Psicoanalisi e neuroscienze: il ruolo delle emozioni.

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Psicoanalisi e neuroscienze: il ruolo
delle emozioni.
“Fino a che la psicologia e le neuroscienze restano più
interessate
agli imponenti sistemi cortico-cognitivi del cervello umano
piuttosto
che a quelli affettivi sottocorticali, la nostra comprensione delle
fonti
della coscienza umana rimarrà miserabilmente incompleta”
J. Panksepp
"Siamo circondati da esseri e da cose con i quali intratteniamo
relazioni. Siamo con gli altri con la vista, il tatto, con la
simpatia…"
E. Lévinas
1. Riduzionismo ontologico e riduzionismo
metodologico
Vorrei tentare in queste pagine un confronto,
necessariamente limitato e schematico, tra la visione
della psicoanalisi e quella delle neuroscienze sul
tema delle emozioni.
Trascurerò però le classiche distinzioni della sfera
affettiva in umore, sentimenti e emozioni, perchè non
sono essenziali in un discorso sulle sue
caratteristiche di base.
Psicoanalisi e neuroscienze hanno entrambe come
oggetto di indagine la mente, ma i rispettivi punti di
vista sono differenti. La psicoanalisi studia la mente
dal punto di vista soggettivo, dell‟esperienza interna,
mentre il punto di vista delle neuroscienze è
oggettivo-esplicativo.
L‟enorme recente sviluppo delle neuroscienze si
accompagna spesso, in molti addetti ai lavori, a una
cieca fiducia nella capacità della scienza di spiegare
tutto. Potremmo definire questo atteggiamento come
un riduzionismo ontologico, neo-materialista, di cui è
esempio illustre Francis Crick, nobel per la scoperta
del DNA, che nella sua teoria dei correlati neuronali
della coscienza (1984) definisce la stessa “un fascio
di neuroni”. I media hanno adottato, in modo
sorprendentemente acritico, questo punto di vista, e
ci forniscono frequentemente notizie di scoperte
scientifiche tanto clamorose quanto incapaci di
spiegare veramente i fenomeni: l‟ultima che mi viene
in mente, di pochi mesi fa, è quella del mappaggio
del gene umano che favorirebbe il tradimento
coniugale.
Viene proposto, mi pare, un mondo privo di ombre
ontologiche: in futuro vivremo molto di più e meglio,
le malattie saranno drasticamente sconfitte dalla
genetica, e così via.
Non è difficile riconoscere il costellarsi di quello che
in termini junghiani potrei definire un grandioso
complesso materno (o in linguaggio freudiano una
regressione narcisistica), in cui l‟ottimismo a tutti i
costi di Pangloss e un revival della teoria del male
come privatio boni si intrecciano a una sostanziale
svalutazione della responsabilità individuale.
Ma, tenendoci a debita distanza dal riduzionismo
ontologico,
possiamo
invece
trarre
profitto
dall‟applicazione di un riduzionismo metodologico.
Come scrive E. Kandel, “La cosa più importante, e
più deludente, è che la psicoanalisi non si è evoluta
scientificamente. In particolare, essa non ha
sviluppato metodi oggettivi per comprovare le idee
stimolanti che aveva formulato all‟inizio. Come
risultato, la psicoanalisi entra nel ventunesimo secolo
con la sua influenza in declino… Questo declino è
deplorevole, dal momento che la psicoanalisi
rappresenta ancora la visione della mente più
coerente e soddisfacente dal punto di vista
intellettuale”. (1999)
Oggi la ricerca neurobiologica è in grado di fornire
informazioni valide su come funziona la mente,
anche se certo non sul perché e a qual fine. Può
fornire alle teorie della psicoanalisi quella validazione
empirica che sognava Freud, quando scriveva: “La
biologia è veramente un campo dalle possibilità
illimitate, dal quale ci dobbiamo attendere le più
sorprendenti delucidazioni; non possiamo quindi
indovinare quali risposte essa potrà dare, tra qualche
decennio, ai problemi che le abbiamo posto. Forse
queste risposte saranno tali da far crollare tutto
l‟artificioso edificio delle nostre ipotesi”. (1920)
Io penso che solo ponendosi a confronto con la
biologia la psicoanalisi potrà evolversi, attraverso la
rielaborazione concettuale dei propri paradigmi di
riferimento. Ma tenendo sempre presente la radicale
differenza dei rispettivi punti di vista e competenze.
