotta idee nuove nella
politica coloniale. L’ unica novità è costituta dall’ esistenza di un governo forte che può
adottare una politica dura nei rapporti con gli indigeni senza bisogno di mascherarla di
fronte al parlamento o all’ opinione pubblica. Durante questa prima fase, la politica
estera coloniale registra, il 14 luglio 1924, la firma dell’ accordo italo – britannico per l’
Oltre Giuba, che dalla sovranità britannica passa a quella italiana; questo accordo
avrebbe dovuto rappresentare uno dei compensi coloniali spettanti all’ Italia in base all’
art. 15 del “patto di Londra”, riguardante appunto la spartizione delle spoglie dei vinti
alla fine del primo conflitto mondiale. Fu inoltre riconquistata la Tripolitania ad opera
del governatore Volpi, una delle figure italiane di imperialista più complete. In Somalia
il quadrumviro De Vecchi, portò i metodi terroristici dello squadrismo fascista e liquidò
il regime dell’ indirect rule con i sultanati di Obbia e dei Migiurtini. Questa fase ha la
sua conclusione nella visita ufficiale che Mussolini compie in Libia nell’ aprile del
1926. il viaggio del duce costituisce un avvenimento importante perché è la prima volta
che un presidente di Consiglio italiano visita una colonia. Il governo fascista mostra,
con l’ attivismo del suo capo, quell’ attenzione coloniale che è ancora prevalentemente
una proiezione della politica dello stato forte e della nuova immagine di ordine e
efficienza.
2.
Con la seconda fase si delineano con sempre più spiccata evidenza i caratteri di un
colonialismo fascista, sia a livello ideologico e programmatico che nella concreta
azione politica, economica e militare del regime. Questo nuovo orientamento prende
corpo attraverso l’ elaborazione di strategie coloniali diverse sulla base di confuse
formulazioni di interessi italiani, in Africa e nel Mediterraneo, mentre appare sempre
più marcata la tendenza all’ espansione. Gli elementi principali, che segnano l’
evoluzione del colonialismo fascista, sono, in primo luogo, la pacificazione militare
della Libia ad opera di Badoglio e Graziani e, successivamente, la pacificazione civile
del governatore Balbo. Quest’ ultimo, escluso dal centro del potere in Italia per volontà
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del duce, si impegnò con slancio nella nuova azione di governo coloniale, mostrando un
certo interesse per migliorare le condizioni di vita della popolazione araba, e varando,
fra l’ altro, un vasto programma di opere pubbliche. Ma la vera svolta nella politica
coloniale fascista si ebbe con l’ attacco militare vittorioso all’ Etiopia (1934), grande
successo conseguito dagli elementi più aggressivi del regime. La conquista dell’ Etiopia
fu il salto di qualità dell’ imperialismo coloniale fascista, che fece assumere all’ Italia
gli atteggiamenti di grande potenza dotata ormai di un impero coloniale di notevole
estensione in Africa più vicino agli ordini di grandezza britannico e francese. Tale
evento è legato al rivendicazionismo intorno ai compensi derivanti dall’ art. 15 del
“patto di Londra”. A favorire il successo dell’ impresa, a parte l’ efficienza delle
operazioni militari, furono i fattori internazionali legati alla debolezza degli avversari.
Inoltre, l’ aggressività italiana contro l’ Etiopia e la conseguente mobilitazione in forze
della terza potenza mediterranea in funzione antagonistica alla Gran Bretagna, mentre
in Egitto c’ è grande tensione politica e la Palestina va verso una rivolta che sarà
duramente repressa dalle autorità britanniche, mette in evidenza l’ inadeguatezza
militare della corona.
3.
La vittoria sull’ impero negussita e la conquista di quel tormentato mosaico di
territori e di popoli da parte dell’ Italia fu il fatto fondamentale che segnò la svolta in
tutto l’ atteggiamento colonialista del fascismo. Seppure tale guerra (dei sette mesi:
ottobre ‘35 – maggio ‘36), creò il problema del completamento dell’ occupazione e del
porre l’ impero sotto l’ effettivo controllo italiano, ad ogni modo, al di là della
contingente situazione etiopica, si stava affermando nell’ atteggiamento coloniale
italiano una posizione più decisa. Si tratta della politica del diretto dominio, ovvero la
concentrazione del potere civile nelle mani di funzionari coloniali ai vari livelli. Le tre
caratteristiche del dominio coloniale italiano erano quindi il dominio diretto, il razzismo
e la colonizzazione demografica.
L’ esigenza di una larga presenza dei quadri direttivi coloniali, che fin dall’ inizio è
sentita negli ambienti coloniali italiani, è dovuta essenzialmente all’ idea che prima o
poi le nostre colonie avrebbero dovuto servire come sbocco alla nostra emigrazione.
Diventa evidente che in questa prospettiva il governo delle colonie debba essere, anche
alla periferia, per quanto è possibile nelle mani del colonizzatore. Il sistema politico
coloniale italiano non presentò caratteri coerenti e non seguì un modello fisso come ad
esempio fecero inglesi, olandesi e belgi. Se si esaminano gli ordinamenti politicocostituzionali della Libia e dell’AOI, vigenti allo scoppio della seconda guerra
mondiale, si rileva che essi sono tendenzialmente ispirati, il primo al sistema
dell’assimilazione, il secondo a quello della differenziazione. Gli ordinamenti per la
Libia e quelli per l’AOI, sebbene presentino marcate differenze, s’inseriscono senza
grandi contraddizioni nella logica generale della politica coloniale fascista. da un esame
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dei testi degli ordinamenti e dell’amministrazione sembra che la tendenza
all’assimilazione in Libia sia stata più apparente che reale ed è spiegabile per 2 ordini di
motivi: il primo è l’elemento propagandistico ad uso del mondo arabo (in funzione
antibritannica), il secondo è dovuto alla personalità dinamica del governatore Balbo (
l’uomo della pacificazione civile). In un provvedimento del 1934 una cittadinanza di
seconda categoria veniva estesa a tutti i libici. Nel 1939 vengono esclusi gli ebrei libici,
perché la legge tratta esplicitamente di libici musulmani. Ciò avvenne in seguito
all’emanazione delle leggi razziali, attraverso le quali si cercò di proteggere la
preservazione della razza ariana da contaminazioni. Il fenomeno razzista, nella sua
espressione giuridica, è strettamente collegato alla conquista dell’Etiopia: il Gran
Consiglio del Fascismo, in seguito alla conquista dell’impero, dichiara l’attualità
urgente dei problemi razziali. Il razzismo fascista quindi, non consistette essenzialmente
dell’aspetto antiebraico, bensì esso fu un fenomeno generale che prese forma definitiva
dopo la conquista dell’Etiopia.
La terza componente dell’imperialismo coloniale fascista è la colonizzazione
demografica. L’eccedenza demografica rispetto alle risorse nazionali, la massiccia
emigrazione di manodopera dall’Italia e le cattive condizioni di vita degli emigrati,
avevano costituito fin dall’inizio uno dei temi di agitazione e riflessione dei colonialisti
italiani. Essi erano partiti da questi dati per arrivare alla conclusione che il paese doveva
per necessità avviare una politica espansionistica a fini di popolamento, giustificandola
con i miti del populismo imperiale nazionalista. La colonizzazione agricola demografica
fu iniziata sia in Libia sia in AOI. Nel 1928 fu fondato l’Ente per la Colonizzazione
della Cirenaica, nel 1932 quello per la Tripolitania.
