1 K. Marx Introduzione: Capitalismo, istruzioni per l`uso di E

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K. Marx
Introduzione: Capitalismo, istruzioni per l’uso di E. Donaggio, P. Kammerer
L’ideologia tedesca
Manifesto del partito comunista
Il controllo del potere sociale e l’individuo ricco di bisogni (testi da Manoscritti
economico-filosofici del 1844, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia
politica, La guerra civile in Francia, Critica del Programma di Gotha. Note in
margine al programma del Partito operaio tedesco)
Introduzione: Capitalismo, istruzioni per l’uso di E. Donaggio, P. Kammerer
La promessa e lo sconforto
Meglio di così si muore
Non s'intende qui restituire ogni aspetto dell'opera di Marx1, bensì proporne un
attraversamento vivo e parziale come un viaggio; accessibile a giovani curiosi,
adulti delusi e a chiunque sia ancora interessato a un discorso serio su questo
pensatore, allo studio dei suoi testi e del loro principale oggetto d'analisi: il
capitalismo come forma di vita, un modo di produrre ed esistere spaccato tra potenzialità e contraddizioni, ricchezza e miseria. …
Lo scopo di questa raccolta è infatti quello di fare luce su un sentimento oggi
diffuso: la percezione che il capitalismo rappresenti l'orizzonte insuperabile del
nostro tempo, il destino inevitabile, agognato o temuto che sia, dell'intero genere
umano. E che qualcosa, comunque, continui a mancare. Uno stato d'animo politico
- prima ancora che un disagio esistenziale, privato - rispetto a cui Marx, e una serie
di desideri, esperienze e fallimenti che si riallacciano al suo nome, non risulta
estraneo.
La promessa e lo sconforto
Sostenere che, in virtù di una sua inesauribile vitalità, il pensiero di Karl Marx
(1818-1883) è ancora attuale, può sembrare una battuta prevedibile o infelice. Una
trovata per lusingare o irritare il lettore, disponendolo contro la corrente di un senso
comune che ha ormai emesso il proprio verdetto. Dopo l'implosione del pianeta
amministrato secondo i precetti del Manifesto del partito comunista e de II capitale,
quelle opere e il loro autore meritano soltanto la polvere delle biblioteche e dei
negozi di anticaglie. O, in alternativa, forme ancora più sterili di conservazione:
icone pop per la sigla di trasmissioni televisive e le t-shirt di adolescenti ribelli
quanto inoffensivi; immagini sacre per sette di fossili fedeli alla linea.
Non c'è dubbio. Da tempo imperversa un'ansia euforica e rabbiosa di chiudere i
conti con la costellazione di problemi, visioni e sconfitte legate al nome di Marx.
Una gran voglia di sbarazzarsi di questo scarto del passato, facendone uno dei
principali mandanti di quel "secolo delle idee assassine" che si sarebbe concluso
nel 1989, l'anno in cui il suo "sogno di una cosa" sfumò sotto le macerie del Muro
di Berlino. Ma inizia a manifestarsi anche un rifiuto di questa smania liquidatrice,
1
Il testo è l’introduzione a una raccolta antologica di testi di Marx, curata dai due autori
1
un interesse di segno contrario, imprevisto e non facile da decifrare. Molti, di
recente, sembrano infatti pronti a giurare - su quotidiani, riviste e libri - che la
morte di Marx, data ormai mille volte per certa, è soltanto apparente. A riprova ci
sarebbero le confessioni dei guru di Wall Street e i sondaggi della Bbc, che lo
pongono regolarmente al vertice nella hit parade dei più grandi pensatori di tutti i
tempi2. Ma anche il moltiplicarsi di interviste, compite o visionarie, con un Marx
onnipresente e inafferrabile3; il rinvenimento di un manoscritto del Capitale di cui
nessuno è più in grado di riconoscere la paternità, rendendoci tutti allievi
inconsapevoli di un maestro ignorato4. O immaginarie conversazioni con John
Stuart Mill, nella nebbia di una notte londinese, sulla natura della democrazia5.
Trovate e dubbi vecchi quanto Marx, o almeno quanto il marxismo. Una cifra di
eccezionalità, infamante o apologetica, ha sempre caratterizzato il confronto con
questo pensatore e con gli esiti della sua riflessione. Una singolarità non certo
ardua da comprendere quando un terzo dell'umanità formava un blocco di nazioni
modellate, non soltanto secondo la retorica di regime, da dottrine che si richiamavano a Marx. E il "mondo libero" guardava alla "fabbrica di sogni" o al
"cementificio" rosso con sacrosanto terrore o fierezza militante. Ma oggi, che
impera la tentazione di ridurre tutto ciò a "un temporale d'estate all'ombra della
banca mondiale"6, come può il corpo teorico e politico di Marx costituire ancora un
campo di battaglia? Come se si avesse a che fare con un crampo che la coscienza
contemporanea non riesce a sciogliere del tutto; con un desiderio, radicato in uno
strato profondo della sua identità, che non vuole saperne di svanire.
La risposta, non certo originale, che suggeriamo in questa nota introduttiva muove
da un presupposto preciso: impossibile parlare di Marx senza che il discorso
investa la nostra condizione presente e la residua capacità di immaginarla diversa e
migliore. A dispetto dei tentativi di esorcizzarlo, lo scontro che si seguita a
combattere intorno a Marx - e all'aura che avvolge in modo indistinto e spesso poco
informato, carismatico o caricaturale, la sua figura e le sue idee - viene infatti
alimentato: 1) da una delle promesse di felicità più seducenti che la cultura
occidentale abbia mai arrischiato; 2) da un'analisi e una passione per il reale che
giustifica quell'aspettativa. Due fonti che confluiscono in una prospettiva di
superamento delle patologie generate dal capitalismo che ha trovato in molti passi e
concetti marxiani un orizzonte di rara intelligenza e fascino.
Una scienza delle cose feroce nella sua lucidità e una fondata speranza di
emancipazione sociale: questi gli elementi inseparabili di quell'amalgama spurio
che è l'opera di Marx. Il suo baricentro è saldamente ancorato nel presente e nelle
sue contraddizioni, distruttive quanto feconde, come insegna un metodo dialettico
di pensare il mondo. Ciò nondimeno è stata l'apertura sull'avvenire a conquistare le
masse, trasformando il pensiero marxiano in una macchina che generava
automaticamente verità e salvezza. Una seduzione che, per il cinismo dei leader e il
bisogno di credere dei fedeli, ha assunto fogge spesso aberranti, come dimostra la
storia dei socialismi più o meno reali. Ma anche un'esigenza che, malgrado quella
deriva, non può venire rimossa o liquidata senza che si apra un vuoto sintomatico,
difficile da colmare, proprio per via delle forme in cui quella speranza è stata
disattesa o esaudita.
2
Cfr. J. Cassidy, The Return of Karl Marx, in "The New Yorker", 20 e 27, ottobre 1997;
http://www.bbc.co.uk/radio4/history/inourtime/greatest_philosopher.shtml.
3
Cfr. G. Carandini, Un altro Marx. Lo scienziato liberato dall'utopia, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 3-28;
J. Goytisolo, Karl Marx Show, Cargo, Napoli, 2005.
4
Cfr. B. Sichtermann, Karl Marx: neu gelesen, Wagenbach, Berlin 1995, p. 40.
5
Cfr. P. Ginsborg, La democrazia che non c'è, Einaudi, Torino 2006, pp. 3-17.
6
Cfr. B. Groys-M. Hollein (a cura di), Traumfabrik Kommunismus, Hatje Cantz, Ostfildern 2003; H.
Muller, L'invenzione del silenzio, Ubulibri, Milano 1996, p. 61.
2
Non soltanto - occorre precisare - dalle società che da essa traevano legittimazione
(la loro smentita di quell'aspettativa è stata così eclatante da non minarne
definitivamente la plausibilità). Ma anche dal modo di esistere e produrre che
domina incontrastato sulle rovine di quel disastro. Il capitalismo ricava infatti
molta della sua forza dal soddisfacimento individualizzato e mercificato del desiderio nutrito da Marx; un modo di depotenziare e assorbire la carica di quel sogno,
rinnovandolo costantemente solo per frustrarlo: la libertà del consumatore, il
comunismo realizzato in un uomo solo, in ogni individuo isolato nella lotta per la
ricchezza e la felicità.
Un fallimento che non intacca la promessa e una perversione che la disinnesca,
evocandola di continuo: una peculiare forma di delusione marca dunque l'epoca
che ci siamo appena lasciati alle spalle; un disincanto riconducibile, attraverso vari
gradi di mediazione simbolica e reale, a una delle due componenti - quella
storicamente più sovraesposta - del pensiero marxiano: la speranza condivisa. Che
si guardi infatti al Novecento come al "secolo comunista", con la grigia
decomposizione della sua utopia; come al "secolo totalitario", scandito dal computo
parallelo delle atrocità naziste e sovietiche; o come al "secolo del capitale" - che
con fragilità blindata ripete ogni giorno: "Non si sta poi così male: da altre parti c'è
stato e c'è ben di peggio"7 - questa "età degli estremi"8 sembra trarre il proprio
senso da quanto è stato tentato e patito in nome di quell'istanza di emancipazione.
Molto meno, si badi, da ciò che Marx ha effettivamente scritto - dettaglio non
irrilevante per i curatori di un'antologia di suoi testi, e forse non soltanto per loro fatta eccezione per alcune frasi e slogan che, ripetuti come un mantra, hanno
giustificato gli esperimenti condotti per decenni sulla carne viva di milioni di
persone.
A chi si accosti oggi per la prima volta alle pagine marxiane tutto ciò potrebbe
apparire, e non del tutto a torto, cronaca di una stagione conclusa. Ma gli effetti di
questa battaglia che ha consumato il Novecento determinano in profondità, anche
se in modo spesso inavvertito soprattutto dalle generazioni più giovani, il clima
intellettuale e politico, la temperatura delle passioni individuali e collettive, la
fiducia in se stesso e la fantasia sociale di questo primo scorcio di nuovo millennio.
Delineare la posta in palio e le conseguenze di una guerra tutt'altro che fredda
intorno a un "desiderio chiamato Marx"9 può essere perciò di qualche utilità per
decidere se valga ancora la pena leggere, o tornare a studiare, parole e testi
effettivamente usciti dalla sua penna, visitando il luogo dove il corpo e lo spettro Marx e i comunismi di cui il Novecento è stato capace - non sono ancora confusi.
Scoprendo così anche l'altra componente del suo pensiero, altrettanto fondamentale
malgrado l'ombra in cui è rimasta storicamente confinata: il tentativo di analizzare
e descrivere, fornendo qualcosa di simile a delle istruzioni per l'uso, il
funzionamento occulto del capitalismo, la matrice originaria di svariate critiche al
nostro modo di vivere e produrre.
Quale punto d'attacco, tra gli infiniti possibili, per riflettere sul primo dei due temi
sopra elencati - la speranza sociale - si potrebbe scegliere il dialogo sui massimi
sistemi posto al centro de Il correttore, un racconto filosofico di George Steiner10.
Le sue battute drammatizzano in modi semplici, sospesi tra il kitsch di un profluvio
di allegorie e il respiro di un romanzo russo, molti degli argomenti che vengono
avanzati per spiegare il volgersi in incubo del sogno auspicato da Marx; ma anche i
7
A. Badiou, Il secolo, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 10-12 e 84
Cfr. E.J. Hobsbawm, Il secolo breve 1914-1991, Rizzoli, Milano 2006.
9
Cfr. J.F. Lyotard, Economia libidinale, Colportage, Firenze 1978.
10
Le citazioni che seguono sono tratte da G. Steiner, Il correttore, Garzanti, Milano 1992, pp. 44-69. Lo
sfondo teorico del racconto è tracciato in Id., La nostalgia dell'assoluto, Bruno Mondadori, Milano 2000.
8
3
motivi che hanno spinto a lottare per la sua realizzazione e, in anni più recenti, a
opporsi al suo oblio definitivo.
Il titolo potrebbe recitare La promessa e lo sconforto. Sullo sfondo delle immagini
del crollo del Muro di Berlino, i due protagonisti padre Carlo, un prete convertito al
marxismo, e il Professore, un militante comunista, correttore di bozze di
leggendaria precisione, sottopongono a un'incandescente autopsia la loro fede
politica. Alla radice vi riconoscono la non accettazione del mondo così com'è, unita
all'indimostrabile certezza che "deve esserci qualcosa di meglio"; che se la vita
fosse tutta qui, con "la sofferenza, il luridume che ci Seppellisce fino agli occhi. Se
questa dovesse essere l'ultima ratio, la somma finale, sarebbe meglio correre a
impiccarci al prossimo lampione. Al primo gancio da macellaio". Questa
percezione parziale e acuta del male in ogni suo aspetto, anche quelli che paiono
meno sanabili e congiunti all'esistere in quanto tale - dall'infelicità alla malattia,
dalla fame all'ingiustizia e alla morte - sembra contemplare soltanto due sbocchi di
speranza e redenzione, affini nelle aspirazioni ma divergenti nelle ricadute
pratiche: la dottrina di Cristo e quella di Marx.
Se ad animarle è il medesimo sdegno per un dolore immotivato, che si accanisce in
particolare sull’"innocente e l'indifeso", diverso è il rapporto con il futuro e la sua
ignota lunghezza, l'attesa; la scelta della gestione più redditizia, nei giorni o nei
millenni, di quel "tesoro d'impazienza" e rabbia indispensabile per porre fine a un
tale tormento. Ai propri fedeli la Chiesa raccomanda docilità e ubbidienza,
un'illimitata capacità di sopportazione che verrà ricompensata, alla fine dei tempi,
nel regno di giustizia e dignità riservato al "popolo eletto della disperazione".
Aspettando la sua venuta, e in nome dell'amore divino, le gerarchie ecclesiastiche
distribuiscono "analgesici" di vario genere, e massacrano "con coerenza" ogni
eresia che indichi una scorciatoia terrena verso quella meta: "Non c'è niente che
Roma abbia temuto più dell'impazienza. Il suo regno non è di questo mondo. C'è
mai stato un manifesto politico più abile? Rispondi, Professore".
Anche il comunismo - insinua Padre Carlo - nasce da questa "fame molto più
antica", dalla "furia dell'adesso" che già divorava i profeti dell'Antico testamento,
da una brama che non accetta di rinviare sine die un'esistenza degna dell'uomo.
Quella di Marx - con la sua previsione dell'esito della lotta per il superamento della
miseria, attraverso il decisivo supporto di "forze produttive" possenti (lavoro
umano, industria, tecnologia e general intellect) - non sarebbe dunque una "scienza
della storia", bensì una rivelazione sotto mentite spoglie, che non soltanto
annuncia, ma addirittura garantisce l'avvento di una società che sopprime lo
sfruttamento dell'uomo sull'uomo: un futuro senza patologie sociali, che realizza le
promesse e i miracoli che il cristianesimo disperde in cielo.
È proprio questa tuttavia - conclude il prete afflitto - la "menzogna centrale,
assiomatica" che avvelena il "cuore del comunismo" e lo condanna al "tradimento
sistematico della speranza umana": la fede nella possibilità di un'emancipazione
reale, di una "liberazione dalla servitù qui e ora. In questo mondo". Un inganno che
rappresenta un"`umiliazione dell'uomo e della donna peggiore delle tirannie e delle
depravazioni del cristianesimo, per quanto orrende esse siano", e che ha trovato nei
guardiani delle rivoluzioni rosse novecentesche i suoi sanguinari quanto
immaginabili esecutori.
La replica del Professore inverte il segno di questa diagnosi, pur mantenendone
inalterati gli elementi fondamentali. Ai suoi devoti la Chiesa ha in realtà sempre
riservato un "disprezzo tremendo", mortificandoli con paure e rimedi infantili.
Soltanto al marxismo può invece essere ascritta una "sopravvalutazione forse
fatale, forse insensata, eppure magnifica, giubilante, dell'uomo. Il più grande
complimento che gli sia mai stato fatto". Sta qui, in questa dismisura, in questo
"mostruoso" peccato di hybris commesso con le migliori intenzioni, la radice di un
inganno che ha reso agli esseri umani, soprattutto agli ultimi tra loro, il più grande
4
degli onori, concependoli come una "cosa senza limiti", un'infinita potenza di
trasformazione del mondo. Sarebbe questa la "mossa più nobile della nostra tremenda storia".
Ben diversa la strategia che avrebbe assicurato il trionfo alla forma di vita che il
marxismo si riteneva destinato ad abbattere. Saggio o cinico, il capitalismo coltiva
infatti un peculiare rispetto della proporzione; non si accontenta nemmeno di
lasciare l'uomo così com'è, ma lo rende "più piccolo", per farlo sentire
costantemente a suo agio nella propria pelle, a patto che disponga del denaro per
comperare le cose che cementano questo benessere e regalano una salvezza istantanea, privata, a portata di tasca. E in questo sgravio dalle responsabilità nei
riguardi del resto del mondo, unito a un'indulgenza assolutoria verso la propria
imperfezione, si cela la sua inesauribile fonte di profitto: "Questo è il vero genio
del capitalismo: impacchettare, mettere l'etichetta con il prezzo sui sogni degli
uomini. Mai valutarci al di sopra della nostra mediocrità".
Meglio di così, si muore
"Liberazione dalla servitù qui e ora. In questo mondo." Per tutti. Sarebbe questa la
"mossa più nobile della nostra tremenda storia", da cui sia la Chiesa, con il suo
culto della pazienza, sia il capitale, con la sua religione della merce, si sarebbero
ben guardati, traendone in cambio durata, potere e profitto. E che Marx invece
azzarda.
Se si dovesse rinchiudere in uno slogan il contenuto oggi più rivoluzionario della
promessa e della ferita riconducibili al nome di Marx, noi forse suggeriremmo
questo. Un modo di declinare la "metafora assoluta" dell'emancipazione un'immagine in cui l'umanità cristallizza le aspettative fondamentali nei riguardi
del senso del mondo e del proprio agire11 - che ha subito smentite teoriche e
pratiche di tale entità da risultare letteralmente inconcepibile per il senso comune
contemporaneo. Ma anche una sorta di pietra miliare su cui misurare gli anni luce
che ci separano dalla commovente fiducia in se stesso di un passato - il nostro tutt'altro che remoto. E il prezzo di questo disincanto.
In un lasso di tempo relativamente breve si è infatti consumato il supplizio di una
speranza che non proveniva da un altro pianeta, ma rappresentava l'utopico lieto
fine del romanzo di famiglia della modernità occidentale: appropriarsi della realtà
sociale in cui si è inseriti, invece di avvertirla come un che di estraneo,
ingovernabile e fatale, a cui doversi adattare o soccombere. La potenza dell'arsenale scientifico, tecnico e politico di una ragione che ignora "ostacoli insormontabili e
vicoli ciechi"12 avrebbe finalmente permesso di istituire una condizione degna
dell'uomo perché libera da ingiustizie e sofferenze non necessarie.
A questo grande racconto Marx conferisce una prospettiva precisa, quella in cui gli
individui, con le loro forze associate, con il loro "lavoro", sono gli autori e attori
del proprio destino. Di qui l'enfasi posta sul ruolo del proletariato, a rappresentare
l'irruzione delle masse nel regno degli ideali borghesi, l'emblema della "miseria
oggettiva" creata dal capitalismo, cioè della separazione dei soggetti dalle condizioni materiali della propria realizzazione, più che un gruppo caratterizzabile con
precisione sociologica. Ma anche, nel quadro di una conflittualità tra le classi intesa
come motore di progresso, la conquista di un avvenire migliore per tutti, e non solo
per una minoranza privilegiata. Marx riconosce cioè l'esistenza di un "lato cattivo
della storia" dovuto non al vizio morale dei singoli individui o a un deficit di
11
Cfr: H. Blumenberg, Paradigmi di una metaforologia, il Mulino, Bologna 1969.
B. Baczko, L'utopia. Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell'età dell'illuminismo,
Einaudi, Torino 1979, pp. 215-216.
12
5
regolamentazione giuridica, bensì al carattere strutturalmente antagonistico e
oppressivo di un determinato modo di esistere e produrre. Un'ipotesi da cui segue
uno dei più spinosi corollari del suo pensiero: una concezione della giustizia e della
violenza secondo cui "la storia è il giudice e il proletariato il suo esecutore".
Queste mosse, e altre che non possono essere qui ricordate, spiegano come il
modello prospettato da Marx sia riuscito a monopolizzare, quasi a esaurire per
lungo tempo, l'orizzonte utopico della modernità occidentale, imponendosi come la
sola autentica alternativa al capitalismo. Come l'unica via d'uscita da quella forma
di vita e dalle sue patologie in grado di inverarne in modo non parziale o fittizio il
patrimonio di aspirazioni. In ciò consisterebbe il suo carattere "singolare, totale e
incancellabile", in un'eccezionalità legata a "una certa affermazione emancipatrice
e messianica, una certa esperienza della promessa che si può tentare di liberare da
ogni dogmatica e persino da ogni determinazione metafisico-religiosa, da ogni
messianismo"13. Un effetto imputabile alla natura ibrida della riflessione marxiana,
i cui ingredienti rispecchiano la fisionomia di un autore che abbina lo sguardo
analitico del "detective" a quello lungimirante del "liberatore"14: economia e
filosofia, scienza e profezia, ideologia e utopia, ragione e rivoluzione. Da un lato,
dunque, la dottrina di Marx operò come un "religione politica"15 orientata
sull'avvenire, come uno straordinario riduttore di complessità che indicava il luogo
e i protagonisti dello scontro decisivo per la salvezza sociale; che fissava una
precisa gerarchia delle forme e degli obiettivi del conflitto, un codice universale
della liberazione capace di tradurre in un'unica koiné una pluralità di lingue e
progetti politici. Qualsiasi differenza di sesso, religione, nazionalità, cultura ecc.
passava in secondo piano rispetto alle "maschere economiche" che la società
capitalistica apponeva sul volto degli individui, alla lotta di classe. E
all'antagonismo "strutturale", quello tra capitale e lavoro, il cui esito avrebbe avuto
ricadute "sovrastrutturali" decisive. Il pensiero di Marx diventò così una sorta di
prisma luminoso capace di concentrare, dando loro potenza e forma definita, i
desideri che animavano le aspirazioni di mutamento più disparate. Ma anche un
buco nero in cui venivano inghiottite le diversità che distinguevano istanze
emancipative difficilmente compatibili con il suo modello di lotta per la
liberazione16. Dall'altro lato, quello della comprensione dei meccanismi della realtà
sociale esistente, la teoria marxiana si distinse per una spiccata capacità d'innesto e
integrazione, con il risultato paradossale che le sue carenze finivano per mutarsi in
punti di forza. Innalzata a "insuperabile orizzonte filosofico del nostro tempo" 17,
essa venne arricchita dagli apporti delle discipline più svariate: dalla psicoanalisi
alla fenomenologia, dalla linguistica all'antropologia. Il risultato fu, in diversi casi,
un'immagine del mondo, un'ideologia onnicomprensiva in grado di risolvere ogni
sorta di enigma e ingiustizia. Un "oppio" che molti uomini di cultura assumevano
in buona fede o con falsa coscienza, salvo poi optare per forme più o meno
spettacolari di abiura.