2. Il valore cognitivo delle emozioni
La storia della cultura occidentale è imbevuta della
diatriba sul dualismo tra mente e corpo, tra spirituale
e emozionale. Mentre viene storicamente privilegiato,
da Platone a Tommaso, l‟elemento “alto”, lo spirito,
ciò che è “solo” corporeo ha ricevuto sempre poche
attenzioni. Descartes con il suo cogito, ergo sum non
fa che ribadire definitivamente la superiorità
dell‟intelletto sul sentimento. Dopo di lui, -poniamo
fuori dal coro la breve parentesi del romanticismo e
poco altro- comincia la rivoluzione scientifica, che si
proclama, tanto per cambiare, figlia del pensiero; e a
Immanuel Kant non resta che definire, nella Critica
della ragion pratica, le emozioni come una malattia
dell‟anima.
Quali le conseguenze? Un pensiero che separa la
sfera cognitiva da quella affettiva non può che
produrre una scissione concettuale tra conoscenza
oggettiva e soggettiva, come quella teorizzata da
Diltey, con la sua proposta di una separazione tra
scienze umane e scienze della natura. Le scienze
della natura, afferma Diltey, sono quelle
caratterizzate da un tipo di indagine causale
esplicativo, che si propone di conoscere l'oggetto
dall'esterno; al contrario le scienze umane indagano
il loro oggetto dall'interno, cercando di coglierne il
significato.
Credo non sia esagerato definire questa scissione
come un limite culturale, storicamente il più palese
dell‟Occidente, che ci ha spesso condotto a ricercare
altrove, in particolare nell‟Oriente, un‟idea più globale
di conoscenza, e talvolta a scimmiottare
penosamente le culture altrui: tanto per restare ai
tempi nostri, mi limiterò a ricordare il fenomeno che
va sotto il nome di new age.
Per quale motivo l‟Occidente ha espresso un
atteggiamento critico rispetto a tutto ciò che è corpo
e materia? Una spiegazione quasi ovvia è legata al
suo modello culturale di riferimento, il Cristianesimo,
che, specie nel dettato paolino, propone una
svalutazione di tutto ciò che è materiale, in vista del
vero obiettivo del cristiano, la vita ultraterrena. Ma in
fondo non mancano esempi opposti -penso ad
Agostino che proclama: “Ama Dio e poi fa ciò che
vuoi”- anche se sono in nettissima minoranza.
Le cose non vanno comunque meglio con la
psicoanalisi, che pure -in quanto scienza umana- si
fonda su un modello di conoscenza soggettiva.
Anche se Freud rivendica l‟unità mente-corpo e
l‟origine biologica di tutti i meccanismi psichici, in
pratica egli svaluta la sfera affettiva, perchè ipotizza
tra mente e cervello rapporti riduttivi tipo causaeffetto. In questo modo tutto ciò che è somatico
perde la capacità di veicolare un significato
autonomo: Freud considera l‟istintualità un
meccanismo elementare e involontario, destinato in
ultima istanza alla rimozione, in nome di un
predominio della coscienza (“Là dov‟era l‟Es, sarà
l‟Io!”).