Il quarto elemento che contribuisce a definire i caratteri dell’imperialismo coloniale
fascista è il ruolo del Partito, che acquista un nuovo slancio dopo la conquista etiopica.
Il P.N.F. venne meccanicamente trasferito in colonia con lo stesso tipo di struttura
burocratica metropolitana e con gli stessi compiti organizzativi e propagandistici,
associativi ed assistenziali della madre patria, ma in più gli venne affidato anche il
settore corporativistico aumentandone così le competenze e facendone dopo il governo
e i comandi militari il terzo polo di potere coloniale.
Vi è un’ultima considerazione da fare, per concludere il nostro discorso
sull’imperialismo fascista: durante il regime l’Italia impiegò nelle colonie una misura di
gran lunga superiore di risorse rispetto ai governi precedenti.
L’imperialismo italiano fu figlio di un paese povero di risorse, con pochi capitali da
esportare e fu diretto su quei territori dai quali all’epoca c’era poco da accaparrare.
L’Italia, povera e ultima fra le grandi potenze vincitrici della prima guerra mondiale, ma
pur sempre potenza europea, agisce su scala internazionale in un ambito dove gli imperi
coloniali erano importanti, dove certe ragioni strategiche non potevano essere ignorate.
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L’Italia visse la sua avventura cercando di colmare il ritardo con la fretta e durante il
ventennio fascista l’accelerazione del processo coloniale subì un’ulteriore spinta.
I PROGRAMMI, I MITI, LE REALIZZAZIONI
Nella visione di Giuseppe Bottai (gerarca fascista), gli aspetti immediati del problema del
colonialismo italiano vengono individuati nel Mediterraneo e nell’Islam. Il primo incentrato
sulla Libia, che è il punto su cui fare leva per divenire una grande potenza mediterranea e per
espandersi all’interno fino al Sudan settentrionale. L’aspetto islamico è visto sia come un
momento della politica libica, sia come un riconoscimento della grande realtà internazionale
rappresentata dall’islamismo. Di tutt’altra levatura politica è l’opinione di Dino Grandi che
alludeva ad un’azione diplomatica italiana che mirasse ad ottenere una sorta di
redistribuzione dei territori degli imperi coloniali in Africa nell’ambito dei grandi accordi
internazionali con le grande potenze imperialiste. In un opuscolo propagandistico redatto da
Tommaso Santoro per l’Istituto Coloniale Fascista, l’Italia doveva fare in Eritrea una politica
islamica con l’intento di limitare l’influenza britannica nell’Oriente arabo. Compito
dell’Italia secondo il redattore è quello di mediazione e congiunzione del mondo musulmano
con l’Occidente. L’Istituto Coloniale Italiano aveva tra i suoi compiti istituzionali quello di
divulgare le idealità imperialistico - coloniali e, ai vari livelli, la conoscenza delle colonie
italiane e dei loro problemi.
Egli fissa alcuni punti chiave della propaganda:
1. le colonie italiane non sono vaste se paragonate all’estensione del continente africano e ai
possedimenti delle potenze straniere
2. nelle colonie italiane vi sono terre fertilissime
3. la scarsità della popolazione indigena in confronto con la sovrappopolazione nazionale
4. scuole italiane missionarie che insegnano la nostra lingua ai piccoli indigeni
Nel gennaio del 1940 Mussolini presiedette la prima assemblea del Consiglio Nazionale
delle Consulte Corporative per l’Africa Italiana e in quell’occasione delineò le sue idee
riguardo la colonizzazione: il ruolo centrale dei contributi della madrepatria, l’idea
autarchica dell’Impero (doveva bastare integralmente a sé stesso), l’integrazione delle
risorse della madrepatria (doveva fornire le materie prima e ospitare le popolazioni
metropolitane).
Giuseppe Bottai, affrontò il problema dell’espansione italiana come problema politico. Le
sue principali argomentazioni erano di carattere demografico e territoriale, le quali devono
essere considerate dalle nuove generazioni come un problema politico e morale. La Libia, in
quel momento peculiare della sua storia, era considerata per l’ Italia il problema dei
problemi: incuneata tra i due imperi nordafricani dell’ Inghilterra e della Francia, essa
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rappresentava il solo punto sul quale gli italiani avrebbero potuto far leva, per non subire la
stretta degli accerchiamenti irresistibili. Prendendo per esempio l’ espansione turca di
Kemal, egli afferma che questi sono sintomi di quanto in tempi non lontani (primi del ‘900)
sia stata forte la spinta del mondo islamico sulle nazioni occidentali; la sua preoccupazione
riguardava la manifesta ostilità dell’ oriente contro l’ occidente. L’ Islam, il più politico tra i
movimenti religiosi orientali, ne sarà il propulsore e l’ agente. Tale posizione è garantita
geograficamente e storicamente dalla nostra funzione di ponte di passaggio fra l’ oriente e l’
occidente: noi siamo in definitiva gli occidentali con i quali sempre hanno dovuto e
dovranno prendere contatto gli orientali, ogniqualvolta nella loro storia si sviluppano
fenomeni di accostamento o di interessamento al’ Europa.
Carlo Giglio si occupa delle motivazioni per cui l’ Italia avrebbe dovuto essere una nazione
coloniale: se noi italiani vogliamo portare a compimento il nostro programma di politica
mediterranea, se vogliamo sostenere validamente i nostri diritti di potenza coloniale, è
necessario che una nazione per possedere delle colonie abbia quattro capacità fondamentali
(proliferare, produrre, conquistare, organizzare). L’ Italia, ultima arrivata nella grande
competizione per il possesso di colonie, a causa dell’ incomprensione di statisti (critica ai
precedenti regimi liberali), e della mancanza di una diffusa coscienza coloniale tra la massa,
ha dinnanzi a sé un problema coloniale essenzialmente mediterraneo, che presuppone, oltre
la necessaria preparazione bellica, una geniale ardita e oculata politica estera. 1) Eritrea:
stringere vigorosi contatti con gli stati della penisola arabica, aumentare le relazioni
commerciali con l’ Abissinia e rinsaldare le amicizie e simpatie che abbiamo contratte in
questi territori; 2) Somalia: stessa funzione politica dell’ Eritrea, con speciale riguardo all’
africa centro – orientale; 3) Libia: ruolo centrale nella sua funzione mediterranea; era
necessario crearle uno sviluppo economico e politico tale da aumentare efficacemente l’
influenza italiana nel Mediterraneo, e tale da creare uno sbocco nell’ Africa centrale. L’
Italia si trovava in una posizione svantaggiata rispetto alle altre nazioni ed era dunque
necessario ridurre questo gap sfavorevole, in primo luogo per rafforzare la sua posizione in
Europa; 4) Dodecaneso (isole greche): verso la Turchia che si va occidentalizzando ed in
genere verso tutti paesi del Levante, importanza che si risolve in una duplice funzione,
culturale e commerciale.
Il fattore economico ha un ruolo centrale nella colonizzazione Italiana; difatti tramite la sua
espansione in Africa avrebbe potuto migliorare la sua condizione economica precaria. Ciò è
vero anche considerando le altre nazioni europee che si stavano gettando nell’ impresa
coloniale per assicurarsi sempre maggiori fonti di sicurezza, basata sul completo e
scientifico sfruttamento delle ricchezze e delle materie prime necessarie alla grande
industria, sviluppando contemporaneamente le più celeri comunicazioni marittime ed aeree.