Difficile, infatti, "resistere al fascino di questo sistema in cui la scienza dimostra
che sarà la necessità a eseguire i verdetti della coscienza. Il capitalismo condannato
a morte non in quanto intrinsecamente ingiusto, ma da questa stessa sua ingiustizia.
Un appello sacrosanto alla lucidità, quale precetto cardine di un'etica intellettuale,
che non può tuttavia far dimenticare come molte delle menti più aperte del
13
J. Derrida, Spettri di Marx, Cortina, Milano 1994, p. 115.
E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano 2005, p. 1581.
15
Nella vastissima letteratura sul tema, cfr. ad es. H. Arendt, Religione e politica, in Antologia,
Feltrinelli, Milano 2006, pp. 168-171.
16
Cfr. E. Lacau-C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy. Toward a Radical Democratic Politics,
Verso, London 20012, pp. 176-193.
17
J.-P. Sartre, Questioni di metodo, in Crtica della ragione dialettica, il Saggiatore, Milano 1982, p. 32.
14
6
Novecento debbano i loro strumenti concettuali proprio al contatto con un'opera,
quella di Marx, la cui lettura produce effetti di orientamento nel paesaggio sociale e
politico fuori dal comune: "Macigni interi cui ero passata accanto andavano a un
loro posto, non potevo più fare come se non ci fossero o fossero fatali. In verità non
era una scoperta, era una presa d'atto senza più rinvii possibili"18.
Nel concorrere di queste due istanze - nell'intreccio di religione, politica e
Weltanschauung19 - trova la sua motivazione l'accusa più radicale che è stata
avanzata contro Marx e gli effetti della sua dottrina. Quella di essere un'ideologia
"totalitaria", un modo di concepire l'uomo e la storia potenzialmente violento e
liberticida, che avrebbe trovato la sua attuazione coerente nei regimi che hanno
insanguinato il Novecento. Una critica, giunta dai fronti più disparati, che ha finito
per conferire alla riflessione marxiana il suo aspetto attuale, il reperto di un'era
sepolta da cui non è più lecito attendersi nulla.
Si tratta - e di norma la cosa viene presentata in questi termini - del definitivo
risveglio da un sogno, o da un incubo; di uno scatto di maturità nel nostro rapporto
con il mondo. Ma il frutto di questo apprendimento dai propri errori, a dispetto
della retorica ufficiale in materia, non sembra avere reso più adulti e felici. Semmai
più spossati e soli. Una sensazione descritta in modo efficace da chi sostiene che il
problema degli individui sia oggi principalmente quello di risolvere per via
biografica le contraddizioni del sistema capitalistico20. Un sovraccarico delle
funzioni dell'Io imputabile al venire meno della fiducia in un sapere in grado di
fungere da orizzonte di un'azione collettiva. La frantumazione dei grandi codici che
tentavano di fornire un'eziologia condivisa e una terapia partecipata all'afflizione o
allo scandalo per lo stato del mondo rende infatti problematico, per il singolo,
stabilire gerarchie di importanza che strutturino le sue reazioni di fronte a patologie
sociali sempre più inflazionate21.
Questa privatizzazione della cognizione del dolore, del dissenso e della speranza 22,
produce i suoi effetti sulla percezione della realtà sociale. A dominare sembrano
comportamenti di tipo adattivo improntati a un'eternizzazione del presente e a una
desertificazione del futuro che mescolano toni euforici e sconsolati. Da un lato, un
senso di liberazione da ideali che impongono all'esistente un orizzonte di ulteriorità
frustrante, abbinato a una condanna talvolta spietata della sua imperfezione; il
piacere per prospettive di vita finalmente adeguate alle proporzioni del singolo e
delle sue effettive possibilità. Dall'altro, un senso di perdita e angustia, uno strano
pessimismo che si fatica a organizzare. Sensazioni divergenti radicate nella
percezione che la vita è tutta qui, senza alternativa: un godimento del presente che
non intende sacrificarne un attimo sull'altare di un domani diverso, una felicità
esile, su misura dell'ego, la magnifica ossessione della me generation. Chiedere di
più si è rivelato rischioso. Meglio di così, si muore.
Si tratta di una diagnosi ambigua, capace di suscitare il realismo dell'adattamento,
ma forse anche l'impazienza dell'hic et nunc, la consapevolezza del "se non ora,
quando?". Il tramonto del "comunismo-speranza" consente infatti come possibile
alternativa una rinnovata passione per il presente. Una nuova attenzione e
sensibilità per il "movimento reale che abolisce lo stato di cose esistente" può
sostituirsi a una promessa di felicità delusa; la riduzione dell'uomo alla mediocrità
può essere messa in crisi da una fiducia in se stessi rinsaldata da un'analisi del
capitalismo contemporaneo (e delle sue novità, che sono meno di quanto si creda),
18
R. Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005, p. 74.
Visione del mondo
20
Cfr. U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000.
21
Cfr. S. Sim (a cura di), Post-marxism. A Reader, Edinburgh University Press, Edinburgh 1998.
22
Cfr. R. Aronson, Hope After Hope? Hoping for Social Change in the 21st Century, in "Social
Research", 2, 1999, pp. 471-494.
19
7
dei suoi surrogati, del suo modo di occultare i problemi e le contraddizioni. Una
ridda di ipotesi al cui fondo sta un interrogativo: si può oggi rileggere Marx senza
illusioni, pagando sino in fondo il prezzo del disincanto?
Non tanto il Marx profeta del comunismo, quanto il critico dell'artificialità di un
modo di esistere e produrre disumano, che si vorrebbe inevitabile come un destino.
Non solo il critico della fame e dello sfruttamento che ha spinto e ispirato molte
generazioni, l'ultima delle quali ha smesso forse troppo presto di chiedere che cosa
significa essere comunisti23. Piuttosto un Marx critico della nausea e della
vergogna che - rimosse con un impiego massiccio di propaganda, ipocrisia e "oppio
del popolo" - costituiscono uno strato diffuso di sentimenti frustrati da riconoscere
e articolare.
"Lei mi guarderà sorridendo," scrive il giovane Marx a Arnold Ruge nel marzo
1843, "e mi chiederà che cosa si è guadagnato? Dalla vergogna non nasce nessuna
rivoluzione. Ma io rispondo: la vergogna è già una rivoluzione, [...] se un'intera
nazione si vergognasse davvero."
Dopo decenni di un regime internazionale di massima sicurezza, la santa Alleanza,
Marx rivendica "aria libera per respirare" contestando quei filistei "così prudenti
che tutti i loro desideri e pensieri più audaci non vanno oltre la piatta esistenza",
oltre una forma di vita che sembra avere scordato persino il significato di questo
termine. In tempi più recenti, un'esigenza simile è stata espressa da Hannah Arendt,
ma in un tono rassegnato: "La passione to make the world a better place to live in
ha, in un primo tempo, davvero migliorato il mondo, ma ha avuto anche per
conseguenza che tutti hanno dimenticato, nel corso del miglioramento del mondo,
cosa significato live. Così [...] stanno davanti a uno dei `migliori dei mondi
possibili', e hanno perso la vita. Questo è un inferno"24. Parole riferite agli Stati
Uniti, ma che valgono benissimo anche per i paesi del "socialismo reale" e per il
Marx a cui questi si richiamavano: il fautore imperturbabile di uno sviluppo che è
poi sempre quello capitalistico inteso come presupposto indispensabile del
comunismo; un Marx incurante o ignaro del pericolo che il "comunismo", nel corso
della realizzazione delle sue premesse, potesse dimenticare o smarrire il proprio
significato.
Difficile invece immaginare cosa accadrà in paesi immensi, come la Cina e l'India,
sempre più protagonisti della storia del pianeta. Il carattere occidentale della
globalizzazione reca con sé le istanze e i desideri di una soggettività individuale e
collettiva, non solo mortificata, ma anche arricchita dalla sensazione che la vita sia
tutta qui: una soggettività che cerca chiarezza nella confusione e precarietà del
rapporto tra tempo di lavoro e di vita; insofferente verso un crescente potere delle
cose e bisognosa di vecchi e nuovi rapporti di socialità. Ecco la posta in gioco di
questa antologia.
E. Donaggio, P. Kammerer, Karl Marx. Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso, Feltrinelli, 2007,
pag. VII-XVII
23
Cfr. A. Natoli, Identità comunista e forme di organizzazione, in "Problemi del socialismo", 6, 1986, p.
55.
24
H. Arendt, Denktagebuch, Piper, Munchen-Zurich 2002, vol. I, p. 105.
8
L’ideologia tedesca (1845-46)
Capitolo II
L’ideologia in generale e in particolare l'ideologia tedesca
La storia
Sulla produzione della coscienza
… I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi: sono
presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell'immaginazione. Essi sono gli
individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che
essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione25.
Questi presupposti sono dunque constatabili per via puramente empirica. Il primo
presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l'esistenza di individui umani
viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l'organizzazione fisica di
questi individui e il rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. Qui
naturalmente non possiamo addentrarci nell'esame né della costituzione fisica
dell'uomo stesso, né delle condizioni naturali trovate dagli uomini, come le
condizioni geologiche oro-idrografiche, climatiche, e così via. Ogni storiografia
deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subite nel
corso della storia per l'azione degli uomini. Si possono distinguere gli uomini dagli
animali per la coscienza, per la religione26 per tutto ciò che si vuole; ma essi
cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro
mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione
fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente
la loro stessa vita materiale. Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di
sussistenza dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi
trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di produzione non si deve
giudicare solo in quanto è la riproduzione dell'esistenza fisica degli individui; anzi,
esso è già un modo determinato dell'attività di questi individui, un modo
determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli
individui esternano la loro vita, così essi sono.
Ciò che essi sono coincide dunque immediatamente con la loro produzione,
tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò che gli
individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione.
Questa produzione non appare che con l'aumento della popolazione. E presuppone
a sua volta relazioni fra gli individui. La forma di queste relazioni a sua volta è
condizionata dalla produzione.
I rapporti fra nazioni diverse dipendono dalla misura in cui ciascuna di esse
ha sviluppato le loro forze produttive, la divisione del lavoro e le relazioni interne.
Questa affermazione è generalmente accettata. Ma non soltanto il rapporto di una
nazione con le altre, bensì anche l'intera organizzazione interna di questa stessa
nazione dipende dal grado di sviluppo della sua produzione e delle sue relazioni
interne ed esterne. Il grado di sviluppo delle forze produttive di una nazione è
indicato nella maniera più chiara dal grado di sviluppo a cui è giunta la divisione
del lavoro. Ogni nuova forza produttiva, che non sia un'estensione puramente
25
Gli individui non sono astratti o dati in sé, ma determinati dalle condizioni storiche, sociali,
economiche, politiche, etc. sia già esistenti sia prodotte dalla loro stessa azione.
26
Riferimento a Essenza del cristianesimo di Feuerbach
9
quantitativa delle forze produttive già note (per esempio di dissodamento di
terreni), porta come conseguenza un nuovo sviluppo nella divisione del lavoro.
La divisione del lavoro all'interno di una nazione porta con sé innanzi tutto la
separazione del lavoro industriale e commerciale dal lavoro agricolo e con ciò la
separazione fra città e campagna e il contrasto dei loro interessi. Il suo ulteriore
sviluppo porta alla separazione del lavoro commerciale da quello industriale. In
pari tempo, attraverso la divisione del lavoro all'interno di questi diversi rami, si
sviluppano a loro volta suddivisioni diverse fra individui che cooperano a lavori
determinati. La posizione reciproca di queste singole suddivisioni è condizionata
dai metodi impiegati nel lavoro agricolo, industriale e commerciale (patriarcato,
schiavitù, ordini, classi). Quando le relazioni sono più sviluppate, le stesse
condizioni si manifestano nei rapporti fra diverse nazioni. I diversi stadi di
sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse della proprietà;
vale a dire, ciascun nuovo stadio della divisione del lavoro determina anche i
rapporti fra gli individui in relazione al materiale, allo strumento e al prodotto del
lavoro.
La prima forma di proprietà è la proprietà tribale. Essa corrisponde a quel
grado non ancora sviluppato della produzione in cui un popolo vive di caccia e di
pesca, dell'allevamento del bestiame o al massimo dell'agricoltura. In quest'ultimo
caso è presupposta una grande massa dì terreni incolti. In questa fase la divisione
del lavoro è ancora pochissimo sviluppata e non è che un prolungamento della
divisione naturale del lavoro nella famiglia. L'organizzazione sociale quindi si
limita ad essere un'estensione della famiglia: capi patriarcali della tribù, al disotto
di essi i membri della tribù, e infine gli schiavi. La schiavitù, latente nella famiglia,
comincia a svilupparsi a poco a poco con l'aumento della popolazione e dei
bisogni, e con l'allargarsi delle relazioni esterne, così della guerra come del baratto.
La seconda forma è la proprietà della comunità antica e dello Stato, che ha
origine dall'unione di più tribù in una città, mediante patto o conquista, e in cui
continua ad esistere la schiavitù. Accanto alla proprietà della comunità già si
sviluppa la proprietà privata mobiliare e in seguito anche la immobiliare, che però è
una forma anormale, subordinata alla proprietà della comunità. I membri dello
Stato possiedono soltanto nella loro comunità il potere sui loro schiavi che
lavorano, e già per questo sono legati alla forma della proprietà della comunità. È
la proprietà privata posseduta in comune dai membri attivi dello Stato, i quali di
fronte agli schiavi sono costretti a restare in questa forma naturale di associazione.
Di conseguenza l'intera organizzazione sociale fondata su questa base, e con essa il
potere del popolo, decadono nella misura in cui si sviluppa la proprietà privata
immobiliare. La divisione del lavoro è già più sviluppata. Troviamo già
l'antagonismo fra città e campagna, più tardi l'antagonismo fra Stati che
rappresentano l'interesse della città e Stati che rappresentano quello della
campagna, e all'interno delle stesse città l'antagonismo tra industria e commercio
marittimo. Il rapporto di classe fra cittadini e schiavi è completamente sviluppato.
Tutta questa concezione della storia sembra contraddetta dal fatto della conquista.
Finora erano considerate forze motrici della storia la violenza, la guerra, il
saccheggio, la rapina ecc. Possiamo qui limitarci ai punti principali e prendere
quindi soltanto l'esempio che più balza agli occhi, la distruzione di un'antica civiltà
ad opera di un popolo barbaro e il formarsi di una nuova organizzazione della
società che ad essa si ricollega. (Roma e barbari, feudalesimo e Gallia, Impero
Romano d'oriente e turchi). Nel popolo barbaro conquistatore la guerra stessa
costituisce ancora, come già abbiamo accennato, una forma normale di relazioni,
che viene sfruttata con tanto maggiore impegno quanto più l'aumento della
popolazione, perdurando il rozzo modo di produzione tradizionale che per essa è
l'unico possibile, crea il bisogno di nuovi mezzi di produzione. In Italia invece, a
causa della concentrazione della proprietà fondiaria (provocata, oltre che dagli
10
acquisti e dai debiti, anche dalle eredità, perché data la grande dissolutezza e i rari
matrimoni le antiche stirpi a poco a poco si estinguevano e i loro beni finivano
nelle mani di pochi) e della sua trasformazione in pascolo (la quale fu provocata,
oltre che dalle cause economiche ordinarie, valide ancor oggi, dall'importazione di
cereali ricavati da saccheggi o da tributi e dalla conseguente mancanza di
consumatori per il grano italico), la popolazione libera era quasi scomparsa, gli
stessi schiavi a loro volta scomparivano e dovevano essere continuamente sostituiti
da schiavi nuovi. La schiavitù restava la base dell'intera produzione. I plebei, che
stavano fra i liberi e gli schiavi, non riuscirono mai ad elevarsi al di sopra della
condizione di sottoproletariato. Roma non fu mai niente di più che una città ed era
legata alle province da un rapporto quasi esclusivamente politico che naturalmente
poteva anche essere spezzato da avvenimenti politici. Con lo sviluppo della
proprietà privata appaiono qui per la prima volta quelle stesse condizioni che
ritroveremo, soltanto in misura più estesa, nella proprietà privata moderna. Da una
parte la concentrazione della proprietà privata, che a Roma cominciò molto presto
(come prova la legge agraria licinia27) e procedette rapidamente a cominciare dalle
guerre civili e soprattutto sotto gli imperatori; d'altra parte, e in relazione a ciò, la
trasformazione dei piccoli contadini plebei in un proletariato che però, per la sua
posizione intermedia fra cittadini possidenti e schiavi, non arrivò a uno sviluppo
autonomo.
La terza forma è la proprietà feudale o degli ordini. Mentre l'antichità
muoveva dalla città e dalla sua piccola cerchia, il Medioevo muoveva dalla
campagna. La popolazione allora esistente, scarsa e dispersa su una vasta
superficie, debolmente incrementata dai conquistatori, determinò questo
spostamento del punto di partenza. Al contrario della Grecia e di Roma, lo sviluppo
feudale comincia quindi su un terreno molto più esteso, preparato dalle conquiste
romane e dalla diffusione dell'agricoltura che originariamente ne dipende. Gli
ultimi secoli del cadente Impero Romano e la stessa conquista dei barbari
distrussero una grande quantità di forze produttive; l'agricoltura era caduta in
abbandono, l'industria rovinata per mancanza di sbocco, il commercio intorpidito o
violentemente troncato, la popolazione della campagna e delle città era diminuita.
Queste condizioni preesistenti e il modo come fu organizzata la conquista, da
quelle condizionato, provocarono, sotto l'influenza della costituzione militare
germanica, lo sviluppo della proprietà feudale. Come la proprietà tribale e la
proprietà della comunità anch'essa poggia su una comunità alla quale sono
contrapposti come classe direttamente produttrice non gli schiavi, come per la
proprietà antica, bensì i piccoli contadini asserviti. Insieme col completo sviluppo
del feudalesimo compare anche l'antagonismo con le città. L'organizzazione
gerarchica del possesso fondiario e le relative compagnie armate davano alla
nobiltà il potere sui servi della gleba. Questa organizzazione feudale era
un'associazione opposta alle classi produttrici, precisamente come la proprietà della
comunità antica; solo che la forma dell'associazione e il rapporto con i produttori
diretti erano diversi, perché esistevano condizioni di produzione diverse.
A questa organizzazione feudale del possesso fondiario corrispondeva nelle
città la proprietà corporativa, l'organizzazione feudale dell'artigianato. Qui la
proprietà consisteva principalmente nel lavoro di ciascun singolo. La necessità di
associarsi contro la rapace nobiltà associata, il bisogno di mercati coperti comuni in
un tempo in cui l'industriale era insieme mercante, la crescente concorrenza dei
servi della gleba fuggitivi che affluivano nelle città fiorenti, l'organizzazione
feudale dell'intero paese, portarono alle corporazioni; i piccoli capitali risparmiati a
poco a poco da singoli artigiani e il loro numero stabile in seno a una popolazione
27
Legge del 367 A.C proposta dal tribuno Gaio Licinio Stolone che stabiliva un limite alla proprietà
fondiaria.
11
crescente fecero sviluppare il rapporto di garzone e di apprendista, che dette
origine a una gerarchia simile a quella esistente nelle campagne.
Nell'età feudale dunque la proprietà principale consisteva da una parte nella
proprietà fondiaria col lavoro servile che vi era legato, dall'altra nel lavoro
personale con un piccolo capitale che si assoggettava il lavoro dei garzoni.
L'organizzazione dell'una e dell'altro era condizionata dalle ristrette condizioni
della produzione: la limitata e rozza coltura della terra e l'industria di tipo
artigianale. Durante il fiorire del feudalesimo la divisione del lavoro era assai
limitata. Ogni paese portava in sé l'antagonismo di città e campagna;
l'organizzazione in ordini era fortemente marcata, ma al di fuori della separazione
fra principi, nobiltà, clero e contadini nelle campagne, e fra maestri, garzoni,
apprendisti e ben presto anche plebei a giornata nelle città, non esisteva alcuna
divisione di rilievo. Nell'agricoltura vi si opponeva la coltivazione parcellare,
accanto alla quale sorgeva l'industria domestica degli stessi contadini, nell'industria
il lavoro non era affatto diviso all'interno dei singoli mestieri, pochissimo diviso fra
un mestiere e l'altro. La divisione fra industria e commercio preesisteva nelle città
più antiche, mentre nelle nuove si sviluppava lentamente, quando fra esse si
stabilivano rapporti. L'unificazione di più vasti paesi in regni feudali era un
bisogno tanto per la nobiltà terriera quanto per le città. L'organizzazione della
classe dominante, la nobiltà, ebbe quindi dappertutto al suo vertice un monarca.
Il fatto è dunque il seguente: individui determinati che svolgono un'attività
produttiva secondo un modo determinato entrano in questi determinati rapporti
sociali e politici. In ogni singolo caso l'osservazione empirica deve mostrare
empiricamente e senza alcuna mistificazione e speculazione il legame fra
l'organizzazione sociale e politica e la produzione. L'organizzazione sociale e lo
Stato risultano costantemente dal processo della vita di individui determinati; ma di
questi individui, non quali possono apparire nella rappresentazione propria o altrui,
bensì quali sono realmente, cioè come operano e producono materialmente, e
dunque agiscono fra limiti, presupposti e condizioni materiali determinate e
indipendenti dalla loro volontà.
La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo
luogo direttamente intrecciata alla attività materiale e alle relazioni materiali degli
uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio
spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro
comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale,
quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della
religione, della metafisica, ecc. di un popolo. Sono gli uomini i produttori delle
loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come sono
condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni
che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La coscienza non può
mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è
il processo reale della loro vita28. Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro
rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva
dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti
sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico.
Esattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che discende
dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli
uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si
immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte
28
Cfr. K. Marx, “ Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale,
politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al
contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza” Introduzione a Per la critica
dell'economia politica
12
dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si
spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di
vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono
necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente
constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la
religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad
esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non
hanno storia29, non hanno sviluppo, ma sono gli uomini che sviluppano la loro
produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa
loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza
che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza. Nel primo modo di
giudicare si parte dalla coscienza come individuo vivente, nel secondo modo, che
corrisponde alla vita reale, si parte dagli stessi individui reali viventi e si considera
la coscienza soltanto come la loro coscienza.
Questo modo di giudicare non è privo di presupposti. Esso muove dai
presupposti reali e non se ne scosta per un solo istante. I suoi presupposti sono gli
uomini, non in qualche modo isolati e fissati fantasticamente, ma nel loro processo
di sviluppo, reale ed empiricamente constatabile, sotto condizioni determinate. Non
appena viene rappresentato questo processo di vita attivo, la storia cessa di essere
una raccolta di fatti morti, come negli empiristi che sono anch’essi astratti, o
un’azione immaginaria di soggetti immaginari, come negli idealisti.
