K. Marx Introduzione: Capitalismo, istruzioni per l’uso di E. Donaggio, P. Kammerer L’ideologia tedesca Manifesto del partito comunista Il controllo del potere sociale e l’individuo ricco di bisogni (testi da Manoscritti economico-filosofici del 1844, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, La guerra civile in Francia, Critica del Programma di Gotha. Note in margine al programma del Partito operaio tedesco) Introduzione: Capitalismo, istruzioni per l’uso di E. Donaggio, P. Kammerer La promessa e lo sconforto Meglio di così si muore Non s'intende qui restituire ogni aspetto dell'opera di Marx1, bensì proporne un attraversamento vivo e parziale come un viaggio; accessibile a giovani curiosi, adulti delusi e a chiunque sia ancora interessato a un discorso serio su questo pensatore, allo studio dei suoi testi e del loro principale oggetto d'analisi: il capitalismo come forma di vita, un modo di produrre ed esistere spaccato tra potenzialità e contraddizioni, ricchezza e miseria. … Lo scopo di questa raccolta è infatti quello di fare luce su un sentimento oggi diffuso: la percezione che il capitalismo rappresenti l'orizzonte insuperabile del nostro tempo, il destino inevitabile, agognato o temuto che sia, dell'intero genere umano. E che qualcosa, comunque, continui a mancare. Uno stato d'animo politico - prima ancora che un disagio esistenziale, privato - rispetto a cui Marx, e una serie di desideri, esperienze e fallimenti che si riallacciano al suo nome, non risulta estraneo. La promessa e lo sconforto Sostenere che, in virtù di una sua inesauribile vitalità, il pensiero di Karl Marx (1818-1883) è ancora attuale, può sembrare una battuta prevedibile o infelice. Una trovata per lusingare o irritare il lettore, disponendolo contro la corrente di un senso comune che ha ormai emesso il proprio verdetto. Dopo l'implosione del pianeta amministrato secondo i precetti del Manifesto del partito comunista e de II capitale, quelle opere e il loro autore meritano soltanto la polvere delle biblioteche e dei negozi di anticaglie. O, in alternativa, forme ancora più sterili di conservazione: icone pop per la sigla di trasmissioni televisive e le t-shirt di adolescenti ribelli quanto inoffensivi; immagini sacre per sette di fossili fedeli alla linea. Non c'è dubbio. Da tempo imperversa un'ansia euforica e rabbiosa di chiudere i conti con la costellazione di problemi, visioni e sconfitte legate al nome di Marx. Una gran voglia di sbarazzarsi di questo scarto del passato, facendone uno dei principali mandanti di quel "secolo delle idee assassine" che si sarebbe concluso nel 1989, l'anno in cui il suo "sogno di una cosa" sfumò sotto le macerie del Muro di Berlino. Ma inizia a manifestarsi anche un rifiuto di questa smania liquidatrice, 1 Il testo è l’introduzione a una raccolta antologica di testi di Marx, curata dai due autori 1 un interesse di segno contrario, imprevisto e non facile da decifrare. Molti, di recente, sembrano infatti pronti a giurare - su quotidiani, riviste e libri - che la morte di Marx, data ormai mille volte per certa, è soltanto apparente. A riprova ci sarebbero le confessioni dei guru di Wall Street e i sondaggi della Bbc, che lo pongono regolarmente al vertice nella hit parade dei più grandi pensatori di tutti i tempi2. Ma anche il moltiplicarsi di interviste, compite o visionarie, con un Marx onnipresente e inafferrabile3; il rinvenimento di un manoscritto del Capitale di cui nessuno è più in grado di riconoscere la paternità, rendendoci tutti allievi inconsapevoli di un maestro ignorato4. O immaginarie conversazioni con John Stuart Mill, nella nebbia di una notte londinese, sulla natura della democrazia5. Trovate e dubbi vecchi quanto Marx, o almeno quanto il marxismo. Una cifra di eccezionalità, infamante o apologetica, ha sempre caratterizzato il confronto con questo pensatore e con gli esiti della sua riflessione. Una singolarità non certo ardua da comprendere quando un terzo dell'umanità formava un blocco di nazioni modellate, non soltanto secondo la retorica di regime, da dottrine che si richiamavano a Marx. E il "mondo libero" guardava alla "fabbrica di sogni" o al "cementificio" rosso con sacrosanto terrore o fierezza militante. Ma oggi, che impera la tentazione di ridurre tutto ciò a "un temporale d'estate all'ombra della banca mondiale"6, come può il corpo teorico e politico di Marx costituire ancora un campo di battaglia? Come se si avesse a che fare con un crampo che la coscienza contemporanea non riesce a sciogliere del tutto; con un desiderio, radicato in uno strato profondo della sua identità, che non vuole saperne di svanire. La risposta, non certo originale, che suggeriamo in questa nota introduttiva muove da un presupposto preciso: impossibile parlare di Marx senza che il discorso investa la nostra condizione presente e la residua capacità di immaginarla diversa e migliore. A dispetto dei tentativi di esorcizzarlo, lo scontro che si seguita a combattere intorno a Marx - e all'aura che avvolge in modo indistinto e spesso poco informato, carismatico o caricaturale, la sua figura e le sue idee - viene infatti alimentato: 1) da una delle promesse di felicità più seducenti che la cultura occidentale abbia mai arrischiato; 2) da un'analisi e una passione per il reale che giustifica quell'aspettativa. Due fonti che confluiscono in una prospettiva di superamento delle patologie generate dal capitalismo che ha trovato in molti passi e concetti marxiani un orizzonte di rara intelligenza e fascino. Una scienza delle cose feroce nella sua lucidità e una fondata speranza di emancipazione sociale: questi gli elementi inseparabili di quell'amalgama spurio che è l'opera di Marx. Il suo baricentro è saldamente ancorato nel presente e nelle sue contraddizioni, distruttive quanto feconde, come insegna un metodo dialettico di pensare il mondo. Ciò nondimeno è stata l'apertura sull'avvenire a conquistare le masse, trasformando il pensiero marxiano in una macchina che generava automaticamente verità e salvezza. Una seduzione che, per il cinismo dei leader e il bisogno di credere dei fedeli, ha assunto fogge spesso aberranti, come dimostra la storia dei socialismi più o meno reali. Ma anche un'esigenza che, malgrado quella deriva, non può venire rimossa o liquidata senza che si apra un vuoto sintomatico, difficile da colmare, proprio per via delle forme in cui quella speranza è stata disattesa o esaudita. 2 Cfr. J. Cassidy, The Return of Karl Marx, in "The New Yorker", 20 e 27, ottobre 1997; http://www.bbc.co.uk/radio4/history/inourtime/greatest_philosopher.shtml. 3 Cfr. G. Carandini, Un altro Marx. Lo scienziato liberato dall'utopia, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 3-28; J. Goytisolo, Karl Marx Show, Cargo, Napoli, 2005. 4 Cfr. B. Sichtermann, Karl Marx: neu gelesen, Wagenbach, Berlin 1995, p. 40. 5 Cfr. P. Ginsborg, La democrazia che non c'è, Einaudi, Torino 2006, pp. 3-17. 6 Cfr. B. Groys-M. Hollein (a cura di), Traumfabrik Kommunismus, Hatje Cantz, Ostfildern 2003; H. Muller, L'invenzione del silenzio, Ubulibri, Milano 1996, p. 61. 2 Non soltanto - occorre precisare - dalle società che da essa traevano legittimazione (la loro smentita di quell'aspettativa è stata così eclatante da non minarne definitivamente la plausibilità). Ma anche dal modo di esistere e produrre che domina incontrastato sulle rovine di quel disastro. Il capitalismo ricava infatti molta della sua forza dal soddisfacimento individualizzato e mercificato del desiderio nutrito da Marx; un modo di depotenziare e assorbire la carica di quel sogno, rinnovandolo costantemente solo per frustrarlo: la libertà del consumatore, il comunismo realizzato in un uomo solo, in ogni individuo isolato nella lotta per la ricchezza e la felicità. Un fallimento che non intacca la promessa e una perversione che la disinnesca, evocandola di continuo: una peculiare forma di delusione marca dunque l'epoca che ci siamo appena lasciati alle spalle; un disincanto riconducibile, attraverso vari gradi di mediazione simbolica e reale, a una delle due componenti - quella storicamente più sovraesposta - del pensiero marxiano: la speranza condivisa. Che si guardi infatti al Novecento come al "secolo comunista", con la grigia decomposizione della sua utopia; come al "secolo totalitario", scandito dal computo parallelo delle atrocità naziste e sovietiche; o come al "secolo del capitale" - che con fragilità blindata ripete ogni giorno: "Non si sta poi così male: da altre parti c'è stato e c'è ben di peggio"7 - questa "età degli estremi"8 sembra trarre il proprio senso da quanto è stato tentato e patito in nome di quell'istanza di emancipazione. Molto meno, si badi, da ciò che Marx ha effettivamente scritto - dettaglio non irrilevante per i curatori di un'antologia di suoi testi, e forse non soltanto per loro fatta eccezione per alcune frasi e slogan che, ripetuti come un mantra, hanno giustificato gli esperimenti condotti per decenni sulla carne viva di milioni di persone. A chi si accosti oggi per la prima volta alle pagine marxiane tutto ciò potrebbe apparire, e non del tutto a torto, cronaca di una stagione conclusa. Ma gli effetti di questa battaglia che ha consumato il Novecento determinano in profondità, anche se in modo spesso inavvertito soprattutto dalle generazioni più giovani, il clima intellettuale e politico, la temperatura delle passioni individuali e collettive, la fiducia in se stesso e la fantasia sociale di questo primo scorcio di nuovo millennio. Delineare la posta in palio e le conseguenze di una guerra tutt'altro che fredda intorno a un "desiderio chiamato Marx"9 può essere perciò di qualche utilità per decidere se valga ancora la pena leggere, o tornare a studiare, parole e testi effettivamente usciti dalla sua penna, visitando il luogo dove il corpo e lo spettro Marx e i comunismi di cui il Novecento è stato capace - non sono ancora confusi. Scoprendo così anche l'altra componente del suo pensiero, altrettanto fondamentale malgrado l'ombra in cui è rimasta storicamente confinata: il tentativo di analizzare e descrivere, fornendo qualcosa di simile a delle istruzioni per l'uso, il funzionamento occulto del capitalismo, la matrice originaria di svariate critiche al nostro modo di vivere e produrre. Quale punto d'attacco, tra gli infiniti possibili, per riflettere sul primo dei due temi sopra elencati - la speranza sociale - si potrebbe scegliere il dialogo sui massimi sistemi posto al centro de Il correttore, un racconto filosofico di George Steiner10. Le sue battute drammatizzano in modi semplici, sospesi tra il kitsch di un profluvio di allegorie e il respiro di un romanzo russo, molti degli argomenti che vengono avanzati per spiegare il volgersi in incubo del sogno auspicato da Marx; ma anche i 7 A. Badiou, Il secolo, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 10-12 e 84 Cfr. E.J. Hobsbawm, Il secolo breve 1914-1991, Rizzoli, Milano 2006. 9 Cfr. J.F. Lyotard, Economia libidinale, Colportage, Firenze 1978. 10 Le citazioni che seguono sono tratte da G. Steiner, Il correttore, Garzanti, Milano 1992, pp. 44-69. Lo sfondo teorico del racconto è tracciato in Id., La nostalgia dell'assoluto, Bruno Mondadori, Milano 2000. 8 3 motivi che hanno spinto a lottare per la sua realizzazione e, in anni più recenti, a opporsi al suo oblio definitivo. Il titolo potrebbe recitare La promessa e lo sconforto. Sullo sfondo delle immagini del crollo del Muro di Berlino, i due protagonisti padre Carlo, un prete convertito al marxismo, e il Professore, un militante comunista, correttore di bozze di leggendaria precisione, sottopongono a un'incandescente autopsia la loro fede politica. Alla radice vi riconoscono la non accettazione del mondo così com'è, unita all'indimostrabile certezza che "deve esserci qualcosa di meglio"; che se la vita fosse tutta qui, con "la sofferenza, il luridume che ci Seppellisce fino agli occhi. Se questa dovesse essere l'ultima ratio, la somma finale, sarebbe meglio correre a impiccarci al prossimo lampione. Al primo gancio da macellaio". Questa percezione parziale e acuta del male in ogni suo aspetto, anche quelli che paiono meno sanabili e congiunti all'esistere in quanto tale - dall'infelicità alla malattia, dalla fame all'ingiustizia e alla morte - sembra contemplare soltanto due sbocchi di speranza e redenzione, affini nelle aspirazioni ma divergenti nelle ricadute pratiche: la dottrina di Cristo e quella di Marx. Se ad animarle è il medesimo sdegno per un dolore immotivato, che si accanisce in particolare sull’"innocente e l'indifeso", diverso è il rapporto con il futuro e la sua ignota lunghezza, l'attesa; la scelta della gestione più redditizia, nei giorni o nei millenni, di quel "tesoro d'impazienza" e rabbia indispensabile per porre fine a un tale tormento. Ai propri fedeli la Chiesa raccomanda docilità e ubbidienza, un'illimitata capacità di sopportazione che verrà ricompensata, alla fine dei tempi, nel regno di giustizia e dignità riservato al "popolo eletto della disperazione". Aspettando la sua venuta, e in nome dell'amore divino, le gerarchie ecclesiastiche distribuiscono "analgesici" di vario genere, e massacrano "con coerenza" ogni eresia che indichi una scorciatoia terrena verso quella meta: "Non c'è niente che Roma abbia temuto più dell'impazienza. Il suo regno non è di questo mondo. C'è mai stato un manifesto politico più abile? Rispondi, Professore". Anche il comunismo - insinua Padre Carlo - nasce da questa "fame molto più antica", dalla "furia dell'adesso" che già divorava i profeti dell'Antico testamento, da una brama che non accetta di rinviare sine die un'esistenza degna dell'uomo. Quella di Marx - con la sua previsione dell'esito della lotta per il superamento della miseria, attraverso il decisivo supporto di "forze produttive" possenti (lavoro umano, industria, tecnologia e general intellect) - non sarebbe dunque una "scienza della storia", bensì una rivelazione sotto mentite spoglie, che non soltanto annuncia, ma addirittura garantisce l'avvento di una società che sopprime lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo: un futuro senza patologie sociali, che realizza le promesse e i miracoli che il cristianesimo disperde in cielo. È proprio questa tuttavia - conclude il prete afflitto - la "menzogna centrale, assiomatica" che avvelena il "cuore del comunismo" e lo condanna al "tradimento sistematico della speranza umana": la fede nella possibilità di un'emancipazione reale, di una "liberazione dalla servitù qui e ora. In questo mondo". Un inganno che rappresenta un"`umiliazione dell'uomo e della donna peggiore delle tirannie e delle depravazioni del cristianesimo, per quanto orrende esse siano", e che ha trovato nei guardiani delle rivoluzioni rosse novecentesche i suoi sanguinari quanto immaginabili esecutori. La replica del Professore inverte il segno di questa diagnosi, pur mantenendone inalterati gli elementi fondamentali. Ai suoi devoti la Chiesa ha in realtà sempre riservato un "disprezzo tremendo", mortificandoli con paure e rimedi infantili. Soltanto al marxismo può invece essere ascritta una "sopravvalutazione forse fatale, forse insensata, eppure magnifica, giubilante, dell'uomo. Il più grande complimento che gli sia mai stato fatto". Sta qui, in questa dismisura, in questo "mostruoso" peccato di hybris commesso con le migliori intenzioni, la radice di un inganno che ha reso agli esseri umani, soprattutto agli ultimi tra loro, il più grande 4 degli onori, concependoli come una "cosa senza limiti", un'infinita potenza di trasformazione del mondo. Sarebbe questa la "mossa più nobile della nostra tremenda storia". Ben diversa la strategia che avrebbe assicurato il trionfo alla forma di vita che il marxismo si riteneva destinato ad abbattere. Saggio o cinico, il capitalismo coltiva infatti un peculiare rispetto della proporzione; non si accontenta nemmeno di lasciare l'uomo così com'è, ma lo rende "più piccolo", per farlo sentire costantemente a suo agio nella propria pelle, a patto che disponga del denaro per comperare le cose che cementano questo benessere e regalano una salvezza istantanea, privata, a portata di tasca. E in questo sgravio dalle responsabilità nei riguardi del resto del mondo, unito a un'indulgenza assolutoria verso la propria imperfezione, si cela la sua inesauribile fonte di profitto: "Questo è il vero genio del capitalismo: impacchettare, mettere l'etichetta con il prezzo sui sogni degli uomini. Mai valutarci al di sopra della nostra mediocrità". Meglio di così, si muore "Liberazione dalla servitù qui e ora. In questo mondo." Per tutti. Sarebbe questa la "mossa più nobile della nostra tremenda storia", da cui sia la Chiesa, con il suo culto della pazienza, sia il capitale, con la sua religione della merce, si sarebbero ben guardati, traendone in cambio durata, potere e profitto. E che Marx invece azzarda. Se si dovesse rinchiudere in uno slogan il contenuto oggi più rivoluzionario della promessa e della ferita riconducibili al nome di Marx, noi forse suggeriremmo questo. Un modo di declinare la "metafora assoluta" dell'emancipazione un'immagine in cui l'umanità cristallizza le aspettative fondamentali nei riguardi del senso del mondo e del proprio agire11 - che ha subito smentite teoriche e pratiche di tale entità da risultare letteralmente inconcepibile per il senso comune contemporaneo. Ma anche una sorta di pietra miliare su cui misurare gli anni luce che ci separano dalla commovente fiducia in se stesso di un passato - il nostro tutt'altro che remoto. E il prezzo di questo disincanto. In un lasso di tempo relativamente breve si è infatti consumato il supplizio di una speranza che non proveniva da un altro pianeta, ma rappresentava l'utopico lieto fine del romanzo di famiglia della modernità occidentale: appropriarsi della realtà sociale in cui si è inseriti, invece di avvertirla come un che di estraneo, ingovernabile e fatale, a cui doversi adattare o soccombere. La potenza dell'arsenale scientifico, tecnico e politico di una ragione che ignora "ostacoli insormontabili e vicoli ciechi"12 avrebbe finalmente permesso di istituire una condizione degna dell'uomo perché libera da ingiustizie e sofferenze non necessarie. A questo grande racconto Marx conferisce una prospettiva precisa, quella in cui gli individui, con le loro forze associate, con il loro "lavoro", sono gli autori e attori del proprio destino. Di qui l'enfasi posta sul ruolo del proletariato, a rappresentare l'irruzione delle masse nel regno degli ideali borghesi, l'emblema della "miseria oggettiva" creata dal capitalismo, cioè della separazione dei soggetti dalle condizioni materiali della propria realizzazione, più che un gruppo caratterizzabile con precisione sociologica. Ma anche, nel quadro di una conflittualità tra le classi intesa come motore di progresso, la conquista di un avvenire migliore per tutti, e non solo per una minoranza privilegiata. Marx riconosce cioè l'esistenza di un "lato cattivo della storia" dovuto non al vizio morale dei singoli individui o a un deficit di 11 Cfr: H. Blumenberg, Paradigmi di una metaforologia, il Mulino, Bologna 1969. B. Baczko, L'utopia. Immaginazione sociale e rappresentazioni utopiche nell'età dell'illuminismo, Einaudi, Torino 1979, pp. 215-216. 12 5 regolamentazione giuridica, bensì al carattere strutturalmente antagonistico e oppressivo di un determinato modo di esistere e produrre. Un'ipotesi da cui segue uno dei più spinosi corollari del suo pensiero: una concezione della giustizia e della violenza secondo cui "la storia è il giudice e il proletariato il suo esecutore". Queste mosse, e altre che non possono essere qui ricordate, spiegano come il modello prospettato da Marx sia riuscito a monopolizzare, quasi a esaurire per lungo tempo, l'orizzonte utopico della modernità occidentale, imponendosi come la sola autentica alternativa al capitalismo. Come l'unica via d'uscita da quella forma di vita e dalle sue patologie in grado di inverarne in modo non parziale o fittizio il patrimonio di aspirazioni. In ciò consisterebbe il suo carattere "singolare, totale e incancellabile", in un'eccezionalità legata a "una certa affermazione emancipatrice e messianica, una certa esperienza della promessa che si può tentare di liberare da ogni dogmatica e persino da ogni determinazione metafisico-religiosa, da ogni messianismo"13. Un effetto imputabile alla natura ibrida della riflessione marxiana, i cui ingredienti rispecchiano la fisionomia di un autore che abbina lo sguardo analitico del "detective" a quello lungimirante del "liberatore"14: economia e filosofia, scienza e profezia, ideologia e utopia, ragione e rivoluzione. Da un lato, dunque, la dottrina di Marx operò come un "religione politica"15 orientata sull'avvenire, come uno straordinario riduttore di complessità che indicava il luogo e i protagonisti dello scontro decisivo per la salvezza sociale; che fissava una precisa gerarchia delle forme e degli obiettivi del conflitto, un codice universale della liberazione capace di tradurre in un'unica koiné una pluralità di lingue e progetti politici. Qualsiasi differenza di sesso, religione, nazionalità, cultura ecc. passava in secondo piano rispetto alle "maschere economiche" che la società capitalistica apponeva sul volto degli individui, alla lotta di classe. E all'antagonismo "strutturale", quello tra capitale e lavoro, il cui esito avrebbe avuto ricadute "sovrastrutturali" decisive. Il pensiero di Marx diventò così una sorta di prisma luminoso capace di concentrare, dando loro potenza e forma definita, i desideri che animavano le aspirazioni di mutamento più disparate. Ma anche un buco nero in cui venivano inghiottite le diversità che distinguevano istanze emancipative difficilmente compatibili con il suo modello di lotta per la liberazione16. Dall'altro lato, quello della comprensione dei meccanismi della realtà sociale esistente, la teoria marxiana si distinse per una spiccata capacità d'innesto e integrazione, con il risultato paradossale che le sue carenze finivano per mutarsi in punti di forza. Innalzata a "insuperabile orizzonte filosofico del nostro tempo" 17, essa venne arricchita dagli apporti delle discipline più svariate: dalla psicoanalisi alla fenomenologia, dalla linguistica all'antropologia. Il risultato fu, in diversi casi, un'immagine del mondo, un'ideologia onnicomprensiva in grado di risolvere ogni sorta di enigma e ingiustizia. Un "oppio" che molti uomini di cultura assumevano in buona fede o con falsa coscienza, salvo poi optare per forme più o meno spettacolari di abiura. Difficile, infatti, "resistere al fascino di questo sistema in cui la scienza dimostra che sarà la necessità a eseguire i verdetti della coscienza. Il capitalismo condannato a morte non in quanto intrinsecamente ingiusto, ma da questa stessa sua ingiustizia. Un appello sacrosanto alla lucidità, quale precetto cardine di un'etica intellettuale, che non può tuttavia far dimenticare come molte delle menti più aperte del 13 J. Derrida, Spettri di Marx, Cortina, Milano 1994, p. 115. E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano 2005, p. 1581. 15 Nella vastissima letteratura sul tema, cfr. ad es. H. Arendt, Religione e politica, in Antologia, Feltrinelli, Milano 2006, pp. 168-171. 16 Cfr. E. Lacau-C. Mouffe, Hegemony and Socialist Strategy. Toward a Radical Democratic Politics, Verso, London 20012, pp. 176-193. 17 J.-P. Sartre, Questioni di metodo, in Crtica della ragione dialettica, il Saggiatore, Milano 1982, p. 32. 