Giglio afferma che, anche se le colonie italiane costituivano all’ epoca (1927), più che altro
una spesa dell’ erario italiano, esse avrebbero potuto fornire in futuro una ingente fonte di
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ricchezza. Egli si concentra particolarmente sul ruolo della Libia, fiore all’ occhiello dell’
Impero Italiano, e sul suo ruolo di risorsa agricola. L’ emigrazione italiana dovrebbe essere
diretta verso le colonie italiane in modo da arricchire la madrepatria, e non come prima verso
altri paesi (America); ciò compone uno dei principali cambiamenti di rotta del governo
fascista. L’ eccesso di popolazione dovrà essere incanalato e organizzato entro i confini della
patria, e dunque nei nuovi territori coloniali, in modo da fornire sia una risorsa economica
sia una via di sfogo di tale eccesso.
Ernesto Cucinotta, in un libro educativo per ragazzi, fa una descrizione delle nostre colonie
sia dal punto di vista territoriale sia dal punto di vista della popolazione; ciò dimostra lo
sforzo del regime fascista per educare le nuove generazioni alla conoscenza coloniale,
sintomo di un particolare interesse propagandistico volto alla incitazione per l’ emigrazione.
Dino Grandi, argomenta la necessità di espansione coloniale, con toni revanscisti, in quanto
ricompensa per gli sforzi compiuti durante il primo conflitto mondiale, negata dagli alleati in
sede di trattativa.
Alberto Giaccardi, fa un discorso circa l’ avvaloramento economico delle colonie italiane: l’
importanza dell’ Eritrea è data dalla sua posizione commercialmente strategica nei confronti
dell’ Arabia e dell’ Abissinia; la Somalia è invece adatta alle grandi colture tropicali;
Tripolitania e Cirenaica sono allo stesso modo colonie agricole, di uso differente, in quanto
situate nella zona temperata. Egli afferma che per rendere fruttuoso i territori coloniali, è
necessario spendere ingenti quantità di denaro, come spese di impianto, e gettando così le
basi per la ricchezza futura.
In una comunicazione presentata al secondo congresso di studi coloniali (1935), Annibale
Grasselli, espone un piano programmatico per lo sfruttamento delle colonie riguardo al ruolo
della famiglia. Egli afferma la necessità dell’ intervento statale volto al sostentamento delle
famiglie coloniche: lo stato fornisce sotto forma di presititi somme di denaro che andranno a
coprire le spese per la casa, le attrezzature, ed altre spese necessarie. Tali prestiti saranno
gradualmente restituiti dal colono nel corso di cinque anni in parte in moneta, in parte in
prodotti. Al termine del quinquennio, il colono dovrà dichiarare se intende acquistare il
fondo bonificato o venderlo; nel caso di rinuncia all’ acquisto il colono verrà licenziato
senza titolo di indennizzo.
Ernesto Massi, prendendo in considerazione la colonizzazione inglese, sostiene che l’ Italia
non avrebbe dovuto come gli inglesi apportare una colonizzazione di sostituzione, che
consisteva nel sostituire i contadini indigeni con quelli bianchi, senza incrementare la
produttività delle terre, bensì, avrebbe dovuto creare ampissime colture ti tipo industriale su
vasta scala. Egli collega la infruttuosità delle coltivazioni africane alla scarsità di
popolazione (un territorio che era tre volte quello dell’ Europa era abitato da appena 150
milioni di abitanti), giungendo anch’ egli alla conclusione che, per incrementare la
produttività, era necessario incrementare in primo luogo l’ emigrazione, e dunque la quantità
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di forza – lavoro. Egli inoltre introduce nella sua analisi un elemento razzista, sostenendo
che la popolazione nera è spesso restia al lavoro. Se la nazione colonizzatrice ha forte
pressione demografica, sarà possibile al governo determinare un afflusso sufficiente di
coloni, perché la loro opera non sia di semplice sfruttamento: mediante l’ obbligo dell’
istruzione elementare a base professionale abituare l’ uomo al lavoro, creargli dei bisogni
perché sia spinto a soddisfarli, e gradualmente, attraverso la sensazione dell’ utilità del
lavoro per l’ individuo, avviarlo alla comprensione del principio che il lavoro è un dovere
sociale (missioni educative). Il vantaggio derivante da un possesso coloniale è inoltre anche
extra – economico, ad esempio può consentire di ottenere posizioni militarmente strategiche.
Nella sua digressione c’ è inoltre posto per una giustificazione morale della colonizzazione:
l’ industrializzazione coloniale è per gli indigeni un modo per raggiungere l’ autonomia
economica e dunque l’ autonomia politica.
La colonia rappresenta un mercato di consumo e di acquisto, che attrae non solo il
commercio della madrepatria ma anche quello delle nazioni straniere.
Due problemi fondamentali nell’ ambito della colonizzazione non vanno trascurati: il
comunismo e il nazionalismo indigeno. Egli afferma che il comunismo sovietico si sia
trapiantato tra le popolazioni dell’ africa; a tale fenomeno si oppone il nazionalismo
indigeno.
L’ Europa, stretta ad oriente dall’ imperialismo asiatico, e ad occidente da quello americano,
necessita come sbocco commerciale per i suoi mercati l’ espansione nel continente africano.
Giuseppe Volpi, tessendo le lodi della nuova politica fascista, afferma che con l’ avvento del
duce, terminava la politica di abbandono e si introduceva la politica di prestigio, dando alle
popolazioni soggette alla superiorità militare italiana un nuovo slancio morale. Con
Mussolini si cessò di declinare le responsabilità giuridiche della situazione di instabilità e di
anarchia formatasi nei protettorati italiani (scontri armati nelle colonie italiane e possibili
attriti con le potenze coloniali europee confinanti). Citando le cifre di ettari di terra e colture
indemaniate, dopo l’ avvento del regime fascista, egli afferma che l’ opera compiuta dal
regime fascista in Libia in 15 anni, è proporzionalmente superiore a quella francese
compiuta in Algeria in 100 anni.
Tommaso Santoro, delineando la politica italiana nel Mar Rosso, sostiene che lo sviluppo
economico di quelle terre coloniali congiunte, darà all’ Italia una certa indipendenza da
mercati stranieri. Inoltre creando uno stabile polo economico nell’ AOI, si creerebbe una
forza di attrazione degli stati vicini (in primo luogo lo Yemen), con cui instaurare felici e
solidi rapporti commerciali. L’ azione dell’ Italia verso l’ oriente arabo avrebbe dovuto
essere di mediazione, di congiunzione di tutto il mondo musulmano con l’ occidente. Egli si
incentra dunque sul ruolo di instaurazione di rapporti prolifici con l’ oriente tramite la
colonizzazione: dato il processo di industrializzazione che era in atto, l’ oriente aveva
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bisogno di macchine, tecnici, grandi commercianti che avrebbero dovuto organizzare i
traffici.
Livio Livi traccia i fondamenti bio - demografici della colonizzazione di popolamento: al
contrario delle politiche attuate dagli altri paesi europei, con emigrazioni omogenee, l’ Italia
avrebbe dovuto implementare un immigrazione degli interi nuclei familiari, evitando una
composizione esclusivamente maschile degli emigranti (donne e bambini). L’ equilibrio
numerico dei due sessi avrebbe dovuto essere mantenuto in particolare fra le fasce di età
adatte alla procreazione, dando così la possibilità di costituirsi in famiglia. Per il trapianto di
una nuova civiltà il migrante non deve essere l’ individuo ma la famiglia. Egli condanna il
danno sociale apportato dal concubinato con donne indigene, a motivo della procreazione di
gruppi notevoli di meticci illegittimi (siamo nel 1937), gruppi difficili ad assorbirsi nei
quadri di un civile ordinamento. Il concubinato di tal genere, largamente praticato da larghe
masse immigrate costituite da soli uomini, disturba il normale rapporto dei sessi nelle
popolazioni indigene, ne altera l’ ordinamento demografico e non risana quello dei
metropolitani immigrati. Livi mostrava dunque tutto il suo supporto per l’ immigrazione
ordinata, cioè avente la dovuta proporzione di elemento femminile.