Là dove cessa la speculazione, nella vita reale, comincia dunque la scienza
reale e positiva, la rappresentazione dell’attività pratica, del processo pratico di
sviluppo degli uomini. Cadono le frasi sulla coscienza e al loro posto deve
subentrare il sapere reale. Con la rappresentazione della realtà la filosofia
autonoma perde i suoi mezzi d’esistenza30. Al suo posto può tutt’al più subentrare
una sintesi dei risultati più generali che è possibile astrarre dall’esame dello
sviluppo storico degli uomini. Di per sé, separate dalla storia reale, queste
astrazioni non hanno assolutamente valore. Esse possono servire soltanto a
facilitare l’ordinamento del materiale storico, a indicare la successione dei suoi
singoli strati. Ma non danno affatto, come la filosofia, una ricetta o uno schema sui
quali si possano ritagliare e sistemare le epoche storiche. La difficoltà comincia, al
contrario, quando ci si dà allo studio e all’ordinamento del materiale, sia di
un’epoca passata che del presente, a esporlo realmente. Il superamento di queste
difficoltà è condizionato da presupposti che non possono affatto essere enunciati in
questa sede, ma che risultano soltanto dallo studio del processo reale della vita e
dell’azione degli individui di ciascuna epoca. Qui prenderemo alcune di queste
astrazioni di cui ci serviamo nei confronti dell’ideologia e le illustreremo con
esempi storici.
La storia
Con gente priva di presupposti come i tedeschi dobbiamo cominciare col
constatare il primo presupposto di ogni esistenza umana, e dunque di ogni storia, il
29
Cioè non hanno uno sviluppo autonomo.
La filosofia, come pura ricerca speculativa non ha più ragione di esistere. “si lascia correre la verità
assoluta, che per questa via e da ogni singolo isolatamente non può essere raggiunta, e si dà la caccia
invece alle verità relative accessibili per la via delle scienze positive e della sintesi dei loro risultati a
mezzo del pensiero dialettico. Con Hegel ha fine, in generale, la filosofia; da una parte perché egli, nel
suo sistema, ne riassume l'evoluzione nella maniera più grandiosa, dall'altra perché egli, sia pur
inconsapevolmente, ci mostra la via che da questo labirinto di sistemi ci porta alla vera conoscenza
positiva del mondo. (F. Engels, “Ludovico Feuerbach”)
30
13
presupposto cioè che per poter « fare storia » gli uomini devono essere in grado di
vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l'abitazione, il vestire
e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per
soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, e questa è
precisamente un'azione storica, una condizione fondamentale di qualsiasi storia,
che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni
ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini. Anche riducendo la sensibilità
al minimo magari a un bastone come nel caso di san Bruno, essa presuppone
l'attività della produzione di questo bastone. In ogni concezione della storia dunque
il primo punto è che si osservi questo dato di fatto fondamentale in tutta la sua
importanza e in tutta la sua estensione e che gli si assegni il posto che gli spetta.
Ma i tedeschi notoriamente non l'hanno mai fatto e perciò non hanno mai avuto una
base terrena per la storia e di conseguenza non hanno mai avuto uno storico. I
francesi e gli inglesi, pur avendo compreso tutt'al più in misura solo parziale il
legame fra questo fatto e la cosiddetta storia, specialmente allorché si trovavano
imprigionati nell'ideologia politica, hanno fatto però i primi tentativi per dare alla
storiografia una base materialistica, scrivendo per primi storie della società civile,
del commercio e dell'industria. Il secondo punto è che il primo bisogno soddisfatto,
l'azione del soddisfarlo e lo strumento già acquistato di questo soddisfacimento
portano a nuovi bisogni: e questa produzione di nuovi bisogni è la prima azione
storica. Il che indica anche di che pasta sia fatta la grande saggezza storica dei
tedeschi i quali, là dove viene loro a mancare il materiale positivo e non si agitano
assurdità teologiche, politiche o letterarie, affermano che non ha luogo la storia ma
i « tempi preistorici », senza però spiegarci come da questa assurdità della
«preistoria» si passi nella storia vera e propria; nonostante che, d'altra parte, la loro
speculazione storica ami in modo tutto speciale gettarsi su questa « preistoria »,
perché ritiene di trovarvisi più al sicuro dalle intromissioni del « fatto bruto » e
insieme perché qui essa può allentare completamente le redini al suo impulso
speculativo e creare e distruggere ipotesi a migliaia. Il terzo rapporto che interviene
fino dalle prime origini nello sviluppo storico, è che gli uomini, i quali rifanno ogni
giorno la loro propria vita, cominciano a fare altri uomini, a riprodursi; è il rapporto
fra uomo e donna, tra genitori e figli: la famiglia. Questa famiglia, che da principio
è l'unico rapporto sociale, diventa più tardi, quando gli aumentati bisogni creano
nuovi rapporti sociali e l'aumentato numero della popolazione crea nuovi bisogni,
un rapporto subordinato (tranne che in Germania) e deve allora essere trattata e
spiegata in base ai dati empirici esistenti, non in base al « concetto della famiglia »
come si suol fare in Germania31. D’altronde questi tre aspetti dell’attività sociale
non vanno concepiti come tre gradi diversi, ma appunto solo come tre aspetti, o
come tre « momenti » (tanto per scrivere in maniera chiara per i tedeschi), i quali
31
Costruzione di case. Presso i selvaggi è cosa ovvia che ciascuna famiglia abbia la sua propria grotta o
capanna, come presso i nomadi la tenda separata di ciascuna famiglia. Questa economia domestica
separata è resa ancor più necessaria dal successivo sviluppo della proprietà privata. Presso i popoli
agricoltori l’economia domestica collettiva è altrettanto impossibile quanto la coltivazione collettiva della
terra. Un grande progresso fu la costruzione di città. In tutti i periodi del passato tuttavia l’abolizione
dell’economia separata, che è inseparabile dall’abolizione della proprietà privata, era impossibile se non
altro perché non ne esistevano le condizioni materiali.
L’istituzione di una economia domestica collettiva presuppone lo sviluppo delle macchine,
dell’utilizzazione delle forze produttive — per esempio gli acquedotti, l’illuminazione a gas, il
riscaldamento a vapore ecc. — e l’abolizione di città e campagne. Senza queste condizioni l’economia
collettiva non sarebbe neppure una nuova forza produttiva, mancherebbe di qualsiasi base materiale,
poggerebbe su un fondamento puramente teorico, cioè sarebbe un puro capriccio e condurrebbe a
un’economia claustrale. Quel che era possibile appare nella concentrazione in città e nella costruzione di
case collettive per scopi determinati (prigioni, caserme ecc.). Che l’abolizione dell’economia separata sia
inseparabile dall’abolizione della famiglia è cosa che s’intende da sé. (Nota di Marx e Engels)
14
sono esistiti fin dall’inizio della storia e fin dai primi uomini e ancor oggi hanno il
loro peso nella storia.
La produzione della vita, tanto della propria nel lavoro quanto dell’altrui nella
procreazione, appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una
parte, sociale dall’altra, sociale nel senso che si attribuisce a una cooperazione di
più individui, non importa sotto quali condizioni, in quale modo e per quale scopo.
Da ciò deriva che un modo di produzione o uno stadio industriale determinato è
sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato, e
questo modo di cooperazione è anche esso una « forza produttiva »; ne deriva che
la quantità delle forze produttive accessibili agli uomini condiziona la situazione
sociale e che dunque la «storia dell’umanità» deve essere sempre studiata e trattata
in relazione con la storia dell’industria e dello scambio. Ma è anche chiaro come in
Germania sia impossibile scrivere la storia in questo modo, perché ai tedeschi
mancano non soltanto la capacità intellettiva e il materiale necessari, ma anche la «
certezza sensibile », e al di là del Reno non si possono fare esperienze di queste
cose perché laggiù la storia non va più avanti. Appare già dunque, fin dall’origine,
un legame materiale fra gli uomini, il quale è condizionato dai bisogni e dal modo
della produzione ed è antico quanto gli stessi uomini; un legame che assume
sempre nuove forme e dunque presenta una « storia », anche senza che esista alcun
non-senso politico o religioso fatto apposta per tenere congiunti gli uomini.
Solo a questo punto, dopo avere già considerato quattro momenti, quattro
aspetti delle condizioni storiche originarie, troviamo che l’uomo ha anche una «
coscienza »32 . Ma anche questa non esiste, fin dall’inizio, come « pura »
coscienza. Fin dall’inizio lo « spirito» porta in sé la maledizione di essere « infetto
» della materia, che si presenta qui sotto forma di strati d’aria agitati, di suoni, e
insomma di linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è
la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola
esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal
bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini. Là dove un rapporto esiste,
esso esiste per me; l’animale non « ha rapporti » con alcunché e non ha affatto
rapporti. Per l’animale, i suoi rapporti con altri non esistono come rapporti. La
coscienza è dunque fin dall’inizio un prodotto sociale e tale resta fin tanto che in
genere esistono uomini. Naturalmente, la coscienza è innanzi tutto semplice
coscienza dell’ambiente sensibile immediato e del limitato legame con altre
persone e cose esterne all’individuo che prende coscienza di sé; in pari tempo è
coscienza della natura, che inizialmente si erge di contro agli uomini come una
potenza assolutamente estranea, onnipotente e inattaccabile, verso la quale gli
uomini si comportano in modo puramente animale e dalla quale si lasciano
dominare come le bestie: è dunque una coscienza puramente animale della natura
(religione naturale). Qui si vede subito che questa religione naturale, o questo
determinato comportarsi verso la natura, è condizionato dalla forma sociale e
viceversa. Qui, come dappertutto, l'identità di natura e uomo emerge anche in ciò,
che il comportamento limitato degli uomini verso la natura condiziona il
comportamento limitato fra uomini e uomini, condiziona i loro rapporti limitati con
la natura, appunto perché la natura non è stata ancora quasi modificata
storicamente, e d'altra parte la coscienza della necessità di stabilire dei contatti con
gli individui circostanti, costituisce per l'uomo la prima coscienza che vive in una
società. Questo inizio è di natura animale come la stessa vita sociale a questo
stadio, è pura coscienza da gregge, e l’uomo a questo punto si distingue dal
montone soltanto perché il suo è un istinto cosciente. Questa coscienza da montone
32
Gli uomini hanno una storia perché debbono produrre la propria vita, e la devono precisamente
produrre in una maniera determinata: ciò è dovuto alla loro organizzazione fisica così come alla loro
coscienza. (Nota di Marx)
15
o tribale perviene a uno sviluppo e a un perfezionamento ulteriore in virtù
dell’accresciuta produttività, dell’aumento dei bisogni e dell’aumento della
popolazione che sta alla base dell’uno e dell’altro fenomeno. Si sviluppa così la
divisione del lavoro, che in origine era niente altro che la divisione del lavoro
nell’atto sessuale, e poi la divisione del lavoro che si produce spontaneamente o «
naturalmente » in virtù della disposizione naturale (per esempio la forza fisica), del
bisogno, del caso, ecc. La divisione del lavoro diventa una divisione reale solo dal
momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro mentale.
Da questo momento in poi la coscienza può realmente figurarsi di essere qualche
cosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche
cosa senza concepire alcunché di reale: da questo momento la coscienza è in grado
di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la « pura » teoria, teologia,
filosofia, morale, ecc. Ma anche quando questa teoria, teologia, filosofia, morale,
ecc. entrano in contraddizione con i rapporti esistenti, ciò può accadere soltanto per
il fatto che i rapporti sociali esistenti sono entrati in contraddizione con le forze
produttive esistenti; d’altra parte in una determinata cerchia nazionale di rapporti
ciò può anche accadere per essersi prodotta la contraddizione non all’interno di
questa cerchia nazionale, ma fra questa coscienza nazionale e la coscienza
universale di una nazione. D’altronde è del tutto indifferente quel che la coscienza
si mette a fare per conto suo; da tutta questa porcheria ricaviamo, come unico
risultato, che questi tre momenti, la forza produttiva, la situazione sociale e la
coscienza, possono e debbono entrare in contraddizione fra loro, perché con la
divisione del lavoro si dà la possibilità, anzi la realtà, che l’attività spirituale e
l’attività materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo tocchino a
individui diversi, e la possibilità che essi non entrino in contraddizione sta solo nel
tornare ad abolire la divisione del lavoro. E’ di per sé evidente, del resto, che i «
fantasmi », i «vincoli», l’«essere superiore », il « concetto », la « irresolutezza »,
altro non sono che l’espressione spirituale idealistica, la rappresentazione
apparentemente dell’individuo isolato, in realtà di ceppi e barriere molto empirici
entro i quali si muovono il modo di produzione della vita e la forma di relazioni
che vi è connessa.
La divisione del lavoro, che implica tutte queste contraddizioni e che a sua
volta è fondata sulla divisione naturale del lavoro nella famiglia e sulla separazione
della società in singole famiglie opposte l’una all’altra, implica in pari tempo anche
la ripartizione, e precisamente la ripartizione ineguale, sia per quantità che per
qualità, del lavoro e dei suoi prodotti, e quindi la proprietà, che ha già il suo germe,
la sua prima forma, nella famiglia, dove la donna e i figli sono gli schiavi
dell’uomo. La schiavitù nella famiglia, che certamente è ancora molto rudimentale
e allo stato latente, è la prima proprietà, che del resto in questa fase corrisponde già
perfettamente alla definizione degli economisti moderni, secondo cui essa consiste
nel disporre di forza-lavoro altrui. Del resto divisione del lavoro e proprietà privata
sono espressioni identiche: con la prima si esprime in riferimento all’attività
esattamente ciò che con l’altra si esprime in riferimento al prodotto dell’attività.
Inoltre con la divisione del lavoro è data altresì la contraddizione fra
l’interesse del singolo individuo o della singola famiglia e l’interesse collettivo di
tutti gli individui che hanno rapporti reciproci; e questo interesse collettivo non
esiste puramente nell’immaginazione, come «universale », ma esiste innanzi tutto
nella realtà come dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è diviso.
E infine la divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che gli
uomini si trovano nella società naturale, fintanto che esiste, quindi, la scissione fra
interesse particolare e interesse comune, fin tanto che l'attività, quindi, è divisa non
volontariamente ma naturalmente, l'azione propria dell'uomo diventa una potenza a
lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga,invece di essere da lui dominata. Cioè
appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività
16
determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è
cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i
mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera
di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere , la società
regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi
questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la
sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza
diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico.
Questo fissarsi dell'attività sociale, questo consolidamento del nostro proprio
prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro
controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri calcoli, è stato
fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo storico, e appunto da questo
antagonismo fra interesse particolare e interesse collettivo l’interesse collettivo
prende una configurazione autonoma come Stato, separato dai reali interessi singoli
e generali, e in pari tempo come comunità illusoria, ma sempre sulla base reale di
legami esistenti in ogni conglomerato familiare e tribale, come la carne e il sangue,
la lingua, la divisione del lavoro accentuata e altri interessi, e soprattutto — come
vedremo più in particolarmente in seguito — sulla base delle classi già determinate
dalla divisione del lavoro, che si differenziano in ogni raggruppamento umano di
questo genere e delle quali una domina tutte le altre. Ne consegue che tutte le lotte
nell’ambito dello Stato, la lotta fra democrazia, aristocrazia e monarchia, la lotta
per il diritto di voto, ecc. ecc., altro non sono che le forme illusorie nelle quali
vengono condotte le lotte reali delle diverse classi (del quale fatto i teorici tedeschi
non hanno il più vago sentore, benché negli Annuari tedesco-francese e nella Sacra
famiglia33 si siano date loro in proposito indicazioni sufficienti), e inoltre che ogni
classe la quale aspiri al dominio, anche quando, come nel caso del proletariato, il
suo dominio implica il superamento di tutta la vecchia forma della società e del
dominio in genere, deve dapprima conquistarsi il potere politico per rappresentare a
sua volta il suo interesse come l’universale, essendovi costretta in un primo
momento. Appunto perché gli individui cercano soltanto il loro particolare
interesse, che per loro non coincide col loro interesse collettivo, questo viene
imposto come un interesse « generale», anch’esso a sua volta particolare e
specifico, ad essi « estraneo » e da essi« indipendente», o gli stessi individui
devono muoversi in questo dissidio, come nella democrazia. Giacché d’altra parte
anche la lotta pratica di questi interessi particolari che sempre si oppongono
realmente agli interessi collettivi e illusoriamente collettivi rende necessario
l’intervento pratico e l’imbrigliamento da parte dell’interesse «generale» illusorio
sotto forma di Stato. Il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha
origine attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione
del lavoro, appare a questi individui, poiché la cooperazione stessa non è volontaria
ma naturale, non come il loro proprio potere unificato, ma come una potenza
estranea, posta al di fuori di essi, della quale essi non sanno donde viene e dove va,
che quindi non possono più dominare e che al contrario segue una sua propria
successione di fasi e di gradi di sviluppo la quale è indipendente dal volere e
dall’agire degli uomini e anzi dirige questo volere e agire.
Questa « estraniazione »; per usare un termine comprensibile ai filosofi,
naturalmente può essere superata soltanto sotto due condizioni pratiche. Affinché
essa diventi un potere «insostenibile», cioè un potere contro il quale si agisce per
via rivoluzionaria, occorre che essa abbia reso la massa dell’umanità affatto « priva
di proprietà » e l’abbia posta altresì in contraddizione con un mondo esistente della
ricchezza e della cultura, due condizioni che presuppongono un grande incremento
33
Si tratta di due opere di Marx
17
della forza produttiva, un alto grado del suo sviluppo; e d’altra parte questo
sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli
uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un
presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si
generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il
conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda, e poi
perché solo con questo sviluppo universale delle forze produttive possono aversi
relazioni universali fra gli uomini, ciò che da una parte produce il fenomeno della
massa « priva di proprietà » contemporaneamente in tutti i popoli (concorrenza
generale), fa dipendere ciascuno di essi dalle rivoluzioni degli altri, e infine
sostituisce agli individui locali individui inseriti nella storia universale, individui
empiricamente universali. Senza di che
1) il comunismo potrebbe esistere solo come fenomeno locale,
2) le stesse potenze dello scambio non si sarebbero potute sviluppare come
potenze universali, e quindi insostenibili, e sarebbero rimaste « circostanze »
relegate nella superstizione domestica,
3) ogni allargamento delle relazioni sopprimerebbe il comunismo locale.
Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli
dominanti tutti in «una volta » e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo
universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che il comunismo implica.
Altrimenti, per esempio, come avrebbe potuto la proprietà avere una storia
qualsiasi, assumere forme diverse, e la proprietà fondiaria, a seconda dei diversi
presupposti esistenti, spingere in Francia dalla suddivisione parcellare alla
concentrazione in poche mani, e in Inghilterra dalla concentrazione in poche mani
alla suddivisione parcellare, come oggi accade realmente? Ovvero come avviene
che il commercio, il quale pur non è altro che lo scambio dei prodotti di individui e
paesi diversi, attraverso il rapporto di domanda e di offerta domina il mondo intero
— un rapporto che, come dice un economista inglese, simile all’antico fato
sovrasta la terra e con mano invisibile ripartisce fortuna e disgrazia fra gli uomini,
edifica e distrugge regni, fa sorgere e scomparire popoli — mentre con l’abolizione
della base, la proprietà privata, con l’ordinamento comunistico della produzione e
con la conseguente eliminazione di quell’estraneità che impronta le relazioni degli
uomini con il loro proprio prodotto, la potenza del rapporto di domanda e di offerta
si dilegua e gli uomini riprendono in loro potere lo scambio, la produzione, il modo
del loro reciproco comportarsi?
Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un
ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento
reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento
risultano dal presupposto ora esistente34.
D’altronde la massa di semplici operai — forza lavorativa privata in massa
del capitale o di qualsiasi limitato soddisfacimento — e quindi anche la perdita non
più temporanea di questo stesso lavoro come fonte di esistenza assicurata,
presuppone, attraverso la concorrenza, il mercato mondiale. Il proletariato può
dunque esistere soltanto sul piano della storia universale, così come il comunismo,
che è la sua azione, non può affatto esistere se non come esistenza « storica
universale ». Esistenza storica universale degli individui, cioè esistenza degli
individui che è legata direttamente alla storia universale.
La forma di relazioni determinata dalle forze produttive esistenti in tutti gli
stadi storici finora succedutisi, e che a sua volta le determina, è la società civile, la
quale, come già risulta da quanto precede, ha come presupposto e fondamento la
34
Critica al comunismo precedente, definito da Marx “utopistico”, che si rappresentava attraverso
categorie ideali, senza tener conto delle condizioni materiali per realizzarsi.
18
famiglia semplice e la famiglia composta, il cosiddetto ordinamento tribale, e nei
suoi particolari è stata definita più sopra. Qui già si vede che questa società civile è
il vero focolare, il teatro di ogni storia, e si vede quanto sia assurda la concezione
della storia finora corrente, che si limita alle azioni di capi e di Stati e trascura i
rapporti reali. La società civile comprende tutto il complesso delle relazioni
materiali fra gli individui all'interno di un determinato grado di sviluppo delle forze
produttive. Essa comprende tutto il complesso della vita commerciale e industriale
di un grado di sviluppo e trascende quindi lo stato e la nazione, benchè, d'altra
parte debba nuovamente affermarsi verso l'esterno come nazionalità e organizzarsi
verso l'interno come Stato. Il termine società civile sorse nel secolo diciottesimo
quando i rapporti di proprietà si erano già fatti strada fuori dal tipo di comunità
antico medievale. La società civile come tale comincia a svilupparsi con la
borghesia; tuttavia l'organizzazione sociale sviluppatasi immediatamente dalla
produzione e dagli scambi, la quale forma in tutti i tempi la base dello stato e di
ogni sovrastruttura idealistica, continua ad essere chiamata con lo stesso nome.
Sulla produzione della coscienza
Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli
individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono stati
sempre asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono
rappresentati come un dispetto del cosiddetto spirito del mondo ecc.), a un potere
che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato
mondiale. Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello
stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista (di cui parleremo più
avanti) e l’abolizione della proprietà privata che con essa si identifica, questo
potere così misterioso per i teorici tedeschi verrà liquidato, e allora verrà attuata la
liberazione di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la storia si trasforma
completamente in storia universale. Che la ricchezza spirituale reale dell’individuo
dipenda interamente dalla ricchezza delle sue relazioni reali, è chiaro dopo quanto
si è detto. Soltanto attraverso quel passo i singoli individui vengono liberati dai vari
limiti nazionali e locali, posti in relazione pratica con la produzione (anche
spirituale) di tutto il mondo e messi in condizione di acquistare la capacità di
godere di questa produzione universale di tutta la terra (creazioni degli uomini). La
dipendenza universale, questa forma spontanea della cooperazione degli individui
su piano storico universale, è trasformata da questa rivoluzione comunista nel
controllo e nel dominio cosciente di queste forze le quali, prodotte dal reciproco
agire degli uomini, finora si sono imposte ad essi e li hanno dominati come forze
assolutamente estranee. Questa concezione può a sua volta essere formulata in
maniera speculativo-idealistica, ossia fantasticamente, come «autoproduzione della
specie» (la «società come soggetto») e quindi la serie susseguentesi di individui
che stanno in connessione può essere immaginata come un singolo individuo che
compie il mistero di produrre se stesso. Appare qui che gli individui, certo, si fanno
l’un l’altro, fisicamente e spiritualmente, ma non fanno se stessi, né nel nonsenso di
san Bruno né nel senso dell’« unico », dell’uomo « fatto ».