Inoltre, possiamo considerare la rimozione freudiana
come un meccanismo di difesa che ipostatizza la
separazione tra la componente cognitiva e i suoi
correlati emozionali: si può affermare che anche
Freud in pratica propone un dualismo tra mente e
corpo, tra l‟affetto e la sua rappresentazione che, in
quanto inaccettabile, è destinata alla rimozione,
dando origine all‟inconscio rappresentativo. Egli
giunge a differenziare le nevrosi in analizzabili (da
difesa) e non analizzabili (attuali) precisamente in
base al fatto che solo nelle prime si può rintracciare
l‟azione della rimozione e quindi, seguendo un
percorso inverso, recuperare grazie alla terapia la
componente ideativa che era stata rimossa. E le
emozioni? Poco più che semplici segnali biologici del
disagio, residui della mente primitiva da bonificare.
La proposta teorica di Jung è profondamente
diversa. Oggi che, anche grazie a lui, diamo come
ovvio il valore cognitivo delle emozioni, e critichiamo
le pretese di oggettività della scienza ponendo nel
giusto risalto il filtro non neutro costituito dalla
soggettività dell‟osservatore -è infine caduto, come
altri hanno detto efficacemente, il dogma
dell‟immacolata percezione-, può non essere
semplice comprendere il valore rivoluzionario della
sua teoria, fondata sull‟idea che la conoscenza è
prima di tutto soggettiva. Ma alcune sue
affermazioni, come la seguente, non hanno certo
perso di attualità: ”...ci viene il dubbio che alla fine
tutta questa separazione di psiche e corpo non sia
che un processo intellettivo intrapreso allo scopo di
acquisire
conoscenza,
una
distinzione,
indispensabile per la conoscenza, di un medesimo
fatto in due visuali, a cui noi ingiustamente abbiamo
attribuito un‟esistenza indipendente.” (1926)
Per Jung l‟elemento basilare dell‟organizzazione
psichica è il complesso, o meglio il complesso a
tonalità affettiva. Già dalla sua denominazione
possiamo riconoscere il nucleo significativo del
complesso nel vissuto soggettivo -immagini,
emozioni e sensazioni somatiche- che è
caratterizzato da una precisa tonalità affettiva, al
quale si aggregano le componenti archetipiche
(costituzionali), quelle ideative (rappresentazioni
prodotte dal pensiero) e quelle sensoriali
(rappresentazioni prodotte dall‟esperienza del mondo
esterno). Perciò nel complesso junghiano viene
superato il dualismo freudiano mente-corpo, perchè
l‟affetto
è
sempre
connesso
alla
propria
rappresentazione.
Piuttosto, Jung segnala una importante variazione
nell‟espressione degli aspetti cognitivi e affettivi in
funzione del livello di coscienza. Più il complesso è
distante dal complesso dell‟Io, vale a dire che più è
inconscio, più la componente rappresentativa si
riduce rispetto alla componente affettiva. Quando
invece il complesso si avvicina alla superficie della
coscienza, nella sua espressione prevale l‟aspetto
cognitivo. Ma affetto e rappresentazione sono
sempre presenti contemporaneamente.
Si tratta di una base teorica che presenta molti punti
di contatto con le più recenti acquisizioni della
neurofisiologia, e che da queste riceve una
validazione empirica. Semplificando molto, le
ricerche di Le Doux individuano per le emozioni sia
circuiti sottocorticali, vale a dire inconsci, sia circuiti
corticali, quindi coscienti. I circuiti sottocorticali si
attivano sempre, per ogni tipo di input, elaborando
risposte
specie-specifiche,
determinate
geneticamente: patterns of behavior. Ma anche,
entro certi limiti, individuo-specifiche, perché
collegate alle aree cerebrali dove è sita la memoria
implicita, sede delle esperienze inconsce del singolo
individuo.
I circuiti corticali possono -non
obbligatoriamente- attivarsi, esercitando sui primi
una modulazione cosciente che giustifica il dato
esperienziale che ci mostra come l‟apprendimento e
la cultura possono influenzare l‟espressione delle
emozioni. In altre parole una emozione, anche
quando è inconscia, esercita comunque un ruolo
regolatore sull‟omeostasi dell‟organismo, finalizzato
alla conservazione della vita. Solo quando
l‟emozione è processata dai circuiti neuronali corticali
viene modulata dall‟esperienza cosciente.