Nell’ ottica della politica fascista l’ emigrazione coloniale avrebbe dovuto riflettere il volto
della patria in territori lontani, creando una nuova società e trapianta la civiltà. Una
colonizzazione che doveva dunque essere non solo sfruttamento economico ma anche
manifestazione della civiltà portata dall’ Italia fascista. L’unità tra i coloni avrebbe dovuto
essere mantenuta al fine di ricreare un ambiente sociale favorevole; lo scopo era dunque
quello di creare colonie il più possibili simili alla madrepatria. La piena normalità sociale
non avrebbe potuto essere raggiunta con poche centinaia di membri, era dunque necessario
promuovere un emigrazione abbastanza vasta.
Trevisani sostiene la necessità della conquista al fine di sviluppare in via pacifica un opera di
penetrazione economica, laddove questa era stata precedentemente respinta da Negus. La
conquista era inoltra nata dalla necessità impellente di trovare uno sbocco alla pressione
demografica italiana, e di acquisire quelle materie prime che il suolo della madrepatria non
possedeva.
Vittorio Gorresio, in un articolo sul Messaggero del 1938, parla delle modalità di
popolazione dell’ impero: popolare l’ impero di italiani. In Etiopia furono costituiti tre enti:
Romagna d’ Etiopia, Puglia d’ Etiopia, Veneto d’ Etiopia. Ogni ente avrebbe dovuto inviare
ogni anno e per cinque anni consecutivi 500 famiglie coloniche: partiranno per primi i
capifamiglia che saranno seguiti a due anni di distanza dai rispettivi familiari. I coloni
saranno inquadrati immediatamente a cura del Partito e della MVSN (milizia volontaria della
sicurezza nazionale). Alla scadenza del biennio i lavoratori più produttivi sarebbero stati
immessi nella responsabilità del podere. A suo parere era necessario associare il lavoro
indigeno a quello italiano, così da rendere i coltivatori e i pastori abissini compartecipi delle
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culture e degli allevamenti in ausilio ai coloni proprietari. Ai confini esteri di ogni poderi
sarebbero stati situati i Tukul degli indigeni ausiliari e compartecipi. Gorresio auspicava la
costruzione di strade e centri urbani. Nell’ alta valle dell’ Auasc, nelle terre circondanti la
capitale (Addis Abeba), si avrà così una serie di tre capisaldi di colonizzazione demografica
accanto ai quali verranno via vi costituiti i successivi fino a raggiungere, mediante la
bonifica che l’ Opera ha in programma, una completa saldatura. Così facendo, l’
industrializzazione avrebbe portato alla ricchezza della regione, e si sarebbero aperti come
mercati di sbocco le regioni del Sudan. L’ ultimo punto dell’ analisi di Gorresio, è un
problema politico, che viene determinato dall’ istallazione di grandi nuclei di bianchi, nei
paesi popolati dai negracci, dai contatti che le due razze sono chiamate ad avere, sia sul
terreno della collaborazione economica, sia su quello della convivenza quotidiana. Egli
mette in guardia i coloni riguardo ai concubinati misti: il meticciato è un fenomeno da
condannare.
Gennato Pistolese, in un saggio sulla provincializzazione della Libia, elenca quattro fasi: 1)
fase Volpi: inizio e consolidarsi della riconquista in molti dei centri libici che erano stati
abbandonati a seguito dell’ incalzare del ribellismo. Tale fase coincide inoltre con l’ inizio
dell’ indemaniamento, attraverso il quale lo stato colonizzatore acquista la disponibilità di
quelle estensioni di terreno necessarie al suo programma di valorizzazione agricola. 2) fase
De Bono: viene continuata la marcia della riconquista militare, e vengono gettate le basi di
quella colonizzazione demografica che, sostenuta dallo stato, ha create le prime zone di
verde nella colonia, e ha consentito che accanto a un agricoltura indigena ne sorgesse una
più efficiente su basi metropolitane. 3) fase Badoglio: segna la fine della ribellione e l’
occupazione integrale della colonia fino a Sud. 3) fase Balbo: può ritenersi la fase conclusiva
del processo di avvaloramento libico per quanto riguarda l’ impostazione del metodo. Egli
pone alla base del programma di governo la piccola proprietà coltivatrice.
La provincializzazione consisteva nella stretta aderenza di quel territorio mediterraneo al
restante del territorio nazionale. La legge organica della Libia (1934), prevedeva la
costituzione di quattro commissariati provinciali, con capoluogo rispettivamente a Tripoli,
Misurata, Bengasi e Derna. A capo di questi commissariati vi erano dei prefetti.
Le prospettive che secondo Pistoiese la Libia avrebbe offerto all’ Italia erano: nel capo
politico essa avrebbe portato sulla Quarta Sponda lo stesso slancio e la stessa vitalità che
erano negli altri lembi della penisola. La diciassettesima regione era la regione dell’
espansione, che manteneva vivi ed operanti tutti i caratteri di intraprendenza, di pionierismo,
di dinamismo della popolazione. Nel campo della politica indigena, la Libia avrebbe
realizzato quella fusione ideale e che aveva le sue basi in una netta discriminazione fra la
razza dominatrice e quella soggetta, e nella comprensione operosa della prima verso la
seconda. Nel campo strategico la Libia sarebbe stata in grado di svolgere la sua funzione
pacifica di intense relazioni con i paesi vicini i quali, nelle evolute 4 provincie libiche
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avrebbero avuto più diretti ed intensi motivi di richiamo; nonché la sua funzione di ordine
militare a difesa del suo territorio. Nel campo della produzione la Libia sarebbe stata in
grado di sviluppare una produzione agricola ed industriale, la quale, oltre ad essere destinata
al soddisfacimento del fabbisogno locale, avrebbe dovuto costituire l’ apporto libico all’
autonomia delle altre 16 regioni nelle quale si organizza l’ economia italiana.
Giuseppe De Michelis parla della questione dello spazio vitale. La questione fondamentale
dalla quale era travagliata l’ intera Europa sarebbe stata quella dello spazio vitale necessaria
alle nazioni. L’ aggressore era quella nazione che si preoccupava di meglio allocare sul
lavoro i propri uomini e che cerca di raggiungere questo scopo a qualsiasi costo, anche con
la guerra. L’ Africa sarebbe stato il continente a cui sarebbero stati indissolubilmente legati
gli stati e i popoli d’ Europa, perché da un lato le sue terre erano quasi esclusivamente sotto
possesso diretto o mandato o protettorato degli stati europei, mentre dall’ altro essa
rappresentava un immenso serbatoio di ricchezza aperto all’ espansione, all’ avvaloramento
agricolo e commerciale. Se l’ Europa avrebbe voluto mantenere ed avvalorare l’ ufficio di
portatrice di civiltà nel mondo, avrebbe dovuto scegliere l’ Africa come campo di azione
coordinata e di applicazione sistematica delle sue forze demografiche, economiche, morali,
ed intellettuali. Egli sostiene che la colonizzazione era una necessità storica ed economica:
storica perché l’ Europa si sarebbe dovuta sentire spinta dalla sua vocazione di civiltà a
portare la luce del pensiero in regioni che vivevano ancora nelle barbarie o appena ai
margini della vita civile; economica perché essa, a riparare la perdita dei suoi mercati d’
oltremare sugli altri continenti, non poteva che ampliarli o crearli nel continente nero dove
ha già fissato i segni del suo dominio. Due ordini di attività si proiettavano dunque nell’
avvenire etiopico: l’uno di costruzione interna, l’ altro di espansione.