Questa concezione della storia si fonda dunque su questi punti: spiegare il
processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione
materiale della vita immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la
forma di relazioni che è connessa con quel modo di produzione e che da esso è
generata, dunque la società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla nella
sua azione come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni
teoriche e le forme della coscienza, religione, filosofia, morale, ecc. ecc. e seguire
sulla base di queste il processo della sua origine, ciò che consente naturalmente
19
anche di rappresentare la cosa nella sua totalità (e quindi anche la reciproca
influenza di questi lati diversi l’uno sull’altro). Essa non deve cercare in ogni
periodo una categoria, come la concezione idealistica della storia, ma resta salda
costantemente sul terreno storico reale, non spiega la prassi partendo dall’idea, ma
spiega le formazioni di idee partendo dalla prassi materiale, e giunge di
conseguenza anche al risultato che tutte le forme e prodotti della coscienza possono
essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nell’«
autocoscienza » o trasformandoli in « spiriti », « fantasmi », « spettri », ecc., ma
solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali
queste fandonie idealistiche sono derivate; che non la critica, ma la rivoluzione è la
forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni
altra teoria35. Essa mostra che la storia non finisce col risolversi nella «
autocoscienza » come « spirito dello spirito », ma che in essa ad ogni grado si trova
un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente
prodotto con la natura e degli individui fra loro, che ad ogni generazione è stata
tramandata dalla precedente una massa di forze produttive, capitali e circostanze,
che da una parte può senza dubbio essere modificata dalla nuova generazione, ma
che d’altra parte impone ad essa le sue proprie condizioni di vita e le dà uno
sviluppo determinato, uno speciale carattere; che dunque le circostanze fanno gli
uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze. Questa somma di
forze produttive, di capitali e di forme di relazioni sociali, che ogni individuo e
ogni generazione trova come qualche cosa di dato, è la base reale di ciò che i
filosofi si sono rappresentati come « sostanza » ed « essenza dell’uomo », di ciò
che essi hanno divinizzato e combattuto, una base reale che non è minimamente
disturbata, nei suoi effetti e nei suoi influssi sulla evoluzione degli uomini, dal fatto
che questi filosofi, in quanto « autocoscienza » e « unico », si ribellano ad essa.
Queste condizioni di vita preesistenti in cui le varie generazioni vengono a trovarsi
decidono anche se la scossa rivoluzionaria periodicamente ricorrente nella storia
sarà o no abbastanza forte per rovesciare la base di tutto ciò che è costituito, e
qualora non vi siano questi elementi materiali per un rivolgimento totale, cioè da
una parte le forze produttive esistenti, dall’altra la formazione di una massa
rivoluzionaria che agisce rivoluzionariamente non solo contro alcune condizioni
singole della società fino allora esistente, ma contro la stessa « produzione della
vita » come è stata fino a quel momento, la « attività totale » su cui questa si
fondava, allora è del tutto indifferente, per lo sviluppo pratico, se l’idea di questo
rivolgimento sia già stata espressa mille volte: come dimostra la storia del
comunismo.
Finora tutta la concezione della storia ha puramente e semplicemente ignorato
questa base reale della storia oppure l’ha considerata come un semplice fatto
marginale, privo di qualsiasi legame con il corso storico. Per questa ragione si è
sempre costretti a scrivere la storia secondo un metro che ne sta al di fuori; la
produzione reale della vita appare come qualche cosa di preistorico, mentre ciò che
è storico, inteso come qualche cosa che è separato dalla vita comune, appare come
extra e sovramondano. Il rapporto dell’uomo con la natura è quindi escluso dalla
storia, e con ciò è creato l’antagonismo, fra natura e storia. Questa concezione
quindi ha visto nella storia soltanto azioni di capi, di Stati e lotte religiose e in
genere teoriche, e in ogni epoca, in particolare, ha dovuto condividere l’illusione
dell’epoca stessa. Se un’epoca, per esempio, immagina di essere determinata da
motivi puramente « politici » o « religiosi », benché « religione » e « politica »
siano soltanto forme dei suoi motivi reali, il suo storico accetta questa opinione.
35
Cfr. Marx e Engels, il Manifesto del Partito comunista: “La storia di ogni società esistita fino a questo
momento, è storia di lotte di classi”. Non è un soggetto o un'idea che fa la storia, ma è la lotta di classe il
motore della storia.
20
L’« immagine », la « rappresentazione » che questi determinati uomini si fanno
della loro prassi reale viene trasformata nell’unica forza determinante e attiva che
domina e determina la prassi di questi uomini. Se la forma rozza in cui la divisione
del lavoro si presenta presso gli indiani e gli egiziani dà origine presso questi
popoli al sistema delle caste nello Stato e nella religione, lo storico crede che il
sistema delle caste sia la potenza che ha prodotto quella rozza forma di società.
Mentre i francesi e gli inglesi per lo meno si fermano all’illusione politica, che è
ancora la più vicina alla realtà, i tedeschi si muovono nel campo del « puro spirito
» e fanno dell’illusione religiosa la forza motrice della storia.
. . . La storia non è altro che la successione delle singole generazioni, ciascuna
delle quali sfrutta i materiali, i capitali, le forze produttive che le sono stati
trasmessi da tutte le generazioni precedenti, e quindi da una parte continua, in
circostanze del tutto cambiate, l’attività che ha ereditato; d’altra parte modifica le
vecchie circostanze con un’attività del tutto cambiata; è un processo che sul terreno
speculativo viene distorto al punto di fare della storia successiva lo scopo della
storia precedente, di assegnare per esempio alla scoperta dell’America lo scopo di
favorire lo scoppio della Rivoluzione francese; per questa via poi la storia riceve i
suoi scopi speciali e diventa una « persona accanto ad altre persone» (che sono: «
autocoscienza, critica, unico », ecc.), mentre ciò che vien designato come «
destinazione », « scopo », « germe », « idea » della storia anteriore altro non è che
un’astrazione della storia posteriore, un’astrazione dell’influenza attiva che la
storia anteriore esercita sulla successiva. A mano a mano poi che nel corso di
questo sviluppo si allargano le singole sfere che agiscono l’una sull’altra, a mano a
mano che l’originario isolamento delle singole nazionalità viene annullato dal
modo di produzione sviluppato, dalle relazioni e dalla conseguente divisione
naturale del lavoro fra le diverse nazioni, la storia diventa sempre più storia
universale, cosicché, per esempio, se in Inghilterra viene inventata una macchina
che riduce alla fame innumerevoli lavoratori in India e in Cina e sovverte tutta la
forma di esistenza di questi imperi, questa invenzione diventa un fatto storico
universale; oppure, lo zucchero e il caffè dimostrarono la loro importanza, storica
universale nel secolo diciannovesimo, in quanto la mancanza di questi prodotti,
provocata dal sistema continentale napoleonico, portò i tedeschi a insorgere contro
Napoleone e divenne quindi la base reale delle gloriose guerre di liberazione del
1813. Da ciò segue che questa trasformazione della storia in storia universale è non
già un semplice fatto astratto della « autocoscienza », dello spirito del mondo o di
qualche altro fantasma metafisico, ma un fatto assolutamente materiale,
dimostrabile empiricamente, un fatto dì cui ciascun individuo dà prova nell’andare
e venire, nel mangiare, nel bere e nel vestirsi.
Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la
classe che è la potenza materiale dominante è in pari tempo la sua potenza
spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale
dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché
ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi
della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione
ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi
come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe
la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio. Gli individui che
compongono la classe dominante posseggono fra l’altro anche la coscienza, e
quindi pensano; in quanto dominano come classe e determinano l’intero ambito di
un’epoca storica, è evidente che essi lo fanno in tutta la loro estensione, e quindi
fra l’altro dominano anche come pensanti, come produttori di idee che regolano la
produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo; è dunque evidente che le
loro idee sono le idee dominanti dell’epoca. Per esempio: in un periodo e in un
paese in cui potere monarchico, aristocrazia e borghesia lottano per il potere, il
21
quale quindi è diviso, appare come idea dominante la dottrina della divisione dei
poteri, dottrina che allora viene enunciata come «legge eterna». La divisione del
lavoro, che abbiamo già visto come una delle forze principali della storia finora
trascorsa, si manifesta anche nella classe dominante come divisione del lavoro
intellettuale e manuale, cosicché all’interno di questa classe una parte si presenta
costituita dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali
dell’elaborazione dell’illusione di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere
principale), mentre gli altri nei confronti di queste idee e di queste illusioni hanno
un atteggiamento più passivo e più ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi
di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi.
All’interno di questa classe questa scissione può addirittura svilupparsi fino a
creare fra le due parti una certa opposizione e una certa ostilità, che tuttavia cade da
sé se sopraggiunge una collisione pratica che metta in pericolo la classe stessa:
allora si dilegua anche la parvenza che le idee dominanti non siano le idee della
classe dominante e abbiano un potere distinto dal potere di questa classe.
L’esistenza di idee rivoluzionarie in una determinata epoca presuppone già
l’esistenza di una classe rivoluzionaria sui cui presupposti abbiamo già detto
quanto occorre. Se ora nel considerare il corso della storia si svincolano le idee
della classe dominante dalla classe dominante e si rendono autonome, se ci si limita
a dire che in un’epoca hanno dominato queste o quelle idee, senza preoccuparsi
delle condizioni della produzione e dei produttori di queste idee, e se quindi si
ignorano gli individui e le situazioni del mondo che stanno alla base di queste idee,
allora si potrà dire per esempio che al tempo in cui dominava l’aristocrazia
dominavano i concetti di onore, di fedeltà, ecc., e che durante il dominio della
borghesia dominavano i concetti di libertà, di uguaglianza, ecc. Queste sono, in
complesso, le immaginazioni della stessa classe dominante. Questa concezione
della storia che è comune a tutti gli storici, particolarmente a partire dal
diciottesimo secolo, deve urtare necessariamente contro il fenomeno che dominano
idee sempre più astratte, cioè idee che assumono sempre più la forma
dell’universalità. Infatti ogni classe che prenda il posto di un’altra che ha dominato
prima è costretta, non fosse che per raggiungere il suo scopo, a rappresentare il suo
interesse come interesse comune di tutti i membri della società, ossia, per
esprimerci in forma idealistica, a dare alle proprie idee la forma dell’universalità, a
rappresentarle come le sole razionali e universalmente valide.
La classe rivoluzionaria si presenta senz’altro per il solo fatto che si
contrappone a una classe, non come classe ma come rappresentante dell’intera
società, appare come l’intera massa della società di contro all’unica classe
dominante. Ciò le è possibile perché in realtà all’inizio il suo interesse è ancora più
legato all’interesse comune di tutte le altre classi non dominanti, e sotto la
pressione dei rapporti fino allora esistenti non si è ancora potuto sviluppare come
interesse particolare di una classe particolare 36. La sua vittoria giova perciò anche a
molti individui delle altre classi che non giungono al dominio, ma solo in quanto
pone questi individui in condizione di ascendere nella classe dominante. Quando la
borghesia francese rovesciò il dominio dell’aristocrazia, con ciò rese possibile a
molti proletari di innalzarsi al di sopra del proletariato, ma solo in quanto essi
diventarono borghesi. Quindi ogni nuova classe non fa che porre il suo dominio su
una base più larga della precedente, per la qual cosa anche l’opposizione delle
classi non dominanti contro quella ora dominante si sviluppa più tardi con tanto
maggiore asprezza e profondità. Queste due circostanze fanno sì che la lotta da
36
L’universalità corrisponde: 1) alla classe contra ordine, 2) alla concorrenza, relazioni mondiali, ecc., 3)
alla grande consistenza numerica della classe dominante, 4) all’illusione della comunità di interessi
(inizialmente questa illusione è vera), 5) all’inganno degli ideologi e alla divisione del lavoro. (Nota di
Marx).
22
condurre contro questa nuova classe dominante tenda a sua volta a una negazione
della situazione sociale esistente più decisa e più radicale di quanto fosse possibile
a tutte le classi che precedentemente avevano aspirato al dominio.
Tutta questa parvenza, che il dominio di una determinata classe altro non sia
che il dominio di certe idee, cessa naturalmente da sé non appena il dominio di
classi in generale cessa di essere la forma dell’ordinamento sociale, non appena
quindi non è più necessario rappresentare un interesse particolare come universale
o « l’universale » come dominante.
Una volta che le idee dominanti siano state separate dagli individui dominanti
e soprattutto dai rapporti che risultano da un dato stadio del modo di produzione, e
si sia giunti di conseguenza al risultato che nella storia dominano sempre le idee, è
facilissimo astrarre da queste varie idee «l’idea », ecc., come ciò che domina nella
storia e concepire così tutte queste singole idee e concetti come «
autodeterminazioni » del concetto che si sviluppa nella storia. Allora è anche
naturale che tutti i rapporti degli uomini possano venire ricavati dal concetto
dell’uomo, dall’uomo quale viene rappresentato, dall’essenza dell’uomo,
dall’uomo. È ciò che ha fatto la filosofia speculativa. Hegel arriva a confessare, alla
fine della sua filosofia della storia, « di avere considerato soltanto il processo del
concetto » e di avere esposto nella storia la « vera teodicea » . Si può quindi
ritornare ai produttori « del concetto », ai teorici, agli ideologi e ai filosofi, e
giungere quindi al risultato che i filosofi, i pensatori come tali, hanno dominato da
sempre nella storia; un risultato che, come abbiamo visto, fu anche già espresso da
Hegel. Quindi tutto il gioco di. abilità, per dimostrare la sovranità dello spirito nella
storia (gerarchia in Stirner), si riduce ai seguenti tre efforts:
1) Si devono separare le idee di coloro che dominano per ragioni empiriche,
sotto condizioni empiriche e come individui materiali, da questi dominatori, e con
ciò riconoscere il dominio di idee o illusioni nella storia.
2) Si deve metter un ordine in questo dominio delle idee, dimostrare un nesso
mistico fra le successive idee dominanti, al che si perviene considerandole come «
autodeterminazioni del concetto » (la cosa è possibile perché fra queste idee,
attraverso la loro base empirica, esiste realmente un nesso, e perché esse, concepite
come pure idee, diventano autodistinzioni, distinzioni fatte dal pensiero).
3) Per eliminare l’aspetto mistico di questo « concetto autodeterminantesi »,
lo si trasforma in una persona — « l’autocoscienza » — oppure, per apparire
perfetti materialisti, in una serie di persone che rappresentano « il concetto » nella
storia, i « pensatori », i « filosofi », gli ideologi, i quali ancora una volta sono
concepiti come i fabbricanti della storia, come il « consesso dei guardiani », come i
dominatori. Con ciò si sono eliminati dalla storia tutti quanti gli elementi
materialistici e si possono allentare tranquillamente le briglie al destriero
speculativo.
Questo metodo storiografico che dominava soprattutto in Germania, e specie
perché vi ha dominato, va spiegato muovendo dalla sua connessione con l’illusione
degli ideologi in genere, per esempio le illusioni dei giuristi, dei politici (ivi
compresi i pratici uomini di Stato), dai vaneggiamenti dogmatici di codesti tipi; la
quale illusione è semplicissimamente spiegata dalla loro posizione pratica nella
vita, dal loro mestiere e dalla divisione del lavoro.
http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1846/ideologia/index.htm
23
Manifesto del Partito comunista (1848)37
Borghesi e proletari
Proletari e comunisti
Uno spettro si aggira per l'Europa, lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della
vecchia Europa, il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti
tedeschi, si sono alleati in una santa caccia spietata contro questo spettro38. Quale è
il partito d'opposizione, che non sia stato tacciato di comunista dai suoi avversari
che si trovano al potere? E quale è il partito d'opposizione, che, alla sua volta, non
abbia ritorto l'infamante accusa di comunista contro gli elementi più avanzati
dell'opposizione o contro i suoi avversari reazionari?
Da questo fatto si ricavano due conclusioni.
Il comunismo è ormai riconosciuto come potenza da tutte le potenze europee.
È ormai tempo che i comunisti espongano apertamente a tutto il mondo il loro
modo di vedere, i loro scopi, le loro tendenze, e che alla fiaba dello spettro del
comunismo contrappongano un manifesto del partito.
A tal fine, comunisti delle più varie nazionalità si sono riuniti a Londra e hanno
redatto il seguente manifesto, che viene pubblicato in lingua inglese, francese,
tedesca, italiana, fiamminga e danese.
Borghesi e proletari
La storia di ogni società sinora esistita é storia di lotte di classi. Liberi e schiavi,
patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in
una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno
sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì
sempre a con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società.
Nelle prime epoche della storia troviamo quasi dappertutto una completa divisione
della società in varie caste, una multiforme gradazione delle posizioni sociali.
Nell'antica Roma abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel Medioevo signori
37
I testo fu preparata da Karl Marx e Friedrich Engels fra il 1847 e il 1848 e pubblicata a Londra alla fine
di febbraio del 1848 mentre l’assetto dell’Europa stava per essere travolto dalle rivoluzione del 1848.
38
Nella esemplificazione gli accostamenti hanno carattere antitetico, per porre in evidenza come nella
caccia allo « spettro del comunismo » si ritrovano uniti governanti e uomini e partiti politici, peraltro
divisi da concezioni sia religiose sia politiche. Il papa (Pio IX che aveva condannato il comunismo con
l'enciclica Qui pluribus del 1846) si trova in compagnia dello zar ortodosso (Nicola I, che aveva
represso nel sangue l'insurrezione di Cracovia del 1846, insurrezione democratica contro il cui
programma si levò l'accusa di comunismo); il primo ministro austriaco Metternich (il gran
cancelliere della Santa Alleanza, tenace sostenitore dell'assolutismo, che condusse una lotta senza
quartiere contro idee e istituzioni liberali e si schierò contro ogni moto di indipendenza) stringe la
mano a Guizot (liberale conservatore, che dal 1840 al 1848 diresse la politica estera del governo
francese); i radicali francesi (cioè i repubblicani borghesi democratici del tempo che ebbero parte decisiva
nella rivoluzione del febbraio 1848 a Parigi) vanno sotto braccio con i poliziotti tedeschi, tecnici della
censura e della repressione della libertà di organizzazione non solo nei confronti dei comunisti ma anche
dei liberali e dei radicali tedeschi. La spietata caccia allo spettro del comunismo viene definita « santa »
per l'evidente richiamo alla vecchia « santa alleanza », stabilita nel 1815 dopo la caduta di Napoleone, tra
do zar Alessandro I, l'imperatore d'Austria, e il re di Prussia, al fine di combattere in Europa le tendenze
liberali e sostenere in Europa il potere assolutistico.
24
feudali, vassalli, maestri d'arte, garzoni, servi della gleba, e per di più in quasi
ciascuna di queste classi altre speciali gradazioni.
La moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha
eliminato i contrasti fra le classi. Essa ha soltanto posto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta in luogo delle antiche.
L’epoca nostra, l'epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché ha semplificato
i contrasti e classi.
La società intera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due
grandi classi direttamente opposte l'una, all'altra: borghesia e proletariato.
Dai servi della gleba del Medioevo uscirono i borghigiani delle prime città; da
questi borghigiani ebbero sviluppo i primi elementi della borghesia.
La scoperta dell'America e la circumnavigazione dell'Africa offrirono un nuovo
terreno alla nascente borghesia. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la
colonizzazione dell'America, lo scambio con le colonie, l'aumento dei mezzi di
scambio e delle merci in generale, diedero un impulso prima d'allora sconosciuto al
commercio, alla navigazione, all'industria, e in pari tempo favorirono il rapido
sviluppo dell'elemento rivoluzionario in seno alla società feudale che s'andava sfasciando.
L'organizzazione feudale o corporativa dell'industria da quel momento non bastò
più ai bisogni, che andavano crescendo col crescere dei nuovi mercati. Subentrò la
manifattura. I maestri di bottega vennero soppiantati dal medio ceto industriale; la
divisione del lavoro tra le diverse corporazioni scomparve davanti alla divisione
del lavoro nelle singole officine stesse.
Ma i mercati continuavano a crescere, e continuavano a crescere i bisogni. Anche
la manifattura non bastava più. Ed ecco il vapore e le macchine rivoluzionare la
produzione industriale. Alla manifattura subentrò la grande industri moderna; al
medio ceto industriale succedettero gli industriali milionari, i capi di interi eserciti
industriali, i moderni borghesi.
La grande industria ha creato quel mercato mondiale che la scoperta dell'America
aveva preparato. Il mercato mondiale ha dato un immenso sviluppo al commercio,
alla navigazione, alle comunicazioni per terra. Quello sviluppo, alla sua volta, ha
reagito sull'espansione dell'industria; e in quella stessa misura in cui si sono andate
estendendo l'industria, il commercio, la navigazione, le ferrovie, anche la borghesia
si é sviluppata, ha aumentato i suoi capitali e sospinto nel retroscena tutte le classi
che erano una eredità del Medioevo.
Vediamo dunque come la stessa borghesia moderna sia il prodotto di un lungo
processo di sviluppo, di una serie di sconvolgimenti nei modi della produzione e
del traffico.
Ognuno di questi stadi nello sviluppo della borghesia fu accompagnato da un
corrispondente progresso politico. Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, associazione armata e autonoma del Comune, qui repubblica municipale
indipendente, là terzo stato tributario della monarchia, poi, al tempo della manifattura, contrappeso alla nobiltà nella monarchia a poteri limitati39 o in quella
assoluta, principale fondamento, in generale, delle grandi monarchie, col costituirsi
della grande industria e del mercato mondiale, la borghesia si é impadronita
finalmente della potestà politica esclusiva nel moderno Stato rappresentativo. Il
potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli
affari comuni di tutta quanta la classe borghese.
La borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria.
39
Monarchia a potere limitato, cioè con gli «stati» (clero, nobiltà, • « terzo stato a, borghesia)
rappresentati negli organi consultivi della monarchia.
25
Dove è giunta al potere, essa ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali,
patriarcali, idilliache. Essa ha lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l'uomo ai suoi superiori naturali, e non ha lasciato tra
uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato «pagamento in contanti ». Essa ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti
dell'esaltazione religiosa, dell'entusiasmo cavalleresco, della sentimentalità
piccolo-borghese. Ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio; e
in luogo delle innumerevoli franchigie faticosamente acquisite e patentate, ha posto
la sola libertà di commercio senza scrupoli. In una parola, al posto dello
sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, ha messo lo sfruttamento
aperto, senza pudori, diretto e arido.
La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte quelle attività che per l'innanzi
erano considerate degne di venerazione e di rispetto. Ha trasformato il medico, il
giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati.
La borghesia ha strappato il velo di tenero sentimentalismo che avvolgeva i
rapporti di famiglia, e li ha ridotti a un semplice rapporto di denari
La borghesia ha messo in chiaro come la brutale manifestazione di forza, che i
reazionari tanto ammirano nel Medioevo, avesse il suo appropriato completamento
nella più infingarda poltroneria. Essa per prima ha mostrato che cosa possa l'attività
umana. Essa ha creato ben altre meraviglie che le piramidi. d'Egitto, gli acquedotti l
romani e le cattedrali gotiche; essa ha fatto ben altre spedizioni che le migrazioni
dei popoli e le Crociate.
La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di
produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l'insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era
invece l'immutata conservazione dell'antico modo di produzione. Il continuo
rivoluzionamento della produzione, l'incessante scuotimento di tutte le condizioni
sociali, l'incertezza e, il movimento eterni contraddistinguono l'epoca borghese da
tutte le altre. Tutte le stabili e irrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di
opinioni e credenze rese venerabili dall'età, si dissolvono, e le nuove invecchiano
prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di
rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli
uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la
loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci.
Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per
tutto il globo terrestre. Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni.
Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il
consumo di tutti i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all'industria la
base nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e vengono, di giorno
in giorno, annichilite. Esse vengono soppiantate da nuove industrie, la cui introduzione é questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, industrie che non
lavorano più materie prime indigene, bensí materie prime provenienti dalle regioni
più remote, e i cui prodotti non si consumano soltanto nel paese, ma in tutte le parti
del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti
nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti
dei paesi e dei climi più lontani. In luogo dell'antico isolamento locale e nazionale,
per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, una
universale dipendenza delle nazioni l'una dall'altra. E come nella produzione
materiale, cosí anche nella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni
diventano patrimonio comune. La unilateralità e la ristrettezza nazionale diventano
sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali esce una
letteratura mondiale.
26
Col rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni
infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà anche le nazioni più
barbare. I tenui prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con cui essa abbatte
tutte le muraglie cinesi, e con cui costringe a capitolare il più testardo odio dei
barbari per lo straniero. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della
produzione borghese se non vogliono perire; le costringe a introdurre nei loro paesi
la cosiddetta civiltà, cioè a farsi borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a
propria immagine e somiglianza.
Là borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città
enormi, ha grandemente accresciuto la popolazione urbana in confronto con quella
rurale, e cosí ha strappato una parte notevole della popolazione all'idiotismo della
vita rustica. Come ha assoggettato la campagna alla città, cosí ha reso dipendenti
dai popoli civili quelli barbari e semibarbari, i popoli contadini dai popoli borghesi,
l'Oriente dall'Occidente.
La borghesia sopprime sempre più il frazionamento dei mezzi di produzione, della
proprietà e della popolazione. Essa ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato
i mezzi di produzione e concentrato la proprietà in poche mani. Ne è risultata come
conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, quasi
appena collegate tra loro da vincoli federali, province con interessi, leggi, governi e
dogane diversi, sono state strette in una sola nazione, con un solo governo, una sola
legge, un solo interesse nazionale di classe, un solo confine doganale.
Nel suo dominio di classe, che dura appena da un secolo, la borghesia ha creato
delle forze produttive il cui numero e la cui importanza superano quanto mai
avessero fatto tutte insieme le generazioni passate. Soggiogamento delle forze
naturali, macchine, applicazione della chimica all'industria e all'agricoltura,
navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, dissodamento di interi continenti,
fiumi resi navigabili, intere popolazioni sorte quasi per incanto dal suolo — quale
dei secoli passati avrebbe mai presentito che tali forze produttive stessero sopite in
grembo al lavoro sociale?
Abbiamo però veduto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si
eresse la borghesia, furono generati in seno alla società feudale. A un certo grado
dello sviluppo di questi mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali
la società feudale produceva e scambiava, vale a dire l'organizzazione feudale
dell'agricoltura e della manifattura; in una parola i rapporti feudali di proprietà, non
corrisposero più alle forze produttive già sviluppate. Quelle condizioni, invece di
favorire la produzione, la inceppavano. Esse, si trasformavano in altrettante catene.
Dovevano essere spezzate, e furono spezzate.
Subentrò ad esse la libera concorrenza con la costituzione politica e sociale ad essa
adatta; col dominio economico e politico della classe borghese.
Sotto i nostri occhi si sta compiendo un processo analogo. Le condizioni borghesi
di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la moderna società
borghese, che ha evocato come per incanto cosí potenti mezzi di produzione e di
scambio, rassomiglia allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee
da lui evocate40. Da qualche decina d'anni la storia dell'industria e del commercio
non é che la storia della ribellione delle moderne forze produttive contro i moderni
rapporti di produzione, contro i rapporti di proprietà che sono le condizioni di
esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali,
che nei loro ritorni periodici sempre più minacciosamente mettono in forse
l'esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente
distrutta una gran parte non solo dei prodotti già ottenuti, ma anche delle forze
produttive che erano già state create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che
40
Reminiscenza della ballata di Goethe “L'apprendista mago” (1797).
27
in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l'epidemia della
sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di
momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano
averle tolto tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano
annientati, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di.
sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa
dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti
della proprietà borghese; al contrario, esse sono divenute troppo potenti per tali
rapporti, sicché ne vengono inceppate; e non appena superano questo impedimento
gettano nel disordine tutta quanta la società borghese, minacciano l'esistenza della
proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere
le ricchezze da essi prodotte. Con quale mezzo riesce la borghesia a superare le
crisi? Per un verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze
produttive; per un altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più
intensamente i mercati già esistenti. Con quale mezzo dunque? Preparando crisi più
estese e più violente e riducendo i mezzi per prevenire le crisi.
Le armi con cui la borghesia ha abbattuto il feudalesimo si rivolgono ora contro la
borghesia stessa.
Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le recano la morte; essa ha
anche creato gli uomini che useranno quelle armi i moderni operai, i proletari.
Nella stessa misura in cui si sviluppa la borghesia, vale a dire il capitale, si
sviluppa anche il proletariato, la classe degli operai moderni, i quali vivono solo
fino a tanto che trovano lavoro, e trovano lavoro soltanto fino a che il loro lavoro
aumenta il capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi al minuto, sono una
merce come ogni altro articolo di commercio, e perciò sono egualmente esposti a
tutte, le vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato.
Il lavoro dei proletari, con l'estendersi dell'uso delle macchine e con la divisione
del lavoro ha perduto ogni carattere d'indipendenza e quindi ogni attrattiva per
l'operaio. Questi diventa un semplice accessorio della macchina, un accessorio a
cui non si chiede che un'operazione estremamente semplice, monotona, facilissima
ad imparare. Le spese che l'operaio procura si limitano perciò quasi esclusivamente
ai mezzi di sussistenza necessari per il suo mantenimento e per la propagazione
della sua specie. Ma il prezzo di una merce, e quindi anche il prezzo del lavoro, é
eguale al suo costo di produzione. Cosí, a misura che il lavoro si fa più ripugnante,
più discende il salario. Più ancora: a misura che crescono l'uso delle macchine e la
divisione del lavoro, cresce anche la quantità del lavoro, sia per l'aumento delle ore
di lavoro, sia per l'aumento del lavoro richiesto in una data unità di tempo, per
l'accresciuta celerità delle macchine, ecc.
L'industria moderna ha trasformato la piccola officina dell'artigiano patriarcale
nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle
fabbriche vengono organizzate militarmente. Come soldati semplici dell'industria
essi vengono sottoposti alla sorveglianza di tutta una gerarchia di sottufficiali e di
ufficiali. Essi non sono soltanto servi della classe borghese, dello Stato borghese,
ma vengono, ogni giorno e ogni ora, asserviti dalla macchina, dal sorvegliante,
soprattutto dal singolo borghese padrone di fabbrica. Siffatto dispotismo é tanto più
meschino, odioso, esasperante, quanto più apertamente esso proclama di non avere
altro scopo che il guadagno.
Quanto meno il lavoro manuale esige abilità e forza, vale a dire quanto più
l'industria moderna si sviluppa, tanto più il lavoro degli uomini viene soppiantato
da quello delle donne e dei fanciulli. Le differenze di sesso di età non hanno piú
nessun valore sociale per la classe operaia. Non ci sono più che strumenti di lavoro,
il cui costo varia secondo l'età e il sesso.
28
Non appena l'operaio ha finito di essere sfruttato dal fabbricante e ne ha ricevuto il
salario in contanti, ecco piombar su di lui gli altri membri della borghesia, il
padrone di casa, il bottegaio, il prestatore a pegno, e cosí via.
Quelli che furono sinora i piccoli ceti medi, i piccoli industriali, i negozianti e la
gente che vive di piccola rendita, gli artigiani e gli agricoltori, tutte queste classi
sprofondano nel proletariato, in parte perché il loro esiguo capitale non basta
all'esercizio della grande industria e soccombe quindi nella concorrenza coi
capitalisti più grandi, in parte perché le loro attitudini perdono il loro valore in
confronto coi nuovi modi di produzione. Così il proletariato si recluta in tutte le
classi della popolazione.
Il proletariato attraversa diversi gradi di evoluzione. La sua lotta contro la
borghesia. incomincia colla sua esistenza.
Dapprima lottano i singoli operai ad uno ad uno, poi gli operai di una fabbrica, indi
quelli di una data categoria in un dato luogo contro il singolo borghese che li
sfrutta direttamente. Essi non rivolgono soltanto i loro attacchi contro i rapporti
borghesi di produzione, ma li rivolgono contro gli stessi strumenti della produzione; essi distruggono le merci straniere che fanno loro concorrenza, fanno a
pezzi, le macchine, incendiano le fabbriche, tentano di riacquistare la tramontata
posizione dell'operaio del Medioevo41.
In questo stadio gli operai formano una massa dispersa per tutto il paese e
sparpagliata dalla concorrenza.
Il loro raggrupparsi in masse non é ancora la conseguenza della loro propria
unione, ma é dovuto alla unione della borghesia, che per raggiungere i suoi propri
fini politici deve mettere in moto tutto il proletariato ed é ancora in grado di farlo.
In tale stadio i proletari non combattono dunque i loro nemici, ma i nemici dei loro
nemici, gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietari fondiari, i borghesi non
industriali, i piccoli borghesi. Tutto il movimento storico é cosí concentrato nelle
mani della borghesia; ogni vittoria cosí é una vittoria della borghesia.
Ma con lo sviluppo dell'industria il proletariato non cresce soltanto di numero; esso
si addensa in grandi masse, la sua forza va crescendo, e con la forza la coscienza di
essa. Gli interessi, le condizioni di esistenza ,all'interno del proletariato si livellano
sempre piú, perché la macchina cancella sempre più le differenze del lavoro e quasi
dappertutto riduce il salario a un eguale basso livello. La crescente concorrenza dei
borghesi fra di loro e le crisi commerciali che ne derivano rendono sempre più
oscillante il salario degli operai; l'incessante e sempre più rapido perfezionamento
delle macchine rende sempre più precarie le loro condizioni di esistenza; i conflitti
fra singoli operai e borghesi singoli vanno sempre più assumendo il carattere di
conflitti fra due classi. È così che gli operai incominciano a formare coalizioni
contro i borghesi, riunendosi per difendere il loro salario. Essi fondano persino
associazioni permanenti per approvvigionarsi per le sollevazioni eventuali.
Qua e là la lotta diventa sommossa42.
Di quando in quando gli operai vincono, ma solo in modo effimero. Il vero risultato
delle loro lotte non é il successo immediato, ma la unione sempre più estesa degli
41
Questi movimenti fecero la loro prima apparizione a Nottingham e nei distretti vicini alla fine del
1811 e si estero in tutti i centri industriali dell'Inghilterra negli anni successivi fino al 1814, stroncati da
severe misure repressive. I gruppi di operai che, nottetempo, distruggevano o mettevano fuori uso le nuove
macchine, erano denominati « Luddisti », sembra dal nome Ned Ludd, di un operaio, sulla cui esistenza
non si hanno documenti.
42
Riferimento alla attività della prima società operaia inglese fondata dal calzolaio Thomas Hardy (17521832), che accanto alla agitazione politica promosse numerosi moti di rivolta tra la popolazione
industriale di Londra e dei Midlands. La società venne Soppressa nel 1799 nel quadro di generali misure
repressive, ma i movimenti si estesero nella illegalità e con lotte sanguinose fino al 1824-25 allorché le
disposizioni limitative della organizzazione degli operai vennero attenuate.
29
operai. Essa é agevolata dai crescenti mezzi di comunicazione che sono creati dalla
grande industria e che collegano tra di loro operai di località diverse. Basta questo
semplice collegamento per concentrare le molte lotte locali, aventi dappertutto
egual carattere, in una lotta nazionale, in una lotta di classe. Ma ogni lotta di classe
è lotta politica. E l'unione per raggiungere la quale ai borghigiani del Medioevo,
con le loro strade vicinali, occorsero dei secoli, oggi, con le ferrovie, viene
realizzata dai proletari in pochi anni.
Questa organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico, viene ad
ogni istante nuovamente spezzata dalla concorrenza che gli operai si fanno fra loro
stessi. Ma essa risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente.
Approfittando delle scissioni della borghesia, la costringe al riconoscimento legale
di singoli interessi degli operai. Cosí fu per la legge delle dieci ore di lavoro in
Inghilterra43.
I conflitti in seno alla vecchia società in generale favoriscono in più modi il
processo di sviluppo del proletariato. La borghesia è di continuo in lotta: dapprima
contro l'aristocrazia, poi contro quelle parti della borghesia stessa i cui interessi
sono in contrasto col progresso dell'industria; sempre contro la borghesia di tutti i
paesi stranieri. In tutte queste lotte essa si vede costretta a fare appello al
proletariato, a chiederne l'aiuto, trascinandolo cosí nel moto politico. Essa stessa,
dunque, dà al proletariato gli elementi della propria educazione, gli dà cioè le armi
contro se stessa44.
Accade inoltre, come abbiamo già visto, che per il progresso dell'industria intere
parti costitutive della classe dominante vengono precipitate nella condizione del
proletariato o sono per lo meno minacciate nelle loro condizioni di esistenza.
Anch'esse recano al proletariato una massa di elementi della loro educazione.
Infine, nei periodi in cui la lotta di classe si avvicina al momento decisivo, il
processo di dissolvimento in seno alla classe dominante, in seno a tutta la vecchia
società, assume un carattere cosí violento, cosí aspro, che una piccola parte della
classe dominante si stacca da essa per unirsi alla classe rivoluzionaria, a quella
classe che ha l'avvenire nelle sue mani. Perciò, come già un tempo una parte della
nobiltà passò alla borghesia, cosí ora una parte della borghesia passa al proletariato,
e segnatamente una parte degli ideologi borghesi che sono giunti a comprendere
teoricamente il movimento storico nel suo insieme.
Di tutte le classi che oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è una
classe veramente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e periscono con la grande
industria, mentre il proletariato ne é il prodotto più genuino.
I ceti modi, il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l'artigiano, il contadino,
tutti costoro combattono la borghesia per salvare dalla rovina l'esistenza loro di ceti
medi. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori. Ancora più, essi sono
reazionari, essi tentano di far girare all'indietro la ruota della storia. Se sono
rivoluzionari, lo sono in vista del loro imminente passaggio al proletariato; cioè
non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, abbandonano il
proprio modo di vedere per adottare quello del proletariato.
Quanto al sottoproletariato, che rappresenta la putrefazione passiva degli strati più
bassi della vecchia società, esso viene qua e là gettato nel movimento da una
43
La legge che limitava la giornata lavorativa a 10 ore fu votata dal Parlamento inglese nel 1847.
Esempi sono forniti dalle lotte del movimento operaio inglese all'inizio degli anni 30 per le riforme
politiche. Di queste lotte si servi la borghesia liberale come forza di pressione e con il loro aiuto nel
1832 poté ottenere una riforma del Parlamento. I lavoratori di Parigi fecero forza con il loro intervento
sulla caduta della dinastia borbonica nel luglio 1830. Di quella vittoria si giovò la borghesia finanziaria
che stabili il suo potere con Luigi Filippo.
44
30
rivoluzione proletaria; ma per le sue stesse condizioni di vita esso sarà piuttosto
disposto a farsi comprar e a mettere al servizio di forze reazionarie.
Le condizioni di esistenza della vecchia società sono già distrutte dalle condizioni
di esistenza del proletariato. Il proletario é senza proprietà; le sue relazioni con la
moglie e coi figli non hanno più nulla di comune con i rapporti familiari borghesi;
il moderno lavoro industriale, il moderno soggiogamento al capitale, eguale in
Inghilterra come in Francia, in America come in Germania, lo ha spogliato di ogni
carattere nazionale. Le leggi, la morale, la religione, sono per lui altrettanti
pregiudizi borghesi, dietro ai quali si nascondono altrettanti interessi borghesi.
Tutte le classi che finora s'impossessarono del potere cercarono di assicurarsi la
posizione raggiunta assoggettando tutta la società alle condizioni del loro
guadagno. I proletari, invece, possono impossessarsi delle forze produttive sociali
soltanto abolendo il loro modo di appropriazione attuale e con esso l'intero attuale
modo di appropriazione. I proletari non hanno nulla di proprio da salvaguardare;
essi hanno soltanto da distruggere tutte le sicurezze private e le guarentigie private
finora esistite.
Tutti i movimenti avvenuti sinora furono movimenti di minoranza o nell'interesse
di minoranze.
Il movimento proletario é il movimento indipendente dell'enorme maggioranza
nell'interesse dell'enorme maggioranza. Il proletariato che é lo strato più basso
della società attuale, non può sollevarsi, non può innalzarsi, senza che tutta la
sovrastruttura degli strati che costituiscono la società ufficiale vada in frantumi
Sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia é
però all'inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese
deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia.
Tratteggiando le fasi più generali dello sviluppo del proletariato, abbiamo seguito
la guerra civile più o meno occulta entro la società attuale fino al momento in cui
essa esplode in una rivoluzione aperta, e col rovesciamento violento della
borghesia il proletariato stabilisce il suo dominio.
Ogni società finora esistita ha poggiato, come abbiamo già visto, sul contrasto tra
le classi degli oppressori e degli oppressi. Ma per poter opprimere una classe,
bisogna che le siano assicurate condizioni entro le quali essa possa almeno vivere
la sua misera vita di schiavo. Il servo della gleba ha potuto, continuando a esser
tale, elevarsi a membro del Comune, cosí come il borghigiano, pur sotto il giogo
dell'assolutismo feudale, ha potuto diventare un borghese. L'operaio moderno, al
contrario, invece di elevarsi col progresso dell'industria, cade sempre più in basso,
al di sotto delle condizioni della sua propria classe. L'operaio diventa il povero, e il
pauperismo si sviluppa ancora più rapidamente della popolazione e della ricchezza.
Appare da tutto ciò manifesto che la borghesia é incapace di rimanere ancora più a
lungo la classe dominante della società e di imporre alla società, come legge
regolatrice, le condizioni di esistenza della sua classe. Essa è incapace di dominare
perché é incapace di assicurare al suo schiavo l'esistenza persino nei limiti della sua
schiavitù, perché è costretta a lasciarlo cadere in condizioni tali, da doverlo poi
nutrire anziché esserne nutrita. La società non può più vivere sotto il suo dominio,
cioè l'esistenza della borghesia non é più compatibile con la società.
Condizione essenziale dell'esistenza e del dominio della classe borghese è
l'accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e l'aumento del
capitale; condizione del capitale é il lavoro salariato. Il lavoro salariato si fonda
esclusivamente sulla concorrenza degli operai fra di loro. Il progresso
dell'industria, del quale la borghesia è l'agente involontario e passivo, sostituisce
all'isolamento degli operai, risultante dalla concorrenza, la loro unione
rivoluzionaria mediante la associazione. Lo sviluppo della grande industria toglie
dunque di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si
31
appropria i prodotti. Essa produce innanzi tutto i suoi propri seppellitori. Il suo
tramonto e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili.
Proletari e comunisti
Che relazione passa tra i comunisti e i proletari in generale? I comunisti non
costituiscono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai.
Essi non hanno interessi distinti dagli interessi del proletariato nel suo insieme.
Non erigono principi particolari, sui quali vogliano modellare il movimento
proletario.
I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da
un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno
valere quegli interessi comuni dell'intero proletariato che sono indipendenti dalla
nazionalità; d'altro lato per il fatto che, nei vari stadi di sviluppo che la lotta tra
proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l'interesse del
movimento complessivo.
In pratica, dunque, i comunisti sono la parte più risoluta dei partiti operai di tutti i
paesi, quella che sempre spinge avanti; dal punto di vista della teoria, essi hanno un
vantaggio sulla restante massa del proletariato pel fatto che conoscono le
condizioni, l'andamento e i risultati generali del movimento proletario.
Lo scopo immediato dei comunisti è quello stesso degli altri partiti proletari:
formazione del proletariato in classe, rovesciamento del dominio borghese,
conquista del potere politico da parte del proletariato.
Le posizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto sopra idee, sopra principi
che siano stati inventati o scoperti da questo o quel rinnovatore del mondo.
Esse sono soltanto espressioni generali dei rapporti effettivi di una lotta di classe
che già esiste, di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi. L'abolizione dei rapporti di proprietà che si sono avuti finora non é cosa che caratterizzi
propriamente il comunismo.
Tutti i rapporti di proprietà sono sempre stati soggetti a un continuo mutamento
storico, a una continua trasformazione storica.
La rivoluzione francese, ad esempio, abolì la proprietà feudale in favore della
proprietà borghese.
Ciò che distingue il comunismo non é l'abolizione della proprietà in generale, bensí
l'abolizione della proprietà borghese.
Ma la moderna proprietà privata borghese é l'ultima e la più perfetta espressione di
quella produzione e appropriazione dei prodotti, che poggia sugli antagonismi di
classe, sullo sfruttamento degli uni per opera degli altri.
In questo senso i comunisti possono riassumere la loro dottrina in quest'unica
espressione: abolizione della proprietà privata.
È stato mosso rimprovero a noi comunisti di voler abolire la proprietà acquistata
col lavoro personale, frutto del lavoro di ciascuno; quella proprietà che sarebbe il
fondamento di ogni libertà, di ogni attività e di ogni indipendenza personali.
Proprietà acquistata, guadagnata, frutto dei proprio lavoro! Parlate voi forse della
proprietà del piccolo borghese o del piccolo agricoltore, che precedette la proprietà
borghese? Noi non abbiamo bisogno di abolirla; l'ha già abolita e la abolisce
quotidianamente lo sviluppo dell'industria.
Oppure parlate voi della moderna proprietà borghese privata?
Ma che forse il lavoro salariato, il lavoro del proletario, crea a quest'ultimo una
proprietà? In nessun modo. Esso crea il capitale, cioè crea la proprietà che sfrutta il
lavoro salariato e che non può aumentare se non a condizione di generare nuovo
lavoro salariato per nuovamente sfruttarlo. La proprietà nella sua forma odierna è
32
fondata sull'antagonismo fra capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due termini
di questo antagonismo.
Essere capitalista non vuol dire soltanto occupare nella produzione una posizione
puramente personale, ma una posizione sociale. Il capitale è un prodotto comune e
non può essere messo in moto se non dall'attività comune di molti membri della
società, anzi, in ultima istanza, soltanto dall'attività comune di tutti i membri della
società.
Il capitale, dunque, non é una potenza personale; esso è una potenza sociale.
Se dunque il capitale viene trasformato in proprietà comune, appartenente a tutti i
membri della società, ciò non vuol dire che si trasformi una proprietà personale in
proprietà sociale. Si trasforma soltanto il carattere sociale della proprietà. Esso
perde il suo carattere di classe.
Veniamo al lavoro salariato.
Il prezzo medio del lavoro salariato é il minimo del salario, ossia la somma dei
mezzi di sussistenza necessari a mantenere in vita l'operaio in quanto operaio.
Quello dunque che l'operaio salariato si appropria con la sua attività, gli basta
soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza. Noi non vogliamo punto abolire
questa appropriazione personale dei prodotti del lavoro necessari per la
riproduzione della vita immediata, appropriazione la quale non lascia alcun profitto
netto, che possa dare un potere sul lavoro altrui. Noi vogliamo soltanto abolire il
miserabile carattere di questa appropriazione, per cui l'operaio esiste soltanto per
accrescere il capitale e vive quel tanto che é richiesto dall'interesse della classe
dominante.
Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per aumentare il lavoro
accumulato. Nella società comunista il lavoro accumulato è soltanto un mezzo per
rendere più largo, più ricco, più progredito il ritmo di vita degli operai.
Nella società borghese, dunque, il passato domina sul presente; nella società
comunista il presente sul passato. Nella società borghese il capitale é indipendente
e personale, mentre l'individuo operante é dipendente e impersonale.
E la borghesia chiama l'abolizione di questo stato di cose abolizione della
personalità e della libertà! E ha ragione. Perché si tratta, effettivamente, di abolire
la personalità, l'indipendenza e la libertà del borghese!
Per libertà si intende, entro gli attuali rapporti borghesi di produzione, il
commercio libero, la libera compra e vendita.
Ma tolto il commercio, sparisce anche il libero commercio. Le frasi sul libero
commercio, come tutte le altre vanterie liberalesche della nostra borghesia, hanno
un senso soltanto rispetto al commercio vincolato e allo asservito cittadino del
Medioevo, ma non ne hanno alcuno rispetto all'abolizione comunista del
commercio, dei rapporti borghesi di produzione e della borghesia stessa.
Voi inorridite all'idea che noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nell'attuale
vostra società la proprietà privata é abolita per nove decimi dei suoi membri; anzi,
essa esiste precisamente in quanto per quei nove decimi non esiste. Voi ci
rimproverate dunque di voler abolire una proprietà che ha per condizione necessaria la mancanza di proprietà per l'enorme maggioranza della società.
In una parola, voi ci rimproverate di voler abolire la vostra proprietà. È vero: è
questo che vogliamo.
Dall'istante in cui il lavoro non può più essere trasformato in capitale, denaro,
rendita fondiaria, insomma, in una forza sociale monopolizzabile, dall'istante cioè
in cui la proprietà personale non si può più mutare in proprietà borghese, da
quell'istante voi dichiarate che è abolita la persona.
Voi confessate, dunque, che per persona non intendete altro che il borghese, il
proprietario borghese. Ebbene, questa persona deve effettivamente essere abolita.
Il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali;
toglie soltanto la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire lavoro altrui.
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È stato obiettato che con l'abolizione della proprietà privata cesserebbe ogni
attività, si diffonderebbe una neghittosità generale.
Se così fosse, la società borghese sarebbe da molto tempo andata in rovina per
pigrizia, giacché in essa chi lavora non guadagna e chi guadagna non lavora. Tutta
l'obiezione sbocca in questa tautologia: che non c'è più lavoro salariato quando non
c'è più capitale.
Tutte le obiezioni, che si muovono al modo comunista di appropriazione e di
produzione dei prodotti materiali, sono state estese anche alla appropriazione e
produzione dei prodotti intellettuali. Come per il borghese la cessazione della
proprietà di classe significa cessazione della produzione stessa, cosí cessazione
della cultura di classe è per lui lo stesso che cessazione della cultura in genere.
La cultura di cui egli deplora la perdita è per l'enorme maggioranza degli uomini il
processo di trasformazione in macchina.
Ma non polemizzate con noi applicando all'abolizione della proprietà borghese le
vostre concezioni borghesi della libertà, della cultura, del diritto, ecc. Le vostre
idee sono anch'esse un prodotto dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà,
cosí come il vostro diritto non è che la volontà della vostra classe innalzata a legge,
una volontà il cui contenuto è determinato dalle condizioni materiali di vita della
vostra classe.
Questa concezione interessata, grazie alla quale voi trasformate i vostri rapporti di
produzione e di proprietà, da rapporti storici com'essi sono, che appaiono
scompaiono nel corso della produzione, in leggi eterne della natura e della ragione,
questa concezione voi l'avete in comune con tutte le classi dominanti scomparse.
Ciò che voi comprendete quando si tratta della proprietà antica, ciò che voi
comprendete quando si tratta della proprietà feudale, voi non potete piú comprenderlo quando si tratta della proprietà borghese.
Abolizione della famiglia! Persino i piú avanzati fra i radicali si scandalizzano di
cosí ignominiosa intenzione dei comunisti.
Su che cosa si basa la famiglia, odierna, la famiglia borghese? Sul capitale, sul
guadagno privato. Nel suo pieno sviluppo la famiglia odierna esiste soltanto per la
borghesia; ma essa trova il suo complemento nella forzata mancanza di famiglia
dei proletari e nella prostituzione pubblica.
La famiglia del borghese cadrà naturalmente col venir meno di questo suo
complemento, e ambedue scompariranno con lo sparire del capitale.
Ci rimproverate voi di voler abolire lo sfruttamento dei figli da parte dei loro
genitori? Noi questo delitto lo confessiamo.
Ma voi dite che sostituendo l'educazione sociale all'educazione domestica noi
sopprimiamo i legami piú intimi.
Ma non è anche la vostra educazione determinata dalla società, dai rapporti sociali
entro ai quali voi educate, dall'intervento piú o meno diretto o indiretto della
società per mezzo della scuola, ecc.? Non sono i comunisti che inventano
l'influenza della società sulla educazione; essi ne cambiano soltanto il carattere;
essi strappano l'educazione all'influenza della classe dominante.
Le declamazioni borghesi sulla famiglia e sull'educazione, sugli intimi rapporti fra i
genitori e i figli diventano tanto piú nauseanti, quanto piú, in conseguenza della
grande industria, viene spezzato per i proletari ogni legame di famiglia, e i fanciulli
vengono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro.
Ma voi comunisti volete la comunanza delle donne ci grida in coro tutta la
borghesia.
Il borghese vede nella propria moglie un semplice strumento di produzione. Egli
sente che gli strumenti di produzione debbono essere sfruttati in comune e,
naturalmente, non può fare a meno di pensare che la sorte dell'uso in comune
colpirà anche le donne.
34
Egli non s'immagina che si tratta appunto di abolire la posizione delle donne come
semplici strumenti di produzione.
Del resto, nulla è piú ridicolo del moralissimo sgomento dei nostri borghesi per la
pretesa comunanza ufficiale delle donne nel comunismo. I comunisti non hanno
bisogno d'introdurre la comunanza delle donne: essa è quasi sempre esistita.
I nostri borghesi, non contenti di avere a loro disposizione le mogli e le figlie dei
loro proletari — per non parlare della prostituzione ufficiale — trovano uno dei
loro principali diletti nel sedursi scambievolmente le mogli.
Il matrimonio borghese é, in realtà, la comunanza delle mogli. Tutt'al più si
potrebbe rimproverare ai comunisti di voler sostituire alla comunanza delle donne,
ipocritamente celata, una comunanza ufficiale, palese. Si comprende del resto
benissimo che con l'abolizione degli attuali rapporti di produzione scompare anche
la comunanza delle donne che ne risulta, vale a dire la prostituzione ufficiale e non
ufficiale.
Si rimprovera inoltre ai comunisti di voler sopprimere la patria, la nazionalità.
Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno. Ma poiché
il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe
nazionale, costituirsi in nazione, è anch'esso nazionale, benché certo non nel senso
della borghesia.
L'isolamento e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno via via scomparendo con
lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con
l'uniformità della produzione industriale e con le condizioni di vita ad essa
rispondenti.
Il dominio del proletariato lì farà scomparire ancora di più. L'azione unita almeno
nei paesi civili é una delle prime condizioni della sua emancipazione.
A misura che viene abolito lo sfruttamento di un individuo per opera di un altro,
viene abolito lo sfruttamento di una nazione per opera di un'altra.
Con lo sparire dell'antagonismo fra le classi nell'interno della nazione scompare
l'ostilità fra le nazioni stesse.
Le accuse che vengono mosse contro il comunismo partendo da considerazioni
religiose, filosofiche e ideologiche in generale, non meritano d'essere più ampiamente esaminate.
Ci vuole forse una profonda perspicacia per comprendere che, cambiando le
condizioni di vita degli uomini, i loro rapporti sociali e la loro esistenza sociale,
cambiano anche le, loro concezioni, i loro modi di vedere e le loro idee, in una
parola, cambia anche la loro coscienza?
Che cos'altro dimostra la storia delle idee, se non che la produzione spirituale si
trasforma insieme con quella materiale? Le idee dominanti di un'epoca furono
sempre soltanto le idee della classe dominante.
Si parla di idee che rivoluzionano tutta una società; con ciò si esprime soltanto il
fatto che in seno alla vecchia società si sono formati gli elementi di una società
nuova, che con la dissoluzione dei vecchi rapporti di esistenza procede di pari
passo il dissolvimento delle vecchie idee.
Quando il mondo antico stava per tramontare, le vecchie religioni furono vinte
dalla religione cristiana. Quando nel secolo XVIII le idee cristiane soggiacquero
alle idee dell'illuminismo, la società feudale stava combattendo la sua lotta suprema
con la borghesia, allora rivoluzionaria. Le idee di libertà di coscienza e di religione
non furono altro che l'espressione del dominio della libera concorrenza nel campo
della coscienza.
« Ma — si dirà — non c'é dubbio che le idee religiose, morali, filosofiche,
politiche, giuridiche, ecc., si sono modificate nel corso dell'evoluzione storica; la
religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto però si mantennero sempre
attraverso tutti questi mutamenti.
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Ci sono, inoltre, verità eterne, come la libertà, la giustizia, ecc., che sono comuni a
tutte le situazioni sociali. Il comunismo, invece, abolisce le verità eterne, abolisce
la religione, la morale, in luogo di dar loro una forma nuova e con ciò contraddice a
tutta l'evoluzione storica verificatasi finora. »
A che cosa si riduce questa accusa? La storia di tutta la società si é svolta sinora
attraverso antagonismi di classe, che nelle diverse epoche assunsero forme diverse.
Ma qualunque forma abbiano assunto tali antagonismi, lo sfruttamento di una parte
della società per opera di un'altra é un fatto comune a tutti i secoli passati. Nessuna
meraviglia, quindi, che la coscienza sociale di tutti i secoli, malgrado tutte le
varietà e diversità, si muova in certe forme comuni, in forme di coscienza che si
dissolvono completamente soltanto con la completa sparizione dell'antagonismo
delle classi.
La rivoluzione comunista é la più radicale rottura coi rapporti di proprietà
tradizionali; nessuna meraviglia, quindi, se nel corso del suo sviluppo avviene la
rottura più radicale con le idee tradizionali.
Ma lasciamo stare le obiezioni della borghesia contro il comunismo.
Abbiamo già visto sopra come il primo passo nella rivoluzione operaia sia l'elevarsi
del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia.
Il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla borghesia, a
poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle
mani dello Stato, vale a dire del proletariato stesso organizzato come classe
dominante, e per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze
produttive.
Naturalmente sulle prime tutto ciò non può accadere, se non per via di interventi
dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione, vale a dire
con misure che appaiono economicamente insufficienti e insostenibili, ma che nel
corso del movimento sorpassano se stesse e spingono in avanti, e sono inevitabili
come mezzi per rivoluzionare l'intero modo di produzione.
Com'è naturale, queste misure saranno diverse a seconda dei diversi paesi.
Per i paesi più progrediti, però, potranno quasi generalmente essere applicate le
seguenti:
Espropriazione della proprietà fondiaria e impiego della rendita fondiaria per le
spese dello Stato.
Imposta fortemente progressiva.
Abolizione del diritto di eredità.
Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli.
Accentramento del credito nelle mini dello Stato per mezzo d'una banca nazionale
con capitale di Stato e con monopolio esclusivo.
Accentramento dei mezzi di trasporto nelle mani dello Stato.
Aumento delle fabbriche nazionali e degli strumenti di produzione, dissodamento e
miglioramento dei terreni secondo un piano comune.
Eguale obbligo di lavoro per tutti, istituzione di eserciti industriali, specialmente
per l'agricoltura.
Unificazione dell'esercizio dell'agricoltura e di quello dell'industria, misure atte ad
eliminare gradualmente l'antagonismo tra città e campagna.
Educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Abolizione del lavoro dei
fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Unificazione dell'educazione e
della produzione materiale, ecc.
Quando, nel corso dell'evoluzione, le differenze di classe saranno sparite e tutta la
produzione sarà concentrata nelle mani degli individui associati, il potere pubblico
perderà il carattere politico. Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l'oppressione di un'altra. Se il proletariato,
nella lotta contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe, e per mezzo
della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante e, come tale, distrugge
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violentemente i vecchi rapporti di produzione, esso abolisce, insieme con questi
rapporti di produzione, anche le condizioni d'esistenza dell'antagonismo di classe e
le classi in generale, e quindi anche il suo proprio dominio di classe.
Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e coi suoi antagonismi di
classe subentra un'associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno é la
condizione per il libero sviluppo di tutti.
Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, 1974. Estratti pag. 53-90
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Il controllo del potere sociale e l’individuo ricco di bisogni
(testi da Manoscritti economico-filosofici del 1844, Lineamenti fondamentali della
critica dell'economia politica, La guerra civile in Francia, Critica del Programma di
Gotha. Note in margine al programma del Partito operaio tedesco)
Manoscritti economico-filosofici del 1844
Proprietà privata e comunismo
Bisogno, produzione e divisione del lavoro
Proprietà privata e comunismo
La proprietà privata ci ha resi così ottusi ed unilaterali che un oggetto è considerato
nostro soltanto quando lo abbiamo, e quindi quando esso esiste per noi come
capitale o è da noi immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro
corpo, abitato, ecc., in breve, quando viene da noi usato; sebbene la proprietà
privata concepisca a sua volta tutte queste realizzazioni immediate del possesso
soltanto come mezzi di vita, e la vita, a cui servono come mezzi, sia la vita della
proprietà privata, del lavoro e della capitalizzazione. Al posto di tutti i sensi fisici e
spirituali è quindi subentrata la semplice alienazione di tutti questi sensi, il senso
dell'avere. L'essere umano doveva essere ridotto a questa assoluta povertà, affinché
potesse estrarre da sé la sua ricchezza interiore.
La soppressione della proprietà privata rappresenta quindi la completa
emancipazione di tutti i sensi e di tutti gli attributi umani; ma è una emancipazione
siffatta appunto perché questi sensi e questi attributi sono diventati umani, sia
soggettivamente sia oggettivamente. L'occhio è diventato occhio umano non
appena il suo oggetto è diventato un oggetto sociale, umano, che procede dall'uomo
per l'uomo. Perciò i sensi sono diventati immediatamente, nella loro prassi, dei
teorici. Essi si riferiscono alla cosa in grazia della cosa; ma la cosa stessa implica
un riferimento oggettivo umano a se stessa e all'uomo, e viceversa. Il bisogno o il
godimento hanno perciò perduto la loro natura egoistica, e la natura ha perduto la
sua mera utilità, dal momento che l'utile è diventato l'utile umano. Parimenti i sensi
e il modo di goderne degli altri uomini sono diventati la mia propria
appropriazione. Oltre questi organi immediati si formano quindi organi sociali,
nella forma della società: per esempio, l'attività che io esplico immediatamente in
società con altri, ecc., è diventata organo di una manifestazione vitale e un modo di
appropriarsi la vita umana. S'intende che l'occhio umano gode in modo diverso
dall'occhio rozzo, inumano, l'orecchio umano in modo diverso dall'orecchio rozzo,
ecc. Abbiamo visto che l'uomo non si perde nel suo oggetto soltanto quando questo
diventa per lui o un oggetto umano o un uomo oggettivo. Il che è possibile soltanto
qualora l'oggetto diventi per lui un oggetto sociale ed egli stesso diventi per se
stesso un essere sociale, allo stesso modo che la società diventa per lui un essere in
questo oggetto.
Per un verso, quindi, in quanto la realtà oggettiva diventa ovunque per l'uomo nella
società come la realtà delle forze essenziali dell'uomo, come la realtà umana, e
perciò come la realtà delle sue proprie forze essenziali, tutti gli oggetti diventano
per lui l'oggettivazione di se stesso, diventano gli oggetti che realizzano e
confermano la sua individualità, i suoi oggetti, in altre parole egli stesso diventa
38
oggetto. Come gli oggetti divengano per lui i suoi oggetti, dipende dalla natura
dell'oggetto e dalla natura della forza essenziale ad essa corrispondente; infatti,
proprio la particolarità di questo rapporto costituisce il modo particolare, reale della
affermazione. Un oggetto si presenta all'occhio in modo diverso da quel che si
presenti all'orecchio, e l'oggetto dell'occhio è diverso da quello dell'orecchio. La
particolarità di ogni forza essenziale è appunto la sua essenza particolare, e quindi
anche il modo particolare della sua oggettivazione, del suo essere vivente,
oggettivo e reale. Non solo dunque nel pensiero, [VIII] ma anche con tutti i suoi
sensi l'uomo si afferma nel mondo oggettivo. Per l'altro verso, dal punto di vista
soggettivo: come soltanto la musica risveglia il senso musicale dell'uomo; come la
più bella musica non ha per un orecchio non musicale nessun senso, non
rappresenta un oggetto, dal momento che il mio oggetto può essere soltanto la
conferma di una mia forza essenziale, e quindi può essere per me soltanto nella
misura in cui la mia forza essenziale in quanto facoltà soggettiva è per sé,
estendendosi il senso di un oggetto per me quanto si estende il mio senso (e un
oggetto ha un senso soltanto per il senso corrispondente); così i sensi dell'uomo,
sociale sono diversi da quelli dell'uomo non sociale. Soltanto attraverso l'intero
svolgimento oggettivo della ricchezza dell'essere umano, viene in parte educata, in
parte prodotta la ricchezza della sensibilità soggettiva dell'uomo, e parimenti un
orecchio per la musica, un occhio per la bellezza della forma, in breve i soli sensi
capaci di un godimento umano, quei sensi che si confermano come forze essenziali
dell'uomo. Infatti non solo i cinque sensi, ma anche i cosiddetti sensi spirituali, i
sensi pratici (il volere, l'amore, ecc.), in una parola il senso umano, l'umanità dei
sensi, si formano soltanto attraverso l'esistenza dell'oggetto loro proprio, attraverso
la natura umanizzata. L'educazione dei cinque sensi è un'opera di tutta la storia del
mondo sino ad oggi. Inoltre il senso, prigioniero dei bisogni pratici primordiali, ha
soltanto un senso limitato. Per l'uomo affamato non esiste la forma umana dei cibi,
ma soltanto la loro esistenza astratta come cibi; potrebbero altrettanto bene esser
presenti nella loro forma più rozza, e non si può dire in che cosa differisca questo
modo di nutrirsi da quello delle bestie. L'uomo in preda alle preoccupazioni e al
bisogno non ha sensi per il più bello tra gli spettacoli; il trafficante in minerali vede
soltanto il valore commerciale, ma non la bellezza e la natura caratteristica del
minerale; non ha alcun senso mineralogico; e quindi occorreva l'oggettivazione
dell'essere umano, tanto dal punto di vista teoretico che dal punto di vista pratico,
sia per rendere umano il senso dell'uomo, sia per creare un senso umano che fosse
corrispondente a tutta la ricchezza dell'essere umano e naturale.
Come attraverso il movimento della proprietà privata, della sua ricchezza e della
sua miseria - o più precisamente della sua ricchezza e della sua miseria tanto
materiali che spirituali - la società in formazione trova innanzi a sé tutto il
materiale necessario a questa formazione; così la società già formata produce
l'uomo in tutta questa ricchezza del suo essere, produce l'uomo ricco e
profondamente sensibile a tutto come sua stabile realtà. …
Si vede come al posto della ricchezza e della miseria come le considera l'economia
politica, subentri l'uomo ricco e la ricchezza di bisogni umani. L'uomo ricco è ad
un tempo l'uomo che ha bisogno di una totalità di manifestazioni di vita umane,
l'uomo in cui la sua propria realizzazione esiste come necessità interna, come
bisogno. Facendo l'ipotesi del socialismo, non soltanto la ricchezza, ma anche la
povertà dell'uomo riceve in egual misura un significato umano e quindi sociale. È il
vincolo passivo che fa sentire all'uomo come bisogno la più grande delle ricchezze,
l'altro uomo. Il dominio in me dell'essere oggettivo, il prorompere sensibile
dell'attività del mio essere, costituisce quella passione, che qui per ciò stesso
diventa l'attività del mio essere.
Un essere si considera indipendente soltanto quando è padrone di sé, ed è padrone
di sé soltanto quando è debitore a se stesso della propria esistenza. Un uomo, che
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vive della grazia altrui, si considera come un essere dipendente. Ma io vivo
completamente della grazia altrui quando sono debitore verso l'altro non soltanto
del sostentamento della mia vita, ma anche quando questi ha oltre a ciò creato la
mia vita, è la fonte della mia vita; e la mia vita ha necessariamente un tale
fondamento fuori di sé, quando non è la mia propria creazione. La creazione è
quindi una rappresentazione assai difficile da sradicare dalla coscienza del popolo;
questi infatti non riesce a concepire che la natura e l'uomo possano esistere per
opera propria, posto che ciò contraddice a tutti i dati evidenti della vita pratica.
La teoria della creazione della terra ha ricevuto un fortissimo colpo dalla
geognosia, cioè dalla scienza che presenta la formazione, il divenire della terra
come un processo, come una generazione spontanea. La generatio aequivoca è
l'unica confutazione pratica della teoria della creazione.
Ormai è certamente facile dire all'individuo singolo quello che già disse Aristotele:
tu sei generato da tuo padre e da tua madre, e quindi la congiunzione di due esseri
umani, cioè un atto proprio della specie umana ha prodotto in te l'uomo. Tu vedi
dunque che l'uomo è debitore della sua esistenza anche fisicamente all'uomo. Devi
quindi tener presente non un unico lato soltanto, cioè il progresso infinito per cui
vieni a chiedere chi ha generato mio padre, chi suo nonno e via di seguito. Tu devi
anche porre attenzione al movimento circolare, che si può vedere sensibilmente in
quel progresso, in base al quale l'uomo nella generazione riproduce se stesso, e
l'uomo rimane quindi sempre soggetto. Però tu mi potrai rispondere: io ti concedo
questo movimento circolare, ma tu devi concedermi a tua volta il progresso che mi
spinge sempre più indietro sino a farmi domandare chi ha generato il primo uomo e
in generale la natura. Posso limitarmi a controbattere: la tua domanda è essa stessa
un prodotto dell'astrazione. Domandati come hai fatto ad arrivare a questa
domanda; domandati se la tua domanda non proceda da un punto di vista, a cui non
posso rispondere perché è assurdo. Domandati se quel progresso esista come tale
per un pensiero razionale. Quando tu ti poni la domanda intorno alla creazione
della natura e dell'uomo, fai astrazione dall'uomo e dalla natura. Tu li poni come
non esistenti, eppure vuoi che te li provi come esistenti. Ed io ora ti dico: se rinunci
alla tua astrazione, devi rinunciare pure alla tua domanda; se vuoi invece rimaner
fedele alla tua astrazione, devi essere conseguente, e se pensi [XI] l'uomo e la
natura come non esistenti, allora pensa come non esistente anche te stesso, perché
tu stesso sei pure natura e uomo. Non pensare, non interrogarmi, perché non
appena pensi e interroghi, la tua astrazione dall'essere della natura e dell'uomo
perde ogni senso. Oppure sei tu un tale egoista che ogni cosa poni nel nulla, ma ciò
nonostante vuoi essere ?
Tu puoi ribattere: Io non voglio porre la natura nel nulla, ecc.; voglio interrogarti
intorno all'atto d'origine della natura, come interrogo l'anatomista intorno alla
formazione delle ossa.