Analogamente, secondo la teoria del complesso a
tonalità affettiva, ogni complesso si attiva
autonomamente in risposta a qualunque afferenza.
Date le radici archetipiche del complesso, la risposta
comprende aspetti specie-specifici o archetipici, ma
anche aspetti più o meno filtrati dalle esperienze
individuali -quell‟esperienza soggettiva del mondo,
che del complesso è il nucleo significativo- e quindi
individuo-specifici. Anche secondo la teoria
junghiana quanto più il complesso costellato è vicino
al complesso dell‟Io, cioè è cosciente, tanto più nella
sua espressione prevale l‟aspetto ideativo su quello
affettivo.
Possiamo
ancora
utilmente
confrontare
le
acquisizioni della neurobiologia con il concetto che
Fonagy ha definito schemi emozionali, per molti versi
sovrapponibile a quello junghiano di complesso:
anche qui per le modalità emozionali di risposta,
invariabili e prevedibili, apprese nei primi anni di vita,
che pongono le basi per la costruzione del carattere,
vengono ipotizzati sia un aspetto costituzionale, sia
una componente esperienziale, per esempio una
risposta abnorme a traumi psichici.
3. L’esperienza emozionale terapeutica
Questo sottotitolo ricalca volutamente il tema di un
articolo di F. Alexander (1946), che scatenò un
acceso dibattito critico all'interno della psicoanalisi
classica. Il paziente -sosteneva Alexander- per
essere aiutato deve passare attraverso una
esperienza emozionale correttiva adatta per riparare
l'influenza traumatica di esperienze precedenti. Oggi
ci sembrerebbe ovvio: uno snodo teorico
irrinunciabile della psicoanalisi -e delle teorie
cognitiviste- è quello che attribuisce efficacia
terapeutica al recupero, nel corso del trattamento,
delle emozioni primarie che derivano, in particolare,
dalla relazione del bambino con la madre.
Sappiamo bene che nei primi anni di vita, nei quali si
sviluppano il sistema simbolico e il linguaggio, il
bambino va incontro a esperienze affettive ed
emozionali molto significative: mentre alcune
esperienze primarie saranno positive ed essenziali
per la crescita mentale e fisica del bambino, altre
potranno essere traumatiche: inadeguatezza dei
genitori, violenze fisiche e psicologiche, frustrazioni
tali da indurre in lui l‟attivazione di difese, in
particolare la rimozione. Nell‟ottica della teoria
dell‟attaccamento
si
determina,
a
causa
dell‟attivazione delle difese, una inibizione della
capacità metacognitiva, cioè una perdita della
capacità di comprendere le emozioni dell‟altro
attraverso l‟immaginazione.
Il recupero terapeutico di queste emozioni primarie
presenta sempre difficoltà inaudite, e cento anni di
psicoanalisi non hanno esaurito la creatività dei
teorici nel proporre tecniche e teorie in proposito.
Freud ha giustificato l‟amnesia dei ricordi
precocissimi, straordinariamente importanti nella
formazione della personalità e dei sintomi, con il
concetto di rimozione originaria, che si riferisce a
emozioni che non sono mai giunte alla coscienza e
quindi non sono mai state rimosse, mentre la
rimozione propriamente detta viene esercitata su
vissuti coscienti e più tardivi (dopo i primi due anni),
che restano accessibili grazie all‟indagine analitica.
Scrive”: “Per una specie particolare di situazioni
assai importanti che si verificano in un‟epoca assai
remota dell‟infanzia [...] non è in genere possibile
suscitare il ricordo. Si arriva a prenderne coscienza
attraverso i sogni”.
La neurobiologia ha confermato l‟intuizione
freudiana. Nel nostro cervello operano due sistemi
mnesici con caratteristiche funzionali differenti: la
memoria esplicita o dichiarativa e la memoria
implicita o non-dichiarativa. La prima può essere
evocata coscientemente e verbalizzata: essa
riguarda le esperienze autobiografiche coscienti. La
memoria implicita invece non è cosciente né
verbalizzabile, quindi non permette il ricordo
volontario di ciò che ha immagazzinato. Di essa fa
parte la memoria emotiva, che interessa le emozioni
e le esperienze del bambino nelle prime relazioni con
l‟ambiente.