Iacopo Mazzei tratta dell’ importanza delle colonie nell’ incrementare la potenza dello stato.
1) le colonie avrebbero aumentato tale potenza come apporto di soldati. La colonia di
popolamento avrebbe impedito di perdere ai fini militari gli emigranti, i quali, se passati in
altri paesi, sarebbero invece andati perduti (Commonwealth). 2) le colonie avrebbero
aumentato la potenza dello stato per la loro posizione strategica dominante le grandi vie di
comunicazione, minaccianti i domini altrui ecc (era un vecchissimo aspetto della politica
coloniale inglese quello di cercare il dominino dei passaggi obbligati marittimi. Es.:
Gibilterra e Malta). 3) le colonie avrebbero aumentato la potenza della madrepatria in quanto
fornitrici di viveri e materie prime. Gli ultimi 2 punti, a parere dell’autore, avevano
acquistato una speciale e nuova importanza quando la S.d.N. tentò con le sanzioni di indurre
la nuova tecnica internazionale all’affamamento dei popoli. Mazzei continua la sua
argomentazione trattando la valutazione economica della colonie: egli sostiene che tale
valutazione debba essere non soltanto finanziaria ma anche storica riguardo all’utilità di una
colonia. Perciò sarebbe stato necessario distinguere la parte politica (aumento di potenza), la
parte etica (diffusione della civiltà nel mondo). Si sarebbe dovuto poi valutare l’attivo e il
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passivo economico ponendo da un lato tutti gli oneri economici e cioè oneri finanziari,
derivanti dal rialzo dei prezzi per preferenze coloniali, dal rialzo degli interessi e dei profitti
verso impieghi coloniali ponendo i vantaggi sotto i mille aspetti derivanti dalla vita
economica del paese. Per quanto riguarda le colonie come sbocco demografico, l’autore ci
dice che essere può essere valutato sotto due aspetti: 1) possibilità di conservare per il paese
l’accrescimento demografico quando pur sempre esso abbia la possibilità di emigrare in altri
paesi. 2) possibilità di sistemare produttivamente l’accrescimento demografico, essendo ad
esso, dalle leggi degli altri paesi, vietata l’immigrazione. L’acquisizione di una colonia nella
quale sotto il dominio politico della madrepatria un lavoratore avrebbe trovato un’adeguata
rispondenza naturale al suo sforzo produttivo, si sarebbe tradotto non solo nel conservare
integralmente alla patria il risultato delle sue fatiche, ma aggiungere anche ad esso l’apporto
del nuovo contributo naturale dei nuovi territori. Egli conclude dicendo che dal punto di
vista demografico una colonia non significa soltanto un’espansione in essa di popolazione
operaia, ma anche di popolazione professionista (ingegneri, medici). L’ultimo argomento
trattato riguarda le colonie come impiego di capitale:in quegli anni in cui si giudicava
rischioso il passaggio di capitali all’estero, l’impiego di capitali in colonia avrebbe potuto
offrire una soluzione del problema dell’eccesso di essi, e avrebbe automaticamente eliminato
l’opzione di abbassare salari e spese industriali a livello nazionale per il paese richiedente
per attirare capitali e investimenti stranieri.
Nell’ analisi futurista, Marinetti parla dell’ Africa come ispiratrice di poesia e arti,
auspicando di interpretare profondamente e insieme dominare italianamente l’ anima diversa
di ogni razza colonizzandola con l’ arte.
Davide Fossa, nel suo saggio “Il partito nel governo dell’ impero”, elenca una vasta gamma
di compiti che il partito avrebbe dovuto eseguire nelle colonie (economia generale, controllo
e ricerca, enti e servizi connessi con lo sviluppo dei territori). Il partito avrebbe dovuto
organizzare e coordinare tutti i trasporti e le comunicazioni. Come molti altri autori egli
sostiene che la colonizzazione italiana avrebbe dovuto “associare” i nativi, senza abbatterli,
al sistema di vita italiano, determinando per essi un esistenza migliore di quella schiavistica
e feudale che essi vivevano da secoli. Questa volontà di associare al regime italiano i nativi
avrebbe comunque dovuto in considerazione i principi di dignità e del prestigio della razza.
Carlo Giglio, sempre a proposito dei compiti di partito, ci dice che il partito avrebbe dovuto
creare e alimentare nelle nuove generazioni, non lo spirito imperiale, ma lo spirito
espansionistico (in senso dinamico). Egli auspica dei corsi di preparazione alla vita coloniale
per donne e uomini (operai, coloni e soldati), in funzione di una futura emigrazione.
Una delle principali fonti nello studio della storia della colonizzazione fascista sono gli atti
dell’ istituto coloniale fascista. A proposito dell’ educazione della donna si possono leggere
documenti che elencano le funzioni della donna per poter assolvere in colonia ai doveri e
alle funzioni particolarmente ad essa spettanti nella vita sociale e familiare. La presenza
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della donna sarebbe stata funzionale alla riproduzione di un ambiente familiare ove i coloni
avrebbero potuto operare più produttivamente. Inoltre le donne avrebbero potuto svolgere
funzioni quali dattilografe, telefoniste, contabili e insegnanti. Ovviamente ruolo importanza
centrale a proposito della presenza della donna aveva l’ elemento demografico: la
formazione di nuove generazioni nate e cresciute in Africa, avrebbe contribuito a creare i più
saldi quadri per l’ esercito dei lavoratori futuri; inoltre la donna era vista come l’ elemento
conservatore del sangue, nell’ ambito della continuità della razza. La colonia vecchio stile,
ovvero la colonia di sfruttamento concepita secondo la mentalità demo liberale, aveva,
secondo l’ autore, qualcosa di caotico ed avventuroso, che ripugnava la mentalità fascista. La
vita coloniale era allora una breve parentesi volta ad afferrare ciò che si poteva e quanto più
si poteva, per tornare in patria col proponimento di non rimettere più piede in Africa. Ben
altra cosa avrebbe dovuto essere l’ impero fascista, come impero del lavoro e della
costruzione, degna palestra per le migliori energie della stirpe, prolungamento trans - marino
dell’ Italia. Il coloniale fascista, non avrebbe dovuto avere più bisogno di essere considerato
un’ eccezione, ma un rappresentante della stirpe italiana.
LA REPRESSIONE DEL RIBELLE E LA COSTRUZIONE DELLA SOCIETA’
COLONIALE
Una volta avvenuta la colonizzazione, il potere coloniale aveva il problema di reprimere
ogni attività di rivolta. Mentre in età liberale si facevano tentativi che cercavano, sia pure in
modo subordinato, di associare gli arabi al governo della colonia libica, durante l’epoca del
fascismo emersero quegli umori sciovinisti più radicali. La diversità trai due tipi di regime
consiste nel fatto che si acuirono gli elementi di differenziazione con le popolazioni
indigene, fino a quando, dopo la conquista dell’Etiopia, si affermarono con le leggi razziali,
delle linee di separazione netta tra il bianco colonizzatore e l’indigeno.
