CAPITOLO III LE GRAMMATICHE DELLA LINGUA ITALIANA 51 III.1 LE GRAMMATICHE ITALIANE DEL PERIODO UNITARIO I libri di testo rappresentano da sempre utili strumenti da utilizzare per trarre informazioni sui livelli di cultura e sui modelli di comportamento delle società nel corso del tempo, ma soprattutto sulle condizioni storiche, politiche e sociali che influirono sulla loro compilazione, impostazione e utilizzazione pratica. Essi diventano quindi “oggetti di ricerca”49 e, specie quelli scolastici, costituiscono modelli linguistici e strumenti primari per il controllo del sapere di fondamentale importanza per ricostruire i processi di alfabetizzazione e i diversi sistemi linguistici della comunicazione scritta e orale. Con la nascita dello Stato unitario la lingua fu considerata valore nazionale e ai libri di testo, veicoli di norme e di lingua, fu assegnato un ruolo primario nel processo di unificazione. La questione dei libri di testo per le scuole fu molto viva fin dai primi anni unitari e assunse un importante significato sociale e politico. Era ormai chiaro, infatti, che per raggiungere una solida unificazione linguistica il sistema scolastico del nuovo Stato doveva basarsi sui comuni libri di testo considerati efficaci strumenti formativi. Per rendere davvero omogeneo il sistema educativo e trasmettere a tutte le province gli stessi principi di istruzione, i libri dovevano essere istituiti per tutte le scuole d’Italia e divenire strumenti per tutti i maestri indipendentemente dalla loro provenienza. Riconosciuta pertanto la funzione primaria di tali strumenti didattici, il ministro della Pubblica Istruzione Carlo Matteucci aveva più volte sottolineato nelle proprie relazioni quali dovessero essere le caratteristiche comuni a tutti i libri destinati alle scuole: “prezzo modicissimo”, “edizione purgatissima”, “unità di spirito, di scopo e di dottrina” e “armonia” grazie alla quale un testo “serviva di preparazione all’altro”50. 49I. PORCIANI, Il libro di testo come oggetto di ricerca, in A. Santoni-Rigiu (a cura di), Storia della scuola e storia d’Italia, Bari, De Donato, 1982, pp. 237-271, a p. 238. 50G. CANESTRI - G. RICUPERATI, La scuola in Italia dalla legge Casati a oggi, Torino, Loescher, 1976, p. 74. 52 Con la creazione dello Stato unitario e il conseguente potenziamento del mercato librario si avvertì un grande sforzo editoriale soprattutto per la pubblicazione delle grammatiche, che “si susseguirono con grande rapidità e frequenza”51. Circa 700 furono, infatti, quelle pubblicate in Italia nel sessantennio che va dal 1860 al 191852. La principale destinataria della produzione grammaticale dell’Italia unita fu la scuola che, grazie a un corretto insegnamento, doveva unificare linguisticamente la nazione. Attraverso le grammatiche, i libri di lettura, i vocabolari, l’insegnamento della lingua italiana assunse un ruolo di fondamentale importanza nel lungo processo di alfabetizzazione e italianizzazione che investì il paese. In particolar modo le grammatiche, intese come strumenti didattici privilegiati per la diffusione della “buona lingua”, ebbero un ruolo essenziale per la formazione della coscienza linguistica nazionale. Esse divulgavano regole, metodi e modelli linguistici da imporre ai fanciulli e da fare applicare ai maestri, ed erano scritte secondo criteri specifici e precise tecniche didattiche. La principale caratteristica che ogni grammatica doveva avere era quella della brevità e, infatti, in moltissimi titoli di grammatiche ottocentesche ricorrono attributi come grammatichetta, grammatichina, breve, brevissima, o parole come elementi, appunti, nozioni, rudimenti ecc. La brevità del testo, oltre a rendere l’apprendimento della grammatica più accessibile a tutti, senza trasformarla in una materia “tormentatrice”53, rispondeva anche al bisogno di contenere i costi dei volumi e quindi permetterne l’acquisto anche ai ceti sociali meno abbienti. In alcuni casi, inoltre, il titolo della grammatica era scelto per attirare l’attenzione del lettore ed evidenziare lo stile narrativo adoperato, come nella Grammatica di Giannettino di Collodi e in quella di Felicino del Parri. 