14 6 Novecento debbano i loro strumenti concettuali proprio al contatto con un'opera, quella di Marx, la cui lettura produce effetti di orientamento nel paesaggio sociale e politico fuori dal comune: "Macigni interi cui ero passata accanto andavano a un loro posto, non potevo più fare come se non ci fossero o fossero fatali. In verità non era una scoperta, era una presa d'atto senza più rinvii possibili"18. Nel concorrere di queste due istanze - nell'intreccio di religione, politica e Weltanschauung19 - trova la sua motivazione l'accusa più radicale che è stata avanzata contro Marx e gli effetti della sua dottrina. Quella di essere un'ideologia "totalitaria", un modo di concepire l'uomo e la storia potenzialmente violento e liberticida, che avrebbe trovato la sua attuazione coerente nei regimi che hanno insanguinato il Novecento. Una critica, giunta dai fronti più disparati, che ha finito per conferire alla riflessione marxiana il suo aspetto attuale, il reperto di un'era sepolta da cui non è più lecito attendersi nulla. Si tratta - e di norma la cosa viene presentata in questi termini - del definitivo risveglio da un sogno, o da un incubo; di uno scatto di maturità nel nostro rapporto con il mondo. Ma il frutto di questo apprendimento dai propri errori, a dispetto della retorica ufficiale in materia, non sembra avere reso più adulti e felici. Semmai più spossati e soli. Una sensazione descritta in modo efficace da chi sostiene che il problema degli individui sia oggi principalmente quello di risolvere per via biografica le contraddizioni del sistema capitalistico20. Un sovraccarico delle funzioni dell'Io imputabile al venire meno della fiducia in un sapere in grado di fungere da orizzonte di un'azione collettiva. La frantumazione dei grandi codici che tentavano di fornire un'eziologia condivisa e una terapia partecipata all'afflizione o allo scandalo per lo stato del mondo rende infatti problematico, per il singolo, stabilire gerarchie di importanza che strutturino le sue reazioni di fronte a patologie sociali sempre più inflazionate21. Questa privatizzazione della cognizione del dolore, del dissenso e della speranza 22, produce i suoi effetti sulla percezione della realtà sociale. A dominare sembrano comportamenti di tipo adattivo improntati a un'eternizzazione del presente e a una desertificazione del futuro che mescolano toni euforici e sconsolati. Da un lato, un senso di liberazione da ideali che impongono all'esistente un orizzonte di ulteriorità frustrante, abbinato a una condanna talvolta spietata della sua imperfezione; il piacere per prospettive di vita finalmente adeguate alle proporzioni del singolo e delle sue effettive possibilità. Dall'altro, un senso di perdita e angustia, uno strano pessimismo che si fatica a organizzare. Sensazioni divergenti radicate nella percezione che la vita è tutta qui, senza alternativa: un godimento del presente che non intende sacrificarne un attimo sull'altare di un domani diverso, una felicità esile, su misura dell'ego, la magnifica ossessione della me generation. Chiedere di più si è rivelato rischioso. Meglio di così, si muore. Si tratta di una diagnosi ambigua, capace di suscitare il realismo dell'adattamento, ma forse anche l'impazienza dell'hic et nunc, la consapevolezza del "se non ora, quando?". Il tramonto del "comunismo-speranza" consente infatti come possibile alternativa una rinnovata passione per il presente. Una nuova attenzione e sensibilità per il "movimento reale che abolisce lo stato di cose esistente" può sostituirsi a una promessa di felicità delusa; la riduzione dell'uomo alla mediocrità può essere messa in crisi da una fiducia in se stessi rinsaldata da un'analisi del capitalismo contemporaneo (e delle sue novità, che sono meno di quanto si creda), 18 R. Rossanda, La ragazza del secolo scorso, Einaudi, Torino 2005, p. 74. Visione del mondo 20 Cfr. U. Beck, La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma 2000. 21 Cfr. S. Sim (a cura di), Post-marxism. A Reader, Edinburgh University Press, Edinburgh 1998. 22 Cfr. R. Aronson, Hope After Hope? Hoping for Social Change in the 21st Century, in "Social Research", 2, 1999, pp. 471-494. 19 7 dei suoi surrogati, del suo modo di occultare i problemi e le contraddizioni. Una ridda di ipotesi al cui fondo sta un interrogativo: si può oggi rileggere Marx senza illusioni, pagando sino in fondo il prezzo del disincanto? Non tanto il Marx profeta del comunismo, quanto il critico dell'artificialità di un modo di esistere e produrre disumano, che si vorrebbe inevitabile come un destino. Non solo il critico della fame e dello sfruttamento che ha spinto e ispirato molte generazioni, l'ultima delle quali ha smesso forse troppo presto di chiedere che cosa significa essere comunisti23. Piuttosto un Marx critico della nausea e della vergogna che - rimosse con un impiego massiccio di propaganda, ipocrisia e "oppio del popolo" - costituiscono uno strato diffuso di sentimenti frustrati da riconoscere e articolare. "Lei mi guarderà sorridendo," scrive il giovane Marx a Arnold Ruge nel marzo 1843, "e mi chiederà che cosa si è guadagnato? Dalla vergogna non nasce nessuna rivoluzione. Ma io rispondo: la vergogna è già una rivoluzione, [...] se un'intera nazione si vergognasse davvero." Dopo decenni di un regime internazionale di massima sicurezza, la santa Alleanza, Marx rivendica "aria libera per respirare" contestando quei filistei "così prudenti che tutti i loro desideri e pensieri più audaci non vanno oltre la piatta esistenza", oltre una forma di vita che sembra avere scordato persino il significato di questo termine. In tempi più recenti, un'esigenza simile è stata espressa da Hannah Arendt, ma in un tono rassegnato: "La passione to make the world a better place to live in ha, in un primo tempo, davvero migliorato il mondo, ma ha avuto anche per conseguenza che tutti hanno dimenticato, nel corso del miglioramento del mondo, cosa significato live. Così [...] stanno davanti a uno dei `migliori dei mondi possibili', e hanno perso la vita. Questo è un inferno"24. Parole riferite agli Stati Uniti, ma che valgono benissimo anche per i paesi del "socialismo reale" e per il Marx a cui questi si richiamavano: il fautore imperturbabile di uno sviluppo che è poi sempre quello capitalistico inteso come presupposto indispensabile del comunismo; un Marx incurante o ignaro del pericolo che il "comunismo", nel corso della realizzazione delle sue premesse, potesse dimenticare o smarrire il proprio significato. Difficile invece immaginare cosa accadrà in paesi immensi, come la Cina e l'India, sempre più protagonisti della storia del pianeta. Il carattere occidentale della globalizzazione reca con sé le istanze e i desideri di una soggettività individuale e collettiva, non solo mortificata, ma anche arricchita dalla sensazione che la vita sia tutta qui: una soggettività che cerca chiarezza nella confusione e precarietà del rapporto tra tempo di lavoro e di vita; insofferente verso un crescente potere delle cose e bisognosa di vecchi e nuovi rapporti di socialità. Ecco la posta in gioco di questa antologia. E. Donaggio, P. Kammerer, Karl Marx. Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso, Feltrinelli, 2007, pag. VII-XVII 23 Cfr. A. Natoli, Identità comunista e forme di organizzazione, in "Problemi del socialismo", 6, 1986, p. 55. 24 H. Arendt, Denktagebuch, Piper, Munchen-Zurich 2002, vol. I, p. 105. 8 L’ideologia tedesca (1845-46) Capitolo II L’ideologia in generale e in particolare l'ideologia tedesca La storia Sulla produzione della coscienza … I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell'immaginazione. Essi sono gli individui reali, la loro azione e le loro condizioni materiali di vita, tanto quelle che essi hanno trovato già esistenti quanto quelle prodotte dalla loro stessa azione25. Questi presupposti sono dunque constatabili per via puramente empirica. Il primo presupposto di tutta la storia umana è naturalmente l'esistenza di individui umani viventi. Il primo dato di fatto da constatare è dunque l'organizzazione fisica di questi individui e il rapporto, che ne consegue, verso il resto della natura. Qui naturalmente non possiamo addentrarci nell'esame né della costituzione fisica dell'uomo stesso, né delle condizioni naturali trovate dagli uomini, come le condizioni geologiche oro-idrografiche, climatiche, e così via. Ogni storiografia deve prendere le mosse da queste basi naturali e dalle modifiche da esse subite nel corso della storia per l'azione degli uomini. Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione26 per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale. Il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono riprodurre. Questo modo di produzione non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell'esistenza fisica degli individui; anzi, esso è già un modo determinato dell'attività di questi individui, un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque immediatamente con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono. Ciò che gli individui sono dipende dunque dalle condizioni materiali della loro produzione. Questa produzione non appare che con l'aumento della popolazione. E presuppone a sua volta relazioni fra gli individui. La forma di queste relazioni a sua volta è condizionata dalla produzione. I rapporti fra nazioni diverse dipendono dalla misura in cui ciascuna di esse ha sviluppato le loro forze produttive, la divisione del lavoro e le relazioni interne. Questa affermazione è generalmente accettata. Ma non soltanto il rapporto di una nazione con le altre, bensì anche l'intera organizzazione interna di questa stessa nazione dipende dal grado di sviluppo della sua produzione e delle sue relazioni interne ed esterne. Il grado di sviluppo delle forze produttive di una nazione è indicato nella maniera più chiara dal grado di sviluppo a cui è giunta la divisione del lavoro. Ogni nuova forza produttiva, che non sia un'estensione puramente 25 Gli individui non sono astratti o dati in sé, ma determinati dalle condizioni storiche, sociali, economiche, politiche, etc. sia già esistenti sia prodotte dalla loro stessa azione. 26 Riferimento a Essenza del cristianesimo di Feuerbach 9 quantitativa delle forze produttive già note (per esempio di dissodamento di terreni), porta come conseguenza un nuovo sviluppo nella divisione del lavoro. La divisione del lavoro all'interno di una nazione porta con sé innanzi tutto la separazione del lavoro industriale e commerciale dal lavoro agricolo e con ciò la separazione fra città e campagna e il contrasto dei loro interessi. Il suo ulteriore sviluppo porta alla separazione del lavoro commerciale da quello industriale. In pari tempo, attraverso la divisione del lavoro all'interno di questi diversi rami, si sviluppano a loro volta suddivisioni diverse fra individui che cooperano a lavori determinati. La posizione reciproca di queste singole suddivisioni è condizionata dai metodi impiegati nel lavoro agricolo, industriale e commerciale (patriarcato, schiavitù, ordini, classi). Quando le relazioni sono più sviluppate, le stesse condizioni si manifestano nei rapporti fra diverse nazioni. I diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse della proprietà; vale a dire, ciascun nuovo stadio della divisione del lavoro determina anche i rapporti fra gli individui in relazione al materiale, allo strumento e al prodotto del lavoro. La prima forma di proprietà è la proprietà tribale. Essa corrisponde a quel grado non ancora sviluppato della produzione in cui un popolo vive di caccia e di pesca, dell'allevamento del bestiame o al massimo dell'agricoltura. In quest'ultimo caso è presupposta una grande massa dì terreni incolti. In questa fase la divisione del lavoro è ancora pochissimo sviluppata e non è che un prolungamento della divisione naturale del lavoro nella famiglia. L'organizzazione sociale quindi si limita ad essere un'estensione della famiglia: capi patriarcali della tribù, al disotto di essi i membri della tribù, e infine gli schiavi. La schiavitù, latente nella famiglia, comincia a svilupparsi a poco a poco con l'aumento della popolazione e dei bisogni, e con l'allargarsi delle relazioni esterne, così della guerra come del baratto. La seconda forma è la proprietà della comunità antica e dello Stato, che ha origine dall'unione di più tribù in una città, mediante patto o conquista, e in cui continua ad esistere la schiavitù. Accanto alla proprietà della comunità già si sviluppa la proprietà privata mobiliare e in seguito anche la immobiliare, che però è una forma anormale, subordinata alla proprietà della comunità. I membri dello Stato possiedono soltanto nella loro comunità il potere sui loro schiavi che lavorano, e già per questo sono legati alla forma della proprietà della comunità. È la proprietà privata posseduta in comune dai membri attivi dello Stato, i quali di fronte agli schiavi sono costretti a restare in questa forma naturale di associazione. Di conseguenza l'intera organizzazione sociale fondata su questa base, e con essa il potere del popolo, decadono nella misura in cui si sviluppa la proprietà privata immobiliare. La divisione del lavoro è già più sviluppata. Troviamo già l'antagonismo fra città e campagna, più tardi l'antagonismo fra Stati che rappresentano l'interesse della città e Stati che rappresentano quello della campagna, e all'interno delle stesse città l'antagonismo tra industria e commercio marittimo. Il rapporto di classe fra cittadini e schiavi è completamente sviluppato. Tutta questa concezione della storia sembra contraddetta dal fatto della conquista. Finora erano considerate forze motrici della storia la violenza, la guerra, il saccheggio, la rapina ecc. Possiamo qui limitarci ai punti principali e prendere quindi soltanto l'esempio che più balza agli occhi, la distruzione di un'antica civiltà ad opera di un popolo barbaro e il formarsi di una nuova organizzazione della società che ad essa si ricollega. (Roma e barbari, feudalesimo e Gallia, Impero Romano d'oriente e turchi). Nel popolo barbaro conquistatore la guerra stessa costituisce ancora, come già abbiamo accennato, una forma normale di relazioni, che viene sfruttata con tanto maggiore impegno quanto più l'aumento della popolazione, perdurando il rozzo modo di produzione tradizionale che per essa è l'unico possibile, crea il bisogno di nuovi mezzi di produzione. In Italia invece, a causa della concentrazione della proprietà fondiaria (provocata, oltre che dagli 10 acquisti e dai debiti, anche dalle eredità, perché data la grande dissolutezza e i rari matrimoni le antiche stirpi a poco a poco si estinguevano e i loro beni finivano nelle mani di pochi) e della sua trasformazione in pascolo (la quale fu provocata, oltre che dalle cause economiche ordinarie, valide ancor oggi, dall'importazione di cereali ricavati da saccheggi o da tributi e dalla conseguente mancanza di consumatori per il grano italico), la popolazione libera era quasi scomparsa, gli stessi schiavi a loro volta scomparivano e dovevano essere continuamente sostituiti da schiavi nuovi. La schiavitù restava la base dell'intera produzione. I plebei, che stavano fra i liberi e gli schiavi, non riuscirono mai ad elevarsi al di sopra della condizione di sottoproletariato. Roma non fu mai niente di più che una città ed era legata alle province da un rapporto quasi esclusivamente politico che naturalmente poteva anche essere spezzato da avvenimenti politici. Con lo sviluppo della proprietà privata appaiono qui per la prima volta quelle stesse condizioni che ritroveremo, soltanto in misura più estesa, nella proprietà privata moderna. Da una parte la concentrazione della proprietà privata, che a Roma cominciò molto presto (come prova la legge agraria licinia27) e procedette rapidamente a cominciare dalle guerre civili e soprattutto sotto gli imperatori; d'altra parte, e in relazione a ciò, la trasformazione dei piccoli contadini plebei in un proletariato che però, per la sua posizione intermedia fra cittadini possidenti e schiavi, non arrivò a uno sviluppo autonomo. La terza forma è la proprietà feudale o degli ordini. Mentre l'antichità muoveva dalla città e dalla sua piccola cerchia, il Medioevo muoveva dalla campagna. La popolazione allora esistente, scarsa e dispersa su una vasta superficie, debolmente incrementata dai conquistatori, determinò questo spostamento del punto di partenza. Al contrario della Grecia e di Roma, lo sviluppo feudale comincia quindi su un terreno molto più esteso, preparato dalle conquiste romane e dalla diffusione dell'agricoltura che originariamente ne dipende. Gli ultimi secoli del cadente Impero Romano e la stessa conquista dei barbari distrussero una grande quantità di forze produttive; l'agricoltura era caduta in abbandono, l'industria rovinata per mancanza di sbocco, il commercio intorpidito o violentemente troncato, la popolazione della campagna e delle città era diminuita. Queste condizioni preesistenti e il modo come fu organizzata la conquista, da quelle condizionato, provocarono, sotto l'influenza della costituzione militare germanica, lo sviluppo della proprietà feudale. Come la proprietà tribale e la proprietà della comunità anch'essa poggia su una comunità alla quale sono contrapposti come classe direttamente produttrice non gli schiavi, come per la proprietà antica, bensì i piccoli contadini asserviti. Insieme col completo sviluppo del feudalesimo compare anche l'antagonismo con le città. L'organizzazione gerarchica del possesso fondiario e le relative compagnie armate davano alla nobiltà il potere sui servi della gleba. Questa organizzazione feudale era un'associazione opposta alle classi produttrici, precisamente come la proprietà della comunità antica; solo che la forma dell'associazione e il rapporto con i produttori diretti erano diversi, perché esistevano condizioni di produzione diverse. A questa organizzazione feudale del possesso fondiario corrispondeva nelle città la proprietà corporativa, l'organizzazione feudale dell'artigianato. Qui la proprietà consisteva principalmente nel lavoro di ciascun singolo. La necessità di associarsi contro la rapace nobiltà associata, il bisogno di mercati coperti comuni in un tempo in cui l'industriale era insieme mercante, la crescente concorrenza dei servi della gleba fuggitivi che affluivano nelle città fiorenti, l'organizzazione feudale dell'intero paese, portarono alle corporazioni; i piccoli capitali risparmiati a poco a poco da singoli artigiani e il loro numero stabile in seno a una popolazione 27 Legge del 367 A.C proposta dal tribuno Gaio Licinio Stolone che stabiliva un limite alla proprietà fondiaria. 11 crescente fecero sviluppare il rapporto di garzone e di apprendista, che dette origine a una gerarchia simile a quella esistente nelle campagne. Nell'età feudale dunque la proprietà principale consisteva da una parte nella proprietà fondiaria col lavoro servile che vi era legato, dall'altra nel lavoro personale con un piccolo capitale che si assoggettava il lavoro dei garzoni. L'organizzazione dell'una e dell'altro era condizionata dalle ristrette condizioni della produzione: la limitata e rozza coltura della terra e l'industria di tipo artigianale. Durante il fiorire del feudalesimo la divisione del lavoro era assai limitata. Ogni paese portava in sé l'antagonismo di città e campagna; l'organizzazione in ordini era fortemente marcata, ma al di fuori della separazione fra principi, nobiltà, clero e contadini nelle campagne, e fra maestri, garzoni, apprendisti e ben presto anche plebei a giornata nelle città, non esisteva alcuna divisione di rilievo. Nell'agricoltura vi si opponeva la coltivazione parcellare, accanto alla quale sorgeva l'industria domestica degli stessi contadini, nell'industria il lavoro non era affatto diviso all'interno dei singoli mestieri, pochissimo diviso fra un mestiere e l'altro. La divisione fra industria e commercio preesisteva nelle città più antiche, mentre nelle nuove si sviluppava lentamente, quando fra esse si stabilivano rapporti. L'unificazione di più vasti paesi in regni feudali era un bisogno tanto per la nobiltà terriera quanto per le città. L'organizzazione della classe dominante, la nobiltà, ebbe quindi dappertutto al suo vertice un monarca. Il fatto è dunque il seguente: individui determinati che svolgono un'attività produttiva secondo un modo determinato entrano in questi determinati rapporti sociali e politici. In ogni singolo caso l'osservazione empirica deve mostrare empiricamente e senza alcuna mistificazione e speculazione il legame fra l'organizzazione sociale e politica e la produzione. L'organizzazione sociale e lo Stato risultano costantemente dal processo della vita di individui determinati; ma di questi individui, non quali possono apparire nella rappresentazione propria o altrui, bensì quali sono realmente, cioè come operano e producono materialmente, e dunque agiscono fra limiti, presupposti e condizioni materiali determinate e indipendenti dalla loro volontà. La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata alla attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc. di un popolo. Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi corrispondono fino alle loro formazioni più estese. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita28. Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico. Esattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte 28 Cfr. K. Marx, “ Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza” Introduzione a Per la critica dell'economia politica 12 dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre la parvenza dell’autonomia. Esse non hanno storia29, non hanno sviluppo, ma sono gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza. Nel primo modo di giudicare si parte dalla coscienza come individuo vivente, nel secondo modo, che corrisponde alla vita reale, si parte dagli stessi individui reali viventi e si considera la coscienza soltanto come la loro coscienza. Questo modo di giudicare non è privo di presupposti. Esso muove dai presupposti reali e non se ne scosta per un solo istante. I suoi presupposti sono gli uomini, non in qualche modo isolati e fissati fantasticamente, ma nel loro processo di sviluppo, reale ed empiricamente constatabile, sotto condizioni determinate. Non appena viene rappresentato questo processo di vita attivo, la storia cessa di essere una raccolta di fatti morti, come negli empiristi che sono anch’essi astratti, o un’azione immaginaria di soggetti immaginari, come negli idealisti. Là dove cessa la speculazione, nella vita reale, comincia dunque la scienza reale e positiva, la rappresentazione dell’attività pratica, del processo pratico di sviluppo degli uomini. Cadono le frasi sulla coscienza e al loro posto deve subentrare il sapere reale. Con la rappresentazione della realtà la filosofia autonoma perde i suoi mezzi d’esistenza30. Al suo posto può tutt’al più subentrare una sintesi dei risultati più generali che è possibile astrarre dall’esame dello sviluppo storico degli uomini. Di per sé, separate dalla storia reale, queste astrazioni non hanno assolutamente valore. Esse possono servire soltanto a facilitare l’ordinamento del materiale storico, a indicare la successione dei suoi singoli strati. Ma non danno affatto, come la filosofia, una ricetta o uno schema sui quali si possano ritagliare e sistemare le epoche storiche. La difficoltà comincia, al contrario, quando ci si dà allo studio e all’ordinamento del materiale, sia di un’epoca passata che del presente, a esporlo realmente. Il superamento di queste difficoltà è condizionato da presupposti che non possono affatto essere enunciati in questa sede, ma che risultano soltanto dallo studio del processo reale della vita e dell’azione degli individui di ciascuna epoca. Qui prenderemo alcune di queste astrazioni di cui ci serviamo nei confronti dell’ideologia e le illustreremo con esempi storici. La storia Con gente priva di presupposti come i tedeschi dobbiamo cominciare col constatare il primo presupposto di ogni esistenza umana, e dunque di ogni storia, il 29 Cioè non hanno uno sviluppo autonomo. La filosofia, come pura ricerca speculativa non ha più ragione di esistere. “si lascia correre la verità assoluta, che per questa via e da ogni singolo isolatamente non può essere raggiunta, e si dà la caccia invece alle verità relative accessibili per la via delle scienze positive e della sintesi dei loro risultati a mezzo del pensiero dialettico. Con Hegel ha fine, in generale, la filosofia; da una parte perché egli, nel suo sistema, ne riassume l'evoluzione nella maniera più grandiosa, dall'altra perché egli, sia pur inconsapevolmente, ci mostra la via che da questo labirinto di sistemi ci porta alla vera conoscenza positiva del mondo. (F. Engels, “Ludovico Feuerbach”) 30 13 presupposto cioè che per poter « fare storia » gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e bere, l'abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente un'azione storica, una condizione fondamentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini. Anche riducendo la sensibilità al minimo magari a un bastone come nel caso di san Bruno, essa presuppone l'attività della produzione di questo bastone. In ogni concezione della storia dunque il primo punto è che si osservi questo dato di fatto fondamentale in tutta la sua importanza e in tutta la sua estensione e che gli si assegni il posto che gli spetta. Ma i tedeschi notoriamente non l'hanno mai fatto e perciò non hanno mai avuto una base terrena per la storia e di conseguenza non hanno mai avuto uno storico. I francesi e gli inglesi, pur avendo compreso tutt'al più in misura solo parziale il legame fra questo fatto e la cosiddetta storia, specialmente allorché si trovavano imprigionati nell'ideologia politica, hanno fatto però i primi tentativi per dare alla storiografia una base materialistica, scrivendo per primi storie della società civile, del commercio e dell'industria. Il secondo punto è che il primo bisogno soddisfatto, l'azione del