Nel brano di Balbo, tratto da ‘’La politica sociale fascista verso gli arabi della Libia’’,
illumina molto bene quella che è la linea seguita dal quadrumviro della Libia: concepire gli
arabi della colonia come strumento favorevole e base necessaria per caratterizzare la propria
politica nei confronti di tutto il mondo islamico. Questo strumento andava trattato
paternalisticamente per quanto riguarda le popolazioni dell’interno, mentre per quelle della
costa, più avanzate, si doveva creare le condizioni necessarie per una più diretta
partecipazione ad una più diretta partecipazione alla vita civile dell’impero fascista.
Tra gli elementi di propaganda troviamo il presentarsi come ‘’liberatori dalla schiavitù’’ ma
anche racconti quale ‘’l’anello di Salomone’’ di Panetta, il quale si proponeva di diffondere
l’immagine magico-paternalistica del Duce, il quale sarebbe giunto in possesso del mitico
anello del re Salomone. La politica indigena del fascismo è comunque caratterizzata dal
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razzismo che parte come direttiva dello stesso Benito Mussolini. Nel marzo del 1940 uscì il
primo numero di ‘’Razza e civiltà’, rivista mensile del Consiglio Superiore della Direzione
Generale per la demografia e la razza del Ministero dell’Interno. Era questo l’organo razzista
ufficiale che univa al tema razzista quello demografico, dove i filoni di studio della
popolazione e quelli più propriamente razziali e razzisti venivano trattati ad alto livello
culturale e scientifico. All’interno di tale rivista vi era uno spazio dedicato a una rubrica ove
venivano segnalate e commentate le sentenze più interessate emanate dai tribunali del Regno
delle colonie in materia razziale( reati sessuali di arabi su italiane).
L’attività militare in colonia può essere considerata come un momento della politica
indigena, perché l’imperialismo coloniale nasce da un atto di appropriazione, compiuto con
la forza e la violenza e spesso con la guerra, di territori le cui popolazioni vengono
sottomesse alle regole del dominatore. Da questo ne conseguì la necessità, per la potenza
occupante, di tenere delle forze sempre pronte all’intervento.
In un discorso di Luigi Federzoni ai notabili di Misurata nel 1924 si tratta l’argomento
dell’episodio di Giamurria. L’autore descrive tale evento come un folle tentativo contro la
sovranità italiana aggiungendo peraltro che i fatti avevano dimostrato l’inutilità di tale gesto.
Egli esalta la supremazia dell’Italia il cui valoroso esercito fu sempre coronato dalla vittoria.
Egli sosteneva che le popolazioni indigene ricevevano netti vantaggi dalla sottomissione alla
Madre Italia e che la loro lealtà sarebbe stata premiata.
Nei dispacci del Maresciallo Badoglio al governatore generale della Libia, al generale
Graziani vice governatore della Cirenaica e al generale De Bono ministro delle colonie,
vengono affrontati i temi della ribellione. Badoglio sosteneva che la popolazioni indigena
aveva perfettamente capito che la forza era nelle mani del governo italiano e che esso era
deciso a prendere qualsiasi provvedimento per ottenere l’esecuzione perfetta degli ordini
impartiti. Egli ordina un censimento della popolazione al fine di ottenere la sua vera
consistenza per facilitare l’azione del governo. I ribelli dovevano essere repressi
radicalmente; la pressione contro di essi non si sarebbe mai dovuta allentare. Dal lato
politico era necessario completare il movimento di concentramento dei sottomessi e
mantenere un servizio di sicurezza intorno ad essi; era necessario svolgere una continua
pressione verso i sottomessi affinché essi avrebbero attratto i loro parenti e convinti ad
abbandonare Dor. Egli afferma inoltre che se il movimento di sottomissione dei ribelli non si
sarebbe accentuato sarebbe convenuto passare ad un’altra serie di provvedimenti, tra i quali
di unire tutti i parenti dei ribelli in uno stretto e molto sorvegliato campo di concentramento,
arrestare i notabili che avessero esplicato azioni contrarie rispetto al governo italiano. dal
punto di vista militare si sarebbe dovuto provvedere con le forze di polizia e con le forze
regolari all’isolamento dei concentramenti di sottomessi e dislocare le altre forze in gruppi
mobili col compito del pattugliamento continuo di un determinato settore. Si sarebbero
inoltre dovute ridurre le forze irregolari sostituendole con formazioni regolari eritree e
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procedere al ritiro delle armi della popolazione della Cirenaica. Badoglio sosteneva che la
ribellione fosse imperniata sulla figura di Omar El Mukatar, il quale non divideva con
nessuno il suo potere ed aveva luogotenenti devoti e disciplinati. Il Maresciallo sosteneva
dunque che si doveva escludere la possibilità di adoperare il solito sistema di incunearsi fra
le gelosie, le rivalità e gli odi che sempre esistono quando vi sono capi diversi. Omar aveva a
disposizione un perfetto servizio d’informazioni che gli permetteva di rifiutare il
combattimento quando la situazione non era favorevole; una perfetta conoscenza del
territorio agevolava inoltre ogni sua mossa. I suoi gregari erano persone che da anni non
esercitavano altri che il mestiere del ribelle. I vantaggi di tale movimento erano dunque
evidenti ma altrettanto evidente era, secondo Badoglio, il fatto che un nucleo simile non
sarebbe potuto durare a lungo contro forze almeno 10 volte superiori se non si fosse
appoggiato ad una potente e complessa organizzazione che gli assicurasse l’esistenza. Era
dunque la popolazione che forniva al Dor denaro, mezzi di sussistenza, munizioni, uomini di
rimpiazzo dei caduti, che informava di ogni mossa italiana. Inoltre, lo stesso elemento
indigeno che si arruolava nei reparti italiani, conteneva , secondo Badoglio, il germe del
parteggiamento per il Dor. Gli stessi soldati italiani non combattevano a fondo tale stato di
cose poiché convinti che da uno stato di ribellione fosse possibile trarre vantaggi di carriera.
Era dunque necessario isolare anzitutto il Dor dalla rimanente popolazione e stroncare tutto
l’intreccio della organizzazione tra la popolazione e il Dor. In questo modo i ribelli
avrebbero dovuto seguire a distanza il movimento della popolazione, altrimenti le
comunicazioni e gli scambi sarebbero diventati troppo difficili. Spostando la popolazione si
sarebbero tolti i ribelli dalle zone più difficili dell’altopiano e allo stesso tempo ridotto lo
spazio da sorvegliare. Badoglio sosteneva che contemporaneamente si sarebbe dovuto
tendere ad approfittare di ogni occasione per assestare colpi alle forze ribelli: un nucleo di
truppa si sarebbe dovuto attaccare alle calcagna dei ribelli per ottenere informazioni, nuclei
mobili di truppa avrebbe invece dovuto sorvegliare una speciale zone incessantemente. In
questo modo la strategia del Maresciallo si delineava come un’azione di logoramento e non
come uno scontro frontale. Badoglio disponeva inoltre che le formazioni dei reparti regolari
libici, che riteneva inaffidabili, fossero sostituiti con truppe provenienti dall’Eritrea. Si
sarebbe inoltre dovuto lavorare per dare tono e aggressività a queste truppe e per purificare
lo spirito dei quadri. Stabiliti questi capisaldi si sarebbe dovuto lasciare al vice governatore
la più ampia libertà di azione senza collaudare ogni suo atto, e questo allo scopo di rendere
l’azione più rapida ed efficace. Il punto centrale della nuova strategia di Badoglio era
dunque quello di far rifluire in uno spazio ristretto tutta la popolazione sottomessa, in modo
da poterla adeguatamente sorvegliare ed in modo che vi fosse stato uno spazio di assoluto
rispetto fra essa ed i ribelli. Tale strategia prevedeva inoltre la creazione di una banda
(Banda Akif) che fosse diventata il segugio dei ribelli; le altre truppe organizzate a gruppi
mobili, con dovuto autonomia logistica, dovevano essere sempre pronte a dare colpi tutte le
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volte che le organizzazioni nemiche, segnalate dalla Banda Akif, si fossero prestate ad essere
colpite. Era questo il sistema che senza esaurire le truppe in lunghe marce e in infruttuosi
rastrellamenti avrebbe dato all’Italia un tale predominio necessario per la soluzione del
problema.