Ma siccome per l'uomo socialista tutta la cosiddetta storia del mondo non è altro
che la generazione dell'uomo mediante il lavoro umano, null'altro che il divenire
della natura per l'uomo, egli ha la prova evidente, irresistibile, della sua nascita
mediante se stesso, del processo della sua origine. Dal momento che la essenzialità
dell'uomo e della natura è diventata praticamente sensibile e visibile, dal momento
che è diventato praticamente sensibile e visibile l'uomo per l'uomo come esistenza
della natura, e la natura per l'uomo come esistenza dell'uomo, è diventato
praticamente improponibile il problema di un essere estraneo, di un essere
superiore alla natura e all'uomo, dato che questo problema implica l'ammissione
della inessenzialità della natura e dell'uomo. L'ateismo, in quanto negazione di
questa inessenzialità, non ha più alcun senso; infatti l'ateismo è, si, una negazione
di Dio e pone attraverso questa negazione l'esistenza dell'uomo, ma il socialismo in
quanto tale non ha più bisogno di questa mediazione. Esso comincia dalla
coscienza teoreticamente e praticamente sensibile dell'uomo e della natura nella
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loro essenzialità. Esso è l'autocoscienza positiva dell'uomo, non più mediata dalla
soppressione della religione, allo stesso modo che la vita reale è la realtà positiva
dell'uomo, non più mediata dalla soppressione della proprietà privata, dal
comunismo. Il comunismo è, in quanto negazione della negazione, affermazione;
perciò è il momento reale, e necessario per il prossimo svolgimento storico,
dell'emancipazione e della riconquista dell'uomo. Il comunismo è la struttura
necessaria e il principio propulsore del prossimo futuro; ma il comunismo non è
come tale la meta dello svolgimento storico, la struttura della società umana.
Bisogno, produzione e divisione del lavoro
[XIV] Abbiamo visto quale significato abbia, facendo l'ipotesi del socialismo, la
ricchezza dei bisogni umani, e quindi tanto un nuovo modo di produzione quanto
anche un nuovo oggetto di produzione. Nuova attuazione della forza essenziale
dell'uomo e nuovo arricchimento dell'essere umano. Nell'ambito della proprietà
privata, il significato opposto. Ogni uomo s'ingegna di procurare all'altro uomo un
nuovo bisogno, per costringerlo ad un nuovo sacrificio, per ridurlo ad una nuova
dipendenza e spingerlo ad un nuovo modo di godimento e quindi di rovina
economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell'altro una forza essenziale
estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico. Con la massa
degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l'uomo è
soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco
inganno e delle reciproche spogliazioni. L'uomo diventa tanto più povero come
uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell'essere ostile, e la
potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della
produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta
l’impotenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto
dall'economia politica, il solo bisogno che essa produce. La quantità del denaro
diventa sempre più il suo unico attributo di potenza: come il denaro ha ridotto ogni
essere alla propria astrazione, così esso si riduce nel suo proprio movimento a mera
quantità. La sua vera misura è di essere smisurato e smoderato. Così si presenta la
cosa anche dal punto di vista soggettivo: in parte l'estensione dei prodotti e dei
bisogni si fa schiava - schiava ingegnosa e sempre calcolatrice - di appetiti
disumani, raffinati, innaturali e immaginari; la proprietà privata non sa fare del
bisogno grossolano un bisogno umano; il suo idealismo è l'immaginazione,
l'arbitrio, il capriccio. L'eunuco non adula il suo despota più bassamente e non
cerca con mezzi più infami di eccitare la di lui ottusa capacità di godere per
carpirgli qualche favore, di quanto l'eunuco dell'industria, il produttore, al fine di
carpire qualche po' di denaro e di cavare gli zecchini dalle tasche del prossimo
cristianamente amato, non si adatti ai più abietti capricci dei propri simili, non
faccia la parte di mezzano tra i propri simili e i loro bisogni, non ecciti in loro
appetiti morbosi, non spii ogni loro debolezza per esigere poi il prezzo dei suoi
buoni uffici. Ogni prodotto è un'esca con cui si vuol attrarre a sé ciò che costituisce
l'essenza dell'altro, il suo denaro; ogni bisogno reale o soltanto possibile è una
debolezza che farà cascare la mosca nella pania - sfruttamento universale
dell'essere sociale dell'uomo; allo stesso modo che ogni imperfezione dell'uomo è
un vincolo che lo unisce col cielo, è il lato in cui il suo cuore è accessibile ai preti.
Ogni necessità è un'occasione per presentarsi al proprio prossimo sotto le più
allettanti spoglie e dirgli: caro amico, io ti do quel che ti è necessario, ma tu
conosci la conditio sine qua non, tu sai con quale inchiostro devi scrivere
l'impegno che assumi con me; nel momento stesso in cui ti procuro un godimento,
ti scortico. In parte questa estraniazione si rivela nel fatto che il raffinamento dei
bisogni e dei loro mezzi, da un lato, produce un imbarbarimento animalesco, e una
41
completa, rozza, astratta semplificazione dei bisogni, dall'altro lato; o meglio, altro
non fa che riprodurre se stesso in senso inverso. Lo stesso bisogno dell'aria aperta
cessa di essere un bisogno nell'operaio; l'uomo ritorna ad abitare nelle caverne, la
cui aria però è ormai viziata dal mefitico alito pestilenziale della civiltà, e ove egli
abita ormai soltanto a titolo precario, rappresentando esse per lui ormai una
estranea potenza che può essergli sottratta ogni giorno e da cui ogni giorno [XV]
può esser cacciato se non paga. Perché egli questo sepolcro lo deve pagare. La casa
luminosa, che, in Eschilo, Prometeo addita come uno dei grandi doni con cui ha
trasformato i selvaggi in uomini, non esiste più per l'operaio. La luce, l'aria, ecc., la
più elementare pulizia, di cui anche gli animali godono, cessa di essere un bisogno
per l'uomo. La sporcizia, questo impantanarsi e putrefarsi dell'uomo, la fogna (in
senso letterale) della civiltà, diventa per l'operaio un elemento vitale. Diventa un
suo elemento vitale il completo e innaturale abbandono, la natura putrefatta.
Nessuno dei suoi sensi esiste più, non solo nella sua forma umana, ma anche in una
forma disumana, e quindi neppure in una forma animalesca. Le forme più rozze, i
più rozzi strumenti del lavoro umano vengono riesumati; la macina degli schiavi
romani è diventata la forma di produzione, la forma di esistenza di molti operai
inglesi. L'uomo non solo non ha più bisogni umani; ma in lui anche i bisogni
animali vengono meno. L'irlandese conosce soltanto più il bisogno di mangiare, o
meglio soltanto più il bisogno di mangiar patate, o meglio ancora soltanto più il
bisogno di mangiare le patate della qualità più scadente. Ma l'Inghilterra e la
Francia possiedono già in ogni città industriale la loro piccola Irlanda. Il selvaggio,
la bestia hanno ancora se non altro il bisogno della caccia, del moto, ecc., della
società. La semplificazione della macchina, il lavoro vengono utilizzati per
trasformare in operaio l'uomo ancora in via di sviluppo, l'uomo che non è ancora
affatto formato - il fanciullo -, allo stesso modo che l'operaio è diventato un
fanciullo abbandonato all'incuria più totale. La macchina si adatta alla debolezza
dell'uomo, per fare dell'uomo debole una macchina.
Come l'accrescimento dei bisogni e dei mezzi produca la mancanza di bisogni e di
mezzi, lo prova l'economista (e il capitalista: noi in genere parliamo sempre degli
uomini d'affari empirici quando ci rivolgiamo agli economisti, i quali sono la
coscienza e la esistenza scientifica di quelli). E lo prova:
1) riducendo il bisogno dell'operaio al più indispensabile e al più compassionevole
sostentamento della vita fisica, e la sua attività al movimento meccanico più
astratto, onde viene a dire che l'uomo non ha nessun altro bisogno né di attività né
di godimento; e infatti riconosce anche ad una vita siffatta il carattere di vita umana
e di esistenza umana;
2) adottando come criterio di misura la vita (o esistenza) la più miserabile che si
possa immaginare, ed anzi come criterio generale perché deve valere per la massa
degli uomini; egli fa dell'operaio un essere insensibile e senza bisogni, mentre
riduce la sua attività ad una pura astrazione da ogni attività; ogni lusso dell'operaio
gli appare quindi riprovevole, ed ogni cosa che va oltre al più astratto di tutti i
bisogni - sia esso godimento passivo o manifestazione d'attività - gli appare come
un lusso. L'economia politica, questa scienza della ricchezza, è quindi nello stesso
tempo la scienza della rinuncia, della privazione, del risparmio, e giunge realmente
sino al punto di risparmiare all'uomo persino il bisogno dell'aria pura del moto
fisico. Questa scienza della mirabile industria è parimenti la scienza dell'ascesi, e il
suo vero ideale è l'avaro ascetico ma usuraio, e lo schiavo ascetico ma produttivo.
Il suo ideale morale è l'operaio che porta alla cassa di risparmio una parte del suo
salario; e per questa sua idea prediletta essa ha trovato persino un'arte servile. Tutto
ciò è stato portato sulla scena in forma sentimentale. L'economia politica è quindi,
nonostante il suo aspetto mondano e lussurioso, una scienza realmente morale, la
più morale di tutte le scienze. La rinuncia a se stessi, la rinuncia alla vita e a tutti i
42
bisogni umani, è il suo dogma principale. Quanto meno mangi, bevi, compri libri,
vai a teatro, al ballo e all'osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi,
verseggi, ecc., tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro, che né i
tarli né la polvere possono consumare, il tuo capitale. Quanto meno tu sei, quanto
meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata,
tanto più accumuli del tuo essere estraniato. Tutto [XVI] ciò che l'economista ti
porta via di vita e di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza; e tutto ciò che
tu non puoi, può il tuo denaro. Esso può mangiare, bere, andare a teatro e al ballo,
se la intende con l'arte, con la cultura, con le curiosità storiche, col potere politico,
può viaggiare; può insomma impadronirsi per te di tutto quanto; può tutto quanto
comperare: esso è il vero e proprio potere. Ma pur essendo tutto questo, non è in
grado di produrre null'altro che se stesso, né di comprare nulla fuor che se stesso,
poiché tutto il resto è ormai suo schiavo; e se io ho il padrone ho pure il servo, e
non ho bisogno del suo servo. Così tutte le passioni e tutte le attività devono andare
a finire nell'avidità di denaro. L'operaio può avere soltanto quanto basta per voler
vivere; e può voler vivere soltanto per avere.
Veramente sorge a questo punto una controversia sul terreno dell'economia
politica. Gli uni (Lauderdale, Malthus, ecc.) raccomandano il lusso e imprecano
contro il risparmio; gli altri (Say, Ricardo, ecc.) raccomandano il risparmio e
imprecano contro il lusso. Ma quelli dichiarano di volere il lusso per produrre il
lavoro (cioè il risparmio assoluto); questi affermano di raccomandare il risparmio
per produrre la ricchezza, cioè il lusso. I primi hanno l'idea romantica che l'avidità
di denaro non possa da sola determinare il consumo dei ricchi, e poi contraddicono
alle loro proprie leggi quando spacciano la prodigalità immediatamente come un
mezzo per arricchire; e perciò i secondi dimostrano loro con tutta serietà e coi
maggiori particolari che con la prodigalità il mio avere diventa più piccolo e non
più grande; ma costoro commettono l'ipocrisia di non ammettere che proprio i
capricci e i ghiribizzi determinano la produzione; dimenticano i «bisogni raffinati»,
dimenticano che se non si consumasse non si produrrebbe, che la produzione per
opera della concorrenza deve diventare soltanto più multiforme e più volta ai
generi di lusso; dimenticano che per loro l'uso determina il valore delle cose, e la
moda determina l'uso; desiderano che si produca soltanto ciò che è «utile», ma
dimenticano che la produzione di troppe cose utili produce troppa popolazione
inutile. Sia gli uni che gli altri dimenticano che la prodigalità e il risparmio, il lusso
e l'indigenza, la ricchezza e la povertà sono l'identica cosa.
E tu devi non solo privarti dei tuoi sensi immediati, come il mangiare, ecc., ma
devi risparmiarti anche ogni partecipazione ad interessi di carattere generale, la
compassione, la fiducia; tutto quanto devi risparmiarti se vuoi essere un uomo
economico, se non vuoi andare in rovina per le illusioni.
Tutto ciò che è tuo devi renderlo venale, cioè utile. Ma se io chiedo agli
economisti: «Forse che non ubbidisco alle leggi economiche, se traggo profitto
prostituendo e offrendo in vendita il mio corpo alla voluttà altrui (gli operai delle
fabbriche in Francia chiamano la prostituzione delle loro mogli e delle loro figlie
l'ora di lavoro straordinaria, il che è letteralmente vero); oppure non agisco forse
economicamente vendendo un mio amico ai marocchini (la vendita diretta degli
uomini, come il commercio dei coscritti, ecc., si verifica in tutti i paesi civili) ?»
allora gli economisti mi rispondono: «Certamente tu non vai contro alle mie leggi;
però, sta un po' attento a quel che dicono la signora morale e la signora religione.
La mia morale e la mia religione fondate sull'economia politica non hanno nulla da
opporti, ma...» Ma a chi mai io debbo più credere ? Alla economia politica o alla
morale? La morale dell'economia è il guadagno, il lavoro, il risparmio, la sobrietà;
ma l'economia politica mi promette di soddisfare i miei bisogni. L'economia della
morale è la ricchezza in fatto di buona coscienza, di virtù, ecc.; ma come posso
essere virtuoso se non sono, e come posso avere una buona coscienza, se non so
43
nulla? Nella natura stessa dell'estraniazione è fondato il fatto che ogni sfera mi
presenti un criterio di misura diverso ed opposto, uno la morale, un altro
l'economia politica; e infatti ognuna di queste due sfere rappresenta un modo
determinato di estraniazione umana e [XVII] fissa un ambito particolare di attività
essenziale-estraniata; ognuna si riferisce in forma estraniata all'estraniazione
dell'altra. Così Michel Chevalier rimprovera Ricardo di fare astrazione dalla
morale. Ma Ricardo fa parlare all'economia politica la lingua che le è propria, e se
questa non parla in termini di morale, la colpa non è di Ricardo. Chevalier fa
astrazione dall'economia nei limiti in cui fa il moralista; ma fa necessariamente e
realmente astrazione dalla morale nei limiti in cui fa l'economista. La relazione tra
l'economia politica e la morale, se non è arbitraria, accidentale, e quindi senza
fondamento e priva di rigore scientifico, se non è travisata, ma intesa invece nel
suo valore essenziale, può essere bensì soltanto la relazione tra le leggi economiche
e la morale. Ma se questa relazione non ha luogo, ma anzi ha luogo il contrario, che
colpa ne ha Ricardo ? Del resto, anche l'opposizione tra l'economia politica e la
morale è soltanto un'apparenza, e in quanto opposizione, non è di nuovo
un'opposizione. L'economia politica si limita ad esprimere alla sua maniera le leggi
morali.
La mancanza di bisogni in quanto principio dell'economia politica si rivela nel
modo più clamoroso nella sua teoria della popolazione. Ci sono troppi uomini.
Persino l'esistenza degli uomini è un puro lusso, e se l'operaio è «morale», farà
economia in fatto di procreazione. (Mill propone pubblici elogi per coloro che si
mostrano continenti nei rapporti sessuali, e pubblici biasimi, invece, a coloro che
peccano contro l'infecondità del matrimonio... Non è questa forse una morale
dell'ascetismo?) La produzione di uomini appare come una pubblica calamità.
Il senso che la produzione ha relativamente ai ricchi, si mostra manifestamente nel
senso che essa ha per i poveri; verso l'alto la sua manifestazione è sempre raffinata,
dissimulata, ambigua, pura e semplice apparenza; verso il basso è grossolana,
scoperta, leale, vera e propria realtà. Il bisogno rozzo dell'operaio è una fonte di
guadagno assai maggiore che il bisogno raffinato del ricco. Le abitazioni nel
sottosuolo di Londra rendono ai loro padroni più che i palazzi, cioè rappresentano
per loro una ricchezza maggiore, e quindi per usare il linguaggio dell'economia
politica, una maggior ricchezza sociale.
E così, come l'industria specula sul raffinamento dei bisogni, specula altrettanto
sulla loro rozzezza: sulla loro rozzezza in quanto è prodotta ad arte, e di cui
pertanto il vero godimento consiste nell'autostordimento, che è una soddisfazione
del bisogno soltanto apparente, una forma di civiltà dentro la rozza barbarie del
bisogno. Le bettole inglesi sono perciò una rappresentazione simbolica della
proprietà privata. Il loro lusso mostra il vero rapporto del lusso e della ricchezza
dell'industria con l'uomo. E sono quindi anche a ragione i soli divertimenti
domenicali del popolo trattati per lo meno con mitezza dalla polizia inglese.
http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/Manoscritti/proprietacomunismo.html
https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/Manoscritti/bisogni.html
Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (1857-58)
La risoluzione di tutti i prodotti e di tutte le attività in valori di scambio presuppone
sia la dissoluzione di tutti i rigidi rapporti di dipendenza personali (storici) nella
produzione, sia la generale dipendenza reciproca dei produttori. Non solo la
produzione di ogni singolo viene a dipendere dalla produzione di tutti gli altri, ma
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anche la trasformazione del suo prodotto in mezzi di sussistenza personali è venuta
a dipendere dal consumo di tutti gli altri. I prezzi sono antichi, e così lo scambio;
ma sia la progressiva determinazione degli uni attraverso i costi di produzione, sia
il predominio dell'altro su tutti i rapporti di produzione sono pienamente sviluppati,
e si sviluppano sempre più pienamente, soltanto nella società borghese, nella
società della libera concorrenza. Ciò che Adam Smith, alla maniera tipica del
XVIII secolo, pone nel periodo preistorico e fa precedere alla storia, è piuttosto il
suo prodotto.
Questa dipendenza reciproca si esprime nella necessità permanente dello scambio e
nel valore di scambio quale mediatore universale. Gli economisti esprimono questo
fatto nel modo seguente: ciascuno, perseguendo il suo interesse privato e soltanto il
suo interesse privato, involontariamente e inconsapevolmente finisce per servire
l'interesse privato di tutti, l'interesse generale. Il punto saliente di questa
affermazione non sta nel fatto che perseguendo ognuno il suo interesse privato si
raggiunge la totalità degli interessi privati, e cioè l'interesse generale. Da questa
frase astratta si potrebbe anzi dedurre che ognuno reciprocamente ostacola
l'affermazione dell'interesse dell'altro, sicché invece di un'affermazione generale da
questo bellum omnium contra omnes risulta anzi una generale negazione. Il punto
vero e proprio sta piuttosto in questo, che l'interesse privato stesso è già un
determinato interesse sociale e può essere raggiunto soltanto nell'ambito delle
condizioni che la società pone e con i mezzi che essa offre; quindi è legato alla
riproduzione di queste condizioni e di questi mezzi. Si tratta di interesse dei privati;
ma il suo contenuto, come la forma e i mezzi della sua realizzazione, sono dati da
condizioni sociali indipendenti da tutti.
La mutua e generale dipendenza degli individui reciprocamente indifferenti
costituisce il loro nesso sociale. Questo nesso sociale è espresso nel valore di
scambio, e solo in esso, per ogni individuo, la propria attività o il proprio prodotto
diventano un'attività o un prodotto fine a se stessi; egli deve produrre un prodotto
generico - il valore di scambio - o, considerato questo per sé isolatamente e individualizzato, del denaro. D'altra parte il potere che ogni individuo esercita sull'attività
degli altri o sulle ricchezze sociali, egli lo possiede in quanto proprietario di valori
di scambio, di denaro. Il suo potere sociale, così come il suo nesso con la società,
egli lo porta con sé nella tasca. L'attività, quale che sia la sua forma fenomenica
individuale, e il prodotto dell'attività, quale che sia il suo carattere particolare, è il
valore di scambio, vale a dire qualcosa di generico in cui ogni individualità,
qualità, è negata e cancellata. In realtà questa è una situazione molto diversa da
quella in cui l'individuo, o l'individuo naturalmente o storicamente allargatosi a
famiglia e a tribù (e poi a comunità), si riproduce su basi direttamente naturali, o in
cui la sua attività produttiva e la sua partecipazione alla produzione è indirizzata a
una determinata forma di lavoro e di prodotto, e il suo rapporto con gli altri è
altrettanto determinato.
Il carattere sociale dell'attività, così come la forma sociale del prodotto e la
partecipazione dell'individuo alla produzione, si presentano qui come qualcosa di
estraneo e di oggettivo di fronte agli individui; non come loro relazione reciproca,
ma come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro
e nascono dall'urto degli individui reciprocamente indifferenti. Lo scambio
generale delle attività e dei prodotti, che è diventato condizione di vita per ogni
singolo individuo, il nesso che unisce l'uno all'altro, si presenta a essi stessi
estraneo, indipendente, come una cosa. Nel valore di scambio la relazione sociale
tra le persone si trasforma in rapporto sociale tra cose; la capacità personale, in una
capacità delle cose. Quanto minore è la forza sociale del mezzo di scambio, quanto
più esso è ancora legato alla natura del prodotto immediato del lavoro e ai bisogni
immediati di coloro che scambiano, tanto maggiore deve essere la forza della
45
comunità che lega insieme gli individui, il rapporto patriarcale, la comunità antica
il feudalesimo e la corporazione.
Ciascun individuo possiede il potere sociale sotto la forma di una cosa. Strappate
alla cosa questo potere sociale e dovrete darlo alle persone sulle persone. I rapporti
di dipendenza personale (all'inizio su una base del tutto naturale) sono le prime
forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa soltanto in un ambito
ristretto e in punti isolati. L'indipendenza personale fondata sulla dipendenza
materiale è la seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di
ricambio sociale generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e
di universali capacità. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale
degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale,
quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio. Il secondo crea le condizioni del terzo. Sia le condizioni patriarcali che quelle antiche (e anche feudali)
crollano perciò con lo sviluppo del commercio, del lusso, del denaro, del valore di
scambio, nella stessa misura in cui di pari passo con essi s'innalza la società
moderna.
La creazione di molto tempo disponibile oltre il tempo di lavoro necessario per la
società in generale e per ogni membro di essa (ossia di spazio per il pieno sviluppo
delle forze produttive dei singoli, e quindi anche della società), questa creazione di
tempo di non-lavoro si presenta, al livello del capitale, come di tutti quelli
precedenti, come tempo di non-lavoro, tempo libero per alcuni. Il capitale vi
aggiunge il fatto che esso moltiplica il tempo di lavoro supplementare della massa
con tutti i mezzi della tecnica e della scienza, perché la sua ricchezza è fatta
direttamente di appropriazione di tempo di lavoro supplementare; giacché il suo
scopo è direttamente il valore, e non il valore d'uso. In tal modo, malgré lui, è
strumento di creazione delle possibilità di tempo sociale disponibile, della riduzione del tempo di lavoro per l'intera società a un minimo decrescente, così da
rendere il tempo di tutti libero per il loro sviluppo personale. Ma la sua tendenza è
sempre, per un verso, quella di creare tempo disponibile, per l'altro, di convertirlo
in pluslavoro. Se la prima cosa gli riesce, ecco intervenire una sovrapproduzione, e
allora il lavoro necessario viene interrotto perché il capitale non può valorizzare
alcun pluslavoro. Quanto più si sviluppa questa contraddizione, tanto più viene in
luce che la crescita delle forze produttive non può più essere vincolata
all'appropriazione di pluslavoro altrui, ma che piuttosto la massa operaia stessa
deve appropriarsi del suo pluslavoro. Una volta che lo abbia fatto - e con ciò il
tempo disponibile cessi di avere una esistenza antitetica - da una parte il tempo di
lavoro necessario avrà la sua misura nei bisogni dell'individuo sociale, dall'altra lo
sviluppo della produttività sociale crescerà così rapidamente che, sebbene ora la
produzione sia calcolata in vista della ricchezza di tutti, cresce il tempo disponibile
di tutti. Giacché la ricchezza reale è la produttività sviluppata di tutti gli individui.