51C. TRABALZA, Storia della grammatica italiana, Milano, Hoepli,1963 (ristampa anastatica dell’ediz.1908), p.506. 52M. CATRICALÀ, Le grammatiche scolastiche dell’italiano edite dal 1860 al 1918, Firenze, Accademia della Crusca, 1991, p. 31. 53Termine usato da vari autori dell’epoca per definire l’insegnamento grammaticale tra i quali Capponi, Lambruschini, Villari e altri, cfr. M. RAICICH, Scuola, cultura e politica da De Sanctis a Gentile,Pisa, Nistri-Lischi, 1981, pp.121-22. 53 La maggior parte delle grammatiche era destinata ai fanciulli delle scuole elementari che erano senz’altro più numerosi di quelli delle scuole superiori54. Alcune invece erano scritte appositamente per le famiglie e in modo particolare per le madri, in accordo con l’idea divulgata dal francescano di origine svizzera, Grégoire Girard, di dover delegare a loro il compito di trasmettere ai propri figli la lingua nazionale in contrapposizione al dialetto55. In Italia però il progetto girardiano trovò scarsa applicazione, a causa della percentuale ancora molto alta di madri dialettofone, o soprattutto per il fatto che, come in altre nazioni, le donne erano rimaste a lungo escluse dall’istruzione. Nell’ambito della produzione grammaticale postunitaria si fronteggiarono diverse posizioni circa i testi da consigliare, accettare o respingere, dai tradizionalisti ai metodisti, dai pratico-teorici ai puristi e ai manzoniani56. Nel periodo post-unitario, caratterizzato da grandi trasformazioni politiche e sociali, si avvertirono segnali di rinnovamento anche nel campo della grammaticografia: molte grammatiche furono rinnovate nell’impostazione grafica, altre invece furono corredate da illustrazioni o redatte in formati tascabili per rispondere ai bisogni di un pubblico sempre più vasto, anche fuori dell’ambiente scolastico. Le tesi puristiche arretrarono e molti autori dell’epoca assunsero un nuovo atteggiamento rispetto alla “supernorma di stampo bembesco”57 su cui si era modellato fino ad allora il sistema della lingua italiana. 54Dai dati dell’ISTAT, Sommario di statistiche storiche italiane 1861-1955, tav. 27-31, apprendiamo che nel decennio 1861-70 gli iscritti alle scuole elementari erano 1.330.000 contro i 25.000 delle scuole superiori. 55M. RAICICH, Lingua materna o lingua nazionale: un problema dell’insegnamento elementare dell’italiano nell’Ottocento, in La Crusca nella tradizione letteraria e linguistica italiana. Atti del Congresso internazionale per il IV centenario dell’Accademia della Crusca, (Firenze, 29 settembre- 2 ottobre 1983), Firenze, Accademia della Crusca, 1985, pp.1-42, a p.12. 56M. RAICICH, Scuola di cultura e politica, cit., p. 147-148. 57F. SABATINI, L’italiano dell’“uso medio”: una realtà tra le varietà linguistiche italiane, in Holtus -Radtke, Gesprochenes Italieniscch in Geschichte und Gegenwarl, Tubingen, Narr Verlag, 1985, pp.154-184, a p.178. 54 Le posizioni innovative promosse dalla riforma linguistica del Manzoni influenzarono molti di essi, tuttavia, nonostante la benevola accoglienza di tali posizioni, non fu solo il modello linguistico fiorentino a prevalere nella scuola, “l’adesione alla norma linguistica toscana non fu per niente totale ed esclusiva”58. La lingua delle grammatiche si indirizzò verso forme e registri più ampi, che lasciavano spazio anche a esempi tratti dalla lingua viva e quindi all’espressività della lingua parlata. I grammatici post-unitari, inoltre, manifestarono, rispetto ai loro predecessori, una più larga attenzione al problema della corretta pronuncia. Nella scuola dell’Italia unita erano ancora largamente adottate le grammatiche di Basilio Puoti e di Salvatore Corticelli. Ad esse se ne affiancarono tantissime altre che proponevano diversi indirizzi normativi, diversi orientamenti e tendenze linguistiche. L’esame dei testi adottati nelle scuole e il tipo di lingua in essi proposto mostrano come alcuni grammatici tentarono di adeguare il vecchio codice linguistico alle nuove esigenze della comunicazione, mentre altri manifestarono un irrigidimento e rimasero legati al tradizionalismo. Spesso accadeva però che “posizioni originariamente diverse, atteggiamenti puristi, manzonismo, neotoscanismo potevano arrivare anche a fondersi”59. In linea generale, i testi di grammatica si presentavano come “meta-testi fatti di regole ed esempi”60. Le regole in essi contenute erano enunciate con la massima brevità per consentire una rapida memorizzazione e gli esempi utili a spiegarle erano abbondanti e di facile interpretazione. 