In una circolare del comandante superiore dell’AO, generale De Bono, si affrontano i
rapporti tra soldati italiani e popolazioni africane. Egli affermava la necessità che il tratto di
tutti gli italiani, militari e civili, verso le popolazioni indigene fosse ispirato ai più elevati
sensi di dignitosa benevolenze e di umana comprensione. Era nell’interesse italiano avere
buoni rapporti con le popolazione eritree, poiché esse fornivano delle truppe necessarie agli
sforzi coloniali. Gli ufficiali avrebbero pertanto dovuto essere solleciti del benessere delle
popolazioni, rispettosi delle abitudini locali, e avrebbero dovuto sorvegliare con cura il
comportamento dei subordinati verso gli indigeni. l’addensamento di truppe nella parte
meridionale della colonia (AO) rendeva necessario uno stretto accordo ed una leale
collaborazione tra autorità civili e comandi militari.
In un promemoria del ministero della guerra del 1936 si riprende il tema dei rapporti fra
coloni e indigeni trattando nei termini di rispetto ma allo stesso tempo necessario distacco.
L’ufficiale avrebbe dovuto essere per gli Ascari maestro, consigliere, giudice, medico, padre
ma allo stesso tempo avrebbe dovuto in ogni occasione manifestare la sua superiorità morale
ed intellettuale e mantenere costante ed assoluto il suo prestigio dimostrandosi esemplare in
tutto ed irreprensibile in servizio e fuori servizio. L’ufficiale, nuovo assegnato ai reparti
eritrei, avrebbe dovuto al più presto formarsi una cultura coloniale, e in particolare rendersi
edotto delle caratteristiche particolari della colonia, nonché degli usi, costumi, e
consuetudini della vita indigena,m della credenze, delle superstizioni e delle religioni.
L’attività di un reparto indigeno era resa più vasta dalla presenza delle famiglie dei militari;
anche ad esse l’ufficiale doveva estendere le proprie cure, seguendo le norme
consuetudinarie. La fiducia illimitata che a tale riguardo gli Askari avevano per il proprio
ufficiale era largamente dimostrata, ciò nonostante in materia disciplinare occorreva essere
intransigenti: mancanze contro la subordinazione, la precisione, il rispetto e l’ordine devono
essere sempre seguite da una sanzione disciplinare sia pure lieve. L’indigeno aveva infatti un
culto speciale per la giustizia e quindi l’ufficiale avrebbe dovuto evitare qualsiasi parzialità
sforzandosi di essere obiettivo in ogni circostanza. L’indigeno, secondo il Ministero, aveva
innato il sentimento formale dell’obbedienza e della subordinazione; ma soltanto all’ufficiale
che stimava ed apprezzava agli avrebbe concesso la propria fiducia. Tale promemoria
proseguiva poi descrivendo le caratteristiche degli Askari eritrei come forti, robusti e
violenti ma dalle qualità intellettuali molto modeste. In base a tali caratteristiche si doveva
perciò provvedere al loro addestramento ricorrendo molto al metodo imitativo, sorvegliare
l’azione dei graduati poiché per mentalità congenita erano portati considerare come attributo
del grado, la possibilità di esercitare a danno degli inferiori abusi personali. Era necessario
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inoltre addestrare gli Askari alla convinzione che il combattimento fosse la risultate di sforzi
coordinati e collettivi. Nel regolamento dei militari indigeni dei regi corpi delle truppe
coloniali, il ministero delle colonie, fa riferimento ai doveri morali dei militari indigeni, i
quali avrebbero dovuto avere sempre nel pensiero che essi vestivano e portavano le armi del
re d’Italia, un re buono e potente. Essi doveva pertanto mostrarsi degni di questo onore.
Dovevano rispettare la religione degli altri poiché i re d’Italia regnava ugualmente su
cristiani e musulmani e voleva la giustizia per entrambi. In tale testo il re viene quasi
equiparato a Dio e vengono tracciati una serie di precetti (simili ai 10 comandamenti) a cui
l’indigeno si doveva attenere. Tuttavia anche qui si ritrovano dei tratti di distinzione tra la
popolazione indigena e quella italica; ad esempio l’arresto di un colpevole bianco, anche se
sorpreso in flagranza di reato non poteva essere operato dagli indigeni.
In un numero speciale di una rivista dell’occupazione italiana si possono leggere tra le righe
di Mahmud Muntasser le sue lodi alla politica mussoliniana ne riguardi dei musulmani. Egli
parla del Duce dicendo che voleva legare la Libia alla Madre Italia; parla dell’istituzione
della scuola superiore islamica, l’istituzione della GAL e dell’aspirazione dei giovani
musulmani fedeli al Duce di andare a Roma per sfilare al loro Capo. L’autore sostiene la
sincerità della politica mussoliniana verso l’islam; i musulmani per lunghissimi anni, hanno
sofferto la tirannia degli etiopici i quali, con mezzi barbari, cercarono di distruggere la loro
religione e di spogliarli dei loro averi e del potere dei loro capi. Se questa politica del Negus
fosse durata ancora qualche altro anno, l’islam in Etiopia si sarebbe estinto. Mussolini viene
dunque visto come un salvatore che, all’ombra del tricolore, simbolo di giustizia e di
comprensione, salvaguardia i diritti e le libertà del musulmani. Da queste righe dunque si
evince che Mussolini riuscì a capire l’importanza della religione islamica per tale
popolazioni e la utilizzò con successo come elemento di propaganda per ottenere il loro
appoggio.