soddisfarlo e lo strumento già acquistato di questo soddisfacimento portano a nuovi bisogni: e questa produzione di nuovi bisogni è la prima azione storica. Il che indica anche di che pasta sia fatta la grande saggezza storica dei tedeschi i quali, là dove viene loro a mancare il materiale positivo e non si agitano assurdità teologiche, politiche o letterarie, affermano che non ha luogo la storia ma i « tempi preistorici », senza però spiegarci come da questa assurdità della «preistoria» si passi nella storia vera e propria; nonostante che, d'altra parte, la loro speculazione storica ami in modo tutto speciale gettarsi su questa « preistoria », perché ritiene di trovarvisi più al sicuro dalle intromissioni del « fatto bruto » e insieme perché qui essa può allentare completamente le redini al suo impulso speculativo e creare e distruggere ipotesi a migliaia. Il terzo rapporto che interviene fino dalle prime origini nello sviluppo storico, è che gli uomini, i quali rifanno ogni giorno la loro propria vita, cominciano a fare altri uomini, a riprodursi; è il rapporto fra uomo e donna, tra genitori e figli: la famiglia. Questa famiglia, che da principio è l'unico rapporto sociale, diventa più tardi, quando gli aumentati bisogni creano nuovi rapporti sociali e l'aumentato numero della popolazione crea nuovi bisogni, un rapporto subordinato (tranne che in Germania) e deve allora essere trattata e spiegata in base ai dati empirici esistenti, non in base al « concetto della famiglia » come si suol fare in Germania31. D’altronde questi tre aspetti dell’attività sociale non vanno concepiti come tre gradi diversi, ma appunto solo come tre aspetti, o come tre « momenti » (tanto per scrivere in maniera chiara per i tedeschi), i quali 31 Costruzione di case. Presso i selvaggi è cosa ovvia che ciascuna famiglia abbia la sua propria grotta o capanna, come presso i nomadi la tenda separata di ciascuna famiglia. Questa economia domestica separata è resa ancor più necessaria dal successivo sviluppo della proprietà privata. Presso i popoli agricoltori l’economia domestica collettiva è altrettanto impossibile quanto la coltivazione collettiva della terra. Un grande progresso fu la costruzione di città. In tutti i periodi del passato tuttavia l’abolizione dell’economia separata, che è inseparabile dall’abolizione della proprietà privata, era impossibile se non altro perché non ne esistevano le condizioni materiali. L’istituzione di una economia domestica collettiva presuppone lo sviluppo delle macchine, dell’utilizzazione delle forze produttive — per esempio gli acquedotti, l’illuminazione a gas, il riscaldamento a vapore ecc. — e l’abolizione di città e campagne. Senza queste condizioni l’economia collettiva non sarebbe neppure una nuova forza produttiva, mancherebbe di qualsiasi base materiale, poggerebbe su un fondamento puramente teorico, cioè sarebbe un puro capriccio e condurrebbe a un’economia claustrale. Quel che era possibile appare nella concentrazione in città e nella costruzione di case collettive per scopi determinati (prigioni, caserme ecc.). Che l’abolizione dell’economia separata sia inseparabile dall’abolizione della famiglia è cosa che s’intende da sé. (Nota di Marx e Engels) 14 sono esistiti fin dall’inizio della storia e fin dai primi uomini e ancor oggi hanno il loro peso nella storia. La produzione della vita, tanto della propria nel lavoro quanto dell’altrui nella procreazione, appare già in pari tempo come un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall’altra, sociale nel senso che si attribuisce a una cooperazione di più individui, non importa sotto quali condizioni, in quale modo e per quale scopo. Da ciò deriva che un modo di produzione o uno stadio industriale determinato è sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato, e questo modo di cooperazione è anche esso una « forza produttiva »; ne deriva che la quantità delle forze produttive accessibili agli uomini condiziona la situazione sociale e che dunque la «storia dell’umanità» deve essere sempre studiata e trattata in relazione con la storia dell’industria e dello scambio. Ma è anche chiaro come in Germania sia impossibile scrivere la storia in questo modo, perché ai tedeschi mancano non soltanto la capacità intellettiva e il materiale necessari, ma anche la « certezza sensibile », e al di là del Reno non si possono fare esperienze di queste cose perché laggiù la storia non va più avanti. Appare già dunque, fin dall’origine, un legame materiale fra gli uomini, il quale è condizionato dai bisogni e dal modo della produzione ed è antico quanto gli stessi uomini; un legame che assume sempre nuove forme e dunque presenta una « storia », anche senza che esista alcun non-senso politico o religioso fatto apposta per tenere congiunti gli uomini. Solo a questo punto, dopo avere già considerato quattro momenti, quattro aspetti delle condizioni storiche originarie, troviamo che l’uomo ha anche una « coscienza »32 . Ma anche questa non esiste, fin dall’inizio, come « pura » coscienza. Fin dall’inizio lo « spirito» porta in sé la maledizione di essere « infetto » della materia, che si presenta qui sotto forma di strati d’aria agitati, di suoni, e insomma di linguaggio. Il linguaggio è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini. Là dove un rapporto esiste, esso esiste per me; l’animale non « ha rapporti » con alcunché e non ha affatto rapporti. Per l’animale, i suoi rapporti con altri non esistono come rapporti. La coscienza è dunque fin dall’inizio un prodotto sociale e tale resta fin tanto che in genere esistono uomini. Naturalmente, la coscienza è innanzi tutto semplice coscienza dell’ambiente sensibile immediato e del limitato legame con altre persone e cose esterne all’individuo che prende coscienza di sé; in pari tempo è coscienza della natura, che inizialmente si erge di contro agli uomini come una potenza assolutamente estranea, onnipotente e inattaccabile, verso la quale gli uomini si comportano in modo puramente animale e dalla quale si lasciano dominare come le bestie: è dunque una coscienza puramente animale della natura (religione naturale). Qui si vede subito che questa religione naturale, o questo determinato comportarsi verso la natura, è condizionato dalla forma sociale e viceversa. Qui, come dappertutto, l'identità di natura e uomo emerge anche in ciò, che il comportamento limitato degli uomini verso la natura condiziona il comportamento limitato fra uomini e uomini, condiziona i loro rapporti limitati con la natura, appunto perché la natura non è stata ancora quasi modificata storicamente, e d'altra parte la coscienza della necessità di stabilire dei contatti con gli individui circostanti, costituisce per l'uomo la prima coscienza che vive in una società. Questo inizio è di natura animale come la stessa vita sociale a questo stadio, è pura coscienza da gregge, e l’uomo a questo punto si distingue dal montone soltanto perché il suo è un istinto cosciente. Questa coscienza da montone 32 Gli uomini hanno una storia perché debbono produrre la propria vita, e la devono precisamente produrre in una maniera determinata: ciò è dovuto alla loro organizzazione fisica così come alla loro coscienza. (Nota di Marx) 15 o tribale perviene a uno sviluppo e a un perfezionamento ulteriore in virtù dell’accresciuta produttività, dell’aumento dei bisogni e dell’aumento della popolazione che sta alla base dell’uno e dell’altro fenomeno. Si sviluppa così la divisione del lavoro, che in origine era niente altro che la divisione del lavoro nell’atto sessuale, e poi la divisione del lavoro che si produce spontaneamente o « naturalmente » in virtù della disposizione naturale (per esempio la forza fisica), del bisogno, del caso, ecc. La divisione del lavoro diventa una divisione reale solo dal momento in cui interviene una divisione fra il lavoro manuale e il lavoro mentale. Da questo momento in poi la coscienza può realmente figurarsi di essere qualche cosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa senza concepire alcunché di reale: da questo momento la coscienza è in grado di emanciparsi dal mondo e di passare a formare la « pura » teoria, teologia, filosofia, morale, ecc. Ma anche quando questa teoria, teologia, filosofia, morale, ecc. entrano in contraddizione con i rapporti esistenti, ciò può accadere soltanto per il fatto che i rapporti sociali esistenti sono entrati in contraddizione con le forze produttive esistenti; d’altra parte in una determinata cerchia nazionale di rapporti ciò può anche accadere per essersi prodotta la contraddizione non all’interno di questa cerchia nazionale, ma fra questa coscienza nazionale e la coscienza universale di una nazione. D’altronde è del tutto indifferente quel che la coscienza si mette a fare per conto suo; da tutta questa porcheria ricaviamo, come unico risultato, che questi tre momenti, la forza produttiva, la situazione sociale e la coscienza, possono e debbono entrare in contraddizione fra loro, perché con la divisione del lavoro si dà la possibilità, anzi la realtà, che l’attività spirituale e l’attività materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo tocchino a individui diversi, e la possibilità che essi non entrino in contraddizione sta solo nel tornare ad abolire la divisione del lavoro. E’ di per sé evidente, del resto, che i « fantasmi », i «vincoli», l’«essere superiore », il « concetto », la « irresolutezza », altro non sono che l’espressione spirituale idealistica, la rappresentazione apparentemente dell’individuo isolato, in realtà di ceppi e barriere molto empirici entro i quali si muovono il modo di produzione della vita e la forma di relazioni che vi è connessa. La divisione del lavoro, che implica tutte queste contraddizioni e che a sua volta è fondata sulla divisione naturale del lavoro nella famiglia e sulla separazione della società in singole famiglie opposte l’una all’altra, implica in pari tempo anche la ripartizione, e precisamente la ripartizione ineguale, sia per quantità che per qualità, del lavoro e dei suoi prodotti, e quindi la proprietà, che ha già il suo germe, la sua prima forma, nella famiglia, dove la donna e i figli sono gli schiavi dell’uomo. La schiavitù nella famiglia, che certamente è ancora molto rudimentale e allo stato latente, è la prima proprietà, che del resto in questa fase corrisponde già perfettamente alla definizione degli economisti moderni, secondo cui essa consiste nel disporre di forza-lavoro altrui. Del resto divisione del lavoro e proprietà privata sono espressioni identiche: con la prima si esprime in riferimento all’attività esattamente ciò che con l’altra si esprime in riferimento al prodotto dell’attività. Inoltre con la divisione del lavoro è data altresì la contraddizione fra l’interesse del singolo individuo o della singola famiglia e l’interesse collettivo di tutti gli individui che hanno rapporti reciproci; e questo interesse collettivo non esiste puramente nell’immaginazione, come «universale », ma esiste innanzi tutto nella realtà come dipendenza reciproca degli individui fra i quali il lavoro è diviso. E infine la divisione del lavoro offre anche il primo esempio del fatto che gli uomini si trovano nella società naturale, fintanto che esiste, quindi, la scissione fra interesse particolare e interesse comune, fin tanto che l'attività, quindi, è divisa non volontariamente ma naturalmente, l'azione propria dell'uomo diventa una potenza a lui estranea, che lo sovrasta, che lo soggioga,invece di essere da lui dominata. Cioè appena il lavoro comincia ad essere diviso ciascuno ha una sfera di attività 16 determinata ed esclusiva che gli viene imposta e dalla quale non può sfuggire: è cacciatore, pescatore, o pastore, o critico, e tale deve restare se non vuol perdere i mezzi per vivere; laddove nella società comunista, in cui ciascuno non ha una sfera di attività esclusiva ma può perfezionarsi in qualsiasi ramo a piacere , la società regola la produzione generale e appunto in tal modo mi rende possibile di fare oggi questa cosa, domani quell'altra, la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare, così come mi vien voglia; senza diventare né cacciatore, né pescatore, né pastore, né critico. Questo fissarsi dell'attività sociale, questo consolidamento del nostro proprio prodotto in un potere obiettivo che ci sovrasta, che cresce fino a sfuggire al nostro controllo, che contraddice le nostre aspettative, che annienta i nostri calcoli, è stato fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo storico, e appunto da questo antagonismo fra interesse particolare e interesse collettivo l’interesse collettivo prende una configurazione autonoma come Stato, separato dai reali interessi singoli e generali, e in pari tempo come comunità illusoria, ma sempre sulla base reale di legami esistenti in ogni conglomerato familiare e tribale, come la carne e il sangue, la lingua, la divisione del lavoro accentuata e altri interessi, e soprattutto — come vedremo più in particolarmente in seguito — sulla base delle classi già determinate dalla divisione del lavoro, che si differenziano in ogni raggruppamento umano di questo genere e delle quali una domina tutte le altre. Ne consegue che tutte le lotte nell’ambito dello Stato, la lotta fra democrazia, aristocrazia e monarchia, la lotta per il diritto di voto, ecc. ecc., altro non sono che le forme illusorie nelle quali vengono condotte le lotte reali delle diverse classi (del quale fatto i teorici tedeschi non hanno il più vago sentore, benché negli Annuari tedesco-francese e nella Sacra famiglia33 si siano date loro in proposito indicazioni sufficienti), e inoltre che ogni classe la quale aspiri al dominio, anche quando, come nel caso del proletariato, il suo dominio implica il superamento di tutta la vecchia forma della società e del dominio in genere, deve dapprima conquistarsi il potere politico per rappresentare a sua volta il suo interesse come l’universale, essendovi costretta in un primo momento. Appunto perché gli individui cercano soltanto il loro particolare interesse, che per loro non coincide col loro interesse collettivo, questo viene imposto come un interesse « generale», anch’esso a sua volta particolare e specifico, ad essi « estraneo » e da essi« indipendente», o gli stessi individui devono muoversi in questo dissidio, come nella democrazia. Giacché d’altra parte anche la lotta pratica di questi interessi particolari che sempre si oppongono realmente agli interessi collettivi e illusoriamente collettivi rende necessario l’intervento pratico e l’imbrigliamento da parte dell’interesse «generale» illusorio sotto forma di Stato. Il potere sociale, cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine attraverso la cooperazione dei diversi individui, determinata nella divisione del lavoro, appare a questi individui, poiché la cooperazione stessa non è volontaria ma naturale, non come il loro proprio potere unificato, ma come una potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale essi non sanno donde viene e dove va, che quindi non possono più dominare e che al contrario segue una sua propria successione di fasi e di gradi di sviluppo la quale è indipendente dal volere e dall’agire degli uomini e anzi dirige questo volere e agire. Questa « estraniazione »; per usare un termine comprensibile ai filosofi, naturalmente può essere superata soltanto sotto due condizioni pratiche. Affinché essa diventi un potere «insostenibile», cioè un potere contro il quale si agisce per via rivoluzionaria, occorre che essa abbia reso la massa dell’umanità affatto « priva di proprietà » e l’abbia posta altresì in contraddizione con un mondo esistente della ricchezza e della cultura, due condizioni che presuppongono un grande incremento 33 Si tratta di due opere di Marx 17 della forza produttiva, un alto grado del suo sviluppo; e d’altra parte questo sviluppo delle forze produttive (in cui è già implicita l’esistenza empirica degli uomini sul piano della storia universale, invece che sul piano locale) è un presupposto pratico assolutamente necessario anche perché senza di esso si generalizzerebbe soltanto la miseria e quindi col bisogno ricomincerebbe anche il conflitto per il necessario e ritornerebbe per forza tutta la vecchia merda, e poi perché solo con questo sviluppo universale delle forze produttive possono aversi relazioni universali fra gli uomini, ciò che da una parte produce il fenomeno della massa « priva di proprietà » contemporaneamente in tutti i popoli (concorrenza generale), fa dipendere ciascuno di essi dalle rivoluzioni degli altri, e infine sostituisce agli individui locali individui inseriti nella storia universale, individui empiricamente universali. Senza di che 1) il comunismo potrebbe esistere solo come fenomeno locale, 2) le stesse potenze dello scambio non si sarebbero potute sviluppare come potenze universali, e quindi insostenibili, e sarebbero rimaste « circostanze » relegate nella superstizione domestica, 3) ogni allargamento delle relazioni sopprimerebbe il comunismo locale. Il comunismo è possibile empiricamente solo come azione dei popoli dominanti tutti in «una volta » e simultaneamente, ciò che presuppone lo sviluppo universale della forza produttiva e le relazioni mondiali che il comunismo implica. Altrimenti, per esempio, come avrebbe potuto la proprietà avere una storia qualsiasi, assumere forme diverse, e la proprietà fondiaria, a seconda dei diversi presupposti esistenti, spingere in Francia dalla suddivisione parcellare alla concentrazione in poche mani, e in Inghilterra dalla concentrazione in poche mani alla suddivisione parcellare, come oggi accade realmente? Ovvero come avviene che il commercio, il quale pur non è altro che lo scambio dei prodotti di individui e paesi diversi, attraverso il rapporto di domanda e di offerta domina il mondo intero — un rapporto che, come dice un economista inglese, simile all’antico fato sovrasta la terra e con mano invisibile ripartisce fortuna e disgrazia fra gli uomini, edifica e distrugge regni, fa sorgere e scomparire popoli — mentre con l’abolizione della base, la proprietà privata, con l’ordinamento comunistico della produzione e con la conseguente eliminazione di quell’estraneità che impronta le relazioni degli uomini con il loro proprio prodotto, la potenza del rapporto di domanda e di offerta si dilegua e gli uomini riprendono in loro potere lo scambio, la produzione, il modo del loro reciproco comportarsi? Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente. Le condizioni di questo movimento risultano dal presupposto ora esistente34. D’altronde la massa di semplici operai — forza lavorativa privata in massa del capitale o di qualsiasi limitato soddisfacimento — e quindi anche la perdita non più temporanea di questo stesso lavoro come fonte di esistenza assicurata, presuppone, attraverso la concorrenza, il mercato mondiale. Il proletariato può dunque esistere soltanto sul piano della storia universale, così come il comunismo, che è la sua azione, non può affatto esistere se non come esistenza « storica universale ». Esistenza storica universale degli individui, cioè esistenza degli individui che è legata direttamente alla storia universale. La forma di relazioni determinata dalle forze produttive esistenti in tutti gli stadi storici finora succedutisi, e che a sua volta le determina, è la società civile, la quale, come già risulta da quanto precede, ha come presupposto e fondamento la 34 Critica al comunismo precedente, definito da Marx “utopistico”, che si rappresentava attraverso categorie ideali, senza tener conto delle condizioni materiali per realizzarsi. 18 famiglia semplice e la famiglia composta, il cosiddetto ordinamento tribale, e nei suoi particolari è stata definita più sopra. Qui già si vede che questa società civile è il vero focolare, il teatro di ogni storia, e si vede quanto sia assurda la concezione della storia finora corrente, che si limita alle azioni di capi e di Stati e trascura i rapporti reali. La società civile comprende tutto il complesso delle relazioni materiali fra gli individui all'interno di un determinato grado di sviluppo delle forze produttive. Essa comprende tutto il complesso della vita commerciale e industriale di un grado di sviluppo e trascende quindi lo stato e la nazione, benchè, d'altra parte debba nuovamente affermarsi verso l'esterno come nazionalità e organizzarsi verso l'interno come Stato. Il termine società civile sorse nel secolo diciottesimo quando i rapporti di proprietà si erano già fatti strada fuori dal tipo di comunità antico medievale. La società civile come tale comincia a svilupparsi con la borghesia; tuttavia l'organizzazione sociale sviluppatasi immediatamente dalla produzione e dagli scambi, la quale forma in tutti i tempi la base dello stato e di ogni sovrastruttura idealistica, continua ad essere chiamata con lo stesso nome. Sulla produzione della coscienza Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l’allargarsi dell’attività sul piano storico universale, sono stati sempre asserviti a un potere a loro estraneo (oppressione che essi si sono rappresentati come un dispetto del cosiddetto spirito del mondo ecc.), a un potere che è diventato sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale. Ma è altrettanto empiricamente dimostrato che col rovesciamento dello stato attuale della società attraverso la rivoluzione comunista (di cui parleremo più avanti) e l’abolizione della proprietà privata che con essa si identifica, questo potere così misterioso per i teorici tedeschi verrà liquidato, e allora verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la storia si trasforma completamente in storia universale. Che la ricchezza spirituale reale dell’individuo dipenda interamente dalla ricchezza delle sue relazioni reali, è chiaro dopo quanto si è detto. Soltanto attraverso quel passo i singoli individui vengono liberati dai vari limiti nazionali e locali, posti in relazione pratica con la produzione (anche spirituale) di tutto il mondo e messi in condizione di acquistare la capacità di godere di questa produzione universale di tutta la terra (creazioni degli uomini). La dipendenza universale, questa forma spontanea della cooperazione degli individui su piano storico universale, è trasformata da questa rivoluzione comunista nel controllo e nel dominio cosciente di queste forze le quali, prodotte dal reciproco agire degli uomini, finora si sono imposte ad essi e li hanno dominati come forze assolutamente estranee. Questa concezione può a sua volta essere formulata in maniera speculativo-idealistica, ossia fantasticamente, come «autoproduzione della specie» (la «società come soggetto») e quindi la serie susseguentesi di individui che stanno in connessione può essere immaginata come un singolo individuo che compie il mistero di produrre se stesso. Appare qui che gli individui, certo, si fanno l’un l’altro, fisicamente e spiritualmente, ma non fanno se stessi, né nel nonsenso di san Bruno né nel senso dell’« unico », dell’uomo « fatto ». Questa concezione della storia si fonda dunque su questi punti: spiegare il processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni che è connessa con quel modo di produzione e che da esso è generata, dunque la società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla nella sua azione come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, religione, filosofia, morale, ecc. ecc. e seguire sulla base di queste il processo della sua origine, ciò che consente naturalmente 19 anche di rappresentare la cosa nella sua totalità (e quindi anche la reciproca influenza di questi lati diversi l’uno sull’altro). Essa non deve cercare in ogni periodo una categoria, come la concezione idealistica della storia, ma resta salda costantemente sul terreno storico reale, non spiega la prassi partendo dall’idea, ma spiega le formazioni di idee partendo dalla prassi materiale, e giunge di conseguenza anche al risultato che tutte le forme e prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nell’« autocoscienza » o trasformandoli in « spiriti », « fantasmi », « spettri », ecc., ma solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti, dai quali queste fandonie idealistiche sono derivate; che non la critica, ma la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria35. Essa mostra che la storia non finisce col risolversi nella « autocoscienza » come « spirito dello spirito », ma che in essa ad ogni grado si trova un risultato materiale, una somma di forze produttive, un rapporto storicamente prodotto con la natura e degli individui fra loro, che ad ogni generazione è stata tramandata dalla precedente una massa di forze produttive, capitali e circostanze, che da una parte può senza dubbio essere modificata dalla nuova generazione, ma che d’altra parte impone ad essa le sue proprie condizioni di vita e le dà uno sviluppo determinato, uno speciale carattere; che dunque le circostanze fanno gli uomini non meno di quanto gli uomini facciano le circostanze. Questa somma di forze produttive, di capitali e di forme di relazioni sociali, che ogni individuo e ogni generazione trova come qualche cosa di dato, è la base reale di ciò che i filosofi si sono rappresentati come « sostanza » ed « essenza dell’uomo », di ciò che essi hanno divinizzato e combattuto, una base reale che non è minimamente disturbata, nei suoi effetti e nei suoi influssi sulla evoluzione degli uomini, dal fatto che questi filosofi, in quanto « autocoscienza » e « unico », si ribellano ad essa. Queste condizioni di vita preesistenti in cui le varie generazioni vengono a trovarsi decidono anche se la scossa rivoluzionaria periodicamente ricorrente nella storia sarà o no abbastanza forte per rovesciare la base di tutto ciò che è costituito, e qualora non vi siano questi elementi materiali per un rivolgimento totale, cioè da una parte le forze produttive esistenti, dall’altra la formazione di una massa rivoluzionaria che agisce rivoluzionariamente non solo contro alcune condizioni singole della società fino allora esistente, ma contro la stessa « produzione della vita » come è stata fino a quel momento, la « attività totale » su cui questa si fondava, allora è del tutto indifferente, per lo sviluppo pratico, se l’idea di questo rivolgimento sia già stata espressa mille volte: come dimostra la storia del comunismo. Finora tutta la concezione della storia ha puramente e semplicemente ignorato questa base reale della storia oppure l’ha considerata come un semplice fatto marginale, privo di qualsiasi legame con il corso storico. Per questa ragione si è sempre costretti a scrivere la storia secondo un metro che ne sta al di fuori; la produzione reale della vita appare come qualche cosa di preistorico, mentre ciò che è storico, inteso come qualche cosa che è separato dalla vita comune, appare come extra e sovramondano. Il rapporto dell’uomo con la natura è quindi escluso dalla storia, e con ciò è creato l’antagonismo, fra natura e storia. Questa concezione quindi ha visto nella storia soltanto azioni di capi, di Stati e lotte religiose e in genere teoriche, e in ogni epoca, in particolare, ha dovuto condividere l’illusione dell’epoca stessa. Se un’epoca, per esempio, immagina di essere determinata da motivi puramente « politici » o « religiosi », benché « religione » e « politica » siano soltanto forme dei suoi motivi reali, il suo storico accetta questa opinione. 