58M. CATRICALÀ , Le grammatiche scolastiche, cit.,p.18. 59T .POGGI SALANI, Italiano a Milano a fine Ottocento: da un manualetto delle sorelle Errera, in Studi di lingua e letteratura lombarda offerti a Maurizio Vitale, Pisa, Giardini,vol.II, 1983, pp.925-98, a p. 939. 60J. LOTMAN - B. A. USPENSKI, Tipologia della cultura, Milano, Bompiani, 1975, p. 69. 55 Nelle grammatiche c’erano anche elenchi e tabelle di voci grammaticali, come suffissi, prefissi, complementi, preposizioni ecc. , da memorizzare, nonché definizioni formali e proposte di esercizi su modelli dati. Molte, la più nota delle quali resta la Grammatica di Giannettino di Carlo Collodi, erano redatte in forma di dialogo tra maestro e scolaro. Il dialogo aveva la funzione di guidare dal noto all’ignoto, dall’esempio spontaneo alla norma. III.2 LE GRAMMATICHE ITALIANE DI GIOVANNI SCAVIA IN USO NELLE SCUOLE DELLA BASILICATA Dai documenti dell’Archivio di Stato di Potenza (Fondo Prefet. 1860-72, fasc.164) apprendiamo che nelle scuole elementari della provincia di Basilicata, erano state adottate per l’insegnamento della lingua italiana, le due grammatiche compilate da Giovanni Scavia, studioso di origine piemontese, che aveva ricoperto vari incarichi ministeriali e che nel 1862 era stato nominato ispettore generale delle scuole normali, tecniche e magistrali. Tali grammatiche, dal titolo Prime nozioni di grammatica italiana ad uso delle classi elementari inferiori e Nozioni di grammatica italiana ad uso delle classi elementari superiori61(Tavola 10) furono tra le più diffuse nella scuola italiana postunitaria e anche quelle che ebbero in assoluto il maggior numero di ristampe. Nel censimento delle grammatiche dell’italiano adottate nella scuola post-unitaria62 non si è riusciti ad accertare la data della prima edizione né il numero delle copie messe in circolazione; della seconda ristampa al contrario si sa che risale al 1854 e che fino al 1874 le copie ristampate furono 21463. L’impianto strutturale dei due lavori è quello delle grammatiche tradizionali, fondato sulle definizioni for61Stampate entrambe a Torino presso la Tipografia Scolastica di Sebastiano Franco e Figli, rispettivamente nel 1863 e 1865. 62I risultati del censimento, completato all’interno di una ricerca dell’Accademia della Crusca, sono riportati in M. CATRICALÀ, Le grammatiche scolastiche, cit. 63Ibidem, p.44. 56 mali di ciascuna nozione e corredato da regole ed esempi. Gli esempi fanno quasi sempre riferimento alla religione o a vicende storiche e contengono regole morali, come nel caso di “La misericordia di Dio é infinita” (I.25)64; “Il mondo è opera di Dio” (I.28); “Eliseo camminava lungo le rive del Giordano” (II.74); “Gli Italiani a Legnano combatterono con valore” (II.75) e così via. Dallo spoglio linguistico si ricavano elementi che mostrano come l’autore usi una lingua tendenzialmente conservativa: sono molto più numerose, infatti, le forme arcaiche rispetto ai tratti ancora oscillanti nell’Ottocento o a quelli innovativi. Molto significative sono, peraltro, le scelte compiute da Scavia a proposito di alcuni fenomeni linguistici già oscillanti nella prosa letteraria dell’epoca, come l’alternanza tra il dittongo uo e il monottongo o, la desinenza in a o in o della prima persona dell’imperfetto indicativo, l’uso dei pronomi di terza persona lui, lei in funzione di soggetto, le forme con e protonica alternate a quelle con i, o ancora l’uso delle forme vi ha o vi hanno per vi è o vi sono, l’alternanza tra deve e dee e così via. La preferenza o l’incertezza nell’uso di alcune forme al posto di altre è segno di come l’autore, in conformità con molti suoi contemporanei, da un lato cerchi di adeguarsi all’uso della lingua viva e alle sue alternanze e dall’altro rimanga legato alla tradizione, non accogliendo o accogliendo solo in parte quei tratti linguistici che erano già entrati nella riforma linguistica manzoniana e che avrebbero caratterizzato l’evoluzione dell’italiano65. Nei paragrafi che seguono ci si limita ad analizzare solo i tratti che meglio aiuteranno a delineare l’italiano proposto da Scavia nelle proprie grammatiche. 