E allora non e più il tempo di lavoro, ma il tempo disponibile la misura della
ricchezza. Il tempo di lavoro come misura della ricchezza pone la ricchezza stessa
come fondata sulla povertà, e il tempo disponibile come tempo che esiste nella e in
virtù dell'antitesi al tempo di lavoro supplementare, ovvero tutto il tempo di un
individuo è posto come tempo di lavoro, e l'individuo viene degradato perciò a
mero operaio, sussunto sotto il lavoro. Le macchine più sviluppate perciò
costringono ora l'operaio a lavorare più a lungo di quanto faccia il selvaggio o di
quanto egli stesso facesse con gli strumenti più semplici e più rozzi.
L'economia effettiva - il risparmio - consiste in un risparmio di tempo di lavoro
(minimo - e riduzione al minimo - di costi di produzione); ma questo risparmio si
identifica con lo sviluppo della produttività. [Non si tratta] quindi affatto di
rinuncia al godimento, bensì di sviluppo di capacità, di capacità atte alla
produzione, e perciò tanto delle capacità quanto dei mezzi del godimento. La ca46
pacità di godere è una condizione per godere, ossia il suo primo mezzo, e questa
capacità è lo sviluppo di un talento individuale, è produttività. Il risparmio di
tempo di lavoro equivale all'aumento del tempo libero, ossia del tempo dedicato
allo sviluppo pieno dell'individuo, sviluppo che a sua volta reagisce, come massima
produttività, sulla produttività del lavoro. Esso può essere considerato, dal punto
di vista del processo di produzione immediato, come produzione di capitale fisso;
questo capitale fisso è l'uomo stesso. Che del resto lo stesso tempo di lavoro
immediato non possa rimanere in astratta antitesi al tempo libero - come si presenta
dal punto di vista dell'economia borghese - si intende da sé. Il lavoro non può
diventare gioco, come vuole Fourier, al quale rimane il grande merito di avere indicato come obiettivo ultimo la soppressione non della distribuzione, ma del modo
di produzione stesso nella sua forma superiore. Il tempo libero - che è sia tempo di
ozio che tempo per attività superiori - ha trasformato naturalmente il suo
possessore in un soggetto diverso, ed è in questa veste di soggetto diverso che egli
entra poi anche nel processo di produzione immediato. Il quale è, insieme, disciplina, se considerato in relazione all'uomo che diviene, ed esercizio, scienza
sperimentale, scienza materialmente creativa e oggettivantesi, se considerato in
relazione all'uomo divenuto, nel cui cervello esiste il sapere accumulato della
società. Per entrambi, finché il lavoro richiede una pratica operazione manuale e
una libertà di movimento, come nell'agricoltura, è al tempo stesso esercizio.
E. Donaggio, P. Kammerer, Karl Marx. Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso, Feltrinelli, 2007,
pag. 111-113, 243-45
La guerra civile in Francia (1871)45
I cannibali alle porte
All'alba del 18 marzo Parigi fu svegliata da un colpo di tuono: "Vive la
Commune!". Che cos'è la Comune, questa sfinge che tanto tormenta lo spirito dei
borghesi?
"I proletari di Parigi," diceva il Comitato centrale nel suo manifesto del 18 marzo,
"in mezzo alle disfatte e ai tradimenti delle classi dominanti hanno compreso che è
suonata l'ora in cui debbono salvare la situazione prendendo nelle loro mani la
direzione dei pubblici affari [...]. Hanno compreso che è loro imperioso dovere e
loro diritto assoluto rendersi padroni dei loro destini, impossessandosi del potere
governativo."
Ma la classe operaia non può mettere semplicemente la mano sulla macchina dello
stato bella e pronta, e metterla in movimento per i propri fini. Il potere statale
centralizzato, con i suoi organi dappertutto presenti: esercito permanente, polizia,
burocrazia, clero e magistratura - organi prodotti secondo il piano di divisione del
lavoro sistematica e gerarchica - trae la sua origine dai giorni della monarchia
assoluta, quando servì alla nascente società delle classi medie come arma potente
nella sua lotta contro il feudalesimo. Il suo sviluppo però fu intralciato da ogni
sorta di macerie medioevali, diritti signorili, privilegi locali, monopoli municipali e
corporativi e costituzioni provinciali. La gigantesca scopa della rivoluzione francese del XVIII secolo spazzò tutti questi resti dei tempi passati, sbarazzando così in
45
L’avvenimento storico a cui Marx fa riferimento è costituito dall’esperienza del governo rivoluzionario
che si instaurò a Parigi in seguito alla sconfitta dell’esercito di Napoleone III ad opera dei prussiani nel
1870
47
pari tempo il terreno sociale dagli ultimi ostacoli che si frapponevano alla
costituzione su di esso dell'edificio dello stato moderno, elevato sotto il Primo
impero, il quale a sua volta fu il prodotto delle guerre di coalizione della vecchia
Europa semifeudale contro la Francia moderna.
Durante i successivi régimes il governo, posto sotto il controllo parlamentare, cioè
sotto il controllo diretto delle classi possidenti, non diventò solamente l'incubatrice
di enormi debiti pubblici e di imposte schiaccianti; con la irresistibile forza di
attrazione dei posti, dei guadagni e delle protezioni, non solo diventò il pomo della
discordia tra fazioni rivali e gli avventurieri delle classi dirigenti; ma anche il suo
carattere politico cambiò di pari passo con le trasformazioni economiche della
società. A misura che il progresso dell'industria moderna sviluppava, allargava,
accentuava l'antagonismo di classe tra il capitale e il lavoro, lo stato assunse
sempre più il carattere di potere nazionale del capitale sul lavoro, di forza pubblica
organizzata per l'asservimento sociale, di uno strumento di dispotismo di classe. …
La Comune fu composta dai consiglieri municipali eletti a suffragio universale nei
diversi mandamenti di Parigi, responsabili e revocabili in qualunque momento. La
maggioranza dei suoi membri erano naturalmente operai, o rappresentanti
riconosciuti dalla classe operaia. La Comune doveva essere non un organismo
parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo. Invece di
continuare a essere l'agente del governo centrale, la polizia fu immediatamente
spogliata delle sue attribuzioni politiche e trasformata in strumento responsabile
della Comune, revocabile in qualunque momento. Lo stesso venne fatto per i
funzionari di tutte le altre branche dell'amministrazione. Dai membri della Comune
in giù, il servizio pubblico doveva essere compiuto per salari da operai. I diritti acquisiti e le indennità di rappresentanza degli alti dignitari dello stato scomparvero
insieme con i dignitari stessi. Le cariche pubbliche cessarono di essere proprietà
privata delle creature del governo centrale. Non solo l'amministrazione municipale,
ma tutte le iniziative già prese dallo stato passarono nelle mani della Comune.
Sbarazzatasi dell'esercito permanente e della polizia, elementi della forza materiale
del vecchio governo, la Comune si preoccupò di spezzare la forza della repressione
spirituale, il potere dei preti, sciogliendo ed espropriando tutte le chiese in quanto
enti possidenti. I sacerdoti furono restituiti alla quiete della vita privata, per vivere
delle elemosine dei fedeli, a imitazione dei loro predecessori, gli apostoli. Tutti gli
istituti di istruzione furono aperti gratuitamente al popolo e liberati in pari tempo
da ogni ingerenza della chiesa e dello stato. Così non solo l'istruzione fu resa
accessibile a tutti, libera; la scienza stessa fu liberata dalle catene che le avevano
imposto i pregiudizi di classe e la forza del governo. I funzionari giudiziari furono
spogliati di quella sedicente indipendenza che non era servita ad altro che a
mascherare la loro abietta soggezione a tutti i governi che si erano succeduti, ai
quali avevano, di volta in volta, giurato fedeltà, per violare in seguito il loro
giuramento. I magistrati e i giudici dovevano essere elettivi, responsabili e
revocabili come tutti gli altri pubblici funzionari.
La Comune di Parigi doveva naturalmente servire di modello a tutti i grandi centri
industriali della Francia. Una volta stabilite a Parigi e nei centri secondari il regime
comunale, il vecchio governo centralizzato avrebbe dovuto cedere il posto anche
nelle province all'autogoverno dei produttori. In un abbozzo sommario di
organizzazione nazionale che la Comune non ebbe il tempo di sviluppare e detto
chiaramente che la Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo
borgo, e che nei distretti rurali l'esercito permanente doveva essere sostituito da una
milizia nazionale, con un periodo di servizio estremamente breve. Le comuni rurali
di ogni distretto avrebbero dovuto amministrare i loro affari comuni mediante
un'assemblea di delegati con sede nel capoluogo, e queste assemblee distrettuali
avrebbero dovuto a loro volta mandare dei rappresentarti alla delegazione
nazionale a Parigi, ogni delegato essendo revocabile in qualsiasi momento e legato
48
al mandat impératif (istruzioni formali) dei suoi elettori. Le poche ma importanti
funzioni che sarebbero ancora rimaste per un governo centrale non sarebbero state
soppresse, come venne affermato falsamente in malafede, ma adempiute da funzionari comunali, e quindi strettamente responsabili. L'unità della nazione non
doveva essere spezzata, anzi doveva essere organizzata dalla costituzione
comunale, e doveva diventare una realtà attraverso la distruzione di quel potere
statale che pretendeva essere l'incarnazione di questa unità indipendente e persino
superiore alla nazione stessa, mentre non era che un'escrescenza parassitaria.
La molteplicità delle interpretazioni che si danno della Comune e la molteplicità
degli interessi che nella Comune hanno trovato la loro espressione mostrano che
essa fu una forma politica fondamentalmente espansiva, mentre tutte le precedenti
forme di governo erano state unilateralmente repressive. Il suo vero segreto fu
questo: che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto
della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma
politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l'emancipazione
economica del lavoro.
Senza quest'ultima condizione, la costituzione della Comune sarebbe stata una cosa
impossibile e un inganno. Il dominio politico dei produttori non può coesistere con
la perpetuazione del loro asservimento sociale. La Comune doveva dunque servire
da leva per svelare le basi economiche su cui riposa l'esistenza delle classi, e quindi
del dominio di classe. Con l'emancipazione del lavoro tutti diventano operai, e il
lavoro produttivo cessa di essere un attributo di classe.
È un fatto strano: nonostante tutto il gran parlare e l'immensa letteratura degli
ultimi sessant'anni sull'emancipazione del lavoro, non appena gli operai, in un
paese qualunque, prendono decisamente la cosa nelle loro mani, immediatamente si
leva tutta la fraseologia apologetica dei portavoce della società presente, con i suoi
due poli di capitale e schiavitù del salario (il proprietario fondiario è ora soltanto il
socio passivo del capitalista), come se la società capitalista fosse ancora nel suo
stato più puro di verginale innocenza, con i suoi antagonismi non ancora sviluppati,
con i suoi inganni non ancora sgonfiati, con le sue meretrici e realtà non ancora
messe a nudo. La Comune, essi esclamano, vuole abolire la proprietà, la base di
ogni civiltà! Sì, o signori, la Comune voleva abolire quella proprietà di classe che
fa del lavoro di molti la ricchezza di pochi. Essa voleva l'espropriazione degli
espropriatori. Voleva fare della proprietà individuale una realtà, trasformando i
mezzi di produzione, la terra e il capitale, che ora sono essenzialmente mezzi di
asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di lavoro libero e
associato.
Ma questo è comunismo, "impossibile" comunismo! Ebbene, quelli tra i membri
della classi dominanti che sono abbastanza intelligenti per comprendere
l'impossibilità di perpetuare il sistema presente - e sono molti - sono diventati gli
apostoli seccanti e rumorosi della produzione cooperativa. Ma se la produzione
cooperativa non deve restare una finzione e un inganno, se essa deve subentrare al
sistema capitalista; se delle associazioni cooperative unite devono regolare la
produzione nazionale secondo un piano comune, prendendola così sotto il loro
controllo e ponendo fine all'anarchia costante e alle convulsioni periodiche che
sono la sorte inevitabile della produzione capitalistica; che cosa sarebbe questo, o
signori, se non comunismo, "possibile" comunismo?
La classe operaia non attendeva miracoli dalla Comune. Essa non ha utopie belle e
pronte da introdurre par décret du peuple. Sa che per realizzare la sua propria
emancipazione, e con essa quella forma più alta a cui la società odierna tende
irresistibilmente per i suoi stessi fattori economici, dovrà passare per lunghe lotte,
per una serie di processi storici che trasformeranno le circostanze e gli uomini La
classe operaia non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova
società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese. Pienamente
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cosciente della sua missione storica e con l'eroica decisione di agire in tal senso, la
classe operaia può permettersi di sorridere delle grossolane invettive dei signori
della penna e dell'inchiostro, servitori dei signori senza qualificativi e della
pedantesca protezione dei benevoli dottrinari borghesi, che diffondono i loro
insipidi luoghi comuni e le loro ricette settarie col tono oracolare dell'infallibilità
scientifica.
Quando la Comune di Parigi prese nelle sue mani la direzione della rivoluzione;
quando per la prima volta semplici operai osarono infrangere il privilegio
governativo dei "loro superiori naturali", e, in mezzo a difficoltà senza precedenti,
compirono l'opera loro con modestia, con coscienza e con efficacia - e la
compirono per salari il più alto dei quali era appena il quinto di ciò che, secondo
un'alta autorità scientifica, è il minimo richiesto per il segretario di un consiglio
scolastico in una metropoli -, il vecchio mondo si contorse in convulsioni di rabbia
alla vista della bandiera rossa, simbolo della repubblica del lavoro, sventolante
sull'Hotel de ville. …
La grande misura sociale della Comune fu la sua stessa esistenza operante. Le
misure particolari da essa approvate potevano soltanto presagire la tendenza a un
governo del popolo per opera del popolo. Tali furono l'abolizione del lavoro
notturno dei panettieri; la proibizione, pena sanzioni, della pratica degli
imprenditori di ridurre i salari imponendo ai loro operai multe coi pretesti più
diversi, procedimento nel quale l'imprenditore unisce nella sua persona le funzioni
di legislatore, giudice ed esecutore, e per di più ruba denaro. Altra misura di questo
genere fu quella di consegnare alle associazioni operaie, sotto riserva d'indennizzo,
tutte le fabbriche e i laboratori chiusi, tanto se i rispettivi capitalisti s'erano
nascosti, quanto se avevano preferito sospendere il lavoro.
Le misure finanziarie della Comune, notevoli per la loro sagacia e moderazione,
non potevano andare al di là di quanto fosse compatibile con la situazione di una
città assediata. Considerando le ruberie colossali commesse ai danni della città di
Parigi, sotto la protezione di Haussmann, dalle grandi compagnie finanziarie e dai
grandi appaltatori, la Comune avrebbe avuto titoli, per confiscarne le proprietà,
incompatibilmente più validi di quelli che avesse Napoleone per confiscare le
proprietà della famiglia d'Orléans. Gli Hohenzollern e gli oligarchi inglesi, che
hanno tratto entrambi una buona parte delle loro tenute dal saccheggio delle chiese,
furono naturalmente molto scandalizzati dal fatto che la Comune non ricavasse più
di ottomila franchi dalla secolarizzazione dei beni ecclesiastici.
Mentre il governo di Versailles, appena ripreso un po' di coraggio e di forza,
ricorreva contro la Comune ai mezzi più violenti; mentre esso sopprimeva la libera
espressione delle opinioni in tutta la Francia, arrivando sino a proibire le riunioni di
delegati delle grandi città; mentre assoggettava Versailles e il resto della Francia a
uno spionaggio che sorpassava di gran lunga quello del Secondo impero; mentre
faceva bruciare dai suoi gendarmi inquisitori tutti i giornali stampati a Parigi e
censurava tutte le lettere da e per Parigi; mentre all'Assemblea nazionale i più
timidi tentativi di dire una parola in favore di Parigi erano soffocati da urla
sconosciute persino alla Chambre introuvable del 1816; mentre Versailles
conduceva dal di fuori una guerra selvaggia e all'interno di Parigi tentava di
organizzare corruzione e complotti, non avrebbe la Comune tradito
vergognosamente la sua missione se avesse affrettato di osservare tutte le
convenzioni e le apparenze dei liberismo, come in tempi di perfetta pace?
In tutte le rivoluzioni si intrufolano, accanto ai loro rappresentanti autentici,
individui di altro stampo; alcuni sono superstiti e devoti di rivoluzioni passate, che
non comprendono il movimento presente, ma conservano un'influenza sul popolo
per la loro nota onestà e per il loro coraggio, o per la semplice forza della
tradizione; altri non sono che schiamazzatori i quali, a forza di ripetere anno per
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anno la stessa serie di stereotipate declamazioni contro il governo del giorno, si
sono procacciati la fama di rivoluzionari della più bell'acqua. Anche dopo il 18
marzo vennero a galla alcuni tipi di questo genere, e in qualche caso riuscirono a
rappresentare parti di primo piano. Nella misura del loro potere, essi furono di
ostacolo all'azione reale della classe operaia, esattamente come uomini di tale specie avevano ostacolato lo sviluppo di ogni precedente rivoluzione. Questi elementi
sono un male inevitabile: col tempo ci si sbarazza di loro; ma alla Comune non fu
concesso tempo.
Meravigliosa, in verità, fu la trasformazione operata dalla Comune di Parigi!
Sparita ogni traccia della Parigi meretrice del Secondo impero! Parigi non fu più il
ritrovo dei grandi proprietari fondiari inglesi, dei latifondisti assenteisti irlandesi,
degli ex negrieri e loschi affaristi americani, degli ex proprietari di servi russi. Non
più cadaveri alla Morgue, non più rapine e scassi notturni, quasi spariti i furti.
Invero, per la prima volta dopo i giorni del febbraio 1848, le vie di Parigi furono
sicure e senza nessun servizio di polizia. "Non sentiamo più parlare - diceva un
membro della Comune - di assassini, furti e aggressioni. Si direbbe davvero che la
polizia abbia trascinato con sé a Versailles tutti i suoi amici conservatori". Le
cocottes avevano seguito le orme dei loro protettori, gli scomparsi campioni della
famiglia, della religione e sopratutto della proprietà. Al posto loro ricomparvero
alla superficie le vere donne di Parigi, eroiche, nobili e devote come le donne
dell'antichità. Parigi lavoratrice, pensatrice, combattente, insanguinata, raggiante
nell'entusiasmo della sua iniziativa storica, quasi dimentica, nell'incubazione di una
nuova società, dei cannibali che erano alle sue porte!
E. Donaggio, P. Kammerer, Karl Marx. Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso, Feltrinelli, 2007,
pag. 254-262
Critica del Programma di Gotha
Note in margine al programma del Partito operaio tedesco (1875)
All'interno della società collettivista, fondata sulla proprietà comune dei mezzi di
produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti; tanto meno il lavoro
trasformato in prodotti appare qui come valore di questi prodotti, come una
proprietà oggettiva da essi posseduta, poiché ora, in contrapposto alla società
capitalistica, i lavori individuali non esistono più come parti costitutive del lavoro
complessivo attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto. L'espressione
«reddito del lavoro», che anche oggi è da respingere a causa della sua ambiguità,
perde così ogni senso.
Quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è
sviluppata sulla sua propria base, ma viceversa, come emerge dalla società
capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale,
spirituale, le «macchie» della vecchia società dal cui seno essa è uscita.
Perciò il produttore singolo riceve - dopo le detrazioni - esattamente ciò che le dà.
Ciò che egli ha dato alla società è la sua quantità individuale di lavoro. Per
esempio: la giornata di lavoro sociale consta della somma delle ore di lavoro
individuale; il tempo di lavoro individuale del singolo produttore è la parte della
giornata di lavoro sociale fornita da lui, la sua partecipazione alla giornata di lavoro
sociale. Egli riceve dalla società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato
tanto lavoro (dopo la detrazione del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo
scontrino egli ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto costa il lavoro
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corrispondente. La stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una
forma, la riceve in un'altra.
Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci in
quanto è scambio di cose di valore uguale. Contenuto e forma sono mutati, perché,
cambiate le circostanze, nessuno può dare niente all'infuori del suo lavoro, e perché
d'altra parte niente può passare in proprietà del singolo all'infuori dei mezzi di
consumo individuali. Ma per ciò che riguarda la ripartizione di questi ultimi tra i
singoli produttori, domina lo stesso principio che nello scambio di equivalenti di
merci: si scambia una quantità di lavoro in una forma contro una uguale quantità in
un'altra.
L'uguale diritto è qui perciò ancora sempre, secondo il principio, il diritto borghese,
benché principio e pratica non si azzuffino più, mentre lo scambio di equivalenti,
nello scambio di merci, esiste solo nella media, non per il caso singolo.
Nonostante questo progresso, questo ugual diritto reca ancor sempre un limite
borghese. Il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro,
l'uguaglianza consiste nel fatto che esso viene misurato con una misura uguale al
lavoro.
Ma l'uno è fisicamente o moralmente superiore all'altro, e fornisce quindi nello
stesso tempo più lavoro, oppure può lavorare durante un tempo più lungo; e il
lavoro, per servire come misura, dev'essere determinato secondo la durata o
l'intensità, altrimenti cesserebbe di essere misura. Questo diritto uguale è un diritto
disuguale per lavoro disuguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe,
perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente la
ineguale attitudine individuale, e quindi capacità di rendimento, come privilegi
naturali. Esso è perciò, per il suo contenuto, un diritto della disuguaglianza, come
ogni diritto. II diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell'applicazione di
una uguale misura; ma gli individui disuguali (e non sarebbero individui diversi se
non fossero disuguali) sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono
sottomessi a un uguale punto di vista, in quanto vengono considerati soltanto
secondo un lato determinato: per esempio, nel caso dato, soltanto come operai, e si
vede in loro soltanto questo, prescindendo da ogni altra cosa. Inoltre: un operaio è
ammogliato, l'altro no; uno ha più figli dell'altro, ecc. ecc. Supposti uguali il
rendimento e quindi la partecipazione al fondo di consumo sociale, l'uno riceve
dunque più dell'altro, l'uno è più ricco dell'altro e così via. Per evitare tutti questi
inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere disuguale.
Ma questi inconvenienti sono inevitabili nella prima fase della società comunista,
quale è uscita, dopo i lunghi travagli del parto, dalla società capitalistica. Il diritto
non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo
culturale, da essa condizionato, della società.
In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la
subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche
il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto
soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo
sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte
le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora
l'angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere
sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi
bisogni!
http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/cpg-cp.htm
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