35 Cfr. Marx e Engels, il Manifesto del Partito comunista: “La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi”. Non è un soggetto o un'idea che fa la storia, ma è la lotta di classe il motore della storia. 20 L’« immagine », la « rappresentazione » che questi determinati uomini si fanno della loro prassi reale viene trasformata nell’unica forza determinante e attiva che domina e determina la prassi di questi uomini. Se la forma rozza in cui la divisione del lavoro si presenta presso gli indiani e gli egiziani dà origine presso questi popoli al sistema delle caste nello Stato e nella religione, lo storico crede che il sistema delle caste sia la potenza che ha prodotto quella rozza forma di società. Mentre i francesi e gli inglesi per lo meno si fermano all’illusione politica, che è ancora la più vicina alla realtà, i tedeschi si muovono nel campo del « puro spirito » e fanno dell’illusione religiosa la forza motrice della storia. . . . La storia non è altro che la successione delle singole generazioni, ciascuna delle quali sfrutta i materiali, i capitali, le forze produttive che le sono stati trasmessi da tutte le generazioni precedenti, e quindi da una parte continua, in circostanze del tutto cambiate, l’attività che ha ereditato; d’altra parte modifica le vecchie circostanze con un’attività del tutto cambiata; è un processo che sul terreno speculativo viene distorto al punto di fare della storia successiva lo scopo della storia precedente, di assegnare per esempio alla scoperta dell’America lo scopo di favorire lo scoppio della Rivoluzione francese; per questa via poi la storia riceve i suoi scopi speciali e diventa una « persona accanto ad altre persone» (che sono: « autocoscienza, critica, unico », ecc.), mentre ciò che vien designato come « destinazione », « scopo », « germe », « idea » della storia anteriore altro non è che un’astrazione della storia posteriore, un’astrazione dell’influenza attiva che la storia anteriore esercita sulla successiva. A mano a mano poi che nel corso di questo sviluppo si allargano le singole sfere che agiscono l’una sull’altra, a mano a mano che l’originario isolamento delle singole nazionalità viene annullato dal modo di produzione sviluppato, dalle relazioni e dalla conseguente divisione naturale del lavoro fra le diverse nazioni, la storia diventa sempre più storia universale, cosicché, per esempio, se in Inghilterra viene inventata una macchina che riduce alla fame innumerevoli lavoratori in India e in Cina e sovverte tutta la forma di esistenza di questi imperi, questa invenzione diventa un fatto storico universale; oppure, lo zucchero e il caffè dimostrarono la loro importanza, storica universale nel secolo diciannovesimo, in quanto la mancanza di questi prodotti, provocata dal sistema continentale napoleonico, portò i tedeschi a insorgere contro Napoleone e divenne quindi la base reale delle gloriose guerre di liberazione del 1813. Da ciò segue che questa trasformazione della storia in storia universale è non già un semplice fatto astratto della « autocoscienza », dello spirito del mondo o di qualche altro fantasma metafisico, ma un fatto assolutamente materiale, dimostrabile empiricamente, un fatto dì cui ciascun individuo dà prova nell’andare e venire, nel mangiare, nel bere e nel vestirsi. Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio. Gli individui che compongono la classe dominante posseggono fra l’altro anche la coscienza, e quindi pensano; in quanto dominano come classe e determinano l’intero ambito di un’epoca storica, è evidente che essi lo fanno in tutta la loro estensione, e quindi fra l’altro dominano anche come pensanti, come produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo; è dunque evidente che le loro idee sono le idee dominanti dell’epoca. Per esempio: in un periodo e in un paese in cui potere monarchico, aristocrazia e borghesia lottano per il potere, il 21 quale quindi è diviso, appare come idea dominante la dottrina della divisione dei poteri, dottrina che allora viene enunciata come «legge eterna». La divisione del lavoro, che abbiamo già visto come una delle forze principali della storia finora trascorsa, si manifesta anche nella classe dominante come divisione del lavoro intellettuale e manuale, cosicché all’interno di questa classe una parte si presenta costituita dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali dell’elaborazione dell’illusione di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere principale), mentre gli altri nei confronti di queste idee e di queste illusioni hanno un atteggiamento più passivo e più ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi. All’interno di questa classe questa scissione può addirittura svilupparsi fino a creare fra le due parti una certa opposizione e una certa ostilità, che tuttavia cade da sé se sopraggiunge una collisione pratica che metta in pericolo la classe stessa: allora si dilegua anche la parvenza che le idee dominanti non siano le idee della classe dominante e abbiano un potere distinto dal potere di questa classe. L’esistenza di idee rivoluzionarie in una determinata epoca presuppone già l’esistenza di una classe rivoluzionaria sui cui presupposti abbiamo già detto quanto occorre. Se ora nel considerare il corso della storia si svincolano le idee della classe dominante dalla classe dominante e si rendono autonome, se ci si limita a dire che in un’epoca hanno dominato queste o quelle idee, senza preoccuparsi delle condizioni della produzione e dei produttori di queste idee, e se quindi si ignorano gli individui e le situazioni del mondo che stanno alla base di queste idee, allora si potrà dire per esempio che al tempo in cui dominava l’aristocrazia dominavano i concetti di onore, di fedeltà, ecc., e che durante il dominio della borghesia dominavano i concetti di libertà, di uguaglianza, ecc. Queste sono, in complesso, le immaginazioni della stessa classe dominante. Questa concezione della storia che è comune a tutti gli storici, particolarmente a partire dal diciottesimo secolo, deve urtare necessariamente contro il fenomeno che dominano idee sempre più astratte, cioè idee che assumono sempre più la forma dell’universalità. Infatti ogni classe che prenda il posto di un’altra che ha dominato prima è costretta, non fosse che per raggiungere il suo scopo, a rappresentare il suo interesse come interesse comune di tutti i membri della società, ossia, per esprimerci in forma idealistica, a dare alle proprie idee la forma dell’universalità, a rappresentarle come le sole razionali e universalmente valide. La classe rivoluzionaria si presenta senz’altro per il solo fatto che si contrappone a una classe, non come classe ma come rappresentante dell’intera società, appare come l’intera massa della società di contro all’unica classe dominante. Ciò le è possibile perché in realtà all’inizio il suo interesse è ancora più legato all’interesse comune di tutte le altre classi non dominanti, e sotto la pressione dei rapporti fino allora esistenti non si è ancora potuto sviluppare come interesse particolare di una classe particolare 36. La sua vittoria giova perciò anche a molti individui delle altre classi che non giungono al dominio, ma solo in quanto pone questi individui in condizione di ascendere nella classe dominante. Quando la borghesia francese rovesciò il dominio dell’aristocrazia, con ciò rese possibile a molti proletari di innalzarsi al di sopra del proletariato, ma solo in quanto essi diventarono borghesi. Quindi ogni nuova classe non fa che porre il suo dominio su una base più larga della precedente, per la qual cosa anche l’opposizione delle classi non dominanti contro quella ora dominante si sviluppa più tardi con tanto maggiore asprezza e profondità. Queste due circostanze fanno sì che la lotta da 36 L’universalità corrisponde: 1) alla classe contra ordine, 2) alla concorrenza, relazioni mondiali, ecc., 3) alla grande consistenza numerica della classe dominante, 4) all’illusione della comunità di interessi (inizialmente questa illusione è vera), 5) all’inganno degli ideologi e alla divisione del lavoro. (Nota di Marx). 22 condurre contro questa nuova classe dominante tenda a sua volta a una negazione della situazione sociale esistente più decisa e più radicale di quanto fosse possibile a tutte le classi che precedentemente avevano aspirato al dominio. Tutta questa parvenza, che il dominio di una determinata classe altro non sia che il dominio di certe idee, cessa naturalmente da sé non appena il dominio di classi in generale cessa di essere la forma dell’ordinamento sociale, non appena quindi non è più necessario rappresentare un interesse particolare come universale o « l’universale » come dominante. Una volta che le idee dominanti siano state separate dagli individui dominanti e soprattutto dai rapporti che risultano da un dato stadio del modo di produzione, e si sia giunti di conseguenza al risultato che nella storia dominano sempre le idee, è facilissimo astrarre da queste varie idee «l’idea », ecc., come ciò che domina nella storia e concepire così tutte queste singole idee e concetti come « autodeterminazioni » del concetto che si sviluppa nella storia. Allora è anche naturale che tutti i rapporti degli uomini possano venire ricavati dal concetto dell’uomo, dall’uomo quale viene rappresentato, dall’essenza dell’uomo, dall’uomo. È ciò che ha fatto la filosofia speculativa. Hegel arriva a confessare, alla fine della sua filosofia della storia, « di avere considerato soltanto il processo del concetto » e di avere esposto nella storia la « vera teodicea » . Si può quindi ritornare ai produttori « del concetto », ai teorici, agli ideologi e ai filosofi, e giungere quindi al risultato che i filosofi, i pensatori come tali, hanno dominato da sempre nella storia; un risultato che, come abbiamo visto, fu anche già espresso da Hegel. Quindi tutto il gioco di. abilità, per dimostrare la sovranità dello spirito nella storia (gerarchia in Stirner), si riduce ai seguenti tre efforts: 1) Si devono separare le idee di coloro che dominano per ragioni empiriche, sotto condizioni empiriche e come individui materiali, da questi dominatori, e con ciò riconoscere il dominio di idee o illusioni nella storia. 2) Si deve metter un ordine in questo dominio delle idee, dimostrare un nesso mistico fra le successive idee dominanti, al che si perviene considerandole come « autodeterminazioni del concetto » (la cosa è possibile perché fra queste idee, attraverso la loro base empirica, esiste realmente un nesso, e perché esse, concepite come pure idee, diventano autodistinzioni, distinzioni fatte dal pensiero). 3) Per eliminare l’aspetto mistico di questo « concetto autodeterminantesi », lo si trasforma in una persona — « l’autocoscienza » — oppure, per apparire perfetti materialisti, in una serie di persone che rappresentano « il concetto » nella storia, i « pensatori », i « filosofi », gli ideologi, i quali ancora una volta sono concepiti come i fabbricanti della storia, come il « consesso dei guardiani », come i dominatori. Con ciò si sono eliminati dalla storia tutti quanti gli elementi materialistici e si possono allentare tranquillamente le briglie al destriero speculativo. Questo metodo storiografico che dominava soprattutto in Germania, e specie perché vi ha dominato, va spiegato muovendo dalla sua connessione con l’illusione degli ideologi in genere, per esempio le illusioni dei giuristi, dei politici (ivi compresi i pratici uomini di Stato), dai vaneggiamenti dogmatici di codesti tipi; la quale illusione è semplicissimamente spiegata dalla loro posizione pratica nella vita, dal loro mestiere e dalla divisione del lavoro. http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1846/ideologia/index.htm 23 Manifesto del Partito comunista (1848)37 Borghesi e proletari Proletari e comunisti Uno spettro si aggira per l'Europa, lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa, il papa e lo zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi, si sono alleati in una santa caccia spietata contro questo spettro38. Quale è il partito d'opposizione, che non sia stato tacciato di comunista dai suoi avversari che si trovano al potere? E quale è il partito d'opposizione, che, alla sua volta, non abbia ritorto l'infamante accusa di comunista contro gli elementi più avanzati dell'opposizione o contro i suoi avversari reazionari? Da questo fatto si ricavano due conclusioni. Il comunismo è ormai riconosciuto come potenza da tutte le potenze europee. È ormai tempo che i comunisti espongano apertamente a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro scopi, le loro tendenze, e che alla fiaba dello spettro del comunismo contrappongano un manifesto del partito. A tal fine, comunisti delle più varie nazionalità si sono riuniti a Londra e hanno redatto il seguente manifesto, che viene pubblicato in lingua inglese, francese, tedesca, italiana, fiamminga e danese. Borghesi e proletari La storia di ogni società sinora esistita é storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in una parola oppressori e oppressi sono sempre stati in contrasto fra di loro, hanno sostenuto una lotta ininterrotta, a volte nascosta, a volte palese: una lotta che finì sempre a con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società. Nelle prime epoche della storia troviamo quasi dappertutto una completa divisione della società in varie caste, una multiforme gradazione delle posizioni sociali. Nell'antica Roma abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel Medioevo signori 37 I testo fu preparata da Karl Marx e Friedrich Engels fra il 1847 e il 1848 e pubblicata a Londra alla fine di febbraio del 1848 mentre l’assetto dell’Europa stava per essere travolto dalle rivoluzione del 1848. 38 Nella esemplificazione gli accostamenti hanno carattere antitetico, per porre in evidenza come nella caccia allo « spettro del comunismo » si ritrovano uniti governanti e uomini e partiti politici, peraltro divisi da concezioni sia religiose sia politiche. Il papa (Pio IX che aveva condannato il comunismo con l'enciclica Qui pluribus del 1846) si trova in compagnia dello zar ortodosso (Nicola I, che aveva represso nel sangue l'insurrezione di Cracovia del 1846, insurrezione democratica contro il cui programma si levò l'accusa di comunismo); il primo ministro austriaco Metternich (il gran cancelliere della Santa Alleanza, tenace sostenitore dell'assolutismo, che condusse una lotta senza quartiere contro idee e istituzioni liberali e si schierò contro ogni moto di indipendenza) stringe la mano a Guizot (liberale conservatore, che dal 1840 al 1848 diresse la politica estera del governo francese); i radicali francesi (cioè i repubblicani borghesi democratici del tempo che ebbero parte decisiva nella rivoluzione del febbraio 1848 a Parigi) vanno sotto braccio con i poliziotti tedeschi, tecnici della censura e della repressione della libertà di organizzazione non solo nei confronti dei comunisti ma anche dei liberali e dei radicali tedeschi. La spietata caccia allo spettro del comunismo viene definita « santa » per l'evidente richiamo alla vecchia « santa alleanza », stabilita nel 1815 dopo la caduta di Napoleone, tra do zar Alessandro I, l'imperatore d'Austria, e il re di Prussia, al fine di combattere in Europa le tendenze liberali e sostenere in Europa il potere assolutistico. 24 feudali, vassalli, maestri d'arte, garzoni, servi della gleba, e per di più in quasi ciascuna di queste classi altre speciali gradazioni. La moderna società borghese, sorta dalla rovina della società feudale, non ha eliminato i contrasti fra le classi. Essa ha soltanto posto nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta in luogo delle antiche. L’epoca nostra, l'epoca della borghesia, si distingue tuttavia perché ha semplificato i contrasti e classi. La società intera si va sempre più scindendo in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte l'una, all'altra: borghesia e proletariato. Dai servi della gleba del Medioevo uscirono i borghigiani delle prime città; da questi borghigiani ebbero sviluppo i primi elementi della borghesia. La scoperta dell'America e la circumnavigazione dell'Africa offrirono un nuovo terreno alla nascente borghesia. Il mercato delle Indie orientali e della Cina, la colonizzazione dell'America, lo scambio con le colonie, l'aumento dei mezzi di scambio e delle merci in generale, diedero un impulso prima d'allora sconosciuto al commercio, alla navigazione, all'industria, e in pari tempo favorirono il rapido sviluppo dell'elemento rivoluzionario in seno alla società feudale che s'andava sfasciando. L'organizzazione feudale o corporativa dell'industria da quel momento non bastò più ai bisogni, che andavano crescendo col crescere dei nuovi mercati. Subentrò la manifattura. I maestri di bottega vennero soppiantati dal medio ceto industriale; la divisione del lavoro tra le diverse corporazioni scomparve davanti alla divisione del lavoro nelle singole officine stesse. Ma i mercati continuavano a crescere, e continuavano a crescere i bisogni. Anche la manifattura non bastava più. Ed ecco il vapore e le macchine rivoluzionare la produzione industriale. Alla manifattura subentrò la grande industri moderna; al medio ceto industriale succedettero gli industriali milionari, i capi di interi eserciti industriali, i moderni borghesi. La grande industria ha creato quel mercato mondiale che la scoperta dell'America aveva preparato. Il mercato mondiale ha dato un immenso sviluppo al commercio, alla navigazione, alle comunicazioni per terra. Quello sviluppo, alla sua volta, ha reagito sull'espansione dell'industria; e in quella stessa misura in cui si sono andate estendendo l'industria, il commercio, la navigazione, le ferrovie, anche la borghesia si é sviluppata, ha aumentato i suoi capitali e sospinto nel retroscena tutte le classi che erano una eredità del Medioevo. Vediamo dunque come la stessa borghesia moderna sia il prodotto di un lungo processo di sviluppo, di una serie di sconvolgimenti nei modi della produzione e del traffico. Ognuno di questi stadi nello sviluppo della borghesia fu accompagnato da un corrispondente progresso politico. Ceto oppresso sotto il dominio dei signori feudali, associazione armata e autonoma del Comune, qui repubblica municipale indipendente, là terzo stato tributario della monarchia, poi, al tempo della manifattura, contrappeso alla nobiltà nella monarchia a poteri limitati39 o in quella assoluta, principale fondamento, in generale, delle grandi monarchie, col costituirsi della grande industria e del mercato mondiale, la borghesia si é impadronita finalmente della potestà politica esclusiva nel moderno Stato rappresentativo. Il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato, il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la classe borghese. La borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria. 39 Monarchia a potere limitato, cioè con gli «stati» (clero, nobiltà, • « terzo stato a, borghesia) rappresentati negli organi consultivi della monarchia. 25 Dove è giunta al potere, essa ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliache. Essa ha lacerato senza pietà i variopinti legami che nella società feudale avvincevano l'uomo ai suoi superiori naturali, e non ha lasciato tra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, lo spietato «pagamento in contanti ». Essa ha affogato nell'acqua gelida del calcolo egoistico i santi fremiti dell'esaltazione religiosa, dell'entusiasmo cavalleresco, della sentimentalità piccolo-borghese. Ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio; e in luogo delle innumerevoli franchigie faticosamente acquisite e patentate, ha posto la sola libertà di commercio senza scrupoli. In una parola, al posto dello sfruttamento velato da illusioni religiose e politiche, ha messo lo sfruttamento aperto, senza pudori, diretto e arido. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte quelle attività che per l'innanzi erano considerate degne di venerazione e di rispetto. Ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, lo scienziato in suoi operai salariati. La borghesia ha strappato il velo di tenero sentimentalismo che avvolgeva i rapporti di famiglia, e li ha ridotti a un semplice rapporto di denari La borghesia ha messo in chiaro come la brutale manifestazione di forza, che i reazionari tanto ammirano nel Medioevo, avesse il suo appropriato completamento nella più infingarda poltroneria. Essa per prima ha mostrato che cosa possa l'attività umana. Essa ha creato ben altre meraviglie che le piramidi. d'Egitto, gli acquedotti l romani e le cattedrali gotiche; essa ha fatto ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le Crociate. La borghesia non può esistere senza rivoluzionare di continuo gli strumenti di produzione, quindi i rapporti di produzione, quindi tutto l'insieme dei rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l'immutata conservazione dell'antico modo di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l'incessante scuotimento di tutte le condizioni sociali, l'incertezza e, il movimento eterni contraddistinguono l'epoca borghese da tutte le altre. Tutte le stabili e irrugginite condizioni di vita, con il loro seguito di opinioni e credenze rese venerabili dall'età, si dissolvono, e le nuove invecchiano prima ancora di aver potuto fare le ossa. Tutto ciò che vi era di stabilito e di rispondente ai vari ordini sociali si svapora, ogni cosa sacra viene sconsacrata e gli uomini sono finalmente costretti a considerare con occhi liberi da ogni illusione la loro posizione nella vita, i loro rapporti reciproci. Il bisogno di sbocchi sempre più estesi per i suoi prodotti spinge la borghesia per tutto il globo terrestre. Dappertutto essa deve ficcarsi, dappertutto stabilirsi, dappertutto stringere relazioni. Sfruttando il mercato mondiale la borghesia ha reso cosmopolita la produzione e il consumo di tutti i paesi. Con gran dispiacere dei reazionari, ha tolto all'industria la base nazionale. Le antichissime industrie nazionali sono state e vengono, di giorno in giorno, annichilite. Esse vengono soppiantate da nuove industrie, la cui introduzione é questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, industrie che non lavorano più materie prime indigene, bensí materie prime provenienti dalle regioni più remote, e i cui prodotti non si consumano soltanto nel paese, ma in tutte le parti del mondo. Al posto dei vecchi bisogni, a soddisfare i quali bastavano i prodotti nazionali, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. In luogo dell'antico isolamento locale e nazionale, per cui ogni paese bastava a se stesso, subentra un traffico universale, una universale dipendenza delle nazioni l'una dall'altra. E come nella produzione materiale, cosí anche nella spirituale. I prodotti spirituali delle singole nazioni diventano patrimonio comune. La unilateralità e la ristrettezza nazionale diventano sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali esce una letteratura mondiale. 