64Tra parentesi si rinvia con il numero romano alle Prime nozioni di grammatica italiana ad uso delle classi elementari inferiori (I) o alle Nozioni di grammatica italiana ad uso delle classi elementari superiori (II), con il numero arabo alle pagine delle edizioni cit. alla nota 61. 65Cfr. a tale riguardo L.SERIANNI, Le varianti fonomorfologiche dei Promessi Sposi 1840 nel quadro dell’italiano ottocentesco in Saggi di storia linguistica italiana, Napoli, Morano, 1989, pp.141-213 e Storia della lingua italiana. Il primo Ottocento, Bologna, Il Mulino, 1989, pp.134-141. 57 III.3 L’ITALIANO NELLE GRAMMATICHE DI SCAVIA III.3.1 Le grafie in ii Tra i fenomeni grafici troviamo alcuni termini che al plurale presentano terminazione in ii, che ancora nella grafia dell’epoca era stata rappresentata anche da j. Nel corso dell’Ottocento, diversi furono i criteri di applicazione di alcuni particolari segni ortografici tra i quali ci fu appunto la j. La Crusca l’aveva abolita sia in posizione iniziale sia all’interno della parola, ma l’aveva adoperata per il plurale dei nomi in io con accento. Molti studiosi seguirono questo criterio, altri invece si attennero a criteri diversi66. Nelle grammatiche di Scavia, gli esempi: Studii (I.5), avverbii (II.19) proprii (II.37), premii (II.38), benefizii (II.83), participii (II.92), varii (II.100), desiderii (II.100) sono forme plurali di nomi in io mai accentati. III.3.2 Conservazione dei dittonghi uo e ie Il quadro offerto dallo spoglio linguistico mostra che sul terreno tanto dibattuto, nel corso dell’Ottocento, dell’alternanza tra monottongo o e dittongo uo, l’autore si orienta verso la conservazione di quest’ultimo. Non troviamo, infatti, forme monottongate del tipo novo, bono, omo, movere ecc. Importante è la conservazione del dittongo uo anche dopo palatale, come risulta dai seguenti esempi: usignuolo (I.29), figliuoli (I.33), giuoco (I.35). Nonostante l’adozione convinta del fiorentino dell’uso vivo, l’alternanza tra uo e o era stata per il Manzoni motivo di incertezze e ripensamenti ancora durante la stampa della quarantana dei Promessi Sposi. Infatti, in un biglietto al figlio Pietro, scritto qualche tempo prima dell’edizione definitiva del romanzo, egli scriveva ai tipografi di non far caso alle cancellature della u in termini come nuovo, figliuolo e simili ma di conservarli come nella prima redazione67. 66B. MIGLIORINI, Storia della lingua italiana, Firenze, Sansoni, 1961, p. 655. 67A. MANZONI, Lettere, a cura di C. ARIETI, Milano, Mondadori, 1970, vol. III, p. 148. 58 Nonostante ciò, in molte pagine delle opere successive gli stessi esempi presenteranno il monottongo. Anche in Manzoni tuttavia non ci fu mai una generalizzazione, quanto piuttosto “un certo margine di alternanza”68 frutto del suo desiderio di adeguarsi all’uso vivo della lingua. Nell’italiano moderno, com’è noto, l’antico dittongo si è conservato nella gran parte dei casi, ma è scomparso dopo la palatale: Scavia lo conserva anche in questa posizione e, per quanto riguarda ie, mantiene il dittongo anche in forme come intiero/a (II.18,89,102,107,108). III.3.3 Uso di e/i protoniche La riforma manzoniana aveva suggerito l’adozione di alcune forme con e protonica che sarebbero in seguito divenute stabili nella lingua comune. Scavia rimane ancora una volta legato alle forme della tradizione più antica. Troviamo, infatti, esempi come: ambidue (II.11.15.24.29) che nella prosa ottocentesca si alternava con ambedue ma che in Scavia è nettamente prevalente. Nissuno invece era usato spesso come variante di niuno ed era ancora largamente presente