Ne ‘’la politica sociale fascista verso gli arabi della Libia’’ Italo Balbo sosteneva che i
rapporti tra indigeni e colonizzatori non doveva essere sulla falsa riga di dominatori e
dominati ma come italiani cattolici e italiani musulmani. Le popolazioni della Libia
dovevano essere considerate come uno strumento favorevole e basi necessarie per
caratterizzare la politica italiana nei confronti di tutto il mondo islamico. In tale testo si fa
una distinzione alla suddivisione della Libia nel Sahara libico, abitato da genti di razza
negroide, e nelle province a tipo metropolitano di Tripoli, Misurata, Bengasi, Derna. Gli
abitanti di quest’ultimo territorio venivano considerati come una popolazione di razza
superiore, influenzata dalla civiltà mediterranea, e dunque capace di assimilare lo spirito
delle leggi italiane e di evolversi sul piano di un’elevata vita sociale. Tale popolazione
doveva essere dunque posta nelle condizioni necessarie per una più diretta partecipazione
alla vita civile italiana. Ciò sarebbe potuto avvenire innanzitutto migliorando il tenore di vita
della popolazione accrescendone il benessere economico. Tra i vari provvedimenti presi dal
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governo a questo fine vi erano: l’introduzione di consorzi e cooperative, la regolazione dei
prezzi della manodopera e una serie di fondi stanziati per incrementare la produttività
agricola, l’istituzione di centri d’istruzione ed educazione, rimboscamenti di dune che
proteggono i giardini delle oasi dall’invasione delle sabbie e scavi di nuovi pozzi. Balbo
riteneva dunque che una volta apportate tali riforme i tempi fossero maturi per concedere
agli arabi della Libia la dignità di cittadini italiani; una volta avvenuta tale concessione i
cittadini sarebbero dovuti essere inquadrati nelle tipiche organizzazioni economiche e sociali
intonate alle nuove concezioni della vita fascista. elevare il livello culturale e sociale degli
arabi libici significa anche creare la condizione necessaria per consentire a questi arabi di
collaborare in maggior numero e più espressamente al governo della Libia nelle cariche
pubbliche e nei pubblici impieghi. Inoltre Balbo fa riferimento al riferimento della GAL, che
ha risposto in pieno a quella politica indigena che ispira la concezione fascista dell’impero:
impero che non è soltanto espressione territoriale, o militare, o mercantile ma manche e
soprattutto entità spirituale e morale. La serie di provvedimenti che il governo fascista ha
emanato in tutti i campi a favore delle genti libiche, l’orientamento, lo sviluppo, il
complesso di tutta la nostra politica indigena, miravano a creare un nuovo tipo di cittadino
libico che si fosse distaccato nettamente dal tipo della tradizione colonialistica e si fosse
inquadrato perfettamente nella nostra vita sociale. La partecipazione dell’arabo libico alla
vita sociale italiana doveva iniziare dalla più tenera età sia con la frequenza degli allievi alle
scuole istituite sia con l’inquadramento dei ragazzi nelle formazioni della GAL. Si sarebbe
poi giunti al servizio militare. Ciascun individuo sarebbe dovuto uscire dal tradizionale e
primitivo aggregato etnico per inserirsi nell’ambito dei municipi, delle residenze, delle
prefetture e del governo. L’arabo libico sarebbe dunque dovuto uscire da quella specie di
anonimato in cui veniva confuso dall’uso tradizionale che doveva essere sostituito dalle
precise e inconfondibili indicazioni dell’anagrafe municipale.
In una circolare di Guglielmo Nasi vengono esposti i principi ai quali si devono attenere i
residenti quali esempi di civiltà e lealtà e purezza d’animo rispetto alle popolazioni indigene.
Il residente avrebbe dovuto tenere soggette le popolazioni in modo da mantenere un naturale
distacco ma allo stesso tempo cercando di ascoltare i problemi della popolazione autoctona
in modo da fondare la propria legittimità ottenendo da essa il rispetto. Il residente, tramite il
suo comportante impeccabile, sarebbe dovuto apparire agli occhi dell’indigeno come un
uomo superiore: il governo di popolazioni indigene era visto innanzitutto come un
apostolato. L’autore elenca inoltre una serie di comportamenti incongrui che il residente
avrebbe dovuto evitare; fra questi vi era il ‘rassismo’ (il padrone sono me) che portava ad
un’interpretazione arbitraria indipendente da leggi che aveva le sue manifestazioni in
atteggiamenti despotici quali ad esempio le pretese allo ius primae noctis, o un sadico ritorno
ad azioni di polizia simili a quelli dell’Inquisizione. Un altro comportamento incongruo che
viene elencato sono i trattamenti inumani verso gli Askari colpevoli di reato. Tali
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trattamenti, seppur apparentemente funzionali ad ottenere importanti informazioni, sono
tuttavia condannati poiché goccia a goccia avrebbero portato alla rivolta. Viene poi fatto
riferimento, condannandola, alla febbre dell’oro, ovvero la corsa all’affare che colpisce molti
dei funzionari dell’impero coloniale. Per quanto riguarda la manodopera indigena viene
condannata la tratta dei negri, usanza aliena al colonialismo fascista. vengono condannate
razzie, incendi e violenze. I funzionari del governo dovranno essere uomini onesti ed
ottenere in questo modo la fiducia degli Askari.
Per quanto riguarda la politica razzista del regime fascista nelle colonie, dai vari documenti
emerge la necessità di distacco fra metropolitani ed indigeni per conservare la purezza della
razza e il prestigio indispensabile al dominatore sul dominato: il tratto del colono dev’essere
in ogni circostanza corretto, calmo, paziente, ma se occorre fermo e autoritario. La
colonizzazione italiana in Africa orientale, mettendo a contatto grandi masse di lavoratori e
soldati con la popolazione indigena, ha reso per l’Italia di grandissima importanze il
problema di tutela della purezza della razza. Il problema non era tanto la Libia, in quanto
terra abitata da popolazioni arabe di razza bianca e considerati di cultura superiore, bensì
l’AOI. In queste terre, a differenza delle donne musulmane, quelle indigene non ripugnavano
concedersi, sia pur temporaneamente, agli europei. Gli inconvenienti a cui si sarebbe andato
incontro se si fosse lasciata la piena libertà ai bianchi di accoppiarsi con donne di colore
sarebbero stati: avvicinamento dei dominatori europei ai sudditi indigeni, e quindi minor
rispetto di questi per i primi; pericolo di diffusione delle malattie di cui erano affetti quasi
tutti gli indigeni; abbrutimento dei bianchi in seguito alla convivenza con persone di razza e
mentalità inferiore; allontanamento del colono dai suoi doveri familiari rispetto all’Italia e
alle donne italiane, con conseguente diminuzione delle nascite; procreazione di meticci i
quali, essendo generalmente poco amati dai genitori, conducono una vita infelice e finiscono
con rappresentare un elemento di disordine e un pericolo sociale. Il 9 gennaio 1939 il
Consiglio dei Ministri approvava uno schema di decreto legge per garantire la difesa della
razza e regolare i rapporti tra italiani e indigeni. gravi sanzioni penali erano stabilite a carico
del cittadino italiano che avesse tenuto relazione di indole coniugale con persona suddita
dell’AOI. Nel suo discorso di Trieste, pronunciato nel settembre del 1938, il Duce parlò del
problema razziale in relazione con la conquista dell’Impero e con il mantenimento del
prestigio, per mantenere il quale occorreva una chiara, severa coscienza razziale che
stabilisca non soltanto delle differenze ma delle superiorità nettissime. La civiltà era vista
come contagiosa: si diffonde spontaneamente tra popolazioni portate all’imitazione. La
politica razzista, anche se poteva a prima vista sembrare allontanante, contribuiva
all’elevazione dei soggetti più che quella politica di fratellanza universale che, mescolando
bianchi e neri, ottiene, come risultato, il meticcio. Prendendo come presupposto la
superiorità culturale europea rispetto alla cultura negra, era necessario per entrambe
mantenere una superiorità della prima sulla seconda. L’Italia, affermando la sua superiorità,
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manteneva e rispettava comunque l’organizzazione sociale degli eritrei, ispirata ad un sano
senso di gerarchia; conserva le tribù dei somali, con i loro capi e le loro assemblee, ma non
lasciava, come avveniva in molte colonie britanniche, che le organizzazioni indigene
rimanessero abbandonate a sé stesse. Così le popolazioni erano costantemente protette
contro gli arbitri, mentre tutta una serie di provvidenze dirette contribuiva al loro materiale
benessere e alla loro elevazione intellettuale e morale, sviluppando in esse sentimenti di
gratitudine verso il dominatore.
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