Di questi due sistemi è stata individuata la
collocazione anatomica. Qui è sufficiente ricordare
che l‟integrità dell‟ippocampo è indispensabile per il
buon funzionamento della memoria esplicita, mentre
l‟amigdala è una delle aree cerebrali in cui si
localizza la memoria implicita, e ha un ruolo
essenziale nel ricordo delle emozioni.
Dicevamo dell‟impossibilità di ricordare le esperienze
dei primissimi anni di vita, riferibili ad epoche preverbali e pre-simboliche. E‟ stato dimostrato che
l‟amnesia per i ricordi infantili precoci va attribuita
all‟immaturità neuronale, nei primi due anni di vita,
dell‟ippocampo, sede della memoria esplicita, e che i
ricordi precoci vengono invece archiviati in strutture
sottocorticali filogeneticamente più antiche, che
maturano prima e immagazzinano la memoria
implicita. Il contenitore di tutte le esperienze molto
precoci, comprese le difese che il neonato ha
utilizzato per gestire le angosce conseguenti alle
esperienze traumatiche, è l‟amigdala, sede della
memoria emotiva.
Questo significa che le nostre esperienze primarie
fondamentali sono immagazzinate come emozioni, e
che come tali modellano la nostra visione del mondo
e la nostra personalità. Acquista allora un significato
ben più immediato l‟affermazione di Ignacio Matte
Blanco, che “…in fin dei conti nulla ci conduce a una
chiara e netta distinzione psicologica tra l‟emozione e
l‟inconscio”.
Detto in altre parole, si possono considerare gli affetti
come la manifestazione oggettiva della realtà
dell’inconscio.
“Solo in questo senso -ci ricorda Marozza- possiamo
tenere insieme il significato più profondo del termine
inconscio, come ciò che non è conosciuto, ritenerlo
eternamente tale e connaturato all‟esperienza
umana e nello stesso tempo considerarlo
assolutamente influente e talmente oggettivo da
poter essere la vera fonte dell’attività psichica,
manipolabile dalla soggettività cosciente solo nella
direzione da lui stesso consentita”.
Dopo che l‟ippocampo è giunto a maturità,
normalmente fornisce ai circuiti emozionali i dati
esperienziali della memoria esplicita per valutare, per
esempio, quali contesti siano indicativi di pericolo.
Ma non sempre le emozioni possono usufruire della
memoria esplicita e arricchirsi quindi in valore
informativo. E‟ noto che gli ormoni corticosteroidi,
che sono in grado di inibire il funzionamento
dell‟ippocampo, vengono fortemente incrementati
nelle situazioni traumatiche e nello stress acuto. Ne
consegue che il ricordo, in una situazione
eccessivamente traumatica, può essere cancellato
dalla
memoria
esplicita
tramite
l‟inibizione
dell‟ippocampo, e non essere più recuperabile. Però i
corticosteroidi
non
inibiscono
le
funzioni
dell‟amigdala, e quindi non cancellano gli aspetti
emozionali dello stesso ricordo traumatico. Queste
evidenze neurobiologiche ci mostrano quelle che
potrei definire le basi biologiche della rimozione,
nella quale si elimina la rappresentazione cosciente
ma non la componente emozionale dell‟evento
traumatico.
4. Empatia e alessitimia
Nelle sue più recenti evoluzioni teoriche la
psicoanalisi, sostituita la teoria pulsionale con quella
del deficit, sottolinea con più forza il tema della
relazione interpersonale. Alla base di questo
cambiamento si pone l‟idea che tutte le malattie
psichiatriche sono tipi di dis-regolazione emotiva e
tutte le psicoterapie sono tipi di regolazione affettiva:
per questo, come si è accennato prima, per ottenere
un reale cambiamento il paziente deve passare
attraverso un‟esperienza emozionale condivisa con il
terapeuta.