nella lingua scritta ottocentesca ma non lo era in quella manzoniana, dove si ha solo un esempio di niuno nell’edizione del 1827 e nessun esempio in quella del 1840. Nelle grammatiche di Scavia nissuno (II.30) appare maggioritario rispetto a niuno. Altro esempio è gittarono (II.96,99) che era prevalente nella prosa ottocentesca rispetto alle forme in e analogiche sulle voci rizotoniche. III.3.4 Oscillazioni libere Per quanto riguarda le oscillazioni libere, per il tipo beneficio/benefizio erano preferite le forme con affricata dentale del tipo benefizio, artifizio, malefizio, sacrifizio ecc. Anche in Manzoni si nota una “generale preferenza per gli allotropi con affricata dentale”69. 68L. SERIANNI, Le varianti fonomorfologiche, cit., p. 146. 69L. SERIANNI, ibidem, cit., p. 186. 59 Se ne trova conferma anche in Scavia dove leggiamo benefizio (II.36) e il suo corrispettivo plurale benefizii (II.83). L’oscillazione del tipo segreto/secreto era ancora forte nella prosa ottocentesca; Manzoni optò per la variante con la sonora, affermatasi in seguito nell’uso vivo, mentre Scavia sceglie la forma più conservativa secreto (II.32). Per il tipo lacrima/lagrima l’allotropia persiste ancora oggi nella lingua scritta italiana. Nell’Ottocento le due varianti erano abbastanza diffuse, secondo Serianni lacrima era più usato tra i toscani mentre lagrima lo era tra i settentrionali70. Nell’edizione del 1840 dei Promessi Sposi Manzoni scelse la forma con consonante sorda, al contrario Scavia si dimostra, come nell’esempio precedente, più legato alla tradizione e, infatti, sceglie la forma lagrimasse (II.97). Per il verbo cambiare, invece, la forma cangiando (II.12.22) usata da Scavia mostra la preferenza per la variante derivata da cangiare, variante che è tutt’oggi attestata nella nostra lingua. III.3.5 Forme dell’imperfetto indicativo Nella prosa ottocentesca le forme della prima persona dell’imperfetto indicativo oscillavano tra quelle con desinenza in -a del tipo io aveva e quelle in -o. Le forme con desinenza in -a, benché in regresso, godevano ancora di una certa diffusione. L’innovazione della desinenza in -o consolidata dalla riforma manzoniana portò ad un progressivo declino del tipo in -a. Tuttavia, l’analisi linguistica delle grammatiche scritte da Scavia mostra che l’autore usa esclusivamente la forma più tradizionale in -a, come documentano i seguenti esempi: io aveva (I.17), io era, io guardava, io temeva, io sentiva (I.21,22 e II.42,43), io conduceva (II.56) ecc. Sempre per quanto riguarda l’imperfetto indicativo convivevano le uscite della terza persona in -eva e in -ea. Nelle grammatiche di Scavia prevalgono quelle con labiodentale considerate di uso più comune. Ci sono però anche due esempi di parea (II.26) e sedea (II.99). 70L. SERIANNI, Le varianti fonomorfologiche, cit., p. 185. 60 III.3.6 Sintagmi vi ha e vi hanno per vi è e vi sono Nel corso dell’Ottocento era molto diffuso l’uso di avere al posto di essere nei sintagmi vi ha, vi hanno per vi è, vi sono. Scavia si mantiene prevalentemente fedele a quest’uso, anche se non mancano esempi contrari come si può vedere dai casi qui elencati: “Vi hanno più nomi di diverso genere”(II.20); “Vi hanno due nomi od aggettivi” (II.20); “Vi hanno due sorte di verbi” (II.49); “In ogni periodo vi ha una proposizione principale” (II.90); “[...]quando non vi ha concordanza o connessione fra le varie parti del discorso” (II.94); “Vi ha ellissi dell’articolo” (II.96); Minore la frequenza dei casi con essere: “[...] quando ve ne sono due uguali” (II.108); “[...] quando vi sono due consonanti” (II.108). III.3.7 Forme dei verbi dovere e vedere Nell’italiano scritto ottocentesco rimaneva interscambiabilità tra le forme devo, debbo, deggio della prima persona e le forme deve, dee, debbe della terza persona del verbo dovere. In questi casi di allotropia verbale Manzoni aveva preferito le forme radicali devo e deve. Scavia invece usa più frequentemente le forma dee rispetto a deve che appare decisamente minoritaria come mostrano i seguenti esempi: “L’onesto dee preferirsi all’utile” (II.19); “L’uomo si dee giudicare non già da quanto giova” (II.84); “L’uomo dee volere virtù con povertà” (II.85); “[...] ciascuno dee esserne buon guardiano” (II.87). “La faccia del donatore deve essere simigliante” [...] (II.85). “Per fare l’analisi logica di un periodo si deve [...]” (II.92). Lo stesso accadeva per le forme vedo, veggo, veggio del verbo vedere. L’esempio veggiamo (II.101) rivela ancora una volta la scelta da parte di Scavia per l’allotropo più conservativo. 