26 Col rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà anche le nazioni più barbare. I tenui prezzi delle sue merci sono l'artiglieria pesante con cui essa abbatte tutte le muraglie cinesi, e con cui costringe a capitolare il più testardo odio dei barbari per lo straniero. Essa costringe tutte le nazioni ad adottare le forme della produzione borghese se non vogliono perire; le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza. Là borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha grandemente accresciuto la popolazione urbana in confronto con quella rurale, e cosí ha strappato una parte notevole della popolazione all'idiotismo della vita rustica. Come ha assoggettato la campagna alla città, cosí ha reso dipendenti dai popoli civili quelli barbari e semibarbari, i popoli contadini dai popoli borghesi, l'Oriente dall'Occidente. La borghesia sopprime sempre più il frazionamento dei mezzi di produzione, della proprietà e della popolazione. Essa ha agglomerato la popolazione, ha centralizzato i mezzi di produzione e concentrato la proprietà in poche mani. Ne è risultata come conseguenza necessaria la centralizzazione politica. Province indipendenti, quasi appena collegate tra loro da vincoli federali, province con interessi, leggi, governi e dogane diversi, sono state strette in una sola nazione, con un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, un solo confine doganale. Nel suo dominio di classe, che dura appena da un secolo, la borghesia ha creato delle forze produttive il cui numero e la cui importanza superano quanto mai avessero fatto tutte insieme le generazioni passate. Soggiogamento delle forze naturali, macchine, applicazione della chimica all'industria e all'agricoltura, navigazione a vapore, ferrovie, telegrafi elettrici, dissodamento di interi continenti, fiumi resi navigabili, intere popolazioni sorte quasi per incanto dal suolo — quale dei secoli passati avrebbe mai presentito che tali forze produttive stessero sopite in grembo al lavoro sociale? Abbiamo però veduto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si eresse la borghesia, furono generati in seno alla società feudale. A un certo grado dello sviluppo di questi mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, vale a dire l'organizzazione feudale dell'agricoltura e della manifattura; in una parola i rapporti feudali di proprietà, non corrisposero più alle forze produttive già sviluppate. Quelle condizioni, invece di favorire la produzione, la inceppavano. Esse, si trasformavano in altrettante catene. Dovevano essere spezzate, e furono spezzate. Subentrò ad esse la libera concorrenza con la costituzione politica e sociale ad essa adatta; col dominio economico e politico della classe borghese. Sotto i nostri occhi si sta compiendo un processo analogo. Le condizioni borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la moderna società borghese, che ha evocato come per incanto cosí potenti mezzi di produzione e di scambio, rassomiglia allo stregone che non può più dominare le potenze sotterranee da lui evocate40. Da qualche decina d'anni la storia dell'industria e del commercio non é che la storia della ribellione delle moderne forze produttive contro i moderni rapporti di produzione, contro i rapporti di proprietà che sono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali, che nei loro ritorni periodici sempre più minacciosamente mettono in forse l'esistenza di tutta la società borghese. Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta una gran parte non solo dei prodotti già ottenuti, ma anche delle forze produttive che erano già state create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che 40 Reminiscenza della ballata di Goethe “L'apprendista mago” (1797). 27 in ogni altra epoca sarebbe apparsa un controsenso: l'epidemia della sovrapproduzione. La società si trova improvvisamente ricacciata in uno stato di momentanea barbarie; una carestia, una guerra generale di sterminio sembrano averle tolto tutti i mezzi di sussistenza; l'industria, il commercio sembrano annientati, e perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di. sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive di cui essa dispone non giovano più a favorire lo sviluppo della civiltà borghese e dei rapporti della proprietà borghese; al contrario, esse sono divenute troppo potenti per tali rapporti, sicché ne vengono inceppate; e non appena superano questo impedimento gettano nel disordine tutta quanta la società borghese, minacciano l'esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono diventati troppo angusti per contenere le ricchezze da essi prodotte. Con quale mezzo riesce la borghesia a superare le crisi? Per un verso, distruggendo forzatamente una grande quantità di forze produttive; per un altro verso, conquistando nuovi mercati e sfruttando più intensamente i mercati già esistenti. Con quale mezzo dunque? Preparando crisi più estese e più violente e riducendo i mezzi per prevenire le crisi. Le armi con cui la borghesia ha abbattuto il feudalesimo si rivolgono ora contro la borghesia stessa. Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le recano la morte; essa ha anche creato gli uomini che useranno quelle armi i moderni operai, i proletari. Nella stessa misura in cui si sviluppa la borghesia, vale a dire il capitale, si sviluppa anche il proletariato, la classe degli operai moderni, i quali vivono solo fino a tanto che trovano lavoro, e trovano lavoro soltanto fino a che il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo di commercio, e perciò sono egualmente esposti a tutte, le vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato. Il lavoro dei proletari, con l'estendersi dell'uso delle macchine e con la divisione del lavoro ha perduto ogni carattere d'indipendenza e quindi ogni attrattiva per l'operaio. Questi diventa un semplice accessorio della macchina, un accessorio a cui non si chiede che un'operazione estremamente semplice, monotona, facilissima ad imparare. Le spese che l'operaio procura si limitano perciò quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza necessari per il suo mantenimento e per la propagazione della sua specie. Ma il prezzo di una merce, e quindi anche il prezzo del lavoro, é eguale al suo costo di produzione. Cosí, a misura che il lavoro si fa più ripugnante, più discende il salario. Più ancora: a misura che crescono l'uso delle macchine e la divisione del lavoro, cresce anche la quantità del lavoro, sia per l'aumento delle ore di lavoro, sia per l'aumento del lavoro richiesto in una data unità di tempo, per l'accresciuta celerità delle macchine, ecc. L'industria moderna ha trasformato la piccola officina dell'artigiano patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente. Come soldati semplici dell'industria essi vengono sottoposti alla sorveglianza di tutta una gerarchia di sottufficiali e di ufficiali. Essi non sono soltanto servi della classe borghese, dello Stato borghese, ma vengono, ogni giorno e ogni ora, asserviti dalla macchina, dal sorvegliante, soprattutto dal singolo borghese padrone di fabbrica. Siffatto dispotismo é tanto più meschino, odioso, esasperante, quanto più apertamente esso proclama di non avere altro scopo che il guadagno. Quanto meno il lavoro manuale esige abilità e forza, vale a dire quanto più l'industria moderna si sviluppa, tanto più il lavoro degli uomini viene soppiantato da quello delle donne e dei fanciulli. Le differenze di sesso di età non hanno piú nessun valore sociale per la classe operaia. Non ci sono più che strumenti di lavoro, il cui costo varia secondo l'età e il sesso. 28 Non appena l'operaio ha finito di essere sfruttato dal fabbricante e ne ha ricevuto il salario in contanti, ecco piombar su di lui gli altri membri della borghesia, il padrone di casa, il bottegaio, il prestatore a pegno, e cosí via. Quelli che furono sinora i piccoli ceti medi, i piccoli industriali, i negozianti e la gente che vive di piccola rendita, gli artigiani e gli agricoltori, tutte queste classi sprofondano nel proletariato, in parte perché il loro esiguo capitale non basta all'esercizio della grande industria e soccombe quindi nella concorrenza coi capitalisti più grandi, in parte perché le loro attitudini perdono il loro valore in confronto coi nuovi modi di produzione. Così il proletariato si recluta in tutte le classi della popolazione. Il proletariato attraversa diversi gradi di evoluzione. La sua lotta contro la borghesia. incomincia colla sua esistenza. Dapprima lottano i singoli operai ad uno ad uno, poi gli operai di una fabbrica, indi quelli di una data categoria in un dato luogo contro il singolo borghese che li sfrutta direttamente. Essi non rivolgono soltanto i loro attacchi contro i rapporti borghesi di produzione, ma li rivolgono contro gli stessi strumenti della produzione; essi distruggono le merci straniere che fanno loro concorrenza, fanno a pezzi, le macchine, incendiano le fabbriche, tentano di riacquistare la tramontata posizione dell'operaio del Medioevo41. In questo stadio gli operai formano una massa dispersa per tutto il paese e sparpagliata dalla concorrenza. Il loro raggrupparsi in masse non é ancora la conseguenza della loro propria unione, ma é dovuto alla unione della borghesia, che per raggiungere i suoi propri fini politici deve mettere in moto tutto il proletariato ed é ancora in grado di farlo. In tale stadio i proletari non combattono dunque i loro nemici, ma i nemici dei loro nemici, gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietari fondiari, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. Tutto il movimento storico é cosí concentrato nelle mani della borghesia; ogni vittoria cosí é una vittoria della borghesia. Ma con lo sviluppo dell'industria il proletariato non cresce soltanto di numero; esso si addensa in grandi masse, la sua forza va crescendo, e con la forza la coscienza di essa. Gli interessi, le condizioni di esistenza ,all'interno del proletariato si livellano sempre piú, perché la macchina cancella sempre più le differenze del lavoro e quasi dappertutto riduce il salario a un eguale basso livello. La crescente concorrenza dei borghesi fra di loro e le crisi commerciali che ne derivano rendono sempre più oscillante il salario degli operai; l'incessante e sempre più rapido perfezionamento delle macchine rende sempre più precarie le loro condizioni di esistenza; i conflitti fra singoli operai e borghesi singoli vanno sempre più assumendo il carattere di conflitti fra due classi. È così che gli operai incominciano a formare coalizioni contro i borghesi, riunendosi per difendere il loro salario. Essi fondano persino associazioni permanenti per approvvigionarsi per le sollevazioni eventuali. Qua e là la lotta diventa sommossa42. Di quando in quando gli operai vincono, ma solo in modo effimero. Il vero risultato delle loro lotte non é il successo immediato, ma la unione sempre più estesa degli 41 Questi movimenti fecero la loro prima apparizione a Nottingham e nei distretti vicini alla fine del 1811 e si estero in tutti i centri industriali dell'Inghilterra negli anni successivi fino al 1814, stroncati da severe misure repressive. I gruppi di operai che, nottetempo, distruggevano o mettevano fuori uso le nuove macchine, erano denominati « Luddisti », sembra dal nome Ned Ludd, di un operaio, sulla cui esistenza non si hanno documenti. 42 Riferimento alla attività della prima società operaia inglese fondata dal calzolaio Thomas Hardy (17521832), che accanto alla agitazione politica promosse numerosi moti di rivolta tra la popolazione industriale di Londra e dei Midlands. La società venne Soppressa nel 1799 nel quadro di generali misure repressive, ma i movimenti si estesero nella illegalità e con lotte sanguinose fino al 1824-25 allorché le disposizioni limitative della organizzazione degli operai vennero attenuate. 29 operai. Essa é agevolata dai crescenti mezzi di comunicazione che sono creati dalla grande industria e che collegano tra di loro operai di località diverse. Basta questo semplice collegamento per concentrare le molte lotte locali, aventi dappertutto egual carattere, in una lotta nazionale, in una lotta di classe. Ma ogni lotta di classe è lotta politica. E l'unione per raggiungere la quale ai borghigiani del Medioevo, con le loro strade vicinali, occorsero dei secoli, oggi, con le ferrovie, viene realizzata dai proletari in pochi anni. Questa organizzazione dei proletari in classe, e quindi in partito politico, viene ad ogni istante nuovamente spezzata dalla concorrenza che gli operai si fanno fra loro stessi. Ma essa risorge sempre di nuovo, più forte, più salda, più potente. Approfittando delle scissioni della borghesia, la costringe al riconoscimento legale di singoli interessi degli operai. Cosí fu per la legge delle dieci ore di lavoro in Inghilterra43. I conflitti in seno alla vecchia società in generale favoriscono in più modi il processo di sviluppo del proletariato. La borghesia è di continuo in lotta: dapprima contro l'aristocrazia, poi contro quelle parti della borghesia stessa i cui interessi sono in contrasto col progresso dell'industria; sempre contro la borghesia di tutti i paesi stranieri. In tutte queste lotte essa si vede costretta a fare appello al proletariato, a chiederne l'aiuto, trascinandolo cosí nel moto politico. Essa stessa, dunque, dà al proletariato gli elementi della propria educazione, gli dà cioè le armi contro se stessa44. Accade inoltre, come abbiamo già visto, che per il progresso dell'industria intere parti costitutive della classe dominante vengono precipitate nella condizione del proletariato o sono per lo meno minacciate nelle loro condizioni di esistenza. Anch'esse recano al proletariato una massa di elementi della loro educazione. Infine, nei periodi in cui la lotta di classe si avvicina al momento decisivo, il processo di dissolvimento in seno alla classe dominante, in seno a tutta la vecchia società, assume un carattere cosí violento, cosí aspro, che una piccola parte della classe dominante si stacca da essa per unirsi alla classe rivoluzionaria, a quella classe che ha l'avvenire nelle sue mani. Perciò, come già un tempo una parte della nobiltà passò alla borghesia, cosí ora una parte della borghesia passa al proletariato, e segnatamente una parte degli ideologi borghesi che sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme. Di tutte le classi che oggi stanno di fronte alla borghesia, solo il proletariato è una classe veramente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e periscono con la grande industria, mentre il proletariato ne é il prodotto più genuino. I ceti modi, il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l'artigiano, il contadino, tutti costoro combattono la borghesia per salvare dalla rovina l'esistenza loro di ceti medi. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori. Ancora più, essi sono reazionari, essi tentano di far girare all'indietro la ruota della storia. Se sono rivoluzionari, lo sono in vista del loro imminente passaggio al proletariato; cioè non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, abbandonano il proprio modo di vedere per adottare quello del proletariato. Quanto al sottoproletariato, che rappresenta la putrefazione passiva degli strati più bassi della vecchia società, esso viene qua e là gettato nel movimento da una 43 La legge che limitava la giornata lavorativa a 10 ore fu votata dal Parlamento inglese nel 1847. Esempi sono forniti dalle lotte del movimento operaio inglese all'inizio degli anni 30 per le riforme politiche. Di queste lotte si servi la borghesia liberale come forza di pressione e con il loro aiuto nel 1832 poté ottenere una riforma del Parlamento. I lavoratori di Parigi fecero forza con il loro intervento sulla caduta della dinastia borbonica nel luglio 1830. Di quella vittoria si giovò la borghesia finanziaria che stabili il suo potere con Luigi Filippo. 44 30 rivoluzione proletaria; ma per le sue stesse condizioni di vita esso sarà piuttosto disposto a farsi comprar e a mettere al servizio di forze reazionarie. Le condizioni di esistenza della vecchia società sono già distrutte dalle condizioni di esistenza del proletariato. Il proletario é senza proprietà; le sue relazioni con la moglie e coi figli non hanno più nulla di comune con i rapporti familiari borghesi; il moderno lavoro industriale, il moderno soggiogamento al capitale, eguale in Inghilterra come in Francia, in America come in Germania, lo ha spogliato di ogni carattere nazionale. Le leggi, la morale, la religione, sono per lui altrettanti pregiudizi borghesi, dietro ai quali si nascondono altrettanti interessi borghesi. Tutte le classi che finora s'impossessarono del potere cercarono di assicurarsi la posizione raggiunta assoggettando tutta la società alle condizioni del loro guadagno. I proletari, invece, possono impossessarsi delle forze produttive sociali soltanto abolendo il loro modo di appropriazione attuale e con esso l'intero attuale modo di appropriazione. I proletari non hanno nulla di proprio da salvaguardare; essi hanno soltanto da distruggere tutte le sicurezze private e le guarentigie private finora esistite. Tutti i movimenti avvenuti sinora furono movimenti di minoranza o nell'interesse di minoranze. Il movimento proletario é il movimento indipendente dell'enorme maggioranza nell'interesse dell'enorme maggioranza. Il proletariato che é lo strato più basso della società attuale, non può sollevarsi, non può innalzarsi, senza che tutta la sovrastruttura degli strati che costituiscono la società ufficiale vada in frantumi Sebbene non sia tale per il contenuto, la lotta del proletariato contro la borghesia é però all'inizio, per la sua forma, una lotta nazionale. Il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia. Tratteggiando le fasi più generali dello sviluppo del proletariato, abbiamo seguito la guerra civile più o meno occulta entro la società attuale fino al momento in cui essa esplode in una rivoluzione aperta, e col rovesciamento violento della borghesia il proletariato stabilisce il suo dominio. Ogni società finora esistita ha poggiato, come abbiamo già visto, sul contrasto tra le classi degli oppressori e degli oppressi. Ma per poter opprimere una classe, bisogna che le siano assicurate condizioni entro le quali essa possa almeno vivere la sua misera vita di schiavo. Il servo della gleba ha potuto, continuando a esser tale, elevarsi a membro del Comune, cosí come il borghigiano, pur sotto il giogo dell'assolutismo feudale, ha potuto diventare un borghese. L'operaio moderno, al contrario, invece di elevarsi col progresso dell'industria, cade sempre più in basso, al di sotto delle condizioni della sua propria classe. L'operaio diventa il povero, e il pauperismo si sviluppa ancora più rapidamente della popolazione e della ricchezza. Appare da tutto ciò manifesto che la borghesia é incapace di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società, come legge regolatrice, le condizioni di esistenza della sua classe. Essa è incapace di dominare perché é incapace di assicurare al suo schiavo l'esistenza persino nei limiti della sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo cadere in condizioni tali, da doverlo poi nutrire anziché esserne nutrita. La società non può più vivere sotto il suo dominio, cioè l'esistenza della borghesia non é più compatibile con la società. Condizione essenziale dell'esistenza e del dominio della classe borghese è l'accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e l'aumento del capitale; condizione del capitale é il lavoro salariato. Il lavoro salariato si fonda esclusivamente sulla concorrenza degli operai fra di loro. Il progresso dell'industria, del quale la borghesia è l'agente involontario e passivo, sostituisce all'isolamento degli operai, risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria mediante la associazione. Lo sviluppo della grande industria toglie dunque di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si 31 appropria i prodotti. Essa produce innanzi tutto i suoi propri seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono ugualmente inevitabili. Proletari e comunisti Che relazione passa tra i comunisti e i proletari in generale? I comunisti non costituiscono un partito particolare di fronte agli altri partiti operai. Essi non hanno interessi distinti dagli interessi del proletariato nel suo insieme. Non erigono principi particolari, sui quali vogliano modellare il movimento proletario. I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni dell'intero proletariato che sono indipendenti dalla nazionalità; d'altro lato per il fatto che, nei vari stadi di sviluppo che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l'interesse del movimento complessivo. In pratica, dunque, i comunisti sono la parte più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, quella che sempre spinge avanti; dal punto di vista della teoria, essi hanno un vantaggio sulla restante massa del proletariato pel fatto che conoscono le condizioni, l'andamento e i risultati generali del movimento proletario. Lo scopo immediato dei comunisti è quello stesso degli altri partiti proletari: formazione del proletariato in classe, rovesciamento del dominio borghese, conquista del potere politico da parte del proletariato. Le posizioni teoriche dei comunisti non poggiano affatto sopra idee, sopra principi che siano stati inventati o scoperti da questo o quel rinnovatore del mondo. Esse sono soltanto espressioni generali dei rapporti effettivi di una lotta di classe che già esiste, di un movimento storico che si svolge sotto i nostri occhi. L'abolizione dei rapporti di proprietà che si sono avuti finora non é cosa che caratterizzi propriamente il comunismo. Tutti i rapporti di proprietà sono sempre stati soggetti a un continuo mutamento storico, a una continua trasformazione storica. La rivoluzione francese, ad esempio, abolì la proprietà feudale in favore della proprietà borghese. Ciò che distingue il comunismo non é l'abolizione della proprietà in generale, bensí l'abolizione della proprietà borghese. Ma la moderna proprietà privata borghese é l'ultima e la più perfetta espressione di quella produzione e appropriazione dei prodotti, che poggia sugli antagonismi di classe, sullo sfruttamento degli uni per opera degli altri. In questo senso i comunisti possono riassumere la loro dottrina in quest'unica espressione: abolizione della proprietà privata. È stato mosso rimprovero a noi comunisti di voler abolire la proprietà acquistata col lavoro personale, frutto del lavoro di ciascuno; quella proprietà che sarebbe il fondamento di ogni libertà, di ogni attività e di ogni indipendenza personali. Proprietà acquistata, guadagnata, frutto dei proprio lavoro! Parlate voi forse della proprietà del piccolo borghese o del piccolo agricoltore, che precedette la proprietà borghese? Noi non abbiamo bisogno di abolirla; l'ha già abolita e la abolisce quotidianamente lo sviluppo dell'industria. Oppure parlate voi della moderna proprietà borghese privata? Ma che forse il lavoro salariato, il lavoro del proletario, crea a quest'ultimo una proprietà? In nessun modo. Esso crea il capitale, cioè crea la proprietà che sfrutta il lavoro salariato e che non può aumentare se non a condizione di generare nuovo lavoro salariato per nuovamente sfruttarlo. La proprietà nella sua forma odierna è 32 fondata sull'antagonismo fra capitale e lavoro salariato. Esaminiamo i due termini di questo antagonismo. Essere capitalista non vuol dire soltanto occupare nella produzione una posizione puramente personale, ma una posizione sociale. Il capitale è un prodotto comune e non può essere messo in moto se non dall'attività comune di molti membri della società, anzi, in ultima istanza, soltanto dall'attività comune di tutti i membri della società. Il capitale, dunque, non é una potenza personale; esso è una potenza sociale. Se dunque il capitale viene trasformato in proprietà comune, appartenente a tutti i membri della società, ciò non vuol dire che si trasformi una proprietà personale in proprietà sociale. Si trasforma soltanto il carattere sociale della proprietà. Esso perde il suo carattere di classe. Veniamo al lavoro salariato. Il prezzo medio del lavoro salariato é il minimo del salario, ossia la somma dei mezzi di sussistenza necessari a mantenere in vita l'operaio in quanto operaio. Quello dunque che l'operaio salariato si appropria con la sua attività, gli basta soltanto per riprodurre la sua nuda esistenza. Noi non vogliamo punto abolire questa appropriazione personale dei prodotti del lavoro necessari per la riproduzione della vita immediata, appropriazione la quale non lascia alcun profitto netto, che possa dare un potere sul lavoro altrui. Noi vogliamo soltanto abolire il miserabile carattere di questa appropriazione, per cui l'operaio esiste soltanto per accrescere il capitale e vive quel tanto che é richiesto dall'interesse della classe dominante. Nella società borghese il lavoro vivo è soltanto un mezzo per aumentare il lavoro accumulato. Nella società comunista il lavoro accumulato è soltanto un mezzo per rendere più largo, più ricco, più progredito il ritmo di vita degli operai. Nella società borghese, dunque, il passato domina sul presente; nella società comunista il presente sul passato. Nella società borghese il capitale é indipendente e personale, mentre l'individuo operante é dipendente e impersonale. E la borghesia chiama l'abolizione di questo stato di cose abolizione della personalità e della libertà! E ha ragione. Perché si tratta, effettivamente, di abolire la personalità, l'indipendenza e la libertà del borghese! Per libertà si intende, entro gli attuali rapporti borghesi di produzione, il commercio libero, la libera compra e vendita. Ma tolto il commercio, sparisce anche il libero commercio. Le frasi sul libero commercio, come tutte le altre vanterie liberalesche della nostra borghesia, hanno un senso soltanto rispetto al commercio vincolato e allo asservito cittadino del Medioevo, ma non ne hanno alcuno rispetto all'abolizione comunista del commercio, dei rapporti borghesi di produzione e della borghesia stessa. Voi inorridite all'idea che noi vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nell'attuale vostra società la proprietà privata é abolita per nove decimi dei suoi membri; anzi, essa esiste precisamente in quanto per quei nove decimi non esiste. Voi ci rimproverate dunque di voler abolire una proprietà che ha per condizione necessaria la mancanza di proprietà per l'enorme maggioranza della società. In una parola, voi ci rimproverate di voler abolire la vostra proprietà. È vero: è questo che vogliamo. Dall'istante in cui il lavoro non può più essere trasformato in capitale, denaro, rendita fondiaria, insomma, in una forza sociale monopolizzabile, dall'istante cioè in cui la proprietà personale non si può più mutare in proprietà borghese, da quell'istante voi dichiarate che è abolita la persona. Voi confessate, dunque, che per persona non intendete altro che il borghese, il proprietario borghese. Ebbene, questa persona deve effettivamente essere abolita. Il comunismo non toglie a nessuno la facoltà di appropriarsi dei prodotti sociali; toglie soltanto la facoltà di valersi di tale appropriazione per asservire lavoro altrui. 