Anche in questo caso la ricerca biologica fornisce la
validazione empirica di questo assunto, grazie ai
lavori di Kandel (1998), il quale ha dimostrato che i
fattori relazionali e sociali -quindi anche la
psicoterapia- esercitano un'azione sul cervello
modificando stabilmente la funzione dei geni, cioè la
loro espressione proteica, che interessa le sinapsi e
quindi i circuiti neuronali. Ne consegue che la
"cultura" può esprimersi come "natura": si fa sempre
più sottile la differenza tra mente e corpo.
L‟attenzione alla relazione interpersonale porta le
nuove correnti della psicoanalisi a sottolineare il
tema dell‟empatia: anche su questo argomento
registriamo un fruttuoso confronto tra le teorie
psicodinamiche e le acquisizioni della neurobiologia.
Intanto, bisogna dire che la psicoanalisi propone
varie definizioni dell‟empatia, che non sono così
concordi tra loro. Alcuni autori la ritengono
sostanzialmente una funzione cognitiva che porta a
percepire gli stati affettivi propri e dell‟altro (la
mentalizzazione di Fonagy), mentre altri ne
sottolineano un valore emozionale e affettivo, o la
motivazione ad alleviare la sofferenza altrui. Ancora,
secondo alcuni l‟empatia è un comportamento
sociale appreso per condizionamento, secondo altri
si tratta di un comportamento istintuale. Nell‟intento
di sottolineare il valore cognitivo delle emozioni, è
stato proposto il concetto di intelligenza emotiva
(Mayer e Salovey, 1997), definita “la capacità di
monitorare le proprie e le altrui emozioni, di
differenziarle e di usare tali informazioni per guidare
il proprio pensiero e le proprie azioni”, cioè la
capacità di utilizzare i sentimenti per elaborare le
informazioni.
Ancora,
una
caratteristica
dell‟intelligenza emotiva è “la capacità di pensare sui
sentimenti”.
L’alessitimia (Nemiah et al, 1976) è la condizione
patologica in cui si registra un deficit di intelligenza
emotiva: chi ne è affetto è incapace di farsi una
rappresentazione mentale delle emozioni, quindi
presenta difficoltà a identificare e descrivere i
sentimenti, limitata capacità immaginativa e stile di
pensiero orientato verso la realtà esterna.
L‟alessitimia è diventata per la neurobiologia un
prezioso modello clinico che sottolinea il valore
cognitivo delle emozioni. Infatti, questi pazienti sono
affetti da marcate anomalie del comportamento
sociale e sono incapaci di portare a termine anche
un compito semplice, perché non riescono a
prendere decisioni appropriate; eppure ottengono
abbastanza regolarmente punteggi alti nei test che
misurano l‟intelligenza o la memoria. Spesso essi
diventano tali dopo che una noxa patogena ha
danneggiato il loro cervello in zone precise.
Tipicamente raccontano che argomenti o situazioni
che in precedenza suscitavano in loro forti emozioni
dopo la malattia non provocano in loro nessuna
emozione.
5. Il sistema specchio
Recenti ricerche sembrano aver identificato la base
anatomica di patologie quali l‟autismo infantile e
l‟alessitimia nell‟ipofunzione del sistema specchio. Mi
riferisco a una tra le scoperte neurobiologiche più
importanti di questi ultimi anni, anzi, probabilmente
alla più importante: quella dei cosiddetti neuroni
specchio. Quando osserviamo un nostro simile
compiere una qualunque azione si attivano, nel
nostro cervello, alcuni neuroni -appunto i neuroni
specchio- siti nella stessa area cerebrale che si
attiverebbe se fossimo noi a compiere quella stessa
azione. L‟apprendimento passa quindi attraverso
l‟imitazione delle azioni altrui, perché il nostro
cervello entra in risonanza con quello della persona
che stiamo osservando. Si tratta di un meccanismo
cerebrale di importanza straordinaria, perché
permette una sorta di comunicazione non linguistica
fra i cervelli. Si può con ragione supporre che i
neuroni specchio siano fondamentali nella genesi
dell‟empatia, del comportamento sociale
e
dell‟acquisizione del linguaggio. In particolare è stata
riscontrata una correlazione positiva tra i risultati di
un test per l‟empatia e l‟intensità dell‟attivazione del
sistema-specchio: un risultato chiaramente a favore
dell‟ipotesi che vede questo sistema come base
biologica per le capacità empatiche.