61 III.3.8 Sincope vocalica del verbo andare In riferimento al futuro del verbo andare, il termine anderò (II.35) usato da Scavia mostra la preferenza per la forma piena. L’opposizione anderò/anderei, andrò/andrei era molto frequente nella prosa ottocentesca. In Manzoni, al contrario, il tratto era ancora oscillante a secondo degli usi e del linguaggio dei personaggi. A tale proposito, infatti, Policarpo Petrocchi nel suo commento ai Promessi Sposi giudica la forma anderebbe, pronunciata da Don Abbondio preferibile a andrebbe poichè il primo termine si adattava meglio alla voce “strascicata” del curato. III.3.9 Uso dei pronomi lui, lei in funzione soggetto Il problema dell’uso dei pronomi di terza persona è stato a lungo discusso nella grammaticografia italiana fin dal Cinquecento. Nel corso dei secoli si registrano diversi atteggiamenti in riferimento a tale fenomeno. Rohlfs scrive che la forma tonica lui si trova relativamente presto in luogo di egli, si divulga nel Quattrocento con Pulci e Poliziano, viene respinta dai grammatici del XVI secolo, ma nel XIX secolo ottiene una “vittoria definitiva”71. A partire dal Cinquecento e, per oltre tre secoli, la maggior parte dei grammatici mostrò un rifiuto dell’uso dei pronomi di terza persona lui, lei e loro in funzione di soggetto. Il primo a legittimare l’uso dei pronomi lui, lei in funzione di soggetto fu ancora una volta il Manzoni nell’edizione definitiva del suo romanzo, dilatandone “la sfera d’uso fino a trasformarli da varianti marcate a varianti neutre”72. L’esempio del Manzoni fu decisivo e anticipò gli sviluppi dell’italiano odierno. Sotto l’impulso della riforma manzoniana molti grammatici offrirono nuove possibilità di utilizzazione dei pronomi di terza persona, accogliendoli a volte come forme preferite, specie in particolari posizioni sintattiche. 71G. ROHLFS, Grammatica storica della lingua italiana e dei suoi dialetti, vol.II: Morfologia, §§ 436-437,Torino, Einaudi, 1968; T. D’ACHILLE, Sintassi del parlato e tradizione scritta della lingua italiana, Roma, Bonacci, 1990. 72L. SERIANNI, Le varianti fonomorfologiche, cit., p.192. 62 A proposito dell’uso dei pronomi di terza persona, Scavia assume un atteggiamento di “censura passiva”73; scrive, infatti: “I pronomi egli, ella, eglino ed elleno non si usano se non come soggetto della proposizione: lui, lei, loro, il, lo, la, li, gli, le, si adoperano solo come complemento. Nel discorso famigliare si usano anche lui, lei, la e le come soggetto della proposizione. È tuttavia bene astenersi negli scritti da siffatte maniere”(II.31,32). III.3.10 Enclisi pronominale Molto frequente nelle grammatiche esaminate è la cosiddetta enclisi pronominale libera, ancora ben attestata nella prosa ottocentesca, nonostante la tendenza contraria del Manzoni. Gli esempi rilevati in Scavia confermano l’intenzione dell’autore di offrire un modello di lingua alta e letteraria: “Diconsi complementi quelle parole che [...]” (II.9); “Il plurale dei nomi formasi [...]” (II.12); “La finale dei nomi femminili cangiasi [...]” (II.12); “Dovrebbesi dire [...]” (II.20); “[...] di cui siasi già parlato” (II.29); “Quando parlasi a taluno in terza persona [...]” (II.32); “[...] si usano per lo più allora che trattasi di persona” (II.34); “Il verbo dicesi di prima persona [...]” (II.40); “Tutti gli altri [...] diconsi verbi attributivi” (II.49); “Non trovasi vero diletto [...] che nella buona coscienza” (II.85). 73M. CATRICALÀ, L’italiano tra grammaticalità e testualizzazione. Il dibattito linguistico- pedagogico del primo sessantennio postunitario, Firenze, Accademia della Crusca, 1995, p. 101. 63 64