33 È stato obiettato che con l'abolizione della proprietà privata cesserebbe ogni attività, si diffonderebbe una neghittosità generale. Se così fosse, la società borghese sarebbe da molto tempo andata in rovina per pigrizia, giacché in essa chi lavora non guadagna e chi guadagna non lavora. Tutta l'obiezione sbocca in questa tautologia: che non c'è più lavoro salariato quando non c'è più capitale. Tutte le obiezioni, che si muovono al modo comunista di appropriazione e di produzione dei prodotti materiali, sono state estese anche alla appropriazione e produzione dei prodotti intellettuali. Come per il borghese la cessazione della proprietà di classe significa cessazione della produzione stessa, cosí cessazione della cultura di classe è per lui lo stesso che cessazione della cultura in genere. La cultura di cui egli deplora la perdita è per l'enorme maggioranza degli uomini il processo di trasformazione in macchina. Ma non polemizzate con noi applicando all'abolizione della proprietà borghese le vostre concezioni borghesi della libertà, della cultura, del diritto, ecc. Le vostre idee sono anch'esse un prodotto dei rapporti borghesi di produzione e di proprietà, cosí come il vostro diritto non è che la volontà della vostra classe innalzata a legge, una volontà il cui contenuto è determinato dalle condizioni materiali di vita della vostra classe. Questa concezione interessata, grazie alla quale voi trasformate i vostri rapporti di produzione e di proprietà, da rapporti storici com'essi sono, che appaiono scompaiono nel corso della produzione, in leggi eterne della natura e della ragione, questa concezione voi l'avete in comune con tutte le classi dominanti scomparse. Ciò che voi comprendete quando si tratta della proprietà antica, ciò che voi comprendete quando si tratta della proprietà feudale, voi non potete piú comprenderlo quando si tratta della proprietà borghese. Abolizione della famiglia! Persino i piú avanzati fra i radicali si scandalizzano di cosí ignominiosa intenzione dei comunisti. Su che cosa si basa la famiglia, odierna, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Nel suo pieno sviluppo la famiglia odierna esiste soltanto per la borghesia; ma essa trova il suo complemento nella forzata mancanza di famiglia dei proletari e nella prostituzione pubblica. La famiglia del borghese cadrà naturalmente col venir meno di questo suo complemento, e ambedue scompariranno con lo sparire del capitale. Ci rimproverate voi di voler abolire lo sfruttamento dei figli da parte dei loro genitori? Noi questo delitto lo confessiamo. Ma voi dite che sostituendo l'educazione sociale all'educazione domestica noi sopprimiamo i legami piú intimi. Ma non è anche la vostra educazione determinata dalla società, dai rapporti sociali entro ai quali voi educate, dall'intervento piú o meno diretto o indiretto della società per mezzo della scuola, ecc.? Non sono i comunisti che inventano l'influenza della società sulla educazione; essi ne cambiano soltanto il carattere; essi strappano l'educazione all'influenza della classe dominante. Le declamazioni borghesi sulla famiglia e sull'educazione, sugli intimi rapporti fra i genitori e i figli diventano tanto piú nauseanti, quanto piú, in conseguenza della grande industria, viene spezzato per i proletari ogni legame di famiglia, e i fanciulli vengono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro. Ma voi comunisti volete la comunanza delle donne ci grida in coro tutta la borghesia. Il borghese vede nella propria moglie un semplice strumento di produzione. Egli sente che gli strumenti di produzione debbono essere sfruttati in comune e, naturalmente, non può fare a meno di pensare che la sorte dell'uso in comune colpirà anche le donne. 34 Egli non s'immagina che si tratta appunto di abolire la posizione delle donne come semplici strumenti di produzione. Del resto, nulla è piú ridicolo del moralissimo sgomento dei nostri borghesi per la pretesa comunanza ufficiale delle donne nel comunismo. I comunisti non hanno bisogno d'introdurre la comunanza delle donne: essa è quasi sempre esistita. I nostri borghesi, non contenti di avere a loro disposizione le mogli e le figlie dei loro proletari — per non parlare della prostituzione ufficiale — trovano uno dei loro principali diletti nel sedursi scambievolmente le mogli. Il matrimonio borghese é, in realtà, la comunanza delle mogli. Tutt'al più si potrebbe rimproverare ai comunisti di voler sostituire alla comunanza delle donne, ipocritamente celata, una comunanza ufficiale, palese. Si comprende del resto benissimo che con l'abolizione degli attuali rapporti di produzione scompare anche la comunanza delle donne che ne risulta, vale a dire la prostituzione ufficiale e non ufficiale. Si rimprovera inoltre ai comunisti di voler sopprimere la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può toglier loro ciò che non hanno. Ma poiché il proletariato deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch'esso nazionale, benché certo non nel senso della borghesia. L'isolamento e gli antagonismi nazionali dei popoli vanno via via scomparendo con lo sviluppo della borghesia, con la libertà di commercio, col mercato mondiale, con l'uniformità della produzione industriale e con le condizioni di vita ad essa rispondenti. Il dominio del proletariato lì farà scomparire ancora di più. L'azione unita almeno nei paesi civili é una delle prime condizioni della sua emancipazione. A misura che viene abolito lo sfruttamento di un individuo per opera di un altro, viene abolito lo sfruttamento di una nazione per opera di un'altra. Con lo sparire dell'antagonismo fra le classi nell'interno della nazione scompare l'ostilità fra le nazioni stesse. Le accuse che vengono mosse contro il comunismo partendo da considerazioni religiose, filosofiche e ideologiche in generale, non meritano d'essere più ampiamente esaminate. Ci vuole forse una profonda perspicacia per comprendere che, cambiando le condizioni di vita degli uomini, i loro rapporti sociali e la loro esistenza sociale, cambiano anche le, loro concezioni, i loro modi di vedere e le loro idee, in una parola, cambia anche la loro coscienza? Che cos'altro dimostra la storia delle idee, se non che la produzione spirituale si trasforma insieme con quella materiale? Le idee dominanti di un'epoca furono sempre soltanto le idee della classe dominante. Si parla di idee che rivoluzionano tutta una società; con ciò si esprime soltanto il fatto che in seno alla vecchia società si sono formati gli elementi di una società nuova, che con la dissoluzione dei vecchi rapporti di esistenza procede di pari passo il dissolvimento delle vecchie idee. Quando il mondo antico stava per tramontare, le vecchie religioni furono vinte dalla religione cristiana. Quando nel secolo XVIII le idee cristiane soggiacquero alle idee dell'illuminismo, la società feudale stava combattendo la sua lotta suprema con la borghesia, allora rivoluzionaria. Le idee di libertà di coscienza e di religione non furono altro che l'espressione del dominio della libera concorrenza nel campo della coscienza. « Ma — si dirà — non c'é dubbio che le idee religiose, morali, filosofiche, politiche, giuridiche, ecc., si sono modificate nel corso dell'evoluzione storica; la religione, la morale, la filosofia, la politica, il diritto però si mantennero sempre attraverso tutti questi mutamenti. 35 Ci sono, inoltre, verità eterne, come la libertà, la giustizia, ecc., che sono comuni a tutte le situazioni sociali. Il comunismo, invece, abolisce le verità eterne, abolisce la religione, la morale, in luogo di dar loro una forma nuova e con ciò contraddice a tutta l'evoluzione storica verificatasi finora. » A che cosa si riduce questa accusa? La storia di tutta la società si é svolta sinora attraverso antagonismi di classe, che nelle diverse epoche assunsero forme diverse. Ma qualunque forma abbiano assunto tali antagonismi, lo sfruttamento di una parte della società per opera di un'altra é un fatto comune a tutti i secoli passati. Nessuna meraviglia, quindi, che la coscienza sociale di tutti i secoli, malgrado tutte le varietà e diversità, si muova in certe forme comuni, in forme di coscienza che si dissolvono completamente soltanto con la completa sparizione dell'antagonismo delle classi. La rivoluzione comunista é la più radicale rottura coi rapporti di proprietà tradizionali; nessuna meraviglia, quindi, se nel corso del suo sviluppo avviene la rottura più radicale con le idee tradizionali. Ma lasciamo stare le obiezioni della borghesia contro il comunismo. Abbiamo già visto sopra come il primo passo nella rivoluzione operaia sia l'elevarsi del proletariato a classe dominante, la conquista della democrazia. Il proletariato si servirà della sua supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per aumentare, con la massima rapidità possibile, la massa delle forze produttive. Naturalmente sulle prime tutto ciò non può accadere, se non per via di interventi dispotici nel diritto di proprietà e nei rapporti borghesi di produzione, vale a dire con misure che appaiono economicamente insufficienti e insostenibili, ma che nel corso del movimento sorpassano se stesse e spingono in avanti, e sono inevitabili come mezzi per rivoluzionare l'intero modo di produzione. Com'è naturale, queste misure saranno diverse a seconda dei diversi paesi. Per i paesi più progrediti, però, potranno quasi generalmente essere applicate le seguenti: Espropriazione della proprietà fondiaria e impiego della rendita fondiaria per le spese dello Stato. Imposta fortemente progressiva. Abolizione del diritto di eredità. Confisca della proprietà di tutti gli emigrati e ribelli. Accentramento del credito nelle mini dello Stato per mezzo d'una banca nazionale con capitale di Stato e con monopolio esclusivo. Accentramento dei mezzi di trasporto nelle mani dello Stato. Aumento delle fabbriche nazionali e degli strumenti di produzione, dissodamento e miglioramento dei terreni secondo un piano comune. Eguale obbligo di lavoro per tutti, istituzione di eserciti industriali, specialmente per l'agricoltura. Unificazione dell'esercizio dell'agricoltura e di quello dell'industria, misure atte ad eliminare gradualmente l'antagonismo tra città e campagna. Educazione pubblica e gratuita di tutti i fanciulli. Abolizione del lavoro dei fanciulli nelle fabbriche nella sua forma attuale. Unificazione dell'educazione e della produzione materiale, ecc. Quando, nel corso dell'evoluzione, le differenze di classe saranno sparite e tutta la produzione sarà concentrata nelle mani degli individui associati, il potere pubblico perderà il carattere politico. Il potere politico, nel senso proprio della parola, è il potere organizzato di una classe per l'oppressione di un'altra. Se il proletariato, nella lotta contro la borghesia, si costituisce necessariamente in classe, e per mezzo della rivoluzione trasforma se stesso in classe dominante e, come tale, distrugge 36 violentemente i vecchi rapporti di produzione, esso abolisce, insieme con questi rapporti di produzione, anche le condizioni d'esistenza dell'antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi anche il suo proprio dominio di classe. Al posto della vecchia società borghese con le sue classi e coi suoi antagonismi di classe subentra un'associazione nella quale il libero sviluppo di ciascuno é la condizione per il libero sviluppo di tutti. Marx-Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Riuniti, 1974. Estratti pag. 53-90 37 Il controllo del potere sociale e l’individuo ricco di bisogni (testi da Manoscritti economico-filosofici del 1844, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, La guerra civile in Francia, Critica del Programma di Gotha. Note in margine al programma del Partito operaio tedesco) Manoscritti economico-filosofici del 1844 Proprietà privata e comunismo Bisogno, produzione e divisione del lavoro Proprietà privata e comunismo La proprietà privata ci ha resi così ottusi ed unilaterali che un oggetto è considerato nostro soltanto quando lo abbiamo, e quindi quando esso esiste per noi come capitale o è da noi immediatamente posseduto, mangiato, bevuto, portato sul nostro corpo, abitato, ecc., in breve, quando viene da noi usato; sebbene la proprietà privata concepisca a sua volta tutte queste realizzazioni immediate del possesso soltanto come mezzi di vita, e la vita, a cui servono come mezzi, sia la vita della proprietà privata, del lavoro e della capitalizzazione. Al posto di tutti i sensi fisici e spirituali è quindi subentrata la semplice alienazione di tutti questi sensi, il senso dell'avere. L'essere umano doveva essere ridotto a questa assoluta povertà, affinché potesse estrarre da sé la sua ricchezza interiore. La soppressione della proprietà privata rappresenta quindi la completa emancipazione di tutti i sensi e di tutti gli attributi umani; ma è una emancipazione siffatta appunto perché questi sensi e questi attributi sono diventati umani, sia soggettivamente sia oggettivamente. L'occhio è diventato occhio umano non appena il suo oggetto è diventato un oggetto sociale, umano, che procede dall'uomo per l'uomo. Perciò i sensi sono diventati immediatamente, nella loro prassi, dei teorici. Essi si riferiscono alla cosa in grazia della cosa; ma la cosa stessa implica un riferimento oggettivo umano a se stessa e all'uomo, e viceversa. Il bisogno o il godimento hanno perciò perduto la loro natura egoistica, e la natura ha perduto la sua mera utilità, dal momento che l'utile è diventato l'utile umano. Parimenti i sensi e il modo di goderne degli altri uomini sono diventati la mia propria appropriazione. Oltre questi organi immediati si formano quindi organi sociali, nella forma della società: per esempio, l'attività che io esplico immediatamente in società con altri, ecc., è diventata organo di una manifestazione vitale e un modo di appropriarsi la vita umana. S'intende che l'occhio umano gode in modo diverso dall'occhio rozzo, inumano, l'orecchio umano in modo diverso dall'orecchio rozzo, ecc. Abbiamo visto che l'uomo non si perde nel suo oggetto soltanto quando questo diventa per lui o un oggetto umano o un uomo oggettivo. Il che è possibile soltanto qualora l'oggetto diventi per lui un oggetto sociale ed egli stesso diventi per se stesso un essere sociale, allo stesso modo che la società diventa per lui un essere in questo oggetto. Per un verso, quindi, in quanto la realtà oggettiva diventa ovunque per l'uomo nella società come la realtà delle forze essenziali dell'uomo, come la realtà umana, e perciò come la realtà delle sue proprie forze essenziali, tutti gli oggetti diventano per lui l'oggettivazione di se stesso, diventano gli oggetti che realizzano e confermano la sua individualità, i suoi oggetti, in altre parole egli stesso diventa 38 oggetto. Come gli oggetti divengano per lui i suoi oggetti, dipende dalla natura dell'oggetto e dalla natura della forza essenziale ad essa corrispondente; infatti, proprio la particolarità di questo rapporto costituisce il modo particolare, reale della affermazione. Un oggetto si presenta all'occhio in modo diverso da quel che si presenti all'orecchio, e l'oggetto dell'occhio è diverso da quello dell'orecchio. La particolarità di ogni forza essenziale è appunto la sua essenza particolare, e quindi anche il modo particolare della sua oggettivazione, del suo essere vivente, oggettivo e reale. Non solo dunque nel pensiero, [VIII] ma anche con tutti i suoi sensi l'uomo si afferma nel mondo oggettivo. Per l'altro verso, dal punto di vista soggettivo: come soltanto la musica risveglia il senso musicale dell'uomo; come la più bella musica non ha per un orecchio non musicale nessun senso, non rappresenta un oggetto, dal momento che il mio oggetto può essere soltanto la conferma di una mia forza essenziale, e quindi può essere per me soltanto nella misura in cui la mia forza essenziale in quanto facoltà soggettiva è per sé, estendendosi il senso di un oggetto per me quanto si estende il mio senso (e un oggetto ha un senso soltanto per il senso corrispondente); così i sensi dell'uomo, sociale sono diversi da quelli dell'uomo non sociale. Soltanto attraverso l'intero svolgimento oggettivo della ricchezza dell'essere umano, viene in parte educata, in parte prodotta la ricchezza della sensibilità soggettiva dell'uomo, e parimenti un orecchio per la musica, un occhio per la bellezza della forma, in breve i soli sensi capaci di un godimento umano, quei sensi che si confermano come forze essenziali dell'uomo. Infatti non solo i cinque sensi, ma anche i cosiddetti sensi spirituali, i sensi pratici (il volere, l'amore, ecc.), in una parola il senso umano, l'umanità dei sensi, si formano soltanto attraverso l'esistenza dell'oggetto loro proprio, attraverso la natura umanizzata. L'educazione dei cinque sensi è un'opera di tutta la storia del mondo sino ad oggi. Inoltre il senso, prigioniero dei bisogni pratici primordiali, ha soltanto un senso limitato. Per l'uomo affamato non esiste la forma umana dei cibi, ma soltanto la loro esistenza astratta come cibi; potrebbero altrettanto bene esser presenti nella loro forma più rozza, e non si può dire in che cosa differisca questo modo di nutrirsi da quello delle bestie. L'uomo in preda alle preoccupazioni e al bisogno non ha sensi per il più bello tra gli spettacoli; il trafficante in minerali vede soltanto il valore commerciale, ma non la bellezza e la natura caratteristica del minerale; non ha alcun senso mineralogico; e quindi occorreva l'oggettivazione dell'essere umano, tanto dal punto di vista teoretico che dal punto di vista pratico, sia per rendere umano il senso dell'uomo, sia per creare un senso umano che fosse corrispondente a tutta la ricchezza dell'essere umano e naturale. Come attraverso il movimento della proprietà privata, della sua ricchezza e della sua miseria - o più precisamente della sua ricchezza e della sua miseria tanto materiali che spirituali - la società in formazione trova innanzi a sé tutto il materiale necessario a questa formazione; così la società già formata produce l'uomo in tutta questa ricchezza del suo essere, produce l'uomo ricco e profondamente sensibile a tutto come sua stabile realtà. … Si vede come al posto della ricchezza e della miseria come le considera l'economia politica, subentri l'uomo ricco e la ricchezza di bisogni umani. L'uomo ricco è ad un tempo l'uomo che ha bisogno di una totalità di manifestazioni di vita umane, l'uomo in cui la sua propria realizzazione esiste come necessità interna, come bisogno. Facendo l'ipotesi del socialismo, non soltanto la ricchezza, ma anche la povertà dell'uomo riceve in egual misura un significato umano e quindi sociale. È il vincolo passivo che fa sentire all'uomo come bisogno la più grande delle ricchezze, l'altro uomo. Il dominio in me dell'essere oggettivo, il prorompere sensibile dell'attività del mio essere, costituisce quella passione, che qui per ciò stesso diventa l'attività del mio essere. Un essere si considera indipendente soltanto quando è padrone di sé, ed è padrone di sé soltanto quando è debitore a se stesso della propria esistenza. Un uomo, che 39 vive della grazia altrui, si considera come un essere dipendente. Ma io vivo completamente della grazia altrui quando sono debitore verso l'altro non soltanto del sostentamento della mia vita, ma anche quando questi ha oltre a ciò creato la mia vita, è la fonte della mia vita; e la mia vita ha necessariamente un tale fondamento fuori di sé, quando non è la mia propria creazione. La creazione è quindi una rappresentazione assai difficile da sradicare dalla coscienza del popolo; questi infatti non riesce a concepire che la natura e l'uomo possano esistere per opera propria, posto che ciò contraddice a tutti i dati evidenti della vita pratica. La teoria della creazione della terra ha ricevuto un fortissimo colpo dalla geognosia, cioè dalla scienza che presenta la formazione, il divenire della terra come un processo, come una generazione spontanea. La generatio aequivoca è l'unica confutazione pratica della teoria della creazione. Ormai è certamente facile dire all'individuo singolo quello che già disse Aristotele: tu sei generato da tuo padre e da tua madre, e quindi la congiunzione di due esseri umani, cioè un atto proprio della specie umana ha prodotto in te l'uomo. Tu vedi dunque che l'uomo è debitore della sua esistenza anche fisicamente all'uomo. Devi quindi tener presente non un unico lato soltanto, cioè il progresso infinito per cui vieni a chiedere chi ha generato mio padre, chi suo nonno e via di seguito. Tu devi anche porre attenzione al movimento circolare, che si può vedere sensibilmente in quel progresso, in base al quale l'uomo nella generazione riproduce se stesso, e l'uomo rimane quindi sempre soggetto. Però tu mi potrai rispondere: io ti concedo questo movimento circolare, ma tu devi concedermi a tua volta il progresso che mi spinge sempre più indietro sino a farmi domandare chi ha generato il primo uomo e in generale la natura. Posso limitarmi a controbattere: la tua domanda è essa stessa un prodotto dell'astrazione. Domandati come hai fatto ad arrivare a questa domanda; domandati se la tua domanda non proceda da un punto di vista, a cui non posso rispondere perché è assurdo. Domandati se quel progresso esista come tale per