Si è poi recentemente scoperto che c'è un sistema
specchio anche per le emozioni: per esempio è stata
studiata la sensazione di disgusto, sia facendo
inalare odori sgradevoli, sia mostrando i volti di
persone disgustate. In entrambi i casi venivano
provocate sensazioni spiacevoli, e perfino il vomito.
Ancora, Singer (2004) ha dimostrato che un soggetto
che osserva attraverso uno specchio un altro
soggetto soffrire per uno stimolo doloroso presenta,
se è in relazione affettiva con lui, l‟attivazione delle
stesse strutture affettive del dolore di colui che soffre
realmente.
Il sistema specchio consente, in sostanza, una
comunicazione
extraverbale
inconscia
(cioè
emozionale): un processo che in linguaggio
psicoanalitico
definiremmo
tranquillamente
di
identificazione proiettiva. Ed è lecito ipotizzare che
rappresenti la base anatomica dei fenomeni
transferali e controtransferali.
Su un piano speculativo, la scoperta dei neuroni
specchio ci permette di affermare che, ben
diversamente
dalle
tendenze
individualiste
sottolineate dal cognitivismo, dal comportamentismo
e anche da quella psicoanalisi che si modella sulla
teoria delle pulsioni, la soggettività umana è in realtà
una intersoggettività originaria.
“Questa prospettiva -scrive Gallese, scopritore del
sistema specchio- si applica non solo al mondo delle
azioni, ma anche e più in generale all'esperienza
delle emozioni e delle sensazioni vissute da altri.
Non siamo alienati dal significato delle azioni,
emozioni o sensazioni esperite dagli altri non solo
perché le condividiamo ma anche perché abbiamo in
comune i meccanismi nervosi che le sottendono.
Grazie alla consonanza intenzionale, l'altro che ci sta
di fronte è molto più che un altro sistema
rappresentazionale: l'altro è un'altra persona come
noi. Il sistema dei neuroni specchio rappresenta
verosimilmente il correlato nervoso di questa
consonanza intenzionale”.
Del resto, già Merleau-Ponty sosteneva che l„essere
umano scopre se stesso nella propria soggettività
soltanto attraverso la relazione con l'altro, e Lacan,
con il suo “je est un autre”, ci ricorda che la
costruzione del nostro sé passa attraverso la
possibilità di vederci oggettivamente, attraverso lo
specchio -il rispecchiamento, l‟occhio di un altro.
Infine, dal punto di vista della psicoanalisi, la
conseguenza teorica più interessante che deriva
dalla scoperta del sistema specchio è il sostegno
empirico
che
viene
fornito
alla
teoria
dell‟attaccamento di Bowlby, poi perfezionata da
Fonagy.
Infatti Bowlby, differenziandosi dalla maggioranza
degli psicoanalisti dell‟epoca, ha concentrato la sua
attenzione sui fattori patogenetici interpersonali
piuttosto che su quelli intrapsichici. Accogliendo la
nozione freudiana che le funzioni psichiche possono
essere interiorizzate nel corso della relazione
oggettuale primaria, ha sostenuto che l‟acquisizione
della funzione riflessiva dipende dall‟opportunità che
il bambino ha avuto di esplorare la mente del suo
genitore. Solo la comprensione che il genitore ha
degli stati mentali del bambino permette a
quest‟ultimo di far fronte all‟angoscia, favorendo la
simbolizzazione del proprio stato interiore: si tratta
quindi di un fattore essenziale nello sviluppo emotivo
del bambino. E‟ stato anche proposto un modello
transgenerazionale del disturbo di attaccamento del
bambino: a causa dell‟insufficiente mentalizzazione
del genitore, egli diventerà a sua volta un adulto
incapace di un adeguato contenimento delle
emozioni dei propri figli. Sono le stesse
argomentazioni, pur nella diversità dei linguaggi, che
ci vengono proposte dagli scopritori del sistema
specchio.
Si può obiettare che queste teorie presentano un
rischio: quello di scivolare su visioni eccessivamente
deterministiche per quanto riguarda il rapporto tra
efficienza del sistema specchio e capacità di
autentica empatia.
Sappiamo bene che una madre emotivamente
sintonizzata ed espressiva comunica al proprio figlio
segnali molto diversi rispetto ad una madre
depressa, ansiosa o alessitimica. Anche in assenza
di disturbi psichiatrici il livello di sintonia con gli stati
emotivi dei figli e la capacità di rispondere alle loro
comunicazioni non-verbali può presentare differenze
marcate tra un genitore e l‟altro.
Però le variazioni individuali nelle risposte empatiche
non sono -per fortuna, oserei dire- in rigida relazione
con le patologie da attaccamento insicuro: esiste
“solo” una base probabilistica. E‟ importante riflettere
sul fatto che spesso i figli di genitori inadeguati
sviluppano una buona capacità riflessiva, mentre la
capacità di comprendere i vissuti altrui non ha mai
impedito agli esseri umani di compiere stragi e
fabbricare forni crematori. In altre parole,
empatizzare e simpatizzare con l'altro sono due cose
diverse, e nessuno ha ancora scoperto le basi
biologiche dell‟etica.
6. Conclusioni
Le scoperte della neurobiologia, in particolare quelle
sul sistema specchio, mettono in discussione alcune
teorie psicodinamiche classiche, a partire dalla teoria
delle pulsioni, in base alla quale l'essere umano
quando agisce spontaneamente lo fa in modo
egoistico. Al contrario, il sistema specchio è un
meccanismo
fisiologico
che
ci
predispone
all‟altruismo, dato che godiamo anche noi -o
soffriamo, se del caso- delle emozioni altrui. In pochi
anni le nostre conoscenze sui meccanismi biologici
delle emozioni si sono moltiplicate, ed è doveroso,
credo, tenere conto dell‟oggettivo sostegno empirico
che esse forniscono -come ho cercato di dimostrarea specifiche teorie psicodinamiche. Preoccupandoci
però di non cadere dalla padella nella brace, dal
riduzionismo ontologico a quello biologico.
Scrive Emmanuel Lévinas: "il nostro rapporto col
mondo, prima ancora di essere un rapporto con le
cose, è un rapporto con l'altro. E' un rapporto
prioritario che la tradizione metafisica occidentale ha
occultato, cercando di assorbire e identificare l'altro a
sè, spogliandolo della sua alterità".
Per questo motivo l‟etica della psicoanalisi si fonda
sulla provocazione del coinvolgimento personale,
sulla necessità di non tradire gli affetti. Le emozioni si
comprendono con le emozioni: nulla accade in
analisi in assenza del nostro coinvolgimento affettivo,
del nostro personale sentire.
Ferruccio Vigna
Bibliografia:
Alexander, F. La esperienza emozionale correttiva,
traduzione dei capitoli 2, 4 e 17 del libro: Franz
Alexander, Thomas M. French e collaboratori,
Psychoanalytic Therapy: Principles and Application
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Freud S. (1895) Progetto di una psicologia OSF 2
Freud, S. (1914) Ricordare, ripetere, rielaborare,
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Freud, S. (1920) Al di là del principio di piacere, OSF
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Gallese, V. Nei neuroni-specchio il riflesso sociale
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Kandel, E. (1998-1999) A new intellectual framework
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