un pensiero razionale. Quando tu ti poni la domanda intorno alla creazione della natura e dell'uomo, fai astrazione dall'uomo e dalla natura. Tu li poni come non esistenti, eppure vuoi che te li provi come esistenti. Ed io ora ti dico: se rinunci alla tua astrazione, devi rinunciare pure alla tua domanda; se vuoi invece rimaner fedele alla tua astrazione, devi essere conseguente, e se pensi [XI] l'uomo e la natura come non esistenti, allora pensa come non esistente anche te stesso, perché tu stesso sei pure natura e uomo. Non pensare, non interrogarmi, perché non appena pensi e interroghi, la tua astrazione dall'essere della natura e dell'uomo perde ogni senso. Oppure sei tu un tale egoista che ogni cosa poni nel nulla, ma ciò nonostante vuoi essere ? Tu puoi ribattere: Io non voglio porre la natura nel nulla, ecc.; voglio interrogarti intorno all'atto d'origine della natura, come interrogo l'anatomista intorno alla formazione delle ossa. Ma siccome per l'uomo socialista tutta la cosiddetta storia del mondo non è altro che la generazione dell'uomo mediante il lavoro umano, null'altro che il divenire della natura per l'uomo, egli ha la prova evidente, irresistibile, della sua nascita mediante se stesso, del processo della sua origine. Dal momento che la essenzialità dell'uomo e della natura è diventata praticamente sensibile e visibile, dal momento che è diventato praticamente sensibile e visibile l'uomo per l'uomo come esistenza della natura, e la natura per l'uomo come esistenza dell'uomo, è diventato praticamente improponibile il problema di un essere estraneo, di un essere superiore alla natura e all'uomo, dato che questo problema implica l'ammissione della inessenzialità della natura e dell'uomo. L'ateismo, in quanto negazione di questa inessenzialità, non ha più alcun senso; infatti l'ateismo è, si, una negazione di Dio e pone attraverso questa negazione l'esistenza dell'uomo, ma il socialismo in quanto tale non ha più bisogno di questa mediazione. Esso comincia dalla coscienza teoreticamente e praticamente sensibile dell'uomo e della natura nella 40 loro essenzialità. Esso è l'autocoscienza positiva dell'uomo, non più mediata dalla soppressione della religione, allo stesso modo che la vita reale è la realtà positiva dell'uomo, non più mediata dalla soppressione della proprietà privata, dal comunismo. Il comunismo è, in quanto negazione della negazione, affermazione; perciò è il momento reale, e necessario per il prossimo svolgimento storico, dell'emancipazione e della riconquista dell'uomo. Il comunismo è la struttura necessaria e il principio propulsore del prossimo futuro; ma il comunismo non è come tale la meta dello svolgimento storico, la struttura della società umana. Bisogno, produzione e divisione del lavoro [XIV] Abbiamo visto quale significato abbia, facendo l'ipotesi del socialismo, la ricchezza dei bisogni umani, e quindi tanto un nuovo modo di produzione quanto anche un nuovo oggetto di produzione. Nuova attuazione della forza essenziale dell'uomo e nuovo arricchimento dell'essere umano. Nell'ambito della proprietà privata, il significato opposto. Ogni uomo s'ingegna di procurare all'altro uomo un nuovo bisogno, per costringerlo ad un nuovo sacrificio, per ridurlo ad una nuova dipendenza e spingerlo ad un nuovo modo di godimento e quindi di rovina economica. Ognuno cerca di creare al di sopra dell'altro una forza essenziale estranea per trovarvi la soddisfazione del proprio bisogno egoistico. Con la massa degli oggetti cresce quindi la sfera degli esseri estranei, ai quali l'uomo è soggiogato, ed ogni nuovo prodotto è un nuovo potenziamento del reciproco inganno e delle reciproche spogliazioni. L'uomo diventa tanto più povero come uomo, ha tanto più bisogno del denaro, per impadronirsi dell'essere ostile, e la potenza del suo denaro sta giusto in proporzione inversa alla massa della produzione; in altre parole, la sua miseria cresce nella misura in cui aumenta l’impotenza del denaro. Perciò il bisogno del denaro è il vero bisogno prodotto dall'economia politica, il solo bisogno che essa produce. La quantità del denaro diventa sempre più il suo unico attributo di potenza: come il denaro ha ridotto ogni essere alla propria astrazione, così esso si riduce nel suo proprio movimento a mera quantità. La sua vera misura è di essere smisurato e smoderato. Così si presenta la cosa anche dal punto di vista soggettivo: in parte l'estensione dei prodotti e dei bisogni si fa schiava - schiava ingegnosa e sempre calcolatrice - di appetiti disumani, raffinati, innaturali e immaginari; la proprietà privata non sa fare del bisogno grossolano un bisogno umano; il suo idealismo è l'immaginazione, l'arbitrio, il capriccio. L'eunuco non adula il suo despota più bassamente e non cerca con mezzi più infami di eccitare la di lui ottusa capacità di godere per carpirgli qualche favore, di quanto l'eunuco dell'industria, il produttore, al fine di carpire qualche po' di denaro e di cavare gli zecchini dalle tasche del prossimo cristianamente amato, non si adatti ai più abietti capricci dei propri simili, non faccia la parte di mezzano tra i propri simili e i loro bisogni, non ecciti in loro appetiti morbosi, non spii ogni loro debolezza per esigere poi il prezzo dei suoi buoni uffici. Ogni prodotto è un'esca con cui si vuol attrarre a sé ciò che costituisce l'essenza dell'altro, il suo denaro; ogni bisogno reale o soltanto possibile è una debolezza che farà cascare la mosca nella pania - sfruttamento universale dell'essere sociale dell'uomo; allo stesso modo che ogni imperfezione dell'uomo è un vincolo che lo unisce col cielo, è il lato in cui il suo cuore è accessibile ai preti. Ogni necessità è un'occasione per presentarsi al proprio prossimo sotto le più allettanti spoglie e dirgli: caro amico, io ti do quel che ti è necessario, ma tu conosci la conditio sine qua non, tu sai con quale inchiostro devi scrivere l'impegno che assumi con me; nel momento stesso in cui ti procuro un godimento, ti scortico. In parte questa estraniazione si rivela nel fatto che il raffinamento dei bisogni e dei loro mezzi, da un lato, produce un imbarbarimento animalesco, e una 41 completa, rozza, astratta semplificazione dei bisogni, dall'altro lato; o meglio, altro non fa che riprodurre se stesso in senso inverso. Lo stesso bisogno dell'aria aperta cessa di essere un bisogno nell'operaio; l'uomo ritorna ad abitare nelle caverne, la cui aria però è ormai viziata dal mefitico alito pestilenziale della civiltà, e ove egli abita ormai soltanto a titolo precario, rappresentando esse per lui ormai una estranea potenza che può essergli sottratta ogni giorno e da cui ogni giorno [XV] può esser cacciato se non paga. Perché egli questo sepolcro lo deve pagare. La casa luminosa, che, in Eschilo, Prometeo addita come uno dei grandi doni con cui ha trasformato i selvaggi in uomini, non esiste più per l'operaio. La luce, l'aria, ecc., la più elementare pulizia, di cui anche gli animali godono, cessa di essere un bisogno per l'uomo. La sporcizia, questo impantanarsi e putrefarsi dell'uomo, la fogna (in senso letterale) della civiltà, diventa per l'operaio un elemento vitale. Diventa un suo elemento vitale il completo e innaturale abbandono, la natura putrefatta. Nessuno dei suoi sensi esiste più, non solo nella sua forma umana, ma anche in una forma disumana, e quindi neppure in una forma animalesca. Le forme più rozze, i più rozzi strumenti del lavoro umano vengono riesumati; la macina degli schiavi romani è diventata la forma di produzione, la forma di esistenza di molti operai inglesi. L'uomo non solo non ha più bisogni umani; ma in lui anche i bisogni animali vengono meno. L'irlandese conosce soltanto più il bisogno di mangiare, o meglio soltanto più il bisogno di mangiar patate, o meglio ancora soltanto più il bisogno di mangiare le patate della qualità più scadente. Ma l'Inghilterra e la Francia possiedono già in ogni città industriale la loro piccola Irlanda. Il selvaggio, la bestia hanno ancora se non altro il bisogno della caccia, del moto, ecc., della società. La semplificazione della macchina, il lavoro vengono utilizzati per trasformare in operaio l'uomo ancora in via di sviluppo, l'uomo che non è ancora affatto formato - il fanciullo -, allo stesso modo che l'operaio è diventato un fanciullo abbandonato all'incuria più totale. La macchina si adatta alla debolezza dell'uomo, per fare dell'uomo debole una macchina. Come l'accrescimento dei bisogni e dei mezzi produca la mancanza di bisogni e di mezzi, lo prova l'economista (e il capitalista: noi in genere parliamo sempre degli uomini d'affari empirici quando ci rivolgiamo agli economisti, i quali sono la coscienza e la esistenza scientifica di quelli). E lo prova: 1) riducendo il bisogno dell'operaio al più indispensabile e al più compassionevole sostentamento della vita fisica, e la sua attività al movimento meccanico più astratto, onde viene a dire che l'uomo non ha nessun altro bisogno né di attività né di godimento; e infatti riconosce anche ad una vita siffatta il carattere di vita umana e di esistenza umana; 2) adottando come criterio di misura la vita (o esistenza) la più miserabile che si possa immaginare, ed anzi come criterio generale perché deve valere per la massa degli uomini; egli fa dell'operaio un essere insensibile e senza bisogni, mentre riduce la sua attività ad una pura astrazione da ogni attività; ogni lusso dell'operaio gli appare quindi riprovevole, ed ogni cosa che va oltre al più astratto di tutti i bisogni - sia esso godimento passivo o manifestazione d'attività - gli appare come un lusso. L'economia politica, questa scienza della ricchezza, è quindi nello stesso tempo la scienza della rinuncia, della privazione, del risparmio, e giunge realmente sino al punto di risparmiare all'uomo persino il bisogno dell'aria pura del moto fisico. Questa scienza della mirabile industria è parimenti la scienza dell'ascesi, e il suo vero ideale è l'avaro ascetico ma usuraio, e lo schiavo ascetico ma produttivo. Il suo ideale morale è l'operaio che porta alla cassa di risparmio una parte del suo salario; e per questa sua idea prediletta essa ha trovato persino un'arte servile. Tutto ciò è stato portato sulla scena in forma sentimentale. L'economia politica è quindi, nonostante il suo aspetto mondano e lussurioso, una scienza realmente morale, la più morale di tutte le scienze. La rinuncia a se stessi, la rinuncia alla vita e a tutti i 42 bisogni umani, è il suo dogma principale. Quanto meno mangi, bevi, compri libri, vai a teatro, al ballo e all'osteria, quanto meno pensi, ami, fai teorie, canti, dipingi, verseggi, ecc., tanto più risparmi, tanto più grande diventa il tuo tesoro, che né i tarli né la polvere possono consumare, il tuo capitale. Quanto meno tu sei, quanto meno realizzi la tua vita, tanto più hai; quanto più grande è la tua vita alienata, tanto più accumuli del tuo essere estraniato. Tutto [XVI] ciò che l'economista ti porta via di vita e di umanità, te lo restituisce in denaro e ricchezza; e tutto ciò che tu non puoi, può il tuo denaro. Esso può mangiare, bere, andare a teatro e al ballo, se la intende con l'arte, con la cultura, con le curiosità storiche, col potere politico, può viaggiare; può insomma impadronirsi per te di tutto quanto; può tutto quanto comperare: esso è il vero e proprio potere. Ma pur essendo tutto questo, non è in grado di produrre null'altro che se stesso, né di comprare nulla fuor che se stesso, poiché tutto il resto è ormai suo schiavo; e se io ho il padrone ho pure il servo, e non ho bisogno del suo servo. Così tutte le passioni e tutte le attività devono andare a finire nell'avidità di denaro. L'operaio può avere soltanto quanto basta per voler vivere; e può voler vivere soltanto per avere. Veramente sorge a questo punto una controversia sul terreno dell'economia politica. Gli uni (Lauderdale, Malthus, ecc.) raccomandano il lusso e imprecano contro il risparmio; gli altri (Say, Ricardo, ecc.) raccomandano il risparmio e imprecano contro il lusso. Ma quelli dichiarano di volere il lusso per produrre il lavoro (cioè il risparmio assoluto); questi affermano di raccomandare il risparmio per produrre la ricchezza, cioè il lusso. I primi hanno l'idea romantica che l'avidità di denaro non possa da sola determinare il consumo dei ricchi, e poi contraddicono alle loro proprie leggi quando spacciano la prodigalità immediatamente come un mezzo per arricchire; e perciò i secondi dimostrano loro con tutta serietà e coi maggiori particolari che con la prodigalità il mio avere diventa più piccolo e non più grande; ma costoro commettono l'ipocrisia di non ammettere che proprio i capricci e i ghiribizzi determinano la produzione; dimenticano i «bisogni raffinati», dimenticano che se non si consumasse non si produrrebbe, che la produzione per opera della concorrenza deve diventare soltanto più multiforme e più volta ai generi di lusso; dimenticano che per loro l'uso determina il valore delle cose, e la moda determina l'uso; desiderano che si produca soltanto ciò che è «utile», ma dimenticano che la produzione di troppe cose utili produce troppa popolazione inutile. Sia gli uni che gli altri dimenticano che la prodigalità e il risparmio, il lusso e l'indigenza, la ricchezza e la povertà sono l'identica cosa. E tu devi non solo privarti dei tuoi sensi immediati, come il mangiare, ecc., ma devi risparmiarti anche ogni partecipazione ad interessi di carattere generale, la compassione, la fiducia; tutto quanto devi risparmiarti se vuoi essere un uomo economico, se non vuoi andare in rovina per le illusioni. Tutto ciò che è tuo devi renderlo venale, cioè utile. Ma se io chiedo agli economisti: «Forse che non ubbidisco alle leggi economiche, se traggo profitto prostituendo e offrendo in vendita il mio corpo alla voluttà altrui (gli operai delle fabbriche in Francia chiamano la prostituzione delle loro mogli e delle loro figlie l'ora di lavoro straordinaria, il che è letteralmente vero); oppure non agisco forse economicamente vendendo un mio amico ai marocchini (la vendita diretta degli uomini, come il commercio dei coscritti, ecc., si verifica in tutti i paesi civili) ?» allora gli economisti mi rispondono: «Certamente tu non vai contro alle mie leggi; però, sta un po' attento a quel che dicono la signora morale e la signora religione. La mia morale e la mia religione fondate sull'economia politica non hanno nulla da opporti, ma...» Ma a chi mai io debbo più credere ? Alla economia politica o alla morale? La morale dell'economia è il guadagno, il lavoro, il risparmio, la sobrietà; ma l'economia politica mi promette di soddisfare i miei bisogni. L'economia della morale è la ricchezza in fatto di buona coscienza, di virtù, ecc.; ma come posso essere virtuoso se non sono, e come posso avere una buona coscienza, se non so 43 nulla? Nella natura stessa dell'estraniazione è fondato il fatto che ogni sfera mi presenti un criterio di misura diverso ed opposto, uno la morale, un altro l'economia politica; e infatti ognuna di queste due sfere rappresenta un modo determinato di estraniazione umana e [XVII] fissa un ambito particolare di attività essenziale-estraniata; ognuna si riferisce in forma estraniata all'estraniazione dell'altra. Così Michel Chevalier rimprovera Ricardo di fare astrazione dalla morale. Ma Ricardo fa parlare all'economia politica la lingua che le è propria, e se questa non parla in termini di morale, la colpa non è di Ricardo. Chevalier fa astrazione dall'economia nei limiti in cui fa il moralista; ma fa necessariamente e realmente astrazione dalla morale nei limiti in cui fa l'economista. La relazione tra l'economia politica e la morale, se non è arbitraria, accidentale, e quindi senza fondamento e priva di rigore scientifico, se non è travisata, ma intesa invece nel suo valore essenziale, può essere bensì soltanto la relazione tra le leggi economiche e la morale. Ma se questa relazione non ha luogo, ma anzi ha luogo il contrario, che colpa ne ha Ricardo ? Del resto, anche l'opposizione tra l'economia politica e la morale è soltanto un'apparenza, e in quanto opposizione, non è di nuovo un'opposizione. L'economia politica si limita ad esprimere alla sua maniera le leggi morali. La mancanza di bisogni in quanto principio dell'economia politica si rivela nel modo più clamoroso nella sua teoria della popolazione. Ci sono troppi uomini. Persino l'esistenza degli uomini è un puro lusso, e se l'operaio è «morale», farà economia in fatto di procreazione. (Mill propone pubblici elogi per coloro che si mostrano continenti nei rapporti sessuali, e pubblici biasimi, invece, a coloro che peccano contro l'infecondità del matrimonio... Non è questa forse una morale dell'ascetismo?) La produzione di uomini appare come una pubblica calamità. Il senso che la produzione ha relativamente ai ricchi, si mostra manifestamente nel senso che essa ha per i poveri; verso l'alto la sua manifestazione è sempre raffinata, dissimulata, ambigua, pura e semplice apparenza; verso il basso è grossolana, scoperta, leale, vera e propria realtà. Il bisogno rozzo dell'operaio è una fonte di guadagno assai maggiore che il bisogno raffinato del ricco. Le abitazioni nel sottosuolo di Londra rendono ai loro padroni più che i palazzi, cioè rappresentano per loro una ricchezza maggiore, e quindi per usare il linguaggio dell'economia politica, una maggior ricchezza sociale. E così, come l'industria specula sul raffinamento dei bisogni, specula altrettanto sulla loro rozzezza: sulla loro rozzezza in quanto è prodotta ad arte, e di cui pertanto il vero godimento consiste nell'autostordimento, che è una soddisfazione del bisogno soltanto apparente, una forma di civiltà dentro la rozza barbarie del bisogno. Le bettole inglesi sono perciò una rappresentazione simbolica della proprietà privata. Il loro lusso mostra il vero rapporto del lusso e della ricchezza dell'industria con l'uomo. E sono quindi anche a ragione i soli divertimenti domenicali del popolo trattati per lo meno con mitezza dalla polizia inglese. http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/Manoscritti/proprietacomunismo.html https://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1844/2/Manoscritti/bisogni.html Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica (1857-58) La risoluzione di tutti i prodotti e di tutte le attività in valori di scambio presuppone sia la dissoluzione di tutti i rigidi rapporti di dipendenza personali (storici) nella produzione, sia la generale dipendenza reciproca dei produttori. Non solo la produzione di ogni singolo viene a dipendere dalla produzione di tutti gli altri, ma 44 anche la trasformazione del suo prodotto in mezzi di sussistenza personali è venuta a dipendere dal consumo di tutti gli altri. I prezzi sono antichi, e così lo scambio; ma sia la progressiva determinazione degli uni attraverso i costi di produzione, sia il predominio dell'altro su tutti i rapporti di produzione sono pienamente sviluppati, e si sviluppano sempre più pienamente, soltanto nella società borghese, nella società della libera concorrenza. Ciò che Adam Smith, alla maniera tipica del XVIII secolo, pone nel periodo preistorico e fa precedere alla storia, è piuttosto il suo prodotto. Questa dipendenza reciproca si esprime nella necessità permanente dello scambio e nel valore di scambio quale mediatore universale. Gli economisti esprimono questo fatto nel modo seguente: ciascuno, perseguendo il suo interesse privato e soltanto il suo interesse privato, involontariamente e inconsapevolmente finisce per servire l'interesse privato di tutti, l'interesse generale. Il punto saliente di questa affermazione non sta nel fatto che perseguendo ognuno il suo interesse privato si raggiunge la totalità degli interessi privati, e cioè l'interesse generale. Da questa frase astratta si potrebbe anzi dedurre che ognuno reciprocamente ostacola l'affermazione dell'interesse dell'altro, sicché invece di un'affermazione generale da questo bellum omnium contra omnes risulta anzi una generale negazione. Il punto vero e proprio sta piuttosto in questo, che l'interesse privato stesso è già un determinato interesse sociale e può essere raggiunto soltanto nell'ambito delle condizioni che la società pone e con i mezzi che essa offre; quindi è legato alla riproduzione di queste condizioni e di questi mezzi. Si tratta di interesse dei privati; ma il suo contenuto, come la forma e i mezzi della sua realizzazione, sono dati da condizioni sociali indipendenti da tutti. La mutua e generale dipendenza degli individui reciprocamente indifferenti costituisce il loro nesso sociale. Questo nesso sociale è espresso nel valore di scambio, e solo in esso, per ogni individuo, la propria attività o il proprio prodotto diventano un'attività o un prodotto fine a se stessi; egli deve produrre un prodotto generico - il valore di scambio - o, considerato questo per sé isolatamente e individualizzato, del denaro. D'altra parte il potere che ogni individuo esercita sull'attività degli altri o sulle ricchezze sociali, egli lo possiede in quanto proprietario di valori di scambio, di denaro. Il suo potere sociale, così come il suo nesso con la società, egli lo porta con sé nella tasca. L'attività, quale che sia la sua forma fenomenica individuale, e il prodotto dell'attività, quale che sia il suo carattere particolare, è il valore di scambio, vale a dire qualcosa di generico in cui ogni individualità, qualità, è negata e cancellata. In realtà questa è una situazione molto diversa da quella in cui l'individuo, o l'individuo naturalmente o storicamente allargatosi a famiglia e a tribù (e poi a comunità), si riproduce su basi direttamente naturali, o in cui la sua attività produttiva e la sua partecipazione alla produzione è indirizzata a una determinata forma di lavoro e di prodotto, e il suo rapporto con gli altri è altrettanto determinato. Il carattere sociale dell'attività, così come la forma sociale del prodotto e la partecipazione dell'individuo alla produzione, si presentano qui come qualcosa di estraneo e di oggettivo di fronte agli individui; non come loro relazione reciproca, ma come loro subordinazione a rapporti che sussistono indipendentemente da loro e nascono dall'urto degli individui reciprocamente indifferenti. Lo scambio generale delle attività e dei prodotti, che è diventato condizione di vita per ogni singolo individuo, il nesso che unisce l'uno all'altro, si presenta a essi stessi estraneo, indipendente, come una cosa. Nel valore di scambio la relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto sociale tra cose; la capacità personale, in una capacità delle cose. Quanto minore è la forza sociale del mezzo di scambio, quanto più esso è ancora legato alla natura del prodotto immediato del lavoro e ai bisogni immediati di coloro che scambiano, tanto maggiore deve essere la forza della 45 comunità che lega insieme gli individui, il rapporto patriarcale, la comunità antica il feudalesimo e la corporazione. Ciascun individuo possiede il potere sociale sotto la forma di una cosa. Strappate alla cosa questo potere sociale e dovrete darlo alle persone sulle persone. I rapporti di dipendenza personale (all'inizio su una base del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa soltanto in un ambito ristretto e in punti isolati. L'indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio sociale generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio. Il secondo crea le condizioni del terzo. Sia le condizioni patriarcali che quelle antiche (e anche feudali) crollano perciò con lo sviluppo del commercio, del lusso, del denaro, del valore di scambio, nella stessa misura in cui di pari passo con essi s'innalza la società moderna. La creazione di molto tempo disponibile oltre il tempo di lavoro necessario per la società in generale e per ogni membro di essa (ossia di spazio per il pieno sviluppo delle forze produttive dei singoli, e quindi anche della società), questa creazione di tempo di non-lavoro si presenta, al livello del capitale, come di tutti quelli precedenti, come tempo di non-lavoro, tempo libero per alcuni. Il capitale vi aggiunge il fatto che esso moltiplica il tempo di lavoro supplementare della massa con tutti i mezzi della tecnica e della scienza, perché la sua ricchezza è fatta direttamente di appropriazione di tempo di lavoro supplementare; giacché il suo scopo è direttamente il valore, e non il valore d'uso. In tal modo, malgré lui, è strumento di creazione delle possibilità di tempo sociale disponibile, della riduzione del tempo di lavoro per l'intera società a un minimo decrescente, così da rendere il tempo di tutti libero per il loro sviluppo personale. Ma la sua tendenza è sempre, per un verso, quella di creare tempo disponibile, per l'altro, di convertirlo in pluslavoro. Se la prima cosa gli riesce, ecco intervenire una sovrapproduzione, e allora il lavoro necessario viene interrotto perché il capitale non può valorizzare alcun pluslavoro. Quanto più si sviluppa questa contraddizione, tanto più viene in luce che la crescita delle forze produttive non può più essere vincolata all'appropriazione di pluslavoro altrui, ma che piuttosto la massa operaia stessa deve appropriarsi del suo pluslavoro. Una volta che lo abbia fatto - e con ciò il tempo disponibile cessi di avere una esistenza antitetica - da una parte il tempo di lavoro necessario avrà la sua misura nei bisogni dell'individuo sociale, dall'altra lo sviluppo della produttività sociale crescerà così rapidamente che, sebbene ora la produzione sia calcolata in vista della ricchezza di tutti, cresce il tempo disponibile di tutti. Giacché la ricchezza reale è la produttività sviluppata di tutti gli individui. E allora non e più il tempo di lavoro, ma il tempo disponibile la misura della ricchezza. Il tempo di lavoro come misura della ricchezza pone la ricchezza stessa come fondata sulla povertà, e il tempo disponibile come tempo che esiste nella e in virtù dell'antitesi al tempo di lavoro supplementare, ovvero tutto il tempo di un individuo è posto come tempo di lavoro, e l'individuo viene degradato perciò a mero operaio, sussunto sotto il lavoro. Le macchine più sviluppate perciò costringono ora l'operaio a lavorare più a lungo di quanto faccia il selvaggio o di quanto egli stesso facesse con gli strumenti più semplici e più rozzi. L'economia effettiva - il risparmio - consiste in un risparmio di tempo di lavoro (minimo - e riduzione al minimo - di costi di produzione); ma questo risparmio si identifica con lo sviluppo della produttività. [Non si tratta] quindi affatto di rinuncia al godimento, bensì di sviluppo di capacità, di capacità atte alla produzione, e perciò tanto delle capacità quanto dei mezzi del godimento. La ca46 pacità di godere è una condizione per godere, ossia il suo primo mezzo, e questa capacità è lo sviluppo di un talento individuale, è produttività. Il risparmio di tempo di lavoro equivale all'aumento del tempo libero, ossia del tempo dedicato allo sviluppo pieno dell'individuo, sviluppo che a sua volta reagisce, come massima produttività, sulla produttività del lavoro. Esso può essere considerato, dal punto di vista del processo di produzione immediato, come produzione di capitale fisso; questo capitale fisso è l'uomo stesso. Che del resto lo stesso tempo di lavoro immediato non possa rimanere in astratta antitesi al tempo libero - come si presenta dal punto di vista dell'economia borghese - si intende da sé. Il lavoro non può diventare gioco, come vuole Fourier, al quale rimane il grande merito di avere indicato come obiettivo ultimo la soppressione non della distribuzione, ma del modo di produzione stesso nella sua forma superiore. Il tempo libero - che è sia tempo di ozio che tempo per attività superiori - ha trasformato naturalmente il suo possessore in un soggetto diverso, ed è in questa veste di soggetto diverso che egli entra poi anche nel processo di produzione immediato. Il quale è, insieme, disciplina, se considerato in relazione all'uomo che diviene, ed esercizio, scienza sperimentale, scienza materialmente creativa e oggettivantesi, se considerato in relazione all'uomo divenuto, nel cui cervello esiste il sapere accumulato della società. Per entrambi, finché il lavoro richiede una pratica operazione manuale e una libertà di movimento, come nell'agricoltura, è al tempo stesso esercizio. E. Donaggio, P. Kammerer, Karl Marx. Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso, Feltrinelli, 2007, pag. 111-113, 243-45 La guerra civile in Francia (1871)45 I cannibali alle porte All'alba del 18 marzo Parigi fu svegliata da un colpo di tuono: "Vive la Commune!". Che cos'è la Comune, questa sfinge che tanto tormenta lo spirito dei borghesi? "I proletari di Parigi," diceva il Comitato centrale nel suo manifesto del 18 marzo, "in mezzo alle disfatte e ai tradimenti delle classi dominanti hanno compreso che è suonata l'ora in cui debbono salvare la situazione prendendo nelle loro mani la direzione dei pubblici affari [...]. Hanno compreso che è loro imperioso dovere e loro diritto assoluto rendersi padroni dei loro destini, impossessandosi del potere governativo." Ma la classe operaia non può mettere semplicemente la mano sulla macchina dello stato bella e pronta, e metterla in movimento per i propri fini. Il potere statale centralizzato, con i suoi organi dappertutto presenti: esercito permanente, polizia, burocrazia, clero e magistratura - organi prodotti secondo il piano di divisione del lavoro sistematica e gerarchica - trae la sua origine dai giorni della monarchia assoluta, quando servì alla nascente società delle classi medie come arma potente nella sua lotta contro il feudalesimo. Il suo sviluppo però fu intralciato da ogni sorta di macerie medioevali, diritti signorili, privilegi locali, monopoli municipali e corporativi e costituzioni provinciali. La gigantesca scopa della rivoluzione francese del XVIII secolo spazzò tutti questi resti dei tempi passati, sbarazzando così in 45 L’avvenimento storico a cui Marx fa riferimento è costituito dall’esperienza del governo rivoluzionario che si instaurò a Parigi in seguito alla sconfitta dell’esercito di Napoleone III ad opera dei prussiani nel 1870 47 pari tempo il terreno sociale dagli ultimi ostacoli che si frapponevano alla costituzione su di esso dell'edificio dello stato moderno, elevato sotto il Primo impero, il quale a sua volta fu il prodotto delle guerre di coalizione della vecchia Europa semifeudale contro la Francia moderna. Durante i successivi régimes il governo, posto sotto il controllo parlamentare, cioè sotto il controllo diretto delle classi possidenti, non diventò solamente l'incubatrice di enormi debiti pubblici e di imposte schiaccianti; con la irresistibile forza di attrazione dei posti, dei guadagni e delle protezioni, non solo diventò il pomo della discordia tra fazioni rivali e gli avventurieri delle classi dirigenti; ma anche il suo carattere politico cambiò di pari passo con le trasformazioni economiche della società. A misura che il progresso dell'industria moderna sviluppava, allargava, accentuava l'antagonismo di classe tra il capitale e il lavoro, lo stato assunse sempre più il carattere di potere nazionale del capitale sul lavoro, di forza pubblica organizzata per l'asservimento sociale, di uno strumento di dispotismo di classe. … La Comune fu composta dai consiglieri municipali eletti a suffragio universale nei diversi mandamenti di Parigi, responsabili e revocabili in qualunque momento. La maggioranza dei suoi membri erano naturalmente operai, o rappresentanti riconosciuti dalla classe operaia. La Comune doveva essere non un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e legislativo allo stesso tempo. Invece di continuare a essere l'agente del governo centrale, la polizia fu immediatamente spogliata delle sue attribuzioni politiche e trasformata in strumento responsabile della Comune, revocabile in qualunque momento. Lo stesso venne fatto per i funzionari di tutte le altre branche dell'amministrazione. Dai membri della Comune in giù, il servizio pubblico doveva essere compiuto per salari da operai. I diritti acquisiti e le indennità di rappresentanza degli alti dignitari dello stato scomparvero insieme con i dignitari stessi. Le cariche pubbliche cessarono di essere proprietà privata delle creature del governo centrale. Non solo l'amministrazione municipale, ma tutte le iniziative già prese dallo stato passarono nelle mani della Comune. Sbarazzatasi dell'esercito permanente e della polizia, elementi della forza materiale del vecchio governo, la Comune si preoccupò di spezzare la forza della repressione spirituale, il potere dei preti, sciogliendo ed espropriando tutte le chiese in quanto enti possidenti. I sacerdoti furono restituiti alla quiete della vita privata, per vivere delle elemosine dei fedeli, a imitazione dei loro predecessori, gli apostoli. Tutti gli istituti di istruzione furono aperti gratuitamente al popolo e liberati in pari tempo da ogni ingerenza della chiesa e dello stato. Così non solo l'istruzione fu resa accessibile a tutti, libera; la scienza stessa fu liberata dalle catene che le avevano imposto i pregiudizi di classe e la forza del governo. I funzionari giudiziari furono spogliati di quella sedicente indipendenza che non era servita ad altro che a mascherare la loro abietta soggezione a tutti i governi che si erano succeduti, ai quali avevano, di volta in volta, giurato fedeltà, per violare in seguito il loro giuramento. I magistrati e i giudici dovevano essere elettivi, responsabili e revocabili come tutti gli altri pubblici funzionari. La Comune di Parigi doveva naturalmente servire di modello a tutti i grandi centri industriali della Francia. Una volta stabilite a Parigi e nei centri secondari il regime comunale, il vecchio governo centralizzato avrebbe dovuto cedere il posto anche nelle province all'autogoverno dei produttori. In un abbozzo sommario di organizzazione nazionale che la Comune non ebbe il tempo di sviluppare e detto chiaramente che la Comune doveva essere la forma politica anche del più piccolo borgo, e che nei distretti rurali l'esercito permanente doveva essere sostituito da una milizia nazionale, con un periodo di servizio estremamente breve. Le comuni rurali di ogni distretto avrebbero dovuto amministrare i loro affari comuni mediante un'assemblea di delegati con sede nel capoluogo, e queste assemblee distrettuali avrebbero dovuto a loro volta mandare dei rappresentarti alla delegazione nazionale a Parigi, ogni delegato essendo revocabile in qualsiasi momento e legato 48 al mandat impératif (istruzioni formali) dei suoi elettori. Le poche ma importanti funzioni che sarebbero ancora rimaste per un governo centrale non sarebbero state soppresse, come venne affermato falsamente in malafede, ma adempiute da funzionari comunali, e quindi strettamente responsabili. L'unità della nazione non doveva essere spezzata, anzi doveva essere organizzata dalla costituzione comunale, e doveva diventare una realtà attraverso la distruzione di quel potere statale che pretendeva essere l'incarnazione di questa unità indipendente e persino superiore alla nazione stessa, mentre non era che un'escrescenza parassitaria. La molteplicità delle interpretazioni che si danno della Comune e la molteplicità degli interessi che nella Comune hanno trovato la loro espressione mostrano che essa fu una forma politica fondamentalmente espansiva, mentre tutte le precedenti forme di governo erano state unilateralmente repressive. Il suo vero segreto fu questo: che essa fu essenzialmente un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l'emancipazione economica del lavoro. Senza quest'ultima condizione, la costituzione della Comune sarebbe stata una cosa impossibile e un inganno. Il dominio politico dei produttori non può coesistere con la perpetuazione del loro asservimento sociale. La Comune doveva dunque servire da leva per svelare le basi economiche su cui riposa l'esistenza delle classi, e quindi del dominio di classe. Con l'emancipazione del lavoro tutti diventano operai, e il lavoro produttivo cessa di essere un attributo di classe. È un fatto strano: nonostante tutto il gran parlare e l'immensa letteratura degli ultimi sessant'anni sull'emancipazione del lavoro, non appena gli operai, in un paese qualunque, prendono decisamente la cosa nelle loro mani, immediatamente si leva tutta la fraseologia apologetica dei portavoce della società presente, con i suoi due poli di capitale e schiavitù del salario (il proprietario fondiario è ora soltanto il socio passivo del capitalista), come se la società capitalista fosse ancora nel suo stato più puro di verginale innocenza, con i suoi antagonismi non ancora sviluppati, con i suoi inganni non ancora sgonfiati, con le sue meretrici e realtà non ancora messe a nudo. La Comune, essi esclamano, vuole abolire la proprietà, la base di ogni civiltà! Sì, o signori, la Comune voleva abolire quella proprietà di classe che fa del lavoro di molti la ricchezza di pochi. Essa voleva l'espropriazione degli espropriatori. Voleva fare della proprietà individuale una realtà, trasformando i mezzi di produzione, la terra e il capitale, che ora sono essenzialmente mezzi di asservimento e di sfruttamento del lavoro, in semplici strumenti di lavoro libero e associato. Ma questo è comunismo, "impossibile" comunismo! Ebbene, quelli tra i membri della classi dominanti che sono abbastanza intelligenti per comprendere l'impossibilità di perpetuare il sistema presente - e sono molti - sono diventati gli apostoli seccanti e rumorosi della produzione cooperativa. Ma se la produzione cooperativa non deve restare una finzione e un inganno, se essa deve subentrare al sistema capitalista; se delle associazioni cooperative unite devono regolare la produzione nazionale secondo un piano comune, prendendola così sotto il loro controllo e ponendo fine all'anarchia costante e alle convulsioni periodiche che sono la sorte inevitabile della produzione capitalistica; che cosa sarebbe questo, o signori, se non comunismo, "possibile" comunismo? La classe operaia non attendeva miracoli dalla Comune. Essa non ha utopie belle e pronte da introdurre par décret du peuple. Sa che per realizzare la sua propria emancipazione, e con essa quella forma più alta a cui la società odierna tende irresistibilmente per i suoi stessi fattori economici, dovrà passare per lunghe lotte, per una serie di processi storici che trasformeranno le circostanze e gli uomini La classe operaia non ha da realizzare ideali, ma da liberare gli elementi della nuova società dei quali è gravida la vecchia e cadente società borghese. Pienamente 49 cosciente della sua missione storica e con l'eroica decisione di agire in tal senso, la classe operaia può permettersi di sorridere delle grossolane invettive dei signori della penna e dell'inchiostro, servitori dei signori senza qualificativi e della pedantesca protezione dei benevoli dottrinari borghesi, che diffondono i loro insipidi luoghi comuni e le loro ricette settarie col tono oracolare dell'infallibilità scientifica. Quando la Comune di Parigi prese nelle sue mani la direzione della rivoluzione; quando per la prima volta semplici operai osarono infrangere il privilegio governativo dei "loro superiori naturali", e, in mezzo a difficoltà senza precedenti, compirono l'opera loro con modestia, con coscienza e con efficacia - e la compirono per salari il più alto dei quali era appena il quinto di ciò che, secondo un'alta autorità scientifica, è il minimo richiesto per il segretario di un consiglio scolastico in una metropoli -, il vecchio mondo si contorse in convulsioni di rabbia alla vista della bandiera rossa, simbolo della repubblica del lavoro, sventolante sull'Hotel de ville. … La grande misura sociale della Comune fu la sua stessa esistenza operante. Le misure particolari da essa approvate potevano soltanto presagire la tendenza a un governo del popolo per opera del popolo. Tali furono l'abolizione del lavoro notturno dei panettieri; la proibizione, pena sanzioni, della pratica degli imprenditori di ridurre i salari imponendo ai loro operai multe coi pretesti più diversi, procedimento nel quale l'imprenditore unisce nella sua persona le funzioni di legislatore, giudice ed esecutore, e per di più ruba denaro. Altra misura di questo genere fu quella di consegnare alle associazioni operaie, sotto riserva d'indennizzo, tutte le fabbriche e i laboratori chiusi, tanto se i rispettivi capitalisti s'erano nascosti, quanto se avevano preferito sospendere il lavoro. Le misure finanziarie della Comune, notevoli per la loro sagacia e moderazione, non potevano andare al di là di quanto fosse compatibile con la situazione di una città assediata. Considerando le ruberie colossali commesse ai danni della città di Parigi, sotto la protezione di Haussmann, dalle grandi compagnie finanziarie e dai grandi appaltatori, la Comune avrebbe avuto titoli, per confiscarne le proprietà, incompatibilmente più validi di quelli che avesse Napoleone per confiscare le proprietà della famiglia d'Orléans. Gli Hohenzollern e gli oligarchi inglesi, che hanno tratto entrambi una buona parte delle loro tenute dal saccheggio delle chiese, furono naturalmente molto scandalizzati dal fatto che la Comune non ricavasse più di ottomila franchi dalla secolarizzazione dei beni ecclesiastici. Mentre il governo di Versailles, appena ripreso un po' di coraggio e di forza, ricorreva contro la Comune ai mezzi più violenti; mentre esso sopprimeva la libera espressione delle opinioni in tutta la Francia, arrivando sino a proibire le riunioni di delegati delle grandi città; mentre assoggettava Versailles e il resto della Francia a uno spionaggio che sorpassava di gran lunga quello del Secondo impero; mentre faceva bruciare dai suoi gendarmi inquisitori tutti i giornali stampati a Parigi e censurava tutte le lettere da e per Parigi; mentre all'Assemblea nazionale i più timidi tentativi di dire una parola in favore di Parigi erano soffocati da urla sconosciute persino alla Chambre introuvable del 1816; mentre Versailles conduceva dal di fuori una guerra selvaggia e all'interno di Parigi tentava di organizzare corruzione e complotti, non avrebbe la Comune tradito vergognosamente la sua missione se avesse affrettato di osservare tutte le convenzioni e le apparenze dei liberismo, come in tempi di perfetta pace? In tutte le rivoluzioni si intrufolano, accanto ai loro rappresentanti autentici, individui di altro stampo; alcuni sono superstiti e devoti di rivoluzioni passate, che non comprendono il movimento presente, ma conservano un'influenza sul popolo per la loro nota onestà e per il loro coraggio, o per la semplice forza della tradizione; altri non sono che schiamazzatori i quali, a forza di ripetere anno per 50 anno la stessa serie di stereotipate declamazioni contro il governo del giorno, si sono procacciati la fama di rivoluzionari della più bell'acqua. Anche dopo il 18 marzo vennero a galla alcuni tipi di questo genere, e in qualche caso riuscirono a rappresentare parti di primo piano. Nella misura del loro potere, essi furono di ostacolo all'azione reale della classe operaia, esattamente come uomini di tale specie avevano ostacolato lo sviluppo di ogni precedente rivoluzione. Questi elementi sono un male inevitabile: col tempo ci si sbarazza di loro; ma alla Comune non fu concesso tempo. Meravigliosa, in verità, fu la trasformazione operata dalla Comune di Parigi! Sparita ogni traccia della Parigi meretrice del Secondo impero! Parigi non fu più il ritrovo dei grandi proprietari fondiari inglesi, dei latifondisti assenteisti irlandesi, degli ex negrieri e loschi affaristi americani, degli ex proprietari di servi russi. Non più cadaveri alla Morgue, non più rapine e scassi notturni, quasi spariti i furti. Invero, per la prima volta dopo i giorni del febbraio 1848, le vie di Parigi furono sicure e senza nessun servizio di polizia. "Non sentiamo più parlare - diceva un membro della Comune - di assassini, furti e aggressioni. Si direbbe davvero che la polizia abbia trascinato con sé a Versailles tutti i suoi amici conservatori". Le cocottes avevano seguito le orme dei loro protettori, gli scomparsi campioni della famiglia, della religione e sopratutto della proprietà. Al posto loro ricomparvero alla superficie le vere donne di Parigi, eroiche, nobili e devote come le donne dell'antichità. Parigi lavoratrice, pensatrice, combattente, insanguinata, raggiante nell'entusiasmo della sua iniziativa storica, quasi dimentica, nell'incubazione di una nuova società, dei cannibali che erano alle sue porte! E. Donaggio, P. Kammerer, Karl Marx. Antologia. Capitalismo, istruzioni per l’uso, Feltrinelli, 2007, pag. 254-262 Critica del Programma di Gotha Note in margine al programma del Partito operaio tedesco (1875) All'interno della società collettivista, fondata sulla proprietà comune dei mezzi di produzione, i produttori non scambiano i loro prodotti; tanto meno il lavoro trasformato in prodotti appare qui come valore di questi prodotti, come una proprietà oggettiva da essi posseduta, poiché ora, in contrapposto alla società capitalistica, i lavori individuali non esistono più come parti costitutive del lavoro complessivo attraverso un processo indiretto, ma in modo diretto. L'espressione «reddito del lavoro», che anche oggi è da respingere a causa della sua ambiguità, perde così ogni senso. Quella con cui abbiamo da far qui, è una società comunista, non come si è sviluppata sulla sua propria base, ma viceversa, come emerge dalla società capitalistica; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le «macchie» della vecchia società dal cui seno essa è uscita. Perciò il produttore singolo riceve - dopo le detrazioni - esattamente ciò che le dà. Ciò che egli ha dato alla società è la sua quantità individuale di lavoro. Per esempio: la giornata di lavoro sociale consta della somma delle ore di lavoro individuale; il tempo di lavoro individuale del singolo produttore è la parte della giornata di lavoro sociale fornita da lui, la sua partecipazione alla giornata di lavoro sociale. Egli riceve dalla società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro (dopo la detrazione del suo lavoro per i fondi comuni), e con questo scontrino egli ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto costa il lavoro 51 corrispondente. La stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma, la riceve in un'altra. Domina qui evidentemente lo stesso principio che regola lo scambio delle merci in quanto è scambio di cose di valore uguale. Contenuto e forma sono mutati, perché, cambiate le circostanze, nessuno può dare niente all'infuori del suo lavoro, e perché d'altra parte niente può passare in proprietà del singolo all'infuori dei mezzi di consumo individuali. Ma per ciò che riguarda la ripartizione di questi ultimi tra i singoli produttori, domina lo stesso principio che nello scambio di equivalenti di merci: si scambia una quantità di lavoro in una forma contro una uguale quantità in un'altra. L'uguale diritto è qui perciò ancora sempre, secondo il principio, il diritto borghese, benché principio e pratica non si azzuffino più, mentre lo scambio di equivalenti, nello scambio di merci, esiste solo nella media, non per il caso singolo. Nonostante questo progresso, questo ugual diritto reca ancor sempre un limite borghese. Il diritto dei produttori è proporzionale alle loro prestazioni di lavoro, l'uguaglianza consiste nel fatto che esso viene misurato con una misura uguale al lavoro. Ma l'uno è fisicamente o moralmente superiore all'altro, e fornisce quindi nello stesso tempo più lavoro, oppure può lavorare durante un tempo più lungo; e il lavoro, per servire come misura, dev'essere determinato secondo la durata o l'intensità, altrimenti cesserebbe di essere misura. Questo diritto uguale è un diritto disuguale per lavoro disuguale. Esso non riconosce nessuna distinzione di classe, perché ognuno è soltanto operaio come tutti gli altri, ma riconosce tacitamente la ineguale attitudine individuale, e quindi capacità di rendimento, come privilegi naturali. Esso è perciò, per il suo contenuto, un diritto della disuguaglianza, come ogni diritto. II diritto può consistere soltanto, per sua natura, nell'applicazione di una uguale misura; ma gli individui disuguali (e non sarebbero individui diversi se non fossero disuguali) sono misurabili con uguale misura solo in quanto vengono sottomessi a un uguale punto di vista, in quanto vengono considerati soltanto secondo un lato determinato: per esempio, nel caso dato, soltanto come operai, e si vede in loro soltanto questo, prescindendo da ogni altra cosa. Inoltre: un operaio è ammogliato, l'altro no; uno ha più figli dell'altro, ecc. ecc. Supposti uguali il rendimento e quindi la partecipazione al fondo di consumo sociale, l'uno riceve dunque più dell'altro, l'uno è più ricco dell'altro e così via. Per evitare tutti questi inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere disuguale. Ma questi inconvenienti sono inevitabili nella prima fase della società comunista, quale è uscita, dopo i lunghi travagli del parto, dalla società capitalistica. Il diritto non può essere mai più elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale, da essa condizionato, della società. In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto fra lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l'angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi bisogni! http://www.marxists.org/italiano/marx-engels/1875/